De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò

De domo David

Il 9 novembre 2019, nella chiesa di San Giuseppe a Nardò, è stato presentato il volume De Domo David. La confraternita di San Giuseppe Patriarca e la sua chiesa a Nardò. Studi e ricerche a quattro secoli dalla fondazione (1619-2019), Edizioni  Fondazione Terra d’Otranto 2019, 640 pagine, colore, formato A/4, circa 800 illustrazioni, a cura di Marcello Gaballo e Stefania Colafranceschi. Edizione non commerciale

INDICE

Joseph il giusto nei mosaici dell’arco di Santa Maria Maggiore a Roma

Domenico Salamino

 

La Fuga in Egitto. Suo importante significato teologico

Tarcisio Stramare

 

Dal Sogno al Transito: iconografie nella chiesa confraternale di San Giuseppe a Nardò

Stefania Colafranceschi

 

San Giuseppe e la Sacra Famiglia nel fondo antico della Biblioteca Casanatense di Roma

Barbara Mussetto

 

La pala marmorea dei Mantegazza nella chiesa di Santa Maria Assunta in Campomorto di Siziano (Pavia)

Manuela Bertola

 

Iconografie di San Giuseppe negli affreschi delle confraternite dei Battuti in diocesi di Concordia-Pordenone

Roberto Castenetto

 

La basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo e i suoi arazzi

Giovanni Curatola

 

Hierónimo Gracián e il suo Sommario (1597)

Annarosa Dordoni

 

Le confraternite dei falegnami in Romagna

Serena Simoni

 

La confraternita del SS. Crocifisso e S. Giuseppe nella chiesa di San Giuseppe in Cagli (PU)

Giuseppe Aguzzi

 

La confraternita di San Giuseppe dei Falegnami di Todi e la chiesa di San Giuseppe

Filippo Orsini

 

San Giuseppe in due dipinti astigiani di età moderna

Stefano Zecchino

 

La confraternita di San Giuseppe a Borgomanero

Franca Minazzoli

 

Il culto di San Giuseppe nella città di Napoli e un piccolo esempio di devozione: il quadro di Giovanni Sarnelli nell’Arciconfraternita di San Giuseppe dei Nudi

Ugo Di Furia

 

 Ite ad Joseph. San Giuseppe nella statuaria lignea tra Otto e Novecento: alcuni esempi

Francesco Di Palo

 

L’oratorio di San Giuseppe di Isola Dovarese. Una pregevole testimonianza settecentesca

Sonia Tassini

Testimonianze giuseppine nella chiesa di San Vincenzo Martire in Nole (Torino)

Federico Valle

 

L’oratorio di S. Giuseppe di Cortemaggiore (Piacenza)

Annarosa Dordoni

 

San Giuseppe a Chiusa Sclafani (Palermo) tra arte e devozione

Maria Lucia Bondì

 

San Giuseppe nell’arte. Sculture lignee di Francesco e Giuseppe Verzella tra Sette e Ottocento in ambito pugliese e campano

Antonio Faita

 

Memento mori: il Transito di San Giuseppe

Biagio Gamba

 

Storia e tecnica delle immagini devozionali a stampa

Michele Fortunato Damato

 

Dal XVI al XIX secolo, quattro secoli di pizzo su carta

Gianluca Lo Cicero

 

Stampe popolari giuseppine nel museo di Pitrè di Palermo

Eliana Calandra

 

Le confraternite di S. Giuseppe in Puglia tra storia e religiosità popolare

Vincenza Musardo Talò

 

Le Regole della confraternita di San Giuseppe Patriarca di Nardò, un esempio «moderno» del fenomeno confraternale

Marco Carratta

 

Arte e devozione ad Altamura. La cappella di San Giuseppe in cattedrale

Ruggiero Doronzo

 

Alcuni esempi di iconografia giuseppina a Taranto

Nicola Fasano

 

In margine all’iconografia di San Giuseppe: il ciclo pittorico di Girolamo Cenatempo nella cappella del Transito di San Giuseppe a Barletta

Ruggiero Doronzo

 

 Sponsus et custos. Iconografia, culto e devozione per San Giuseppe nell’arco jonico occidentale. Exempla selecta

Domenico L. Giacovell

 

La raffigurazione di San Giuseppe negli argenti pugliesi

Giovanni Boraccesi

 

Esempi di iconografia giuseppina tra Puglia e Campania. Proposte per Gian Domenico Catalano, Giovan Bernardo Azzolino, Giovanni Antonio D’Amato, Giovan Vincenzo Forlì

Marino Caringella

 

Postille iconografiche su Cesare Fracanzano. Alcuni esempi della devozione giuseppina

Ruggiero Doronzo

 

I Teatini e il culto di san Giuseppe a Bitonto

Ruggiero Doronzo

 

Esempi di antiche pitture parietali giuseppine nel leccese

Stefano Cortese

 

La figura di san Giuseppe nella pittura post tridentina in diocesi di Lecce

Valentina Antonucci

 

San Giuseppe nella pittura d’età moderna nelle diocesi di Otranto e Ugento

Stefano Tanisi

 

Da comparsa a protagonista. Giuseppe in alcune opere pittoriche e in cartapesta della diocesi di Nardò-Gallipoli

Nicola Cleopazzo

 

La devozione a san Giuseppe in Parabita (Lecce). Il culto e le raffigurazioni del santo

Giuseppe Fai

 

Integrazioni documentarie e nuove fonti archivistiche per la storia della chiesa e della confraternita di San Giuseppe a Nardò

Marcello Gaballo

 

Esemplificazioni iconografiche giuseppine a Galatone (Lecce)

Antonio Solmona

 

L’altare maggiore della chiesa di San Giuseppe a Nardò

Stefania Colafranceschi

 

Vedute di Nardò nella tela dell’altare maggiore in San Giuseppe a Nardò

Marcello Gaballo

 

Comparazioni strutturali e integrazioni architettoniche settecentesche nella chiesa di San Giuseppe a Nardò

Fabrizio Suppressa

 

L’altorilievo neritino de La Sacra Famiglia in Viaggio nella chiesa di San Giuseppe

Stefania Colafranceschi

San Giuseppe in età barocca nel tarantino

 

Dubbio di S.Giuseppe, di Paolo De Matteis (1715)(400×280) ph Nicola Fasano

di Nicola Fasano

In occasione della ricorrenza di San Giuseppe presenterò per gli amici e lettori  alcune opere artistiche sul Santo presenti nel territorio tarantino. Nell’iconografia barocca (quella da me presa in esame) lo sposo di Maria Vergine, nonché padre putativo di Gesù, è raffigurato come uomo anziano con barba bianca nell’atto di sorreggere in braccio Gesù Bambino.

I suoi attributi principali sono gli attrezzi da falegname e la verga fiorita. Anteriormente al periodo barocco il Santo appariva in episodi legati all’infanzia di Cristo o in scene dedicate alla vita della Vergine e solo dopo la Controriforma, quando il suo culto fu promosso da Santa Teresa di Avila, il falegname potè godere di una raffigurazione autonoma.

A Taranto nella chiesa dedicata a Giuseppe (già Santa Maria della Piccola) è collocato nel controsoffitto un dipinto mistilineo di notevoli dimensioni raffigurante il Dubbio di  San Giuseppe. L’autore dell’opera è il celebre pittore napoletano Paolo De Matteis, artista molto richiesto dalla committenza nobiliare ed ecclesiale tarantina. Formatosi presso la scuola Luca Giordano, passò in seguito a Roma per comprendere la lezione del classicismo marattesco.

Le opere tarde come quella in questione, databile al secondo decennio del settecento, registrano uno stanco irrigidimento nelle posizioni classiciste, oltre un appiattimento qualitativo forse dovuto a commissioni meno prestigiose e in territori provinciali.

Il soggetto della tela tarantina fa riferimento all’episodio narrato dal Libro di Giacomo, ovvero la rassicurazione portata dall’arcangelo Gabriele a Giuseppe sul concepimento divino di Maria.

Isolata dalla Sacra Famiglia, è la figura in abiti nobiliari settecenteschi che prega guardando lo spettatore. Ritenuta erroneamente autoritratto del pittore, è più probabilmente il committente dell’opera (il priore della confraternita ? un nobile devoto al Santo ?).

Purtroppo alcune infiltrazioni di umidità dal soffitto (denunciate da anni senza risultati) hanno causato la caduta del colore, impedendo la piena leggibilità del dipinto.

Altra opera degna di menzione è il Transito di San Giuseppe, facente parte della collezione di quadri che il Vescovo di Nardò e Taranto Ricciardi donò al museo archeologico nazionale nel 1907, tramite legato testamentario.

Transito di S.Giuseppe (ph Paolo Buscicchio) da Storia di una collezione-i quadri donati dal Vescovo Ricciardi al Museo di Taranto

L’opera dopo notevoli vicissitudini e spostamenti, è finalmente fruibile al pubblico dopo il nuovo allestimento e la riapertura del M.AR.TA nel 2007.

Il soggetto del dipinto tratto dalla biografia apocrifa, raffigura la morte di Giuseppe all’età di 111 anni, assistito dalla Vergine, dagli angeli e dal figlio al capezzale del letto. Alle spalle del Santo morente l’Arcangelo Gabriele, abbigliato con armatura seicentesca, veglia sulla scena. La tela attribuita (generosamente, secondo il parere dello scrivente) dalla soprintendenza a Luca Giordano è probabilmente opera di Andrea Vaccaro (autore del bellissimo Salvator Mundi conservato nella stessa collezione museale).

Non bisogna farsi trarre in inganno dalla gamma cromatica dorata, dalla luminosità dei veneti cara a Rubens e ai cortoneschi, ripresa dal Giordano in dipinti di composizione simile, come la celeberrima Deposizione di Pio Monte della Misericordia o il Lot e le figlie di Dresda. La figura patetica di San Giuseppe ci conduce ad Andrea Vaccaro, pittore che lavorò a stretto contatto con Giordano negli affreschi di Santa Maria del Pianto a Poggioreale. Il dipinto quindi, testimonierebbe la congiuntura del Vaccaro con alcune prove giovanili del più celeberrimo e quotato pittore napoletano quali appunto la Deposizione del Pio Monte e quella di soggetto analogo della Gemaldegalerie di Oldenburg (come giustamente rileva il Prof. Galante)

Il terzo dipinto è un gioiellino di Corrado Giaquinto  raffigurante il Sogno di San Giuseppe conservato nel palazzo arcivescovile di Taranto[1] e proveniente dalla chiesa di San Domenico della città ionica.

Sogno di San Giuseppe, di Corrado Giaquinto (104 x 74), da Corradogiaquinto.it

L’angelo che irrompe sulla scena scuote il clima di intimità domestica, ordinando a Giuseppe di fuggire in Egitto con Maria e il Bambino a causa della persecuzione di Erode. Il pittore molfettese di educazione napoletana e romana, era presente a Taranto con un’altra tela di ragguardevoli dimensioni raffigurante la Natività di San Giovanni Battista. Quest’ultima opera conservata nella pinacoteca provinciale di Bari (a titolo di deposito…perenne, aggiungo io, se le istituzioni preposte non si attivano per chiederne la restituzione) fu commissionata da una nobildonna tarantina, per l’altare maggiore di San Giovanni Battista, chiesa poi abbattuta dal discutibile piccone risanatore negli anni ’30 del Novecento.

L’opera custodita nell’episcopio testimonia la maestria del pittore molfettese nei dipinti di piccolo formato, caratterizzati da delicate e cangianti sfumature pastello, dall’azzurrino, al rosa-lilla, al turchese, che apportano alla scena quella trasognante atmosfera onirica.

Il dipinto costituisce il modello per il bozzetto conservato nella pinacoteca di Montefortino (vero must per gli amanti del maestro) e nella collezione della Baronessa de Maldà a Barcellona, testimonianza del soggiorno spagnolo di Corrado.

