La chiesa di S. Michele Arcangelo a Neviano

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, prospetto (ph. F. Suppressa)

 

di Fabrizio Suppressa[1]

L’attuale chiesa matrice intitolata a San Michele Arcangelo fu edificata ab imis fundamentis tra gli anni 1859-1875 in sostituzione dell’antico sacello cinquecentesco costruito, secondo alcune fonti, per volontà del barone Gio. Lorenzo Brayda con il concorso di tutta la popolazione[2].

La volontà della comunità di ingrandire la parrocchiale si attesta già nel 1730, laddove in un documento di “introiti ed esiti” redatto dalla locale Universitas è annotata la voce di 140 ducati riscossi “da sindaci passati pertinenti i medesimi per rifare e ingrandire la Chiesa Madre”[3]. Comunità che, stante il desiderio d’ampliamento, non rinunciava tuttavia ad ornare il tempio, dacché nello stesso documento è registrata la spesa di 50 ducati “per la statua di S. Michele Arcangelo Protettore, fatta venire da Napoli” e 12 ducati per “due fonti di marmo”, provenienti sempre dalla capitale partenopea[4], i quali par di riconoscere in quelli ancora esistenti nell’ingresso laterale dell’attuale parrocchiale.

In ogni caso, le esigue risorse della collettività furono da sempre un problema rilevante per i fedeli, dato che qualche anno prima, durante la visita pastorale di mons. Sanfelice del 1719, il sindaco in carica dovette scusarsi col presule per l’irrisoria offerta di “sei scudi” a motivo della “povertà delle casse comunali”[5].

Simile ristrettezza si riscontrava anche nelle casse della parrocchiale e del locale Capitolo, dato che nel Catasto Onciario del 1743 sono annotati per entrambi i soggetti giuridici la dicitura che le “uscite superano le entrate”.

Le esosità baronali furono per la popolazione un pesante fardello per lo sviluppo del casale, ma con l’abolizione della feudalità decretata tra il 1806 e il 1808 da Giuseppe Bonaparte, re di Napoli, tutte le giurisdizioni baronali e le relative proventi passarono alla sovranità nazionale. Fu istituita una magistratura particolare, la Commissione Feudale, per dirimere il contezioso tra i baroni e le università (comuni). Infatti, nel corso dei secoli i baroni del Regno di Napoli si erano attribuiti illecitamente il diritto di esigere la decima, oltre che sui prodotti agricoli, anche su attività o consuetudini produttive.

Finalmente con la sentenza del 3 ottobre 1809[6] l’ex barone di Neviano, il principe Cicinelli, fu obbligato tra i vari patti stabiliti dal tribunale ad astenersi nella decima della calce, nel richiedere “6 ducati e 20 grana” a titolo dell’emungimento dell’acqua nei pozzi, a pretendere la prestazione a titolo di erbatica (tassa per gli animali da pascolo). Tuttavia venne assolto dalla restituzione dell’indebito riscosso fino ad allora, e fu stabilita la divisione dei demani tra il principe e il comune, il quale finalmente poté lottizzare i terreni per esser concessi agli abitanti poveri che ne facevano richiesta.

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, vista laterale (ph. F. Suppressa)

 

Ed infatti nell’Ottocento, con le rinnovate condizioni giuridiche ed economiche, si assistette ad un rapido aumento della popolazione dai 700 di inizio XIX secolo ai circa 1800 abitanti registrati all’Unità d’Italia. Significativo a riguardo, un decreto, il n. 5346, emanato il 25 maggio 1839 da Ferdinando II, in cui il sovrano napoletano “nella mira di far divenire l’abitato del comune di Neviano in Terra d’Otranto atto a contenere l’aumentata popolazione del medesimo” autorizza il comune medesimo a cedere a “Donato Cuppone, Pasquale di Oronzo, Angelo Candido, Domenico Blasio e Francesco Colace” i tratti di suolo pubblico da ciascheduno occupati dietro pagamento di un annuo canone[7]. Il decreto inoltre prescriveva che “le nuove case a costruirsi sieno regolarmente piantate, ed abbiano al possibile una certa uniformità e ricorrenza di linee all’esteriore, e non meschini abituri”[8].

