MEMINI ERGO SUM. Percorsi della memoria nella pittura di Nicola Cesari

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di Giuseppe Magnolo

Nicola Cesari è magliese di nascita, e tale è rimasto per elezione. Un elemento che ha agito profondamente sulla natura e i contenuti espressi dalla sua arte è il forte radicamento alla terra di origine, tale da produrre effetti identitari avvertiti e difesi con estrema tenacia.

Per effetto di tale scelta egli ha costantemente mantenuto una finestra ben spalancata su qualsiasi fatto o evento artistico-culturale che emergesse dalla realtà territoriale, vivendo ed instancabilmente alimentando un rapporto di stretta osmosi, consapevole di quale prezioso contributo l’arte e la cultura possano offrire per promuovere il dialogo e il confronto su argomenti che possono accomunare anche nella divergenza di opinioni. Sotto questo aspetto egli ha ricondotto i dati della sua personale osservazione documentale entro ambiti comunali e cittadini, con proposte operative interessanti, mirate alla valorizzazione e salvaguardia del patrimonio artistico individuabile nei luoghi che tradizionalmente ne sono i depositari.

Al tempo stesso egli ha sempre mirato a circuitarsi anche in ambito nazionale ed extranazionale. Sue esposizioni sono state allestite in importanti città dove la proposta artistica è organizzata mediante modalità che consentono una adeguata possibilità di conoscenza del fatto e del prodotto artistico. La propensione a spaziare oltre la dimensione localistica è attribuibile in Cesari ad una ferma convinzione che il linguaggio dell’arte possa veramente assumere valenza universale, e che i contenuti da essa espressi, pur con diversi linguaggi formalizzati, riescano assolutamente identici dal punto di vista figurativo. In maniera discreta ma costante, egli è giunto a rappresentare un riferimento per molti artisti ed intellettuali esordienti, che apprezzano il suo approccio promozionale, capace di stimolare le loro doti di sensibilità ed efficacia figurativa, valorizzando anche stili e contenuti diversi dai propri, nel presupposto che l’essenza dell’arte sia soprattutto il continuo interrogarsi sulla vita e le sue implicazioni.

Di recente ho potuto visitare il suo studio-atelier e mi ha colpito il fatto che egli abbia scelto di collocarlo tra le mura dell’antica casa paterna, il luogo originario della famiglia, in cui con lo scorrere del tempo tutto parla del passato che non esiste, tranne nella memoria e in ciò che lo richiama. E’ come se per Cesari la creazione artistica per realizzarsi postulasse il bisogno di regredire nel tempo, ritrovando tutti gli stimoli connessi all’infanzia e all’adolescenza. Si tratta di rievocazioni indotte da elementi di forte incidenza sul vissuto di un tempo: il cortile di accesso defilato alla vista, pochi strumenti connessi all’attività dell’opificio paterno, il nero metallico della cucina a legna profilato contro il biancore dell’ambiente, il panorama d’affaccio del piano rialzato che contempla uno squarcio di cielo e qualche spiazzo circostante.

Lo spunto iniziale da cui nasce qualunque fase compositiva nell’esperienza artistica di Cesari è uno stato di insofferenza rispetto alla ovvietà del quotidiano, un pressante stimolo a considerare la suggestione dell’arte come una sfida, un tentativo di penetrare nel vissuto sia soggettivo che superindividuale, incidendo su di esso in modo autenticamente dirompente. Lo sviluppo del processo creativo esita quindi verso un effetto di essenzializzazione, secondo un metodo di reductio ad unum in cui la visione prospettica elude qualunque sincretismo figurativo per addivenire ad una sintesi estrema.