Un altro protagonista del ‘700 napoletano presente a Taranto è lo scultore napoletano Giuseppe Sanmartino, il maggiore esponente della plastica a Napoli in età borbonica tra tardo barocco, rococò e protoneoclassicismo[2].

S.Giuseppe, cappellone di S.Cataldo, ph Nicola Fasano

La statua di San Giuseppe presa in esame chiude in ordine cronologico, insieme al San Giuseppe Gualberto, l’importante ciclo di sculture che l’artista realizzò per il cappellone di San Cataldo, nella Cattedrale ionica. L’opera di marmo, collocata nel vestibolo della cappella, fu commissionata nel 1790 dall’arcivescovo Capecelatro, il cui stemma è effigiato sul basamento. L’artista per l’approvazione della statua aveva inviato al presule un modellino di creta che, ratificato, perfezionò il contratto con la cifra pattuita di 700 ducati. Una probabile riproduzione in ceramica del bozzetto preparatorio è conservata al Getty Center di New York ed è stata attribuita a Gennaro Laudato[3].

San Giuseppe appoggiato ad un blocco roccioso regge Gesù Bambino con fare protettivo, afferrandogli delicatamente il piedino sinistro; il fanciullo sembra indicarlo o piuttosto fargli il solletico, senza però scomporre il padre putativo. Nonostante l’impronta personale del maestro, si nota l’apertura verso le già diffuse istanze neoclassiche, la scultura sembra affine alla pittura accademica dell’ultimo  De Mura.

Passando in provincia, va segnalata a Manduria la statua lignea di San Giuseppe col Bambino Gesù conservata nella chiesa eponima. La statua portata alla ribalta nella mostra leccese sulla scultura barocca del 2008, è  opera dello sculture Vincenzo Ardia che si firma sul retro della pedagna.

San Giuseppe, di Vincenzo Ardia (170x80x65)(ph Angela Mariggi)

Dello scultore vissuto a cavallo fra il 1600 e il 1700 è conosciuta in Italia soltanto un’altra statua, il San Francesco Saverio di Ghemme presso Novara (che ironia della sorte si lega alla cittadina messapica anche per l’ottima produzione di vini), esposta anch’essa alla mostra per fini comparativi.

San Giuseppe regge amorevolmente Gesù con la mano sinistra, mentre il fanciullo protende le braccine verso il padre quasi a chiedere protezione; il tutto è rafforzato da un complice gioco di sguardi[4]. Con il braccio destro il falegname regge il bastone da cui, secondo la tradizione agiografica, sbocciano fiori di mandorlo simboleggianti la scelta divina. Secondo altre interpretazioni il mandorlo in ebraico “shaked” presenta una forte assonanza con la parola “shakad”, che significa “vegliare”, come Giuseppe fece con Maria e Gesù; il frutto poi, duro esternamente e tenero e dolce internamente richiama il carattere protettivo del falegname.

L’accento plastico della statua è caratterizzato dall’incedere del Santo e dallo strabordante panneggio, che a fatica si raccoglie intorno alla vita. Il recente restauro curato dal laboratorio del museo provinciale di Lecce, ha messo in luce la ricca decorazione floreale che riveste il manto e la tunica; un vero e proprio campionario floreale che va dai tulipani, agli anemoni ai nontiscordardime, raro a vedersi nella scultura napoletana del periodo .


[1] In occasione delle giornate FAI di primavera, 26-27 marzo 2011, il palazzo arcivescovile di Taranto sarà aperto al pubblico. All’interno dell’edificio, oltre la tela del Giaquinto, sono conservati dipinti di Nicola Malinconico e altre  tele di scuola napoletana e locale.

[2] Tengo a sottolineare come lo studioso Catello, nella sua godibile descrizione monografica sul Sanmartino, dedica la copertina al San Francesco del cappellone di Taranto. Scelta coraggiosa ma apprezzabile, rispetto al bellissimo e celebre Cristo velato della cappella Sansevero a Napoli, a testimonianza del valore e della bellezza del ciclo scultoreo tarantino.

[3] Scultore coroplastico, molto rinomato nella Napoli borbonica.

[4] In origine il Bambino Gesù reggeva il globo terrestre.

Aggiunta a Leonardo Antonio Olivieri e tre proposte per Domenico Antonio Carella

Dipinto Olivieri

di Nicola Fasano

 

L’inaugurazione del Museo Diocesano di Arte Sacra[1] di Taranto nel 2011 ha finalmente aperto alla città un patrimonio storico e artistico di notevole valore. La struttura, infatti, si presta ad essere uno dei punti cardine della vita culturale tarantina. Grazie alla disponibilità del suo direttore, Don Francesco Simone, molto sensibile alla promozione e alla divulgazione dell’arte sacra, possiamo annoverare nel suddetto museo alcuni gioielli pittorici sconosciuti agli studi e finalmente esposti alla pubblica fruizione.

Il primo dipinto preso in considerazione ha come soggetto San Francesco.  Si tratta di una tela centinata di grandi dimensioni (320 x 214), raffigurante la Visione di San Francesco alla Porziuncola, tema caro ai francescani, collocata nella sezione museale dedicata alla Cattedrale. In questa sezione sono esposti dipinti e sculture che adornavano le cappelle barocche, abbattute in seguito ai discutibili restauri dell’architetto Schettini nel 1952[2], per riportare il duomo alla sua originaria facies romanica.  

L’unica segnalazione del dipinto è contenuta nella catalogazione curata dal C.R.S.E.C. (Centro Regionale di Servizi Educativi e Culturali) Iconografia Sacra a Taranto, volume in cui il dipinto viene presentato con una piccola foto in bianco e nero e schedato come Visione di San Gaetano di anonimo autore settecentesco, conservato in episcopio[3]. San Francesco era confuso con il santo teatino e la Vergine con Dio Padre[4]. Dalla riproduzione fotografica dell’epoca, la tela presentava una lacuna nella parte alta.

Il recente restauro del 2010, curato dalla Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici della Puglia con  l’esposizione nel museo, ha potuto fugare ogni dubbio dal punto di vista iconografico e stilistico.

L’iconografia riprende liberamente la vicenda della visione di san Francesco alla Porziuncola, quando in una notte del 1216, Francesco immerso nella preghiera all’interno della chiesa, vide stagliarsi nella luce accecante Cristo e la Vergine, circondati da un nugolo di angeli. Alla divina apparizione il santo chiese il perdono e la remissione dei peccati per chiunque visitasse quel luogo. La richiesta fu accolta dal gruppo divino, a patto che Francesco la indirizzasse al Papa Onorio III.

Il dipinto, per fugare ogni dubbio sulla questione iconografica, è molto affine alla tela di Francesco De Mura riprodotta nel prezioso archivio fotografico di Federico Zeri[5].  La composizione, resa dinamica da un impianto compositivo impostato sulle diagonali, vede san Francesco in basso a destra colto nel tipico atteggiamento estatico, con le braccia allargate mentre rimira il Salvatore, controbilanciato a sinistra dalla presenza dell’angelo, che reca nella mano destra i simboli del martirio di Cristo e nella sinistra l’indulgenza della Porziuncola, chiave di lettura del nostro dipinto.

Più in alto, Cristo assiso su una nube e circondato da cherubini, regge la croce e indica con la mano destra la Vergine che irrompe in alto a destra dominando la composizione. Ad arricchire il dipinto, oltre a gruppi di cherubini, un angelo sospeso a mezza altezza e dal fluente panneggio rosso, che si avvinghia sicuro alla croce, mentre un altro sembra dispettosamente scoprire Gesù afferrandone il drappo.

La tela, può attribuirsi al pittore martinese Leonardo Antonio Olivieri di formazione solimenesca per una serie di motivi. In primo luogo palesi sono i rimandi al maestro nei panneggi accartocciati che avviluppano le figure, e nei cherubini paffutelli, sigla distintiva di molte sue opere. Vera cifra stilistica del maestro è il Cristo, tornito plasticamente da trame chiaroscurali, che nell’indicare la Vergine Madre, richiama le figure del Salvatore e del Battista nel Battesimo, dipinto da L. A. Olivieri per la cattedrale di Nardò[6].

Lo stesso Cristo nell’indicare con l’indice destro la Madonna, riprende la santa Rosa da Lima nella Vergine e sante domenicane della chiesa tarantina di san Domenico[7]. Modelli questi, desunti dal San Clemente di Francesco Solimena nella pala di Sarzana[8]. Il celebre e richiesto pittore napoletano faceva esercitare i suoi allievi nel riprendere alcuni brani delle sue opere, replicando gesti, posture, secondo una consolidata tradizione, per adattarli a nuove soluzioni iconografiche, come nella tela del museo tarantino.

Non è da escludere, inoltre, che lo stesso Leonardo si sia ispirato all’illustre precettore studiando la Trinità in Gloria con San Filippo Neri e Santa Francesca Romana del museo di Oxford[9], databile intorno al 1725-1730. Se questo non bastasse ad ascrivere l’opera all’Olivieri, è sufficiente confrontare l’angioletto che guarda in basso ai piedi della Vergine e che riprende quello di un altro dipinto di soggetto francescano: la Gloria di santa Chiara di Aversa[10] e quello gemello dell’Apparizione di san Giovanni Evangelista[11] nella Cattedrale neretina.

L’angelo svolazzante con l’avviluppante panneggio rosso fiammante, altro non è che lo stesso in posizione speculare che rimira dall’angolo sinistro in alto l’Adamo ed Eva dell’Eden della collezione D’Errico[12]; dipinto quest’ultimo che Galante aveva dubitativamente attribuito all’Olivieri[13].

La stessa figura verrà replicata con esiti manieristici da Domenico Carella, come si può evincere nella Vergine del Rosario in san Domenico a Martina Franca[14]. Il pittore francavillese avrà potuto osservare le tele del più affermato Olivieri e prendere a proprio piacimento le figure, dando avvio ad un “solimenismo” di maniera.

Per finire e fugare ogni dubbio attributivo, potremmo mettere a confronto l’Eterno Padre che spicca nella Sacra Famiglia attualmente conservata in San Pasquale di Baylon a Taranto[15], con la Vergine del dipinto del museo tarantino.

Stemma famiglia La Riccia
Stemma famiglia La Riccia

Lo stemma nobiliare in basso a destra sormontato da corona marchesale, presenta dei porcospini in processione, emblema della famiglia nobiliare dei La Riccia, committenti di un altro dipinto oggi esposto nello stesso museo e proveniente dalla cattedrale di Taranto, raffigurante la Visione di san Filippo Neri[16]. L’opera si può attestare intorno agli anni ‘40 del Settecento nella fase tardo-solimenesca in consonanza con il Trionfo dell’Ordine Francescano, tela attribuita all’Olivieri[17] e proveniente dalla cattedrale. In entrambi i dipinti menzionati assistiamo ad una ripresa pittorica in chiave neo-barocca[18], condotta da saldi contrasti chiaroscurali di stampo “pretiano”, che drammatizzano la scena, stemperata da una luce soffusa e ravvivata da bagliori, che rendono la composizione trasognante e mistica, come richiesto da un’opera devozionale barocca che descrive l’evento miracolistico. La tela è animata dai rialzi cromatici delle vesti dei protagonisti; spicca su tutti il panneggio accartocciato rosso fuoco con cui l’angelo focalizza la composizione.

 

Martirio di Santa Lucia
Martirio di Santa Lucia

Altri inediti arricchiscono le sale del Museo Diocesano di Taranto; nella sezione dedicata ai santi, si segnala una tela mistilinea raffigurante il Martirio di santa Lucia, proveniente da una delle stanze del palazzo arcivescovile, fatta affrescare dall’Arcivescovo Capecelatro e ricordata nei documenti come “seconda stanza” piena di quadri piccoli e grandi[19].

La forma e le dimensioni fanno pensare ad un dipinto collocato altrove e successivamente portato nella residenza vescovile, dove è rimasto fino alla nuova collocazione museale.