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, prospetto, a sinistra lo stemma del vescovo Vetta, a destra quello della comunità di Neviano (ph. F. Suppressa)

 

Pertanto, con queste rinnovate condizioni economiche Neviano necessitava di un tempio più ampio e capace di accogliere tutti i suoi fedeli, e non a caso nel 1847, l’arciprete Giuseppe De Franchis, relazionava alla diocesi di Nardò che la navata è “incapace a contenere non più che il quarto della popolazione”, lamentando contemporaneamente “dell’umido” presente nel vecchio tempio, pur tuttavia concludendo che la sua manutenzione “è piuttosto lodevole”[9].

Il documento fondamentale per ripercorrere l’iter edificatorio della nuova parrocchiale è la relazione dal titolo “Notizie storiche intorno alla riedificazione dell’attuale chiesa parrocchiale di Neviano”, redatta dal parroco mons. Roberto Napoli in occasione della santa visita del 1878 fatta da mons. Michele Mautone, vescovo di Nardò.

Da questa importante dichiarazione si rileva come il promotore dell’intervento fu mons. Luigi Vetta, vescovo della Diocesi di Nardò tra il 1849-1873[10], come tra l’altro ricorda l’iscrizione dedicatoria e lo stemma in facciata. Il Vetta è una figura particolare per il travagliato periodo che precede l’Unità d’Italia, infatti, di dichiarata fede borbonica fu costretto anche all’esilio dalla diocesi neretina per cinque anni all’indomani dell’unificazione della penisola. Vescovo che tuttavia si contraddistinse sul territorio per il mecenatismo ecclesiastico, commissionando opere quali il rifacimento del seminario diocesano e della chiesa matrice di Noha (all’epoca ricadente nella Diocesi di Nardò), anch’essa dedicata a S. Michele Arcangelo.

Nel 1859, essendo parroco don Salvatore Chirivì, si dette inizio ai lavori grazie ad una sovvenzione dell’Amministrazione Diocesana di 400 ducati. Altrettanto interessante è la figura dell’arciprete, sicuramente degli stessi ideali politici del vescovo Vetta, come si può dedurre da un’informativa della Prefettura di Lecce, nella quale è definito “uno schifoso borbonico clericale”, aggiungendo che “non compie operazione che non sia reazionaria. Si è sempre rifiutato a solennizzare le feste nazionali”[11].

Infatti fu inquisito per “complicità nel brigantaggio” avendo fornito denaro tra il 1864-1865 alla banda del brigante Francesco il Funerario[12], lo stesso che assieme a Pasquale Aspina (D’Ospina) e altri, fu colpevole di “eccitare il malcontento contro l’attuale Governo” in Seclì tra il 1861-1862[13].

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, interno negli anni Cinquanta del Novecento (archivio parrocchiale di Neviano

 

Nell’edificazione della chiesa concorse tutta la comunità mediante l’ausilio nel trasporto di acqua e pietre da costruzione, finanche la legna per la realizzazione di “grandi forni calcinatori”, mentre il suolo per l’ampliamento fu donato dalla famiglia Dell’Abate, facoltosi latifondisti della vicina Nardò. Progettista iniziale dell’intervento fu l’ing. Gregorio Nardò da Nardò[14], probabile figura di fiducia del Vetta in quanto artefice dei lavori commissionati dal vescovo sempre per il seminario e nella ricostruzione della parrocchiale di Noha.

Nel 1873, con la morte di mons. Vetta si arrestarono i lavori, giunti ormai a quasi due terzi dell’opera. Dalla relazione risultano essere state realizzate la sacrestia, il cappellone del SS. Sacramento, la crociera e parte della navata fino alla metà delle seconde cappelle. Di questo arresto dei lavori è ancora ben visibile sui prospetti laterali i segni dell’addentellamento della muratura. Tuttavia, con alcune somme lasciate a disposizione dal presule proprio per il completamento dell’opera, poterono proseguire i lavori.