Da questi presupposti sono nati nell’artista l’espressione informale e l’uso sistemico di una sua personale simbologia di riferimento, ma anche il rigetto aprioristico della fisicità totalizzante della percezione. Un esempio significativo di questo aspetto può essere individuato nell’ampia serie di dipinti che presentano forme geometriche, nei quali spesso la sfera, intesa come espressione di ordine e simmetria, viene collocata su un piano inclinato che non può dare né appiglio né certezza di permanenza, oppure in uno stato di sospensione nel vuoto, oppure ancora in contrasto con un’altra sfera e in condizione di equilibrio assolutamente precario.

Altrettanto si può osservare circa l’uso strumentale del paesaggio, che in molte delle sue tele (specie nella fase avanzata del suo percorso artistico) non presenta dei chiari connotati identificativi, ma diventa soltanto profilo, linea di confine rispetto a ciò che lo sovrasta, come una demarcazione rispetto all’ambito della trascendenza, del pensiero puro, della condizione visionaria.

E’ evidente che per Cesari l’opera è concepita al fine di generare nell’osservatore un processo epifanico di reazione a catena, che intacca il vissuto individuale e collettivo. Per conseguire tale scopo, occorre produrre una sorta di abluzione della coscienza, un effetto catartico che non è più strettamente connesso con il dipinto, ma ne costituisce quasi una risultanza collaterale. E’ ciò che l’autore intende nell’affermare la sua intenzione di “gettare la catarsi fuori dall’opera d’arte”, comprendendo in ciò tanto il rifiuto di perseguire qualunque fine espressamente moralistico attraverso l’arte, quanto la possibile limitazione al solo dato visivo che escluda gli effetti suindicati.

Una sollecitazione in questo senso viene offerta attraverso espedienti diversi, ad esempio l’utilizzo di un’immagine ridotta e inclinata rispetto alla superficie totale della tela che la racchiude, quello che si può definire “effetto cartolina”, tendente a presentare il soggetto come parte inserita in un contenitore più ampio, con una tecnica rivolta a creare un senso di relativismo prospettico.

Una forma espressiva particolare è quella adoperata da Cesari per rendere figurativamente la terza dimensione attraverso l’uso di superfici aggettanti, che danno una connotazione spaziale con effetto dinamico. Si noti nell’opera intitolata “Omaggio a Pino Pascali”1, definita una pitto-scultura, come la contaminazione fra le due forme espressive risponda all’intento di conferire alla figura tutta la tragica forza devastante connessa all’evento che ha causato la scomparsa del giovane artista. L’autore utilizza solo il margine inferiore dell’opera per accennare il profilo del manubrio di una moto con il volto dell’artista riflesso come in uno specchio retrovisore, mentre al centro egli crea un effetto che evoca una prorompente forza d’urto a cui il soggetto rappresentato (e di conseguenza anche l’osservatore) si trova fatalmente esposto, e che produrrà lo schianto mortale. E’ veramente intensa ed artisticamente originale la sensazione di ineludibile impatto espressa dall’opera.

Un differente elemento caratterizzante in altri dipinti è invece costituito dalla problematicità della connessione tra i diversi elementi compositivi, spesso ridotta a puro strascico disperso tra le masse. Si pensi alle immagini lunari, con tutto il potere di suggestione prodotto dal satellite con la sua scia luminosa velatamente riflessa in uno specchio d’acqua e poi ascendente a mo’ di frammenti meteorici, quasi un sentiero vago e indistinto per raggiungere nella luna il proprio sogno e la condizione onirica. Analogamente la geometricità delle figure presenti in altri dipinti può rimandare ad un “effetto aquilone”, l’aspirazione a recuperare una immaginaria possibilità di volare, elevandosi al disopra della condizione materiale come avviene nella fase dell’infanzia.