L’opera ritrae la vergine martire di Siracusa mentre si appresta a ricevere la palma del martirio e una corona di fiori da un gruppo di angioletti che irrompono dall’alto. Suoi attributi iconografici sono gli occhi che Lucia si accinge ad adagiare sopra un piatto sorretto da un angelo in basso a destra; sullo sfondo, a sinistra, la santa stessa viene ritratta durante le persecuzioni contro i cristiani mentre stoicamente prega. A sottolineare il vero supplizio di Lucia è, tuttavia, la ferita inferta al collo che evidenzia lo sgozzamento della santa e non l’estirpamento degli occhi.[20].

Si tratta di un’opera di Domenico Antonio Carella, tipica di quel “solimenismo” mediato da Giaquinto, come felicemente ha sottolineato Galante[21]. Il ductus pittorico, nell’utilizzo di colori dalla stesura liquida, nelle pose languide e nel modo di condurre i cherubini a punta di pennello, riporta alla mente il dipinto di soggetto mitologico collocato sul soffitto centrale del tarantino palazzo Pantaleo[22],  raffigurante La Partenza di Achille da Sciro.

A rafforzare questa ipotesi, basta confrontare il volto di Achille con quello della santa, o lo stesso soldato a cavallo con gli eroi omerici ritratti nella stanza dell’edificio nobiliare. A questo si aggiunga l’angelo colto di profilo, mentre regge il piatto, che riecheggia il san Giovanni evangelista del Compianto su Cristo morto nella chiesa del Purgatorio a Fasano[23].

 flagellazione

Altre due tele mistilinee dal medesimo formato (154 x 227) ed ascrivibili al pittore, sono esposte nella sezione “cattedrale” del museo[24] e in origine collocate sulle pareti laterali della cappella di santa Maria della Pietà.

Si tratta di un breve ciclo della Passione che comprende la Flagellazione di Cristo (Matteo, 27, 26; Marco, 15, 15; Luca, 23, 16 e 22; Giovanni 19, 1) e l’Incoronazione di spine (Matteo, 27, 27-31; Marco, 15, 16-20; Giovanni, 19, 2-3). I dipinti presentano un’inquadratura dal taglio ravvicinato, espediente che doveva coinvolgere emotivamente il fedele, il quale si immedesimava nelle sofferenze del Salvatore.

Nella Flagellazione il Cristo al centro della tela viene suppliziato da tre sgherri, caratterizzati dalla brutalità dei gesti, mentre un soldato, colto in controluce sulla sinistra, assiste vigile alla tortura. In basso a destra un carnefice si volge verso la scena e con un accenno di sorriso, sembra compiacersi del dramma di Cristo; l’altro aguzzino in primo piano è intento a preparare un nuovo fascio di rami per lo strumento di supplizio.

incoronazione di spine

Nell’episodio dell’Incoronazione di spine i carnefici in abiti seicenteschi dominano la scena; il primo, inginocchiato, sbeffeggia Cristo in maniera irriverente, tirando fuori la lingua e porgendogli uno scettro di canna, mentre un soldato con intenti retorici, indica il dramma del Salvatore[25]. Rispetto ad altre opere del pittore, nelle due tele di argomento cristologico si evince un robusto contrasto chiaroscurale, un senso della forma nitido e deciso oltre ad un vibrante cromatismo dato dall’utilizzo di colori vivaci e di rispondenze cromatiche nei panneggi che animano le tele.

Non mancano incertezze nella resa “stilizzata” del corpo di Cristo, riscontrabile anche nella summenzionata tela di Fasano. Qualora le opere venissero confermate a Domenico Carella, anche attraverso una fortunosa ricerca d’archivio, saremmo in presenza di prove fra le più riuscite in termini di qualità, che confermerebbero quella vocazione eclettica dell’artista fatta in primo luogo di prestiti e richiami alla pittura napoletana e romana della seconda metà del Settecento.

 



[1] Sul museo diocesano di Taranto cfr. D. Padovano  (a cura di), Guida dei Musei Diocesani di Puglia, Fasano 2005, p. 51; F. Simone – G. Tonti , Il Museo Diocesano di Arte Sacra di Taranto, Mottola 2011.

[2] P. Belli D’Elia, La Cattedrale di Taranto : un problema storico architettonico aperto, in P. De Luca, La Cattedrale di San Cataldo, Mottola 2000,  p. 58.

[3] AA.VV., Iconografia Sacra a Taranto I, Mottola 1986, scheda A2.25, p. 45/ II, tav. 25.

[4] Questo ha creato ulteriore confusione in quanto il dipinto inventariato come Art. 19  è stato schedato come Trinità e san Francesco d’Assisi di ambito napoletano.

[5] Cfr. www.fondazionezeri.unibo.it, catalogo fototeca, numero scheda 63758, serie “Pittura italiana”, numero busta 0589, intestazione busta “Pittura italiana sec. XVIII. Napoli 2”, Numero fascicolo 5, intestazione fascicolo “Francesco De Mura: Nunziatella2.

[6] F. Semeraro, Leonardo Antonio Olivieri (1689-1752), Martina Franca 1989, p. 16.

[7] Ibidem, p. 18.

[8] F. Bologna, Francesco Solimena, Napoli 1958, p. 271.

[9] Ibidem, p. 271.

[10] F. Semeraro, Leonardo Antonio Olivieri, cit., p.30.

[11] Ibidem, p. 24.

[12] Galante nel descrivere il dipinto parla di accentuazione di contrasti chiaroscurali e di luminismo neopretiano che ricorrono nel nostro dipinto.

[13] L. Galante, I Dipinti napoletani della collezione D’Errico (secc. XVII-XVIII), Galatina 1992, pp. 126-129.

[14] L. Galante, La pittura a Martina Franca, in AA.VV., Martina Franca un’isola culturale, Martina Franca 1992, pp.174-175.

[15]  V. Vantaggiato, La vita e le opere di Leonardo Antonio Olivieri.  in  AA.VV., Studi di storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, vol. V, Galatina 1980, p.358.

[16] G. Blandamura, Il Duomo di Taranto nella storia e nell’arte, Taranto 1923, p. 64.

[17] F. Semeraro, Leonardo Antonio Olivieri, cit., p. 49.

 

[18] Ibidem, p. 49.

[19] V. De Marco, D. Mancini, Il Palazzo Arcivescovile di Taranto, da mille anni con la città, Mottola 2010,  p. 197.

[20] J. Hall, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte, Milano 1983, p. 249.

[21] L. Galante, Domenico Antonio Carella: un pittore del Settecento pugliese, Martina Franca 1978, p. 3.

[22] O. Sapio,  R. Cofano,  Il ponte, l’altare, il barone e altre storie. Cronache tarantine fra ‘600 e ‘900, Taranto, 1997, p.55. Per una più approfondita analisi del dipinto cfr. V. Farella, Il Palazzo Pantaleo. Una singolare residenza aristocratica nella Taranto del Settecento, in AA.VV., “Kronos” n. 10, Galatina 2006, pp. 207-210 fig. 2.

[23] M. Guastella, Opere d’arte pittorica nella chiesa del Purgatorio di Fasano, in AA.VV. La Chiesa del Purgatorio di Fasano, arte e devozione confraternale, a cura del Centro Ricerche di Storia Religiosa in Puglia, Fasano 1997, pp. 165-166.

[24] Inventariati come Art. 03 e Art.04. L’originaria collocazione si deve ad una relazione di V. De Marco che ricostruisce gli antichi arredi delle cappelle smembrate nel duomo di San Cataldo.

[25] Certe caratterizzazioni dei volti in chiave quasi caricaturale richiamano la pittura di Traversi e Bonito, con una ripresa seicentesca nell’utilizzo di effetti chiaroscurali, volti a sottolineare il naturalismo drammatico dell’evento. Inoltre proprio un pittore come Bonito è stato chiamato in causa da Galante (La pittura a Martina Franca, cit., p. 177.) per gli affreschi di Carella nel palazzo ducale a Martina Franca, per sottolineare un’attenzione di tipo realistico del francavillese, che si esprime attraverso un naturalismo più accomodante, dato proprio dal più quotato pittore napoletano della seconda metà del Settecento.

 

pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2.

Un’ inedita veduta settecentesca di Taranto in un dipinto di Paolo De Falco

Assunzzione di Maria-Paolo De Falco-336x195

di Nicola Fasano

La Casa professa dei Gesuiti a Grottaglie custodisce numerosi dipinti di eccezionale pregio. Alcuni di essi, come lo Sposalizio mistico di Santa Caterina di Andrea Vaccaro, sono un prezioso dono di Ferdinando II di Borbone che visitò i luoghi in cui era nato e cresciuto San Francesco De Geronimo. Altre tele provengono, invece, dal santuario della Madonna della Salute, chiesa per lungo tempo retta dall’ordine. Tra queste, oltre ai dipinti del celebre Paolo De Matteis, bisogna soffermarsi su una tela poco studiata, firmata da un allievo del pittore Francesco Solimena: Paolo De Falco.

Il quadro di grande formato (236 x 195), collocato in un corridoio della dimora gesuitica, raffigura L’Assunzione di Maria. Il tema iconografico è incentrato sul rapimento in cielo di Maria, in anima e corpo, tre giorni dopo la morte. Il termine (dal latino “adsumere”) indica che fu portata in cielo dagli Angeli, come mostra la tela.

L’Assunzione non trova basi nelle Sacre Scritture, ma soltanto negli scritti apocrifi del III-IV secolo e, nella tradizione della Chiesa cattolica. Solo nel 1950, l’Assunzione venne proclamata articolo di fede da Papa Pio XII. Il nostro dipinto riprende l’iconografia controriformistica, che avrà il suo apice in epoca barocca, con alcune varianti significative che andremo a descrivere. Nella parte superiore della composizione Maria, con il braccio destro sul petto e lo sguardo rivolto in alto, assume l’atteggiamento estatico di devota fiducia nella volontà divina. Intorno, paffuti angioletti sospingono senza alcuno sforzo i nembi sui quali si erge la Madonna, mentre un altro angelo solitario si appresta a coronarla con una ghirlanda di rose.

La composizione, smorzata da tinte basse, si accende con gli incarnati dei putti, il fluente mantello  azzurro della Vergine che contrasta con la veste rosacea, e gli svolazzanti panneggi degli angeli. Le figure sono risaltate da delicate trame chiaroscurali che lambiscono i volti e torniscono plasticamente i corpi. L’Assunta con il gruppo di angeli è stata replicata scolasticamente in un dipinto di fine XVIII sec. raffigurante l’Immacolata e Santi, custodito nella Matrice di Montemesola. Quest’ultima tela, commissionata probabilmente dai Saraceno, feudatari di Montemesola, si accomuna al nostro dipinto, per una interessante veduta del paese.

Infatti nel dipinto grottagliese, al posto del sarcofago aperto, dal quale la Vergine viene rapita per essere portata in cielo, si dispiega la vista di una città e sull’estrema destra un picco roccioso in primo piano, consente al pittore di apporre la propria firma : P. De Falco P. (..ingebat).

firma del pittore

Paolo De Falco nativo di Napoli nel 1674, secondo il biografo degli artisti napoletani Bernardo De Dominici, fu “degnissimo sacerdote”. Il pittore, infatti, fu un chierico che aveva seguito studi di logica presso i Gesuiti,  per poi dedicarsi all’arte pittorica presso la prestigiosa scuola di Francesco Solimena. Un pittore diligente che si distingueva in termini celebrativi e puristici, come si evince dal nostro quadro, al quale era difficile chiedere temi di carattere laico e profano. La sua produzione artistica, secondo il Prof. Pavone, si concentrò nei centri periferici tra i quali Taranto, dove il De Dominici registra una “Sant’Irene, che il pittore mandò nella città di Taranto”, che il  Pavone giustamente riconosce nella nostra tela. Lo studioso attesta l’opera intorno ai primi anni ‘30 del Settecento, “in quel processo di ridefinizione in chiaro delle forme” che fa dell’opera una composizione devota e “pulita” in linea con i dettami dei Gesuiti, committenti dell’opera.