Fu formata una nuova commissione, che includeva ora anche l’autorità municipale, che diede incarico all’ingegnere Quintino Tarantino da Nardò[15] per la redazione di un progetto di completamento e al contempo, con l’apposizione di una nuova tassa comunale, si raccolsero altri fondi per il prosieguo dei lavori.

Con la ripresa dei lavori si procedette alla demolizione dell’antica chiesa cinquecentesca, poiché sul suolo di questa andava costruita l’attuale navata. Intanto nel settembre 1877 si dette inizio alla realizzazione di “tutti i lavori in legno” mediante appalto dei lavori al fabbro-legnaio Salvatore Leucci da Scorrano, su “progetto d’arte” fatto dal perito Michele Rizzo da Alliste. Di tale intervento permane esclusivamente la robusta porta principale della chiesa e il telaio superstite di una vetrata semicircolare della seconda cappella sinistra, visibile solo dall’esterno poiché murata nel 1957. Finalmente il 4 aprile 1878 il nuovo vescovo di Nardò, mons. Michele Mautone, consacrò il novello tempio con rito solenne, come attesta l’epigrafe in facciata, mentre nel 1880 sono commissionate da famiglie locali l’erezione degli altari laterali, come attestano le epigrafi ivi collocate.

Nella seconda metà del Novecento una serie d’interventi ha contribuito a stravolgere lo stile dell’ottocentesca parrocchiale, non tanto in funzione dell’adattamento alle nuove norme del Concilio Vaticano II, quanto ad una costante ricerca di modernità e di materiali in voga. Infatti, come attesta una lapide nei pressi dell’uscita secondaria, i lavori si svolsero nel 1957, essendo arciprete don Salvatore Antonazzo e vescovo mons. Ursi.

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, prospetto su via Pozzi Vecchi nel 1966 (fototeca Briamo, Brindisi)

 

In quest’occasione furono occluse le sei finestre semicircolari delle cappelle laterali, mentre quelle della stessa forma ma di dimensione maggiore della navata vennero modificate fino a diventare rettangolari e leggermente centinate. Similmente furono tamponate una finestra della cupola, una del timpano e due dell’abside. Il risultato fu un tempio snaturato della sua originale impostazione, con una netta diminuzione della luce interna che ne ha reso l’ambiente più scuro e poco contemplativo.

Il pavimento originale, di cui si ignora la consistenza, venne sostituito con una pavimentazione in marmettoni di scaglie di marmo, mentre per le cappelle laterali furono utilizzate comuni mattonelle in cemento. Largo uso di travertino fu adoperato per zoccolature, gradini e rivestimenti, mentre con pittura acrilica fu coperta l’ottocentesca decorazione in finto marmo che decorava le pareti interne della chiesa e delle cappelle, così come testimoniato da foto d’epoca e dai saggi in parte già eseguiti negli anni passati.

Nel 1972, in ossequio alle nuove disposizioni del Concilio Vaticano II, fu modificato il presbiterio mediante la demolizione dell’altare maggiore in pietra leccese, i cui frammenti furono in parte impiegati come decorazione nella recinzione dell’attiguo giardinetto a valle della navata. La cantoria, il coro, l’organo, il pulpito e alcuni arredi sacri, ritenuti antiquati, furono eliminati per dare posto ad un moderno organo elettrico. Tutta l’area presbiteriale e il coro fu rivestita con travertino e ceramica smaltata.