Questo bisogno profondo di ritorno all’adolescenza acquista una dimensione quasi mitica, prospettata come rifugio di innocenza rispetto allo scorrere del tempo che espone l’essere adulto al contatto con il male e il negativo. Per questo l’arte di Cesari talvolta diventa ricerca e manifestazione dell’oggetto-simbolo, in grado di creare quasi un circuito di colleganza con il passato. Ecco l’essenza di un’opera tra le più care all’artista, raffigurante l’iscrizione “Gassosa Cesari”, quella posta sul tappo di chiusura delle bottiglie di tale bevanda che un tempo la piccola fabbrica paterna produceva in quegli stessi ambienti dove egli adesso produce e custodisce i suoi quadri. E’ evidente che non si tratta di manierismo sulla scia di Andy Warhol, ma di un sincero tentativo di recuperare il passato e riconsegnarlo alla memoria.

Sul piano della tecnica espressiva, un aspetto importante nei dipinti di Cesari è costituito da una significativa evoluzione nell’uso del colore, che da una valenza funzionale rispetto alle figureè passato ad avere un ruolo prevalente, nel senso di aspirare a rappresentare di per sé lo stato d’animo o l’emozione generata da una esperienza rilevante. Si pensi alla suggestione di intensa passionalità insita in un rosso dominante, oppure di distaccata contemplatività attribuibile all’azzurro, con le zone intermedie che travalicano dall’uno all’altro. E’ una implicazione che passa anche attraverso l’effetto caldo-freddo fisicamente avvertito grazie all’uso di una diversa gamma di colori che, nelle fasi più esclusive, presentano delle campiture contrapposte.

Da questo studio del colore scaturisce il fascino profondamente avvertito per il bianco, che talvolta permea intere superfici o addirittura le ricopre a mo’ di velo o di sudario, con richiami tanto al candore dell’innocenza, quanto all’idea della morte (il biancore delle ossa, ultimi resti mortali) con tutte le sue implicazioni. In alcuni dipinti si rinvengono anche tracce di figure preesistenti sulla tela poi ricoperte dal bianco pressoché totalmente, con effetti simili alla dissolvenza usata con una telecamera per evitare un’improvvisa interruzione dell’immagine.

L’utilizzo del bianco, oltre alla potenziale inclusività connessa al fatto che esso comprende tutta la gamma dei colori che potrebbero per scomposizione essere ricavati, rappresenta anche un preciso riferimento al carattere di elusiva ambiguità proprio dell’esistenza. Ed è proprio questo, secondo Cesari, il principale motivo per cui l’arte è destinata sicuramente a sopravvivere nel tempo, avendo sempre e comunque qualcosa di nuovo e diversoda dire per rispecchiare contenuti di esperienza che sono costantemente in fieri. Purché non si rinunci a coglierne le antichi radici.

 

1 Pino Pascali, artista assai versatile e poliedrico originario di Polignano a Mare, morì ancor giovane per incidente a Roma nel 1968 mentre era alla guida di una grossa moto.

La dimensione metafisica nella pittura di Nicola Cesari

di Giuseppe Magnolo

Nicola Cesari è venuto a mancare in modo improvviso nel luglio 2010. La scomparsa di persone che contano nella sfera del nostro vissuto lascia sempre un senso di vuoto, ma al tempo stesso esalta nel ricordo le varie impressioni e sollecitazioni che hanno costellato i momenti di contatto. Nasce anche il bisogno di ripensare giudizi e valutazioni già espressi (vedi il saggio apparso ne Il Filo di Aracne di febbraio 2010 con il titolo “Memini ergo sum: Percorsi della memoria nella pittura di Nicola Cesari”), al fine di individuare aspetti rilevanti che siano sfuggiti per le diverse circostanze di stesura e di pubblicazione.

Abbiamo già evidenziato come l’espressione artistica di Cesari sia sempre da considerare come un tentativo di astrazione dal vissuto mediante una sintesi estrema generata da uno stato concettuale o emotivo innestato sull’esperienza propria ed altrui, filtrato dalla memoria, e riattivato per associazione mentale con i contenuti rappresentati. Tratti peculiari collaterali sono stati individuati nella cura e l’eleganza formale espresse con esattezza geometrica allusivamente simbolica, nella tesorizzazione del mito dell’infanzia che consente di raggiungere uno stato di grazia visionaria, ed infine il tentativo di ricondurre uno stato emozionale a puro effetto cromatico mediante l’uso sapiente del colore.