Pavone, inoltre, riconosce nel pittore la nettezza delle forme, la pacatezza nei gesti e nei volti che aderiscono al clima arcadico del Solimena dei primi del Settecento, mettendo in relazione l’Assunta tarantina con il San Martino e la Madonna di Cerreto.

Sul dipinto interviene anche il Prof. Galante, che nel volume “Questioni Artistiche Pugliesi”, nell’introdurre la figura di Giovan Battista Lama, accenna fugacemente al nostro dipinto, il quale, insieme a quelli del Lama e del De Matteis, costituivano il patrimonio pittorico della chiesa di Monteoliveto, poi Madonna della Salute.  Sia Galante, sia Pavone, non accennano minimamente al paesaggio in basso a sinistra, e solo nella scheda di catalogazione del quadro per i volumi di Iconografia Sacra a Taranto, dopo avere fornito i dati essenziali dell’opera, chi redige la scheda, si sofferma brevemente sulla veduta.

altra veduta

Analizzando il paesaggio, emergono novità che possono essere molto interessanti. La tela molto rovinata nella parte inferiore, mostra una città che sembra essere Taranto, e quale migliore occasione se non quella di farla proteggere dall’Assunta, patrona di Taranto, a cui è dedicata la Cattedrale, insieme a San Cataldo?

A conferma di questa tesi, concorrono una serie di fattori che andremo a descrivere.

particolare

La città presenta una veduta dal Mar Piccolo inquadrata nel tradizionale N-W (nord-ovest),  similare alla descrizione calligrafica del pittore Coccorante nella pala di Mastroleo in San Domenico. Facilmente riconoscibile all’estremità  destra, il ponte del fosso dalle quattro arcate e il castello aragonese con le sue torri. Nella parte centrale si distingue a fatica l’abitato costituito da  casupole con tetti spioventi, alcune chiese con campanili svettanti, tra le quali il Duomo con il tiburio circolare e il campanile romanico visto su due lati. Nell’estremità destra si scorgono la cittadella fortificata, la torre di Raimondello Orsini e il ponte di Porta Napoli con cinque arcate, invece delle sette tradizionali.

particolare della veduta con la torre di Raimondello
particolare della veduta con la torre di Raimondello

Non mancano le relative fortificazioni sul Mar Piccolo, con la cinta muraria e il torrione. Naturalmente il pittore, anche con qualche incongruenza, dà una visione idealizzata della città, con i ponti di accesso, le chiese, le torri, le cose essenziali che caratterizzano l’abitato settecentesco. Non meno significativa è la presenza dei due vessilli sulle torri, che con un po’ di immaginazione si può pensare recassero lo stemma degli Asburgo, attestando il dipinto agli anni precedenti al 1734.

Purtroppo, la fotografia e il pessimo stato di conservazione del dipinto non rendono giustizia alla veduta, che prosegue sulla destra per interrompersi con la roccia sulla quale il pittore appone la propria firma.

La scoperta di questa veduta inedita di Taranto è di per sè interessante, ma ancora più importante sarebbe la datazione, che, stando a quanto riportato dal  Pavone, si  attesterebbe intorno ai primi anni ‘30 del Settecento, precedente quindi alle più celebri vedute del Coccorante: quella in San Domenico a Taranto e quella conservata nel Museo San Martino a Napoli, realizzate intorno al 1738-40.

veduta estesa

Da dove avrà preso spunto il nostro pittore? Da qualche dipinto precedente? Dalle celebri vedute del Pacichelli che circolavano nel Regno di Napoli? Non è dato sapere. La veduta, ignorata dagli studi, non è stata censita nella mostra sulle vedute relative a Taranto e al suo golfo del 1973, tantomeno nella mostra tenuta al castello aragonese di Taranto sul finire del 1992. L’unica esposizione alla quale il dipinto ha partecipato è stata quella del 1937, in occasione della Prima Mostra Ionica di Arte Sacra, nel cui catalogo il dipinto si fa apprezzare per il buon sapore decorativo.

Visto che la Madonna della Salute è chiusa da tempo, non rimane che fare una passeggiata a Grottaglie, andare al “Monticello”, dai Gesuiti, e gustarsi questa inedita veduta di Taranto, oltre ai dipinti di Paolo De Matteis, che un tempo decoravano la chiesa di largo Monteoliveto.

25 marzo. Annunciazione di Maria Vergine. Una tela a Maruggio

Annunciazione, di Paolo De Matteis (olio su tela, 1712). Saint Louis Art Museum

 

di Nicola Fasano

 

L’Annunciazione, tema caro alla pittura italiana (si pensi alle celebri tele di Simone Martini, di Antonello da Messina e di Lorenzo Lotto), rappresenta il momento in cui l’arcangelo Gabriele annuncia a Maria il concepimento di Gesù e la sua incarnazione (Luca 1:26-38).

La ricorrenza dell’evento cade il 25 marzo, precisamente nove mesi prima della Natività di Cristo. Iconograficamente la composizione vede protagonisti la Vergine, la colomba dello Spirito Santo e l’angelo annunciante. Nel corso dei secoli è cambiato il modo di rappresentare il tema; molto spesso i pittori hanno colto nell’Annunciazione il “pretesto” per raffigurare sfarzosi interni, si pensi ai fiamminghi quali Van der Weyden, Campin, i quali dipingono la Vergine colta nella sua quotidianità domestica all’arrivo dell’angelo Gabriele. In altri casi, rimanendo in ambito quattrocentesco, l’ambientazione risulta semplice e spoglia come in Beato Angelico del chiostro di San Marco a Firenze o nel Domenico Veneziano del Fitzwilliam museum di Cambridge.

Nel ‘500, senza fare fuorvianti generalizzazioni, la scena può essere ambientata in esterni (è il caso del Leonardo degli Uffizi) o al chiuso di una stanza che presenta un’apertura (finestra, arco) dal quale si intravede il paesaggio;  non raro è il caso dell’ambientazione in cortili, in porticati o in terrazze con il paesaggio sullo sfondo e la balaustra a delimitare l’avvenimento sacro.

Roma, Santa Maria in Trastevere, Pietro Cavallini, mosaico dell'Annunciazione, 1291
Roma, Santa Maria in Trastevere, Pietro Cavallini, mosaico dell’Annunciazione, 1291

Nell’arte della Controriforma, quella che ci interessa per il dipinto che andremo a trattare, lo sfondo architettonico viene progressivamente abbandonato a favore di un fondale neutro che vede il cielo abbacinante sul quale si staglia la colomba dello Spirito Santo. L’Angelo annunziante può essere accompagnato da un seguito di cherubini a testimonianza della presenza divina; poca concessione invece, viene lasciata al superfluo, ai dettagli che non siano utili all’identificazione della Sacra rappresentazione: il giglio, il cestino da lavoro di Maria, il libro che racchiude la profezia di Isaia sul concepimento della Vergine. Sono questi i rigidi dettami preconizzati dal cardinale Paleotti  sulle immagini sacre, le quali dovevano suscitare pietà nello spettatore.

Matteo Bianchi – Annunciazione -olio su tela cm. 205×152 ph Nicola Fasano

Il nostro dipinto proviene dalla parrocchiale di Maruggio, un paese ad una trentina di chilometri da Taranto. La tela raffigura la Vergine seduta sull’inginocchiatoio, a capo chino e con il braccio destro sul petto in segno di devozione, nell’atto di ricevere Gabriele portatore del lieto annuncio. L’Annunciata maruggese risponde figurativamente al tipo della humiliatione[1] secondo quanto scritto da Luca (Lc,1,38) “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga in me quello che hai detto”. L’arcangelo  adagiato su una nuvola e accompagnato da una genia di cherubini, reca il giglio simbolo di purezza; chiude la scena al di sopra del gruppo la colomba dello Spirito Santo che spicca dal fondo dorato. Il dipinto inganna, ad osservarlo attentamente non si esiterebbe un attimo ad attribuirlo a Paolo De Matteis e l’ubicazione di Maruggio tra Taranto e Lecce, centri (soprattutto quello ionico), dove il pittore campano fu operoso, non farebbe altro che confermare (ingannevolmente) questa ipotesi.

Invece a pochi chilometri da Maruggio, a Manduria precisamente, sorge nel ‘700 una importante bottega di pittori, i Bianchi, che monopolizza la committenza nobiliare e religiosa, “permettendo” di fare entrare nella cittadina messapica solo dipinti di pittori del calibro di un Trevisani e qualche altro dipinto solimenesco proveniente da Napoli. Tutto ciò a conferma del fatto che a Manduria non si trovano tele del francavillese Carella, del martinese Olivieri, o tele dei più quotati pittori leccesi.

Questo in un certo senso ha appiattito il livello qualitativo della pittura manduriana. Non avendo infatti concorrenti, il “clan” dei Bianchi si adagia su una pittura edificante e convenzionale che riprendendo stilemi solimeneschi, maratteschi o del De Matteis accontenta una committenza provinciale senza grandi pretese.

In realtà, due della stirpe dei Bianchi, i più dotati Diego Oronzo Bianchi e il fratello più piccolo Matteo Bianchi, sono pittori che non sfigurano in un discorso generale sulla pittura salentina del Settecento. Non si spiegherebbe altrimenti come i loro dipinti siano presenti nel leccese, a Taranto, a Brindisi, in terra di Bari e nel territorio lucano (Pasquale Bianchi), questo a conferma della richiesta di loro opere al di fuori del territorio messapico.

Tralasciando l’Olivieri “raccomandato” del Solimena, è difficile  trovare un’altra bottega attiva in buona parte del territorio pugliese e nei territori limitrofi[2].

La tela maruggese è opera autografa di Matteo, il più dotato tecnicamente della famiglia. Fino a pochi anni fa si conosceva poco delle sue opere, e l’Annunciazione maruggese ne è la più celebre e la più nota alla critica. Grazie al lavoro di schedatura fatto da Massimo Guastella[3], sono emersi altri dipinti e si è fatta luce sulla vita del pittore e tesoriere della Collegiata manduriana.

Anzitutto è emersa una notevole perizia tecnica nel disegno, testimoniata da alcuni fogli in collezione Arnò ed è stata evidenziata l’abilità nel trascrivere con facilità brani pittorici di maestri affermati quali il Solimena, il Maratta e il dipinto in questione ne è la riprova.

L’opera portata all’attenzione dalla Pasculli Ferrara[4] e accennata da M. D’Elia[5], viene studiata da Galante[6] che la ritiene copia di un’altra opera del De Matteis di collocazione ignota. Entrambe le opere secondo lo studioso, sono riprese da un analogo soggetto nel Museum of Art di St. Louis, già nella collezione della duchessa di Laurenzano, la quale aveva commissionato il dipinto all’artista cilentino.

La tela del Bianchi trova visibilità nella mostra del 1995 sul Barocco a Lecce e nel  Salento, nel cui catalogo Guastella[7] ritiene il dipinto tratto da un cartone del più quotato maestro sulla scorta del dipinto già accennato da Galante di ubicazione ignota. Lo stesso studioso che colloca la tela attorno al secondo-terzo decennio del ‘700, non esclude un rapporto indiretto con il De Matteis attraverso le opere tarantine. A tal proposito invito a confrontare l’Annunciata maruggese con la Vergine dipinta dal campano nel Carmine di Taranto e quella della Matrice di Grottaglie.

La monumentale opera di schedatura sul patrimonio pittorico manduriano curata da Guastella e fotografata da La Fratta nel 2002  non aggiunge nulla di nuovo sul dipinto in questione[8], ma come già ricordato in precedenza, analizza criticamente la produzione pittorica di questa importante famiglia e “apre” al pubblico le collezioni private, altrimenti inaccessibili, che raccolgono  disegni inediti di Matteo.