 

La primitiva chiesa cinquecentesca

Sono poche e frammentarie le notizie sull’antica chiesa cinquecentesca di Neviano, cancellata totalmente dall’edificazione dell’attuale parrocchiale. Nella visita pastorale di mons. Bovio del 1580 è descritta come “extra casale” mentre in quella del 1618 di mons. De Franchis è definita “in medio casalis” e “rimpetto la piazza”, accumunate entrambe dalla presenza dell’altare dedicato a S. Michele Arcangelo. Questa distinzione di localizzazione nelle visite pastorali, prima “fuori” dall’abitato e poi “nel mezzo”, ha portato Giovanni Cartanì ad ipotizzare che la primitiva parrocchiale fosse in realtà la cappella della Madonna della Neve esterna all’abitato di Neviano.

Neviano, castello nel 1966 (fototeca Briamo, Brindisi)

 

Personale ipotesi è che in realtà la parrocchiale non si è mai spostata, in quanto la distinzione tra “extra casale” e “in medio casalis”, è dovuta probabilmente alla crescita dell’abitato, la cui popolazione in quel periodo vede un repentino incremento dagli iniziali 11 “fuochi” del 1508 (circa 55 abitanti) ai 65 “fuochi” del 1595 (circa 325 abitanti)[16].

L’originale nucleo abitativo di Neviano doveva inizialmente addensarsi nei pressi del castello che degli Orsini del Balzo, poi con lo sviluppo della popolazione, l’abitato si espanse in maniera lineare verso sud-est lungo il costone roccioso, fino a circondare e superare la chiesa matrice.

Atlante Sallentino del Pacelli con Neviano e la diocesi di Nardò sul finire del Settecento

 

Uno spaccato di vita della parrocchiale si rileva nel testamento redatto il 17 gennaio 1626 dal notaio Sabatino Duca di Neviano[17], quando Isabella Tedesco di Galatone, moglie di Marcello Sinidoro di Neviano, lascia tutti i suoi beni, dopo la morte del marito usufruttario, alla chiesa parrocchiale di Neviano con l’obbligo di fondare una cappella in cui collocare un quadro con l’immagine della S.ma Annunziata. Morto il Sinidoro, il clero locale, composto dall’arciprete don Giov. Angelo Zizzari, don Angelo Bisci, il diacono Camillo Giordano, con il sindaco Giacomo Musticchi, previo assenso del vicario Granafei (atto del 4.12.1650 di notaio de Magistris), vendono un terreno della fu Isabella per 9 ducati ed 1 tarì, i quali vengono consegnati al pittore Giovanni de Tuglie di Galatone in acconto al quadro commissionato da Isabella “con le immagini della Madonna S.ma Annunziata, e Dio padre e degli angeli nella parte superiore”.

Ad un anno dalla morte, il clero di Neviano, in quanto legatario di Isabella, vende un altro immobile per il prezzo di 30 ducati, che verranno consegnati al pittore de Tuglie al fine di completare il dipinto.

Altre scarne notizie sulla parrocchiale possono essere rilevate dalle visite pastorali dei presuli di Nardò. In quella di mons. Sanfelice del 1719 la chiesa è descritta con battistero, sacrestia, torre campanaria, porta maggiore, e infine un altare dedicato S. Oronzo. Quest’ultimo era a carico dell’amministrazione comunale, come si rileva nella visita pastorale di mons. Lettieri.

Dai documenti consultati è pertanto facilmente individuabile l’area di sedime dell’antica parrocchiale, collocata tra il sagrato e la fine delle seconde cappelle laterali, con un orientamento liturgico pressoché coincidente con quello dell’attuale navata. E’ possibile dedurre quanto appena affermato dal fatto che:

  • Nel 1873 alla morte del vescovo Vetta era stata realizzata “la sacrestia, il cappellone del SS. Sacramento, la Crociera (leggi transetto), e parte della navata fino a metà delle seconde cappelle”.
  • Di questa interruzione è ancora visibile il segno degli addentellamenti della muratura sulle facciate laterali.
  • Per tutto il 1874 la chiesa cinquecentesca è ancora in piedi e in funzione, dato che il 13 dicembre 1874 il clero e i fedeli in solenne processione si recarono dalla matrice alla chiesa di S. Giuseppe al fine di traslocare i Sacramenti, il fonte battesimale e quant’altro necessario. A partire da questa data fino al 1878 la chiesa di S. Giuseppe è eletta temporaneamente a chiesa parrocchiale.
  • Nel 1874 secondo la relazione della visita pastorale del 1878 “si cominciò a demolire la vecchia chiesa” sul cui sedime doveva “piantarsi il resto della navata”.
Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, pianta, in rosso è evidenziata la sede della chiesa cinquecentesca (elab. arch. F. Suppressa)