Dagli elementi definitori suddetti esula tuttavia un requisito importante al fine di pervenire ad una più comprensiva valutazione del modo in cui Cesari concepiva le diverse fasi della realizzazione artistica e le correlazioni tematiche che egli elaborava ed esprimeva sul piano figurativo. Tale aspetto attiene ad una componente di natura metafisica sicuramente presente in alcune opere (anche se in maniera non sempre palese e agevolmente decifrabile), su cui riteniamo utile svolgere alcune riflessioni.

Riguardo al problema religioso Cesari non gradiva in genere dimostrarsi particolarmente coinvolto, preferendo invece ritenersi uno spirito libero, curioso e tollerante verso comportamenti e principi etici anche diversi dai propri, poco propenso ad accettare i vincoli imposti dall’adesione ad una qualunque forma di ortodossia. Egli considerava una prospettiva di tipo laico più consona sia al suo stile di vita che ai suoi orizzonti culturali, ritenendo che potesselasciargli più ampi spazi di conoscenza, confronto e arricchimento.Inoltre il suo senso di ritrosia, proprio di chi conosce la complessità delle proprie pulsioni, lo induceva a non adagiare il suo bisogno di religiosità su una prospettiva acquiescente. E’ quindi naturale che la sua ricerca di spiritualità e trascendenza percorresse altri sentieri, quelli appunto attinenti all’ambito aristico-espressivo. Su questa linea di interpretazione possiamo meglio intendere alcuni elementi apparentemente marginali presenti in molte sue opere, ma certamente non irrilevanti o dovuti al caso.

Procedendo per categorie di riferimento, si possono rinvenire varie evidenze a sostegno della tesi proposta, traendo spunto da alcune opere che appartengono ad una fase relativamente recente della sua vastissima produzione.

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Figura 1

Possiamo innanzitutto individuare un richiamo simbolico di carattere architettonico nelle forme iconiche che spesso nei suoi dipinti racchiudono i soggetti rappresentati. Si tratta ad esempio di archi acuti che possono suggerire la sommità di una cupola (vedi figura 1), e quindi evocare la sacralità di un tempio, oppure forme ad ogiva (semplici, doppie, e anche triple) assimilabili al profilo di finestre presenti nelle cattedrali in stile gotico, attraverso cui possiamo cogliere la suggestione di accesso ad un luogo arcano o che rinvia ad una condizione interna di reclusione indotta dal trasporto mistico (vedi figura 2).

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Figura 2

In altre opere è possibile trovare diversi riferimenti di tipo architettonico, come ad esempio una sezione della volta di una cattedrale nella zona in cui il transetto interseca la navata centrale, oppure un “effetto campanile” generato dallo sciame luminescente prodotto dal riflesso lunare su una superficie riflettente, che poi si innalza nella volta celeste assottigliandosi quasi come la guglia svettante di una struttura architettonica esile e slanciata.

In una ipotesi interpretativa di tipo metafisico, è opportuno anche riconsiderare la funzione di alcune forme di carattere geometrico, in particolare la raffigurazione di una sfera, generalmente disposta in posizione piuttosto centralizzata rispetto all’articolazione complessiva della composizione. Di primo impulso questo elemento potrebbe ritenersi semplicemente riferibile alla visione orfico-pitagorica di figura geometrica che rappresenta la perfezione mediante l’isometria della distanza tra il centro e qualsiasi punto della circonferenza, mentre il movimento circolare lungo la stessa raffigura la visione deterministica dell’eterno ritorno, in cui ogni punto rappresenta contemporaneamente sia l’inizio che la fine. Ma Cesari non si ferma a questa concezione pagana o puramente laica, e crea ulteriori implicazioni. Come possiamo vedere nella figura 3, egli non solo replica su ciascun lato l’immagine della sfera (l’idea della Trinità Divina), ma sovrappone ad essa le bianche ali di una colomba (simbolo dello Spirito Santo), caricando l’opera di valenza superiore connaturata al senso del divino.