Infine nel 2009 in uno studio condotto da Don Pietro Pesare[9], si acquisiscono nelle note a margine  altre interessanti informazioni sul dipinto. La tela agli inizi del ‘900 fu spostata dalla Chiesa Madre del piccolo comune nella cappella cimiteriale di Santa Maria del Verde insieme ad altre tele. Per un fortuito caso l’Annunciazione si salvò dal furto sacrilego perpetrato da ladri il 4 novembre 1975, in quanto il religioso aveva portato la tela in Soprintendenza, per il quanto mai provvidenziale restauro[10].

Attualmente la tela è tornata a Maruggio ed è stata  collocata nel presbiterio della Matrice. Il dipinto commissionato dalla famiglia Covelli[11], di cui il Pesare riconosce lo stemma nobiliare (il sole rosso nascente e l’agnello in basso), probabilmente proveniva dall’altare eponimo della Matrice e sostituiva una precedente tela commissionata dalla famiglia Maldonata-Carrone, imparentata con gli stessi Carrone[12]. Lo studioso inoltre aggiunge che il dipinto maruggese è esemplato dalla tela del De Matteis conservato in San Michele Arcangelo ad Anacapri.

L’impaginazione spaziale a sviluppo verticale della scena richiama la celebre Annunciazione di Nancy dipinta dal Caravaggio, così come la direttrice diagonale che taglia idealmente il dipinto facendo dialogare l’Angelo e la Vergine; alle spalle della stessa un tendaggio verde circoscrive il letto a simboleggiare il Thalamus Virginis che, insieme al poggiapiedi, rafforza il clima intimità  domestica della scena. L’indirizzo classicista e accademizzante desunto dal De Matteis, si manifesta attraverso l’assetto bilanciato della raffigurazione, in cui i protagonisti si distinguono per grazia e bellezza, come ricordato da Galante[13]. Il classico pulviscolo dorato nella parte superiore della composizione si stempera nella luce diffusa che solidifica le forme e risalta il preziosismo serico, esaltando il manto azzurro della Vergine, il panno bianco e il drappo arancio di Gabriele.  


[1] Papa R., Caravaggio l’arte e la natura, Firenze, 2008, p. 204

[2] Forse solo la bottega dei Carella  fu così operosa.

[3] Guastella M., Iconografia Sacra a Manduria, Manduria, 2002.

[4] Pasculli Ferara M., Contributi a Giovan Battista Lama e a Paolo De Matteis, in Napoli Nobilissima vol. XXI, fasc. I-II, Napoli, 1982, p. 49, fig. 9.

[5] D’Elia M., in AA.VV. La Puglia tra Barocco e Rococò, Milano 1982, p. 285, fig. p. 286. Curiosamente nella riproduzione fotografica l’immagine è speculare.

[6] Galante L., Qualche considerazione sul De Matteis in Puglia, in Questioni artistiche pugliesi, Galatina, 1984, p.13, tav. III fig.3.

[7] Guatella M. in AA.VV. Il Barocco a Lecce e nel Salento, Roma, 1995, p. 84 cat.79. Anche in questa riproduzione l’immagine è stata riportata specularmente.

[8] Guastella M., op. cit., 2002,  p. 46.

[9] Pesare P., I Frati dell’Osservanza di Santa Maria della Grazia di Maruggio, Manduria , 2009, pp. 208-209.

[11] Famiglia di origine leccese, stabilitasi a Maruggio nel ‘500.

[12] Pesare P., op. cit., 2009,  p. 209 .

[13] Galante L., op. cit., 1984,  p.15.

San Giuseppe in età barocca nel tarantino

 

Dubbio di S.Giuseppe, di Paolo De Matteis (1715)(400×280) ph Nicola Fasano

di Nicola Fasano

In occasione della ricorrenza di San Giuseppe presenterò per gli amici e lettori  alcune opere artistiche sul Santo presenti nel territorio tarantino. Nell’iconografia barocca (quella da me presa in esame) lo sposo di Maria Vergine, nonché padre putativo di Gesù, è raffigurato come uomo anziano con barba bianca nell’atto di sorreggere in braccio Gesù Bambino.

I suoi attributi principali sono gli attrezzi da falegname e la verga fiorita. Anteriormente al periodo barocco il Santo appariva in episodi legati all’infanzia di Cristo o in scene dedicate alla vita della Vergine e solo dopo la Controriforma, quando il suo culto fu promosso da Santa Teresa di Avila, il falegname potè godere di una raffigurazione autonoma.

A Taranto nella chiesa dedicata a Giuseppe (già Santa Maria della Piccola) è collocato nel controsoffitto un dipinto mistilineo di notevoli dimensioni raffigurante il Dubbio di  San Giuseppe. L’autore dell’opera è il celebre pittore napoletano Paolo De Matteis, artista molto richiesto dalla committenza nobiliare ed ecclesiale tarantina. Formatosi presso la scuola Luca Giordano, passò in seguito a Roma per comprendere la lezione del classicismo marattesco.

Le opere tarde come quella in questione, databile al secondo decennio del settecento, registrano uno stanco irrigidimento nelle posizioni classiciste, oltre un appiattimento qualitativo forse dovuto a commissioni meno prestigiose e in territori provinciali.

Il soggetto della tela tarantina fa riferimento all’episodio narrato dal Libro di Giacomo, ovvero la rassicurazione portata dall’arcangelo Gabriele a Giuseppe sul concepimento divino di Maria.

Isolata dalla Sacra Famiglia, è la figura in abiti nobiliari settecenteschi che prega guardando lo spettatore. Ritenuta erroneamente autoritratto del pittore, è più probabilmente il committente dell’opera (il priore della confraternita ? un nobile devoto al Santo ?).

Purtroppo alcune infiltrazioni di umidità dal soffitto (denunciate da anni senza risultati) hanno causato la caduta del colore, impedendo la piena leggibilità del dipinto.

Altra opera degna di menzione è il Transito di San Giuseppe, facente parte della collezione di quadri che il Vescovo di Nardò e Taranto Ricciardi donò al museo archeologico nazionale nel 1907, tramite legato testamentario.

Transito di S.Giuseppe (ph Paolo Buscicchio) da Storia di una collezione-i quadri donati dal Vescovo Ricciardi al Museo di Taranto

L’opera dopo notevoli vicissitudini e spostamenti, è finalmente fruibile al pubblico dopo il nuovo allestimento e la riapertura del M.AR.TA nel 2007.

Il soggetto del dipinto tratto dalla biografia apocrifa, raffigura la morte di Giuseppe all’età di 111 anni, assistito dalla Vergine, dagli angeli e dal figlio al capezzale del letto. Alle spalle del Santo morente l’Arcangelo Gabriele, abbigliato con armatura seicentesca, veglia sulla scena. La tela attribuita (generosamente, secondo il parere dello scrivente) dalla soprintendenza a Luca Giordano è probabilmente opera di Andrea Vaccaro (autore del bellissimo Salvator Mundi conservato nella stessa collezione museale).

Non bisogna farsi trarre in inganno dalla gamma cromatica dorata, dalla luminosità dei veneti cara a Rubens e ai cortoneschi, ripresa dal Giordano in dipinti di composizione simile, come la celeberrima Deposizione di Pio Monte della Misericordia o il Lot e le figlie di Dresda. La figura patetica di San Giuseppe ci conduce ad Andrea Vaccaro, pittore che lavorò a stretto contatto con Giordano negli affreschi di Santa Maria del Pianto a Poggioreale. Il dipinto quindi, testimonierebbe la congiuntura del Vaccaro con alcune prove giovanili del più celeberrimo e quotato pittore napoletano quali appunto la Deposizione del Pio Monte e quella di soggetto analogo della Gemaldegalerie di Oldenburg (come giustamente rileva il Prof. Galante)

Il terzo dipinto è un gioiellino di Corrado Giaquinto  raffigurante il Sogno di San Giuseppe conservato nel palazzo arcivescovile di Taranto[1] e proveniente dalla chiesa di San Domenico della città ionica.

Sogno di San Giuseppe, di Corrado Giaquinto (104 x 74), da Corradogiaquinto.it

L’angelo che irrompe sulla scena scuote il clima di intimità domestica, ordinando a Giuseppe di fuggire in Egitto con Maria e il Bambino a causa della persecuzione di Erode. Il pittore molfettese di educazione napoletana e romana, era presente a Taranto con un’altra tela di ragguardevoli dimensioni raffigurante la Natività di San Giovanni Battista. Quest’ultima opera conservata nella pinacoteca provinciale di Bari (a titolo di deposito…perenne, aggiungo io, se le istituzioni preposte non si attivano per chiederne la restituzione) fu commissionata da una nobildonna tarantina, per l’altare maggiore di San Giovanni Battista, chiesa poi abbattuta dal discutibile piccone risanatore negli anni ’30 del Novecento.

L’opera custodita nell’episcopio testimonia la maestria del pittore molfettese nei dipinti di piccolo formato, caratterizzati da delicate e cangianti sfumature pastello, dall’azzurrino, al rosa-lilla, al turchese, che apportano alla scena quella trasognante atmosfera onirica.

Il dipinto costituisce il modello per il bozzetto conservato nella pinacoteca di Montefortino (vero must per gli amanti del maestro) e nella collezione della Baronessa de Maldà a Barcellona, testimonianza del soggiorno spagnolo di Corrado.

Un altro protagonista del ‘700 napoletano presente a Taranto è lo scultore napoletano Giuseppe Sanmartino, il maggiore esponente della plastica a Napoli in età borbonica tra tardo barocco, rococò e protoneoclassicismo[2].

S.Giuseppe, cappellone di S.Cataldo, ph Nicola Fasano

La statua di San Giuseppe presa in esame chiude in ordine cronologico, insieme al San Giuseppe Gualberto, l’importante ciclo di sculture che l’artista realizzò per il cappellone di San Cataldo, nella Cattedrale ionica. L’opera di marmo, collocata nel vestibolo della cappella, fu commissionata nel 1790 dall’arcivescovo Capecelatro, il cui stemma è effigiato sul basamento. L’artista per l’approvazione della statua aveva inviato al presule un modellino di creta che, ratificato, perfezionò il contratto con la cifra pattuita di 700 ducati. Una probabile riproduzione in ceramica del bozzetto preparatorio è conservata al Getty Center di New York ed è stata attribuita a Gennaro Laudato[3].

San Giuseppe appoggiato ad un blocco roccioso regge Gesù Bambino con fare protettivo, afferrandogli delicatamente il piedino sinistro; il fanciullo sembra indicarlo o piuttosto fargli il solletico, senza però scomporre il padre putativo. Nonostante l’impronta personale del maestro, si nota l’apertura verso le già diffuse istanze neoclassiche, la scultura sembra affine alla pittura accademica dell’ultimo  De Mura.

Passando in provincia, va segnalata a Manduria la statua lignea di San Giuseppe col Bambino Gesù conservata nella chiesa eponima. La statua portata alla ribalta nella mostra leccese sulla scultura barocca del 2008, è  opera dello sculture Vincenzo Ardia che si firma sul retro della pedagna.

San Giuseppe, di Vincenzo Ardia (170x80x65)(ph Angela Mariggi)

Dello scultore vissuto a cavallo fra il 1600 e il 1700 è conosciuta in Italia soltanto un’altra statua, il San Francesco Saverio di Ghemme presso Novara (che ironia della sorte si lega alla cittadina messapica anche per l’ottima produzione di vini), esposta anch’essa alla mostra per fini comparativi.

San Giuseppe regge amorevolmente Gesù con la mano sinistra, mentre il fanciullo protende le braccine verso il padre quasi a chiedere protezione; il tutto è rafforzato da un complice gioco di sguardi[4]. Con il braccio destro il falegname regge il bastone da cui, secondo la tradizione agiografica, sbocciano fiori di mandorlo simboleggianti la scelta divina. Secondo altre interpretazioni il mandorlo in ebraico “shaked” presenta una forte assonanza con la parola “shakad”, che significa “vegliare”, come Giuseppe fece con Maria e Gesù; il frutto poi, duro esternamente e tenero e dolce internamente richiama il carattere protettivo del falegname.