 

Quindi è possibile escludere con certezza documentata che il sito dell’attuale transetto coincidesse con l’antica chiesa, come ipotizzato da molti. E’ inoltre da escludere la presenza di sepolture sotto il pavimento della chiesa, in quanto, alla data di ultimazione della chiesa era già entrato in vigore l’editto di Saint Cloud (1804) che vietava la sepoltura all’interno dei centri abitati (confermato poi nel 1865 dalla Prefettura), nonché per quanto è rilevabile dal registro parrocchiale dei defunti che a partire dal 1838 e fino al 1889 (anno di realizzazione del cimitero attuale) descrive il luogo di sepoltura come la chiesa fuori dall’abitato di S. Maria ad Nives.

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, facciata laterale, particolare dell’innesto della navata, a sinistra la parte edificata fino al 1873, a destra quella tra il 1875 e il 1878 sulla sede dell’antica chiesa cinquecentesca (elab. arch. F. Suppressa)

 

 

Un enigmatico S. Cristoforo sulla facciata laterale

Sulla parete destra della chiesa, adiacente la porta laterale, è presente un grande dipinto murale a secco oramai quasi impercepibile, realizzato nella seconda metà dell’Ottocento, dove è rappresentato San Cristoforo con la classica iconografia desunta dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, ovvero con Gesù Bambino sulle spalle che regge il globo crucifero, bastone e piedi immersi nell’acqua nell’atto di guadare un fiume. Forse a causa delle degradazione della pittura, il soggetto fu replicato in ceramica smaltata al di sopra della porta laterale “per devozione di Mastore” negli anni Settanta del Novecento.

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, prospetto laterale, rappresentazioni di San Cristoforo (ph F. Suppressa)

 

Questo Santo, uno dei quattordici ausiliatori (ovvero “che recano aiuto”), era invocato in passato come protettore dalla “morte improvvisa”, ed infatti vi era la credenza che chi avesse visto la sua immagine quel giorno non sarebbe morto. Per tale motivo, nel medioevo, era rappresentato all’esterno delle chiese e delle porte cittadine in proporzioni colossali, una tradizione molto viva un tempo specie nei paesi del Nord Europa.

Inoltre San Cristoforo era invocato anche dai pellegrini, viandanti e viaggiatori e questa rappresentazione potrebbe essere il segno che Neviano costituisse in passato una località di passaggio per pellegrini, forse diretti al santuario della Madonna di Leuca, luogo di culto che un tempo richiamava fedeli da tutta l’Europa. Un’ipotesi suffragata anche dal fatto che in un documento di “introiti ed esiti” redatto dall’Università di Neviano nel 1730 è riportata la somma di 62.56 ducati per varie “spese straordinarie” tra cui quelle per “elemosine a pellegrini”[18]. Un fenomeno che si riscontra per tutta l’antica Terra d’Otranto, come a Maruggio, Ginosa, Manduria, Montesardo, Parabita, dove erano presenti istituzioni caritatevoli o ospedali al servizio dei pellegrini.

Maruggio, dipinto di S. Cristoforo (da wikipedia)

 

Note

[1] La presente relazione storico-architettonica è tratta dal progetto di restauro approvato dalla Soprintendenza B.A.P. di Lecce il 06/04/2020.

[2] G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, Nuova Prhomos, Città di Castello 2015, p. 53.

[3] G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, cit., p. 265.

[4] G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, cit., p. 266.

[5] ASDN Visita pastorale di mons. Sanfelice 1719, A/22, f. 108; G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, cit., p. 98.