 

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Figura 3

Vi è poi un elemento di ulteriore rinvio all’idea di sacralità inerente al modo di intendere la fruizione dell’opera d’arte. Si può infatti notare che alcuni particolari dipinti di Cesari sono realizzati su legno con una tecnica che richiama una pala d’altare, elemento già sufficiente ad evocare la prospettiva religiosa suindicata. Ma ancor di più questo aspetto viene accentuato dal gesto quasi rituale richiesto per poter osservare l’opera, quando questa arriva ad assumere la forma di un polittico, come appunto avviene nel dipinto considerato. Inizialmente questo non si presenta visibile, perché celato dalle tavole laterali incernierate e richiuse a mo’ di ante. Occorre quindi che l’artista stesso, o qualcuno al suo posto, compia il gesto arcano di aprire le imposte di questa finestra per svelare l’immagine che essa nasconde. Necessariamente tanto l’esibizione quanto l’osservazione del dipinto avverrà con la stessa rituale solennità con cui un ministro di culto apre il piccolo uscio di un tabernacolo per esibire il calice con la preziosa reliquia ivi contenuta. Risulta quindi chiaro che l’artista ha intenzionalmente cercato un effetto che attribuisce un significato esoterico non solo al proprio gesto che permette la realizzazione di una sorta di rituale di iniziazione o professione di fede, ma soprattutto a ciò che attraverso il dipinto si offre alla visione dell’osservatore.

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Figura 4

Per altro verso possiamo trarre indicazioni che rinviano al senso del divino mediante alcuni dipinti che raffigurano degli oggetti-simbolo. Una di tali immagini è riportata nella figura n. 4, che può apparire come una semplice litografia, ossia dei segni grafici prodotti su una lastra di pietra, ma potrebbe anche alludere alla sacralità di quanto è in essa riportato, alla stessa maniera in cui vanno considerate le “Tavole della Legge” incise col fuoco sulla pietra, che Mosè ricevette sul Monte Sinai come canone su cui si fonda il corretto agire umano.

Un’altra significativa immagine-documento si può osservare in una pitto-scultura (riportata in figura 5), che presenta longitudinalmente una traccia luminosa di un certo spessore contro uno sfondo scuro. L’ipotesi più immediata è che essa raffiguri un libro chiuso osservato dal lato opposto al dorso, che non reca titolo o autore, e che è pronto per essere sfogliato da chi intendesse consultarlo ed interpretarlo. Ma perché non pensare attraverso questa immagine al “libro dei libri”, il più arcano ed importante che sia mai stato scritto, quello ispirato direttamente da Dio, su cui si può leggere quel che è stato e quello che sarà, il destino di ogni uomo, dell’universo, di Cristo stesso?

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Figura 5

Passando invece a considerare la tecnica figurativa incentrata sul colore e gli effetti cromatici con esso ottenibili, possiamo trovare altri riferimenti di natura biblica, come nel dipinto della figura 6, in cui sembra che l’artista abbia voluto raffigurare l’alba della creazione (Genesi, 1:2), allorché la materia era ancora informe e la luce era indistinguibile dalle tenebre.

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Figura 6

Oppure per contrasto possiamo vedere in figura 7 una resa cromatica successiva all’atto della creazione, in cui la luce e tutti gli elementi naturali manifestano il conseguimento di una giusta collocazione in un ordine universale perfetto, l’espressione di una visione teleologica dell’autore, che produce un effetto di tripudio luminoso attraverso un fitto ammiccamento di colori, e rinvia ad una concezione panica della realtà, in cui un senso di divina armonia sembra penetrare ogni singolo filo d’erba con effetti cromatici insieme esplosivi e rasserenanti.