L’accento plastico della statua è caratterizzato dall’incedere del Santo e dallo strabordante panneggio, che a fatica si raccoglie intorno alla vita. Il recente restauro curato dal laboratorio del museo provinciale di Lecce, ha messo in luce la ricca decorazione floreale che riveste il manto e la tunica; un vero e proprio campionario floreale che va dai tulipani, agli anemoni ai nontiscordardime, raro a vedersi nella scultura napoletana del periodo .


[1] In occasione delle giornate FAI di primavera, 26-27 marzo 2011, il palazzo arcivescovile di Taranto sarà aperto al pubblico. All’interno dell’edificio, oltre la tela del Giaquinto, sono conservati dipinti di Nicola Malinconico e altre  tele di scuola napoletana e locale.

[2] Tengo a sottolineare come lo studioso Catello, nella sua godibile descrizione monografica sul Sanmartino, dedica la copertina al San Francesco del cappellone di Taranto. Scelta coraggiosa ma apprezzabile, rispetto al bellissimo e celebre Cristo velato della cappella Sansevero a Napoli, a testimonianza del valore e della bellezza del ciclo scultoreo tarantino.

[3] Scultore coroplastico, molto rinomato nella Napoli borbonica.

[4] In origine il Bambino Gesù reggeva il globo terrestre.

2 e 3 marzo 2013: le Giornate dei musei ecclesiastici

museo-gallipoli-154

di Nicola Fasano

 

Troppo spesso, parlando di musei d’arte sacra, il pensiero corre a luoghi inaccessibili e polverosi, depositi dove il tempo sembra essersi fermato. Troppo spesso un tenace pregiudizio impedisce al potenziale visitatore di oltrepassare la soglia di un museo religioso che, di per sé, non è né un’aula di catechesi, né un luogo liturgico, né tantomeno una scuola teologica, an­che se con questi luoghi e con le funzioni che in essi si svolgono intrattiene significative relazioni. Nonostante il loro rilevante numero (un migliaio all’incirca), i musei religio­si italiani costituiscono di fatto una realtà ‘invisibile’, per lo più sconosciuta al grande pubblico.

 

Questa l’analisi che l’AMEI (Associazione Musei Ecclesiastici Italiani) ha effettuato per il 2013, anno della Fede e Anniversario dell’Editto di Tolleranza di Costantino (313 d.C.). Quest’anno tutti i Musei Ecclesiastici si uniscono in un’unica e grande rete per promuovere e valorizzare le loro peculiarità, prima tra tutte il forte radicamento che queste istituzioni stabiliscono con la comunità di riferimento e il loro ruolo di ‘presidio’ dell’i­dentità non solo religiosa, ma culturale in senso lato di quella stessa comu­nità, dei suoi abitanti o di chi semplicemente vi transita.

Presentate il 21 febbraio in conferenza stampa al Museo Diocesano di Milano, dal Presidente Nazionale dell’associazione, Mons. Giancarlo Santi, e tra gli altri alla presenza del Sottosegretario al Ministero per i Beni e le Attività culturali, Roberto Cecchi, pertanto, le Giornate dei musei ecclesiastici del 2 e 3 marzo 2013, promosse dall’AMEI, saranno un’importante occasione per rendere ‘visibile’ questa straordinaria realtà museale, unica per ciò che conserva ed evoca.

L’iniziativa si svolgerà contemporaneamente in tutta Italia ed in Puglia, nello specifico, dove si registrano 13 adesioni di istituzioni museali, che da nord a sud apriranno le loro porte al pubblico con ingressi gratuiti e proposte diversificate (visite guidate, incontri a tema, laboratori, concerti, spettacoli, ecc.). Sul sito AMEI (www.amei.biz) è possibile consultare l’elenco dei musei aderenti all’iniziativa; per le proposte delle diverse istituzioni museali si rimanda, invece, alle rispettive pagine web.

 

 

In occasione delle Giornate dei musei ecclesiastici del 2 e 3 marzo 2013, promosse dall’AMEI, il MuDi – Museo Diocesano di Taranto propone per entrambe le giornate l’ingresso gratuito al Museo osservando i seguenti orari:  9.30 – 12.00, 16.00-19.00.

Su richiesta e al raggiungimento del numero minimo di visitatori previsto sarà inoltre possibile usufruire della visita guidata a pagamento con partenze alle 10.00 e alle 17.00 di entrambe le giornate.

Per informazioni e prenotazioni:

099 4716003- 333 5661281

 

 

 

 

Nicola Fasano

 

Sarò breve e sintetico:

sono laureato in Storia dell’Arte all’Università di Lecce con 110.

Studio la pittura del 600-700, in particolar modo quella locale, non disdegnando l’architettura del periodo; la mia guida? Rudolf Wittkower.

Ho svolto il compito di catalogatore di beni culturali e sono vice-presidente dell’associazione di promozione sociale e culturale “Vento Refolo”.

Faccio parte dei tutor della diocesi di Oria, svolgendo il servizio di guida turistica  in occasione di manifestazioni come “Chiese Aperte”. Ho scritto articoli per il Nuovo Quotidiano di Puglia e il Corriere del Giorno.

Mi batto per la destagionalizzazione del turismo nel territorio jonico-salentino, e per lo svecchiamento della storia dell’arte che va fatta guardando alle nuove forme di creatività, quali il design.

Un ritratto d’autore a firma di Riccardo Tota nel Museo Diocesano di Taranto

di Nicola Fasano

 

Il Museo Diocesano di Taranto, inaugurato nel 2011, diretto con passione da Don Francesco Simone e gestito dalla cooperativa Custodes Artis, costituita da giovani qualificati, continua a riservarci molte sorprese.

Bernardi

Il museo organizzato in sezioni, presenta in quella dedicata agli arcivescovi, e più precisamente nella saletta dedicata a Ferdinando Bernardi, oltre al rarissimo tessuto in bisso con la raffigurazione del Buon Pastore realizzato negli anni ‘30 del Novecento da Rita Del Bene e donato alla diocesi, un ritratto dello stesso arcivescovo (mis.70 x 61) di elevata fattura.

firma dell'autore

La firma inconfondibile in basso a destra, ci rivela l’autore dell’opera: Riccardo Tota. L’artista (Andria 1899 – Napoli 1998), formatosi presso l’Accademia di Belle Arti a Roma con docenti quali Camillo Innocenti e Giulio Bargellin, era specializzato nella ritrattistica (come conferma il nostro dipinto), nella pittura di paesaggio, riprendendo la tradizione pugliese che ha visto in De Nittis il suo maggiore esponente, e nell’illustrazione rivolta soprattutto a testi scolastici e per l’infanzia, come ad esempio il Pinocchio di Collodi.

Bernardi è ritratto a mezzobusto in abiti vescovili, con straordinaria forza introspettiva e sapiente taglio fotografico. Il volto di una intensa vivezza espressiva è colto con un leggero abbozzo di sorriso, quasi di compiacimento, e una realistica intensità nello sguardo, rafforzata dai riflessi bianchi nelle pupille, e da piccole rughe che gli solcano le borse sotto gli occhi. Un tenue accenno di chiaroscuro lambisce la parte sinistra del volto modellandolo plasticamente; l’incipiente calvizie è resa con crudo naturalismo da una luce proveniente dalla destra dell’Arcivescovo, mentre un timido rossore ne ravviva il volto. Il fondo neutro e la posa a trequarti rende più dinamica la composizione.

Molto probabilmente il ritratto realizzato da Tota, risale ai primissimi anni ‘30 del Novecento, quando l’Arcivescovo di origini piemontesi si insediò sulla Cattedra di Andria ed era naturale che l’artista nativo del posto, si offrisse per realizzare un ritratto della maggiore personalità religiosa.

Successivamente Bernardi avrà portato questo superbo ritratto a Taranto, quando prese possesso della cattedra. A conferma di quanto detto, l’alto prelato dimostra un aspetto fresco e giovanile di età non superiore a 60 anni, non ancora imbolsito dall’avanzare dell’età.

volto Bernardi

Ma chi era Ferdinando Bernardi? Nato a Castiglione Torinese il 10 luglio del 1874, fu nominato vescovo di Andria nel 1931 e il 21 gennaio del 1935 da Papa Pio XI, Vescovo di Taranto. Si distinse per la sua intensa attività pastorale, in particolare si segnala nel 1937 il primo congresso eucaristico diocesano. Nelle attività del congresso, Bernardi, accogliendo un’idea dell’Avvocato Pasquale Imperatrice, costituì nel mese di gennaio un apposito comitato per la realizzazione della storica Prima Mostra Ionica di Arte Sacra. Esposizione che vedeva nel comitato scientifico l’allora direttore del Reale Museo Nazionale di Taranto, l’Onorevole Milziade Magnini, personalità di spicco del Fascismo, Monsignor Giuseppe Blandamura, insigne storico della chiesa tarantina, Vito Forleo, Mario D’Orsi, etc. Nel Palazzo del Governo dove si tenne la mostra, vennero esposte opere dell’Olivieri, del Giaquinto, del Carella, di Luca Giordano e dei Fracanzano, solo per fare qualche nome.

Tornando all’attività di Bernardi, bisogna sottolineare la sua spiccata generosità e il suo altruismo nel mettere a disposizione l’Episcopio, durante il delicato periodo bellico, come centro di informazioni per i prigionieri e i dispersi di guerra, direttamente collegato con l’omonimo ufficio del Vaticano. Nel difficile dopoguerra portò assistenza e conforto ai poveri, agli sfollati e alle tante vittime della atroce guerra. Con lungimirante vaticinio, capendo l’espansione della città sul versante orientale, con la costruzione di nuovi quartieri, fece costruire nuove chiese tra le quali va segnalata quella di Sant’Antonio. Dal 1952 le sue condizioni di salute cominciarono a peggiore, tant’è che un giovane Monsignore Guglielmo Motolese venne consacrato Vescovo e ordinato suo vicario per amministrare la diocesi. Dopo un lungo calvario Bernardi si spense il 18 novembre del 1961. Tornando al nostro dipinto, possiamo osservare la tavolozza imbevuta di luce e la purezza nel colore, segno distintivo del pittore, il quale risponde ad una ritrattistica ufficiale e come tale mette da parte quel tratto rarefatto che lo contraddistingue negli anni ‘30.

Questa mia personale scoperta, cade proprio durante lo svolgimento di un’importante mostra sul pittore, tuttora in corso, allestita nella Pinacoteca Provinciale di Bari ed organizzata dalla direttrice Clara Gelao, che si è avvalsa di un’equipe di studiosi. L’esposizione che gode dell’Alto Patronato del Capo dello Stato e del finanziamento della Fondazione Cassa di Risparmio di Puglia., è stata inaugurata il 14 dicembre del 2012 e si concluderà il 30 aprile 2013.

L’amore dormiente, una tela nel Museo Archeologico di Taranto

Un’ ipotesi attributiva per “L’amore dormiente”

di Nicola Fasano

tratta da Storia di una collezione. I quadri donati dal Vescovo Ricciardi al Museo di Taranto

Il dipinto, oggetto del mio articolo, fa parte della collezione che il vescovo di Nardò, monsignor Ricciardi, donò al Museo Archeologico di Taranto[1] tramite un testamento olografo depositato nel 1907[2].

Il documento recita: “Tutti i quadri di qualche merito artistico sia esistenti nel Palazzo di Taranto, che all’Episcopio (di Nardò), voglio che siano depositati nel Museo pubblico di Taranto”.

Le tele in questione sono per la maggior parte opere di scuola napoletana del XVII e XVIII secolo, tra le quali trova spazio il nostro dipinto, raffigurante  “L’amore dormiente”.

L’opera in questione è una teletta (57 x 39) che tradizionalmente viene attribuita alla scuola Andrea Vaccaro; essa trova spazio in un saggio del  Galante[3] che, senza il conforto della fotografia, cita fugacemente l’opera nel passare in rassegna i dipinti della collezione.