[6] S.A., Commissione Feudale di Napoli, Bullettino delle sentenze emanate dalla Suprema commissione per le liti fra i già baroni ed i comuni, n. 10, anno 1809, Tipografia Angelo Trani, Napoli 1809, p. 29-37.

[7] Regno di Napoli, Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, Anno 1839, Semestre I, Stamperia Reale, Napoli 1839, p. 186-187.

[8] Regno di Napoli, Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, Anno 1839, Semestre I, Stamperia Reale, Napoli 1839, p. 186-187.

[9] ASDN Corrispondenza tra Neviano e la curia vescovile di Nardò, anno 1847.

[10] Nacque ad Acquaviva Collecroce (CB) nel 1805. Trentaduesimo vescovo di Nardò, nominato dal pontefice Pio IX, in carica dal 20 aprile 1849. Morì a Nardò il 10 febbraio 1873, sepolto nella chiesa di S. Maria Incoronata.

[11] Documento riportato in una ricerca dei ragazzi dal titolo “Sulle nostre strade” della 1° classe della Scuola Media dell’Istituto Comprensivo di Neviano, A.S. 2005/2006.

[12] Archivio Centrale dello Stato, Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, Volume 2, p. 1278.

[13] Archivio Centrale dello Stato, Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, Volume 2, p. 1275.

[14] Gregorio Nardò da Nardò è in realtà un perito agronomo, così come definito nell’Annuario d’Italia (S.A., Annuario d’Italia, Calendario Generale del Regno, 1896, Anno XI, p. 2135). Questi è soprattutto attivo come agrimensore, specie in contenziosi amministrativi sul territorio del comune nativo, come cui vengono commissionati nel 1851 elaborati planimetrici quali la “N. 3. Topografia dell’usurpazione lungo la strada pubblica detta La Pila Nuova” “N. 1. Topografia dell’usurpazione lungo la strada pubblica detta Impestati” , “N. 2. Topografia dell’usurpazione lungo la strada pubblica detta Tarantina in Monte Cafuori”, (ASLe, Consiglio di Intendenza di Terra d’Otranto, Processi del contenzioso amministrativo, busta 37, fasc. 62.8). Mentre nel 1865 produce “Pianta topografica del fondo via di Neviano o Guardia in agro di Aradeo” (ASLe, Tribunale Civile di Terra d’Otranto, Perizie, busta 93, fasc. 587) per un contenzioso di confinazione.

[15][15] Quintino Tarantino è stato un ingegnere e urbanista nato a Nardò nel 1842, formatosi dapprima come matematico presso l’Università di Napoli (1866). Dal 1877 fu incaricato dall’amministrazione comunale del paese natìo per vari interventi urbanistici di espansioni al di fuori del fossato, ormai colmato e trasformata in asse stradale. L’opera per cui è maggiormente riconosciuto è il teatro comunale di Nardò nell’attuale corso Vittorio Emanuele, il cui progetto fu preferito rispetto a quello dell’ingegnere Gregorio Nardò (che lo aveva previsto nell’attuale piazza Salandra), morì a Nardò nel 1919 (D. G. De Pascalis, L’arte di fabbricare e i fabbricatori, Besa, Nardò 2001, pp. 100-101. Nell’ambito del restauro si segnala il progetto del 1867 dell’intera demolizione della cattedrale di Nardò (B. Vetere, Città e monastero: i segni urbani di Nardò (secc. XI-XV), Congedo, Galatina 1986, p. 198), cui seguì la “Risposta al voto emesso dal Consiglio superiore dei LL. PP. sul progetto della nuova Cattedrale di Nardò” edita a Lecce nel 1890 per i tipi “Tip. G. Campanella e figlio”, e i lavori di consolidamento della chiesa dei SS. Medici, fuori il centro urbano di Nardò (F. Suppressa, Un continuo cantiere. Sette secoli di vicende della chiesa di Santa Maria del Ponte in Nardò, in La chiesa dei Santi Cosma e Damiano a Nardò già di Santa Maria del Ponte, a cura di M. Gaballo, Congedo, Galatina 2018, p. 55-74).