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Figura 7

L’ipotesi interpretativa che abbiamo illustrato intende affiancarsi ad altri criteri di lettura senza pretendere di superarli o ridimensionarli, cercando di accrescere l’ampiezza e profondità di percezione e comprensione dell’opera d’arte. Lo scopo precipuo di qualunque studioso che analizza l’espressione artistica di un autore non può che consistere nel tentativo di contribuire ad agevolarne la comprensione, suggerendo con chiarezza i diversi livelli di interpretazione che ritiene possibili, e considerandoli come fondamento per ulteriori sviluppi. Questo si rende tanto più necessario con riferimento alla vasta produzione artistica di Cesari, spesso contraddistinta da elementi innovativi sia sul piano tematico che nella tecnica esecutiva.

Riteniamo comunque che si possa convenire sulla validità assoluta del “principio di inclusività”, nel senso di non escludere a priori un qualsiasi criterio interpretativo unicamente per ragioni di tipo preferenziale o meramente soggettivo. La plausibilità di una linea di interpretazione anche in chiave metafisica ci viene offerta dallo stesso autore, che nell’esporre i canoni fondamentali del suo modo di intendere l’espressione artistica ha più volte evidenziato la convinzione che non possono esistere percezioni ed interpretazioni univoche di un’opera d’arte, in quanto qualunque osservatore recepisce il prodotto artistico vedendolo con occhi diversi a seconda degli elementi che egli riesce ad attivare nell’atto di percezione. Tale diversità di requisiti è riferita non solo a quelli senso-percettivi, ma anche e soprattutto a quelli di ordine concettuale, legati al grado individuale di conoscenza, informazione, capacità di associazione attraverso la memoria, e via dicendo. Cesari affermava infatti:”Ciascun individuo vede lo stesso soggetto in modo diverso, e la sua capacità di percezione ed interpretazione è basata prevalentemente su quello che ricorda”.Nel sottolineare ancora una volta la funzione essenziale della memoria nella comprensione dell’opera d’arte, egli postulava anche una conseguente differenziazione circa i significati molteplici che essa può contenere e trasmettere.

Vi è infine una ulteriore riflessione che nella fattispecie ci sembra possa concedere spazio all’attribuzione di una capacità di visione mistico-religiosa in un’ottica individuale ma con effetti a volte diffusivi e condivisibili. Al fine di sostanziare tale convinzione trarremo spunto dalla massima di Terenzio “homo sum: nihil humani a me alienum puto”: sono un uomo, quindi tutto ciò che è umano mi appartiene. E’ ovvio che ciascun individuo impersona una concezione di humanitas con modalità diverse, e quella di Cesari rivelava insieme grande desiderio di conoscenza e afflato partecipativo, poi ricomposti in esiti di lucida sintesi in cui è sicuramente possibile cogliere un anelito di spiritualità, espresso oppure sottinteso. E dunque non avrebbe davvero senso limitare la ricchezza di suggestioni, idee ed emozioni, che con tanta dedizione la sua ricerca artistica ha saputo offrirci. Le sue opere ci consegnano un’eredità preziosa che possiamo riscoprire, a condizione di considerarle non nell’ottica fugace della contingenza, ma in quella più pacata e ponderata del tempo assoluto.

 

NdR: Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per la concessione

 

Per la luna… Il connubio Pippi Cesari-Nicola Greco

di Paolo Vincenti

“Che fai tu Luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa Luna?”:  questi versi immortali di Giacomo Leopardi ci fanno entrare nella suggestione che da sempre “l’astro della sera”, la vagante Luna, suscita negli uomini al suo apparire. Dalla notte dei tempi, Selene, che nella mitologia greca era figlia di Iperione e Teia e sorella di Helios (il sole splendente) e Eos ( la delicata Aurora),  ispira i poeti e gli scrittori in un lungo canto d’amore.