La D’Amicis[4] nel catalogo della collezione rimane fedele alla tradizionale attribuzione con la quale la Soprintendenza schedò le opere nel lontano 1908.

La teletta, molto rovinata, raffigura un putto grassottello disteso su un manto azzurrognolo che sorregge il proprio capo con il braccio sinistro, mentre con l’altra mano impugna una freccia. Il tutto si svolge in una

Taranto. Una segnalazione nella chiesa di Sant’Agostino



112_3061

di Nicola Fasano

Nella riscoperta di tesori artistici a Taranto possiamo sicuramente annoverare la statua lignea policroma settecentesca di San Nicola da Tolentino, conservata nella cappella eponima, la prima a sinistra entrando nella chiesa di Sant’Agostino. La stessa cappella venne fatta erigere dalla confraternita dedicata al Santo, che molto probabilmente commissionò anche la statua; purtroppo non si hanno notizie archivistiche sul simulacro ligneo in quanto un incendio nel XVIII secolo ha distrutto i preziosi documenti. L’eremita agostiniano (1246 ca.- 1305) canonizzato nel 1446 è riconoscibile per il saio nero dell’ordine agostiniano e per la stella al centro del petto, che alluderebbe all’astro che apparì al momento della sua nascita.

112_3063-1

Il Santo è colto nel momento estatico tipico della retorica barocca, lo sguardo rivolto al cielo, la bocca socchiusa, le braccia aperte, gesti caratterizzanti un dialogo privilegiato con il trascendente. La qualità sostenuta della statua lignea, data dall’estrema raffinatezza nell’intaglio, fa pensare senza ombra di dubbio all’ambito napoletano e, più in particolare, alla cerchia di Giacomo Colombo, uno dei maggiori artefici della scultura lignea del settecento meridionale.

La sinuosità della forma e la resa naturalistica degli incarnati controbilanciano la stesura un po’ bloccata e accademica del modello, vivacizzato dalle fluenti pieghe delle vesti che cadono perpendicolari e lasciano intravedere un accenno di movimento della gamba destra rispetto a quella sinistra di appoggio.

Sciogliere l’attribuzione in favore del maestro è quanto meno rischioso, vista la serialità di opere realizzate dalla fiorente bottega, per venire incontro ad una committenza sempre più numerosa ed esigente. Tuttavia, azzardando un’ipotesi, la nostra statua richiama la mano di Francesco Picano, collaboratore di Giacomo Colombo, nel trattamento del panneggio che viene semplificato rispetto ai modelli del più quotato maestro, come già sottolineato dalla Gaeta, una delle maggiori esperte su Colombo; sono inoltre palesi i rimandi del santo agostiniano con il San Francesco di Paola nella chiesa di Santa Lucia a Serino.

112_3063

Il mio breve contributo vuole essere da stimolo alla riscoperta e allo studio della statuaria lignea, visto che rispetto ad altri territori baciati da studi specifici e da indagini scientifiche, i simulacri lignei tarantini, importantissimi dal punto di vista religioso e antropologico (basti pensare alle statue napoletane dell’Immacolata in San Michele e a quelle del Cristo Morto e dell’Addolorata del Carmine) , hanno avuto solo la degna attenzione del compianto Nicola Caputo e di qualche altro storico locale.

Attribuita al Regolia una tela conservata nel Municipio di Taranto

di Nicola Fasano*

Taranto: città delle industrie, città dell’inquinamento, delle brutture, però anche città dei tesori nascosti che non trovano una piena fruibilità. E’ il caso di un dipinto seicentesco di notevole formato conservato negli uffici di Palazzo di Città raffigurante San Francesco che soccorre gli ammalati.

La tela faceva parte del sontuoso arredo di palazzo D’Ayala-Valva (già Marrese), e abbelliva il soffitto a cassettoni del salotto di rappresentanza. Con l’espropriazione del palazzo a favore del comune nel 1981, tutti i beni conservati nel palazzo sono diventati di proprietà comunale.

Il professor Galante dell’Università di Lecce, analizzando la suddetta tela, aveva attribuito l’opera al pittore napoletano Pacecco De Rosa; successivamente lo studioso Leone De Castris riconduceva il dipinto (giustamente, secondo il parere di chi scrive) al palermitano di formazione napoletana Michele Regolia autore di numerose tele nel vicereame. Educato presso la scuola tardo-manierista di Belisario Corenzio, l’autore del dipinto tarantino non è esente da influenze emiliane alla Domenichino.

Regolia si apre alle nuove istanze del naturalismo caravaggesco imperante a Napoli, nei due personaggi maschili in primo piano torniti da vigorosi effetti chiaroscurali.

All’estrema sinistra della composizione è raffigurato un personaggio in abiti nobiliari che volge lo sguardo allo spettatore, molto probabilmente il committente del dipinto, devoto di San Francesco; sulla destra una madre con il figlio cieco in braccio implora al Santo la grazia.

Il maestro palermitano era un autore caro ai francescani perché rispondente a determinati precetti, quali la devozione e la pacatezza nelle figure, la dottrinalità nelle immagini secondo i dettami rigorosi della controriforma. Caratteristica dell’artista siciliano è, inoltre, la raffigurazione di angeli dalle

Girolamo Cenatiempo nella chiesa del SS. Crocifisso di Taranto

 

di Nicola Fasano

Nella valorizzazione del patrimonio storico artistico di Taranto non si può trascurare l’importante contributo del pittore napoletano Girolamo Cenatiempo, artista allievo di Luca Giordano, che nel capoluogo ionico realizzò due tele di grande formato raffiguranti: il Martirio di San Bartolomeo e la Visione dei SS. Gregorio e Benedetto Abate. Tralasciando la prima opera, la cui firma mette fuori discussione dubbi attributivi, la seconda non autografa, in un primo momento era stata attribuita allo stesso Cenatiempo da parte dello storico francescano Padre Benigno Perrone (cfr. P.B.P.Perrone  in  I conventi della serafica Riforma di San Niccolò in Puglia, 1590-1835, Galatina 1981 p. 62) e uccessivamente ricondotta da Galante a Paolo De Matteis (cfr. L.Galante, Per la fortuna della pittura napoletana Puglia in  Ricerche sul Sei-Settecento in Puglia III, Fasano 1989 p.240), grande interprete della pittura tardo-barocca a Taranto.

Sarebbe forse il caso, invece, di soffermarsi e concentrare l’attenzione, come propone questo breve scritto, anche sugli elementi che potrebbero confermare come giusta l’intuizione del francescano, che per primo ricostruisce le vicende dei due dipinti.

Entrambi provenienti dalla demolita chiesa francescana di Sant’Antonio di Padova, vennero donati al municipio insieme ad altre suppellettili (tra cui lo splendido crocifisso ligneo del XVI sec.), per poi essere trasferiti nella chiesa del SS. Crocifisso intorno al 1875, edificio che custodisce le due tele in cornici marmoree mistilinee esposte nei bracci del transetto. Il Cenatiempo (documentato tra il 1705 e il 1742) godette di buon prestigio presso i Domenicani e i Francescani, lavorando in Abruzzo, Lucania e nelle Puglie, prevalentemente in quella che anticamente era la Terradi Bari e la Capitanata.

A spostare l’attribuzione in favore del pittore napoletano concorrono una serie di fattori stilistici, quali i volti dei personaggi raffigurati, in particolare i puttini di marca schiettamente “cenatiempana”, che si possono confrontare con gli altri presenti nel Martirio di S. Bartolomeo e in quelli nella tela della Maddalena penitente in San Lorenzo a San Severo.

La grazia pacata e addolcita del De Matteis risulta invece più rigida e meno sciolta nei dipinti del nostro pittore, il quale nell’angelo che regge la tiara papale fa un chiaro rimando al suo maestro: Luca Giordano.

La tela raffigura sulla sinistra San Gregorio Magno in abito sacerdotale, colto nel tipico atteggiamento estatico della retorica barocca, mentre ammira la colomba dello Spirito Santo; sulla destra San Benedetto in abito nero da abate, con il libro delle regole e il pastorale, indica il cielo con l’indice della mano. In basso due angeli, di cui uno su un rocchio di colonna “pagana”, tributano l’omaggio alla chiesa terrena e trionfante, reggendo la tiara e la mitra; in alto si staglia la colomba dello Spirito Santo fra due schiere di cherubini disposti a ventaglio.

La composizione pecca nell’eccessiva specularità dei due Santi che rispondono a precisi dettami di carattere retorico e didascalico ed il risultato è la messa in scena attraverso la bloccata espressività di gesti e atteggiamenti sapientemente calibrati. A tal proposito si veda la tela di Cenatiempo conservata in Santa Maria degli Angeli ad Avigliano, raffigurante la Vergine col Bambino e i Santi Filippo Neri, Michele Arcangelo, Gregorio e Carlo Borromeo.

Il dipinto, oltre ad una evidente matrice giordanesca, richiama il timbro del De Matteis nel pulviscolo dorato della zona superiore, che risalta i volti rapiti dei due Santi e i preziosi tessuti che accendono la tavolozza. Questa contingenza stilistica con il più quotato Paolo ci permette di azzardare una datazione intorno al secondo decennio del Settecento, periodo in cui il De Matteis arricchiva le chiese di Taranto con le sue preziose opere e dal quale il minore Cenatiempo avrà preso spunto per alcune soluzioni cromatiche.

Non mancano inoltre rimandi ad un altro “giordanesco” quale Giovan Battista Lama, nelle due figure principali. Ad arricchire la composizione si schiude tra le figure un paesaggio boscoso con chiesa, che evidenzia l’attenzione del pittore nell’indagine del dato naturalistico, caratteristica riscontrabile nella tela sorella del SS. Crocifisso e in numerose altre opere del pittore.

Paolo Finoglio e il suo seguito

di Nicola Fasano

La mostra “Paolo Finoglio e il suo seguito”  inaugurata l’8 settembre nella pinacoteca del castello Acquaviva  di Conversano mette in luce alcuni aspetti soltanto lambiti nella grande esposizione sul pittore napoletano tenuta nel 2000, riguardanti il seguito dell’artista, le influenze e i reciproci scambi di Paolo Finoglio con altri artisti a lui coevi quali Carlo Rosa e Cesare Fracanzano.

L’evento espositivo è curato dalla cooperativa conversanese Armida con il contributo scientifico di Giacomo Lanzillotta e Francesco Lofano i quali si avvalgono di altri studiosi nei saggi critici e nelle schede del catalogo pubblicato per i tipi di Congedo.

Interessanti sono le indagini stilistiche e iconografiche sulla volta e sulle pale d’altare della chiesa dei Santi Medici, non sfuggite in passato  all’acribia critica del compianto Michele D’Elia e di Pina Belli; lo studio della personalità del Maestro della Samaritana e dei seguaci di Paolo tra cui spicca un vero e proprio Alter ego del pittore.

L’alto profilo scientifico della mostra è testimoniato dall’esposizione di fonti d’archivio inedite del pittore particolarmente singolari e accattivanti, quali il commercio di seta  che potrebbe spiegare  la particolare abilità dell’artista nel dipingere preziosità seriche prendendo come modello per le sue composizioni i tessuti che arrivavano nel suo studio o la dote lasciata da Finoglio  alla figlia Beatrice.

Tra i dipinti esposti si segnalano le varie copie di Cristo e l’adultera di Paolo Finoglio,  l’inedita Consegna elle Chiavi a San Pietro ascrivibile alla mano del Maestro della Samaritana, oltre ad opere di Cesare Fracanzano e di Carlo Rosa.

La Maddalena in gloria del Lanfranco in San Pasquale a Taranto

 

di Nicola Fasano

La sacrestia della chiesa San Pasquale di Baylon di Taranto conserva numerosi dipinti di autori importanti quali Cesare e Francesco Fracanzano, Leonardo Antonio Olivieri e una tela attribuita a Luca Giordano. Con questo mio articolo voglio fare luce su un dipinto di alta qualità, sfuggito alla critica, raffigurante la “Maddalena in gloria”, ascrivibile ad uno dei più importanti artisti del Seicento, Giovanni Lanfranco.