[16] Si confronti i dati in: M. A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale, Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Napoli, 1988. L’andamento cambia radicalmente nel corso della prima metà del Seicento, dove una crisi generale porta ad una diminuzione del 40% della popolazione, dato che nel 1627 i fuochi passano a 25 (125 abitanti), Neviano quindi subisce il più forte decremento tra i centri di Terra d’Otranto (A. Bulgarelli Lukacs, La popolazione del Regno di Napoli nel primo Seicento (1595-1648), in “Popolazione e Storia” n. 1/2009, p. 105). D’altronde la produzione media di cereali passa dai 600 tomoli degli anni 1585-88 ai 328 tomoli nel biennio 1623-24 (M.A. Visceglia, Rendita feudale e agricoltura in Puglia nella età moderna (XVI-XVIII secolo), in “Società e storia”, n. 9, 1980, p. 547). Nei Relevi presentati alla camera della Sommaria tra la fine del Cinquecento e gli anni ’40 del Seicento Neviano fornisce un reddito di 1571 ducati nel 1616 quasi quanto Parabita o Trepuzzi (M. A. Visceglia, L’azienda signorile in Terra d’Otranto, in “Quaderni storici” vol. 15, n. 43 (1), 1980, pp. 39–60).

[17] G. Cosi, Il notaio e la pandetta, Congedo, Galatina 1992, p. 129.

[18] G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, Nuova Prhomos, Città di Castello 2015, p. 266.

Palazzo Romano-Moschettini a Neviano

facciata del palazzo

 

di Alessandra Moschettini

E’ la più importante dimora signorile di Neviano. In accoglimento di un ricorso a suo tempo presentato dall’attuale proprietario Dott. Giuseppe Moschettini al Ministero competente, finalizzato a tutelare e valorizzare il palazzo in oggetto, considerato che, l’immobile costituito da varie particelle catastali intestate al medesimo proprietario possedeva tutti i requisiti di legge, come riferito dal Quotidiano di Lecce, articolo del 14/12/1989, curato da Gino Anchora: “Quel palazzo è un gioiello ma per il Comune non esiste”, con D.M. del 30/10/1990 emesso dal Ministro per i Beni Culturali e Ambientali On.le Facchiano, fu riconosciuto di particolare pregio storico-nazionale. Col tempo il Palazzo, è stato ripreso in ricerche di alunni delle Scuole Elementari e Medie di Neviano, in un libro intitolato “Neviano”, edito nel 1989 dalla Banca Popolare Pugliese, dal sopra citato servizio giornalistico del “Quotidiano di Lecce” e successivamente richiamato in programmi televisivi curati da TeleRama e da TeleNorba.

 

ll Decreto in oggetto, fu preceduto da una lettera allo stesso ricorrente inviata in data 11/10/1990 dal Dott. Paolo Carini Capo della Segreteria del Ministro per i Beni Culturali e Ambientali, che nella fattispecie recita: “Caro signor Moschettini, facendo seguito alla Sua del 15/09/1990 inoltrata all’On. le Ministro relativa al Palazzo Romano in Neviano, Le comunico che la Soprintendenza Beni A.A.A. e S. di Bari ha ravvisato l’opportunità di sottoporre a vincolo detto immobile e, pertanto, ha trasmesso all’Ufficio Centrale per i Beni A.A.A. e S. la relativa documentazione per la predisposizione del decreto di vincolo”.

 

ll Dott.Moschettini, discende dalla religiosissima, intellettuale e nobile famiglia di Martano, riportata alla voce “Martano” dal Marchese Giacomo Arditi nella “Corografia Storico e Fisica di Terra d’Otranto”, 1879.[1]

Il suddetto immobile è ubicato in Piazza Vittorio Emanuele, risale al XVI secolo. Il portone di