Da Saffo (“Tramontata è la luna e le Pleiadi a mezzo della notte..”) a D’Annunzio (“O falce di luna calante che brilli su l’acque deserte, o falce d’argento, qual mèsse di sogni ondeggia a ‘l tuo mite chiarore qua giù!”), da Omero a Pablo Neruda (“Tra i pini scuri si srotola il vento. Brilla fosforescente la luna su acque erranti. Passano giorni uguali, inseguendosi l’un l’altro..”), da Pascoli (“Dov’era la luna? ché il cielo  notava in un’alba di perla,  ed ergersi il mandorlo e il melo  parevano a meglio vederla.”) a Tagore (“Calma, calma questo cuore agitato, tu, notte tranquilla di luna piena”), tanti hanno cantato questa divinità notturna, raffigurata nell’antica Grecia come una bella fanciulla (assimilata a volte ad Artemide o ad Ecate) dal pallido viso e dalle lunghe e morbide vesti bianche, recante sulla testa una falce di luna crescente ed in mano una torcia.

Da sempre, questa madre notturna, descritta e cantata da Esiodo e da Carducci, da Strabone e Pausania e da Nonno di Panopoli fino a Baudelaire,  è stata al centro delle nostre riflessioni ed ispirazioni, nei suoi tanti epiteti (sorella luna, vergine notturna, luce del bosco, guardiana della notte…). E la rotonda luna, la mutevole luna, è stata anche la protagonista di tanti incontri culturali a tema e performance poetiche in Italia e, per venire a noi, nel nostro Salento. Una di queste bellissime occasioni si realizzò nel marzo del 2004 a Maglie quando, presso la Libreria Einaudi diretta da Giuliana Coppola, si tenne una serata intitolata “ La luna nella poesia di Giuseppe Greco e nell’immagine pittorica di Nicola Cesari”. In quell’occasione, i versi di Pippi Greco, poeta parabitano molto conosciuto in Salento ed apprezzato, raccontavano le immagini di Nicola Cesari, pittore magliese e critico d’arte, “in un incontro di sillabe e colori”, come  recitava il comunicato stampa. E già il cartoncino di presentazione della serata era tutto un programma, e proprio in quell’occasione Giuseppe Greco inaugurò quella sua particolare forma artistica di promozione poetica che consiste nel distribuire a tutti piccoli quadretti delle sue poesie, a mo’ di santini, arricchiti dai suoi schizzi. Su quel cartoncino del lontano 2004, ormai  rarità per bibliofili, vi erano, insieme alle informazioni sulla serata, dei versi di Greco ed un dipinto di Cesari.

“L’immagine è sola” scriveva ancora Giuliana Coppola nel comunicato stampa, “la sostiene il sogno-metafora che nessuno può impedire di chiedere la luna, anche se la realtà è ben diversa”. Fu di sicuro successo quel connubio fra i versi di Greco e le immagini di Cesari, entrambi dedicati alla luna, come metafora dell’eterna ricerca, la ricerca che è  nella produzione dei due artisti salentini.  Giuseppe Greco, Pippi per gli amici, scrive da sempre poesie,  presenti su tante riviste e fogli sparsi ma è anche pittore,  ed ha pubblicato Traìni te maravije  misteri te culori te tanti jaggi  poisie, una “raccolta d’opere di segni-colori-parole, tecnica mista”, con Prefazione di Donato Valli e traduzione in lingua italiana di Giuliana Coppola (Tipolitografia Martignano, Parabita 2008).

Molti studiosi  hanno scritto di Greco, che ha partecipato a numerosissimi premi di poesia in tutta Italia, vincendone anche parecchi. Giuseppe Greco, che in un lontano passato, con gusto spagnoleggiante, come pittore si faceva chiamare Josè Amaz, ha insegnato  per 35 anni “Teoria e Applicazioni di Geometria Descrittiva e Rilievo Architettonico” presso l’Istituto Statale “Giannelli” di Parabita, quella Parabita alla devozione della cui protettrice, la Madonna della Coltura, Greco è da sempre fortemente attaccato, come confermano anche alcune sue opere pittoriche, per esempio una installazione artistica di grandissime dimensioni in cui è raffigurata la Madonna parabitana e che accompagna in maggio i festeggiamenti in onore della patrona degli agricoltori.