Il pittore, esponente di primo piano della pittura seicentesca e della decorazione barocca, fu allievo di Agostino e Annibale Caracci e si ricorda come autore di importanti cicli pittorici nelle chiese di Roma e Napoli, oltre ai molti quadri conservati nei musei più importanti del mondo tra i quali il Louvre.

Tornando alla tela tarantina, la Maddalena è raffigurata mentre sale

Santo Stefano. Una tela di Antonio Verrio in Sant’Irene a Lecce

Alezio. S. Maria della Lizza, affresco di Santo Stefano 

di Nicola Fasano

Stefano, il cui nome di origine greca significa “corona”, è il protomartire della fede cristiana, vissuto in Palestina nel I secolo. Probabilmente ebraico di origine ellenica, fu il primo nominato di sette diaconi incaricati di curare la distribuzione quotidiana del cibo ai più bisognosi. Tra loro Stefano si distingueva per la profonda conoscenza delle scritture e per l’eloquenza. Queste doti furono causa del suo martirio. Durante il sinedrio di Gerusalemme, organo preposto all’emanazione delle leggi e alla gestione della giustizia, Stefano scatenò le ire dei membri, accusandoli nel suo discorso (Atti, 7, 2-56) di essere miscredenti e di avere ucciso il Messia, già  preannunciato dai Profeti. Conclusa la sua arringa, come riportano gli atti, il Santo esclamò : “Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”, ciò aizzò maggiormente gli astanti che trascinarono Stefano sul luogo del martirio per lapidarlo impietosamente fino ad ucciderlo. La  salma del Santo venne inumata da Gamailiele che, secondo la tradizione, rivelò in una apparizione il luogo preciso della sepoltura, scoperto nel 415, circa 400 anni dopo il martirio. Le reliquie di Stefano vennero distribuite in tutto il mondo cristiano, alimentando il culto in suo onore.

Il Santo, festeggiato il 26 dicembre in Occidente e il 27 in Oriente, viene ritenuto protettore dei  diaconi, dei muratori, dei frombolieri, è inoltre invocato contro l’emicrania e i calcoli  renali.

Dal punto di vista iconografico, il soggetto trova larga diffusione in Italia e in Francia nei secoli XV-XVII;[1] viene rappresentato come un giovane abbigliato con la dalmatica, spesso accompagnato da

Attribuita al Regolia una tela conservata nel Municipio di Taranto

 

 
di Nicola Fasano*

Taranto: città delle industrie, città dell’inquinamento, delle brutture, però anche città dei tesori nascosti che non trovano una piena fruibilità. E’ il caso di un dipinto seicentesco di notevole formato conservato negli uffici di Palazzo di Città raffigurante San Francesco che soccorre gli ammalati.

La tela faceva parte del sontuoso arredo di palazzo D’Ayala-Valva (già Marrese), e abbelliva il soffitto a cassettoni del salotto di rappresentanza. Con l’espropriazione del palazzo a favore del comune nel 1981, tutti i beni conservati nel palazzo sono diventati di proprietà comunale.

Il professor Galante dell’Università di Lecce, analizzando la suddetta tela, aveva attribuito l’opera al pittore napoletano Pacecco De Rosa; successivamente lo studioso Leone De Castris riconduceva il dipinto (giustamente, secondo il parere di chi scrive) al palermitano di formazione napoletana Michele Regolia autore di numerose tele nel vicereame. Educato presso la scuola tardo-manierista di Belisario Corenzio, l’autore del dipinto tarantino non è esente da influenze emiliane alla Domenichino.

Regolia si apre alle nuove istanze del naturalismo caravaggesco imperante a Napoli, nei due personaggi maschili in primo piano torniti da vigorosi effetti chiaroscurali.

All’estrema sinistra della composizione è raffigurato un personaggio in abiti nobiliari che volge lo sguardo allo spettatore, molto probabilmente il committente del dipinto, devoto di San Francesco; sulla destra una madre con il figlio cieco in braccio implora al Santo la grazia.

Il maestro palermitano era un autore caro ai francescani perché rispondente a determinati precetti, quali la devozione e la pacatezza nelle figure, la dottrinalità nelle immagini secondo i dettami rigorosi della controriforma. Caratteristica dell’artista siciliano è, inoltre, la raffigurazione di angeli dalle ampie ali che irrompono dall’alto o sospesi a mezz’aria.

Una Taranto che può quindi inserire il Regolia ad altre figure di spicco della cultura artistica napoletana del 6-700 quali i fratelli Fracanzano, Luca Giordano, Giaquinto e lo scultore Sanmartino.

Questo gioiello pittorico è stato fortunatamente sottratto all’incuria e al vandalismo che ha purtroppo svalorizzato il prestigioso palazzo di via Paisiello. Il restauro, curato dalla Soprintendenza, ha pulito la tela da pesanti ridipinture e ha portato alla luce gli squillanti colori delle vesti e l’atmosferico paesaggio collinare che si schiude tra le figure.

Un dipinto difficilmente fruibile, che andrebbe valorizzato maggiormente, con l’esposizione in qualche mostra, anche per capire i gusti di una committenza sopraffina quale era quella dei D’Ayala-Valva, i quali secondo lo studioso Farella, avrebbero acquisito la tela dal convento di San Francesco per collocarla nell’ottocentesco palazzo.

Un doveroso ringraziamento va alla dottoressa Danese e all’assessore Davide Nistri per la disponibilità dimostrata e per avere permesso le riprese fotografiche.

 

* Tutor diocesano dei beni culturali (Diocesi di Oria)

 

Pubblicato su CORRIERE DEL GIORNO Mercoledì 9 marzo 2011

L’amore dormiente, una tela nel Museo Archeologico di Taranto

Un’ ipotesi attributiva per “L’amore dormiente”

di Nicola Fasano

 

Il dipinto, oggetto del mio articolo, fa parte della collezione che il vescovo di Nardò, monsignor Ricciardi, donò al Museo Archeologico di Taranto[1] tramite un testamento olografo depositato nel 1907[2].

Il documento recita: “Tutti i quadri di qualche merito artistico sia esistenti nel Palazzo di Taranto, che all’Episcopio (di Nardò), voglio che siano depositati nel Museo pubblico di Taranto”.

Le tele in questione sono per la maggior parte opere di scuola napoletana del XVII e XVIII secolo, tra le quali trova spazio il nostro dipinto, raffigurante  “L’amore dormiente”.

L’opera in questione è una teletta (57 x 39) che tradizionalmente viene attribuita alla scuola Andrea Vaccaro; essa trova spazio in un saggio del  Galante[3] che, senza il conforto della fotografia, cita

La Maddalena in gloria del Lanfranco in San Pasquale a Taranto

 

Un inedito di Lanfranco

 

di Nicola Fasano

La sacrestia della chiesa San Pasquale di Bylon di Taranto conserva numerosi dipinti di autori importanti quali Cesare e Francesco Fracanzano, Leonardo Antonio Olivieri e una tela attribuita a Luca Giordano. Con questo mio articolo voglio fare luce su un dipinto di alta qualità, sfuggito alla critica, raffigurante la “Maddalena in gloria”, ascrivibile ad uno dei più importanti artisti del Seicento, Giovanni Lanfranco.

Il pittore, esponente di primo piano della pittura seicentesca e della decorazione barocca, fu allievo di Agostino e Annibale Caracci e si ricorda come autore di importanti cicli pittorici nelle chiese di Roma e Napoli, oltre ai molti quadri conservati nei musei più importanti del mondo tra i quali il Louvre.

Tornando alla tela tarantina, la Maddalena è raffigurata mentre sale in cielo sorretta da un gruppo di cherubini, uno di essi sembra mostrare compiaciuto allo spettatore il vaso contenente l’unguento che servì alla Penitente per profumare i piedi del Cristo.

L’iconografia è ricorrente nell’età barocca dove il soggetto viene rappresentato ignudo e coperto da fluenti capelli, adagiato su un banco di nubi come una Venere.

Dal punto di vista compositivo, il pittore si avvale di un luminosità rivelatrice, svelando nella parte bassa accesi contrasti chiaroscurali che esaltano il vigoroso incarnato dei putti e nella parte alta una luce abbagliante di provenienza ultraterrena, che staglia la Maddalena su un fondo dorato e dà risalto all’estasi della figura e alla forte carica spirituale, preludendo al clima esaltante del barocco.

Il dipinto si può mettere in relazione con una tela similare di analogo soggetto, esposta nella mostra sul pittore parmense tenuta a Napoli nel 2002, tela che si trovava a Genova in collezione privata, ed ora sul mercato antiquariale (AA.VV. Giovanni Lanfranco, Barocco in luce, Napoli 2001 p. 43) .

La tela in San Pasquale potrebbe provenire dalla ricca quadreria di casa Carducci che annoverava probabilmente l’apostolado dei Fracanzano, conservato ora nella stessa sacrestia. Solo degli approfonditi riscontri archivistici darebbero, però, la definitiva certezza sulla provenienza del quadro.

L’influenza di Giovanni Lanfranco a Taranto si riscontra anche in altre opere, come nel celebre affresco di Paolo De Matteis nel cappellone di San Cataldo, che nella disposizione dei personaggi e nel bagliore dorato richiama il Paradiso che Lanfranco aveva affrescato a Napoli nella Cappella del Tesoro.

Taranto si fregia così di un artista di primissimo piano della poetica barocca, nella speranza di un risveglio culturale e di una consapevolezza dei nostri tesori, spesso celati e poco fruibili.

Breve rassegna delle opere e autori esposti nella mostra leccese "Echi caravaggeschi in Puglia"

di Nicola Fasano

La mostra inaugurata il 6 dicembre, si inserisce nel contesto delle numerose celebrazioni per il 400° anniversario della morte di Michelangelo Merisi.

La Puglia non ha voluto essere da meno e Lecce in particolare, che aveva già ospitato una mini-esposizione sull’enigma dei due San Francesco, si rivela città sensibile ed attenta alle iniziative culturali.

Quando parliamo di “Echi caravaggeschi in Puglia”, dobbiamo ripercorrere brevemente le tappe del “secolo d’oro” della pittura napoletana che corrisponde al “600”: Napoli aveva visto all’opera un Caravaggio fuggiasco che in due distinti periodi, nel 1606 e nel 1609, rivoluzionò la pittura del regno vicereale ancorata al tardo-manierismo di tipo devozionale del Borghese, del Curia, del Pino etc.

Nel 1606, il pittore lombardo con le “Sette Opere di Misericordia” in Pio Monte della Misericordia getterà i semi per quella che sarà considerata la scuola napoletana. L’opera pagata la sbalorditiva somma di 400 ducati[1], fornirà un modello di riferimento sulla quale si eserciteranno artisti del primo naturalismo napoletano quali Battistello, Vitale, Sellitto e Finoglio.

La dirompente forza del Merisi, continuerà indisturbata a Napoli fino al 1640, quando in altri centri quali Roma si era ormai sopita[2].

In Puglia la presenza caravaggesca maturerà con i suoi seguaci, attraverso le opere commissionate in prevalenza da un’aggiornata aristocrazia feudale, dagli alti prelati che avevano contatti con la capitale  partenopea e dagli ordini religiosi. Proprio due esponenti dell’aristocrazia quali il marchese di Polignano Radolovich (Radulovich) ricco commerciante e il marchese di Taviano, Tommaso De Franchis commissionarono al Merisi due importanti opere: “la Madonna del Rosario” di Vienna e la “Flagellazione di Cristo” di Capodimonte (già in S. Domenico a Napoli).

Tralasciando la seconda opera, la prima, proprio in occasione di questa mostra, è stata riconosciuta nella Madonna del Rosario conservata al

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!