Nella sua poesia, a volte partendo da una “poetica degli oggetti”, di matrice quasi realistica, rafforzata anche dall’uso della “lingua de lu tata”, Greco passa ad inserire oggetti e situazioni comuni in una atmosfera rarefatta, quasi onirica, attraverso delle immagini evocative che ci fanno viaggiare, come sui suoi “carretti di meraviglie”, nel tempo e nello spazio . E  questo, conservando sempre una naturalezza del parlato e una estrema  semplicità delle situazioni descritte, che prendono a pretesto contesti antropologici minimi, e che suscitano nel lettore quasi un senso di nostalgia nei confronti di quell’ambiente umile e spartano e di quel tempo passato certamente meno avaro di valori e di solidarietà fra consimili.

Alcune sue  liriche creano una sincera commozione all’ascolto, a conferma del suo successo. Nicola Cesari, nato a Maglie nel 1940, ricordato anche sul penultimo numero di “Meridiano 18” (settembre 2011) da un bellissimo servizio a cura del figlio Massimiliano, era un pittore ma anche un critico d’arte. Diplomato all’Istituto d’Arte “G. Pellegrino” di Lecce, dal 1960 al 1998 aveva insegnato discipline artistiche e storia dell’arte negli istituti di istruzione superiore, in particolare, per oltre venticinque anni presso il Liceo Sperimentale “F. Capece” di Maglie.

Come pittore era un infaticabile sperimentatore; una ricerca continua, la sua, che non si è mai interrotta fino alla sua morte, avvenuta nel 2010. Numerosi i riconoscimenti ottenuti e le mostre realizzate in Italia e all’estero, come, ad esempio, Astratto Cosmico, Segni e Colori, il Segno dell’eros, All’amico Egon Schiele, I luoghi e la memoria, Aquilonia, Onirica, E’ una povera storia, Se riesci a volare vedrai tutto azzurro. Sue opere si trovano in numerose collezioni pubbliche e private e significative le testimonianze critiche riguardanti la sua produzione artistica.  “Informale” è la definizione più usata dalla critica specializzata per la sua pittura, che comunque coniugava perfettamente l’astrattismo con il legame forte, tenace, ancestrale, della memoria. Come non riconoscere, infatti, nei colori forti e brillanti delle sue tele, alcuni scorci dei nostri paesaggi salentini, i muri, le pietre, le case, un menhir svettante al cielo, il rosso del nostro sole, che solo un sole del sud può avere, il blu e l’azzurro del nostro cielo salentino, così fortemente nostro, così fortemente salentino. A conferma di questo attaccamento viscerale alla nostra terra, l’allestimento del Museo della Tradizioni Popolari di Giuggianello, a  sua cura, nel 2010, che è poi l’ultima sua realizzazione prima della dipartita, come ci ricorda il figlio Massimiliano, nell’articolo prima ricordato. Ha collaborato a giornali e riviste quali: Realtà Salentina, Tempo d”Oggi, Nuovo Spazio, Pensionante de’ Saraceni, Titivillus. La pittura di Nicola Cesari si sposava felicemente con la poesia di Pippi Greco.  Chi c’era quella sera a Maglie la ricorda come una bellissima serata in cui l’incontro dei colori di Cesari e dei versi di Greco creò  un’alchimia difficilmente ricreabile. Non sappiamo se la luna, a cui la serata era dedicata, sorridesse sorniona dall’alto del cielo sulla libreria Einaudi. E’ sicuro,ce lo testimoniano alcuni presenti a quella serata, che fu per la città di Maglie un piccolo evento “memorabile” che a noi, in questa occasione, è piaciuto “rimemorare”.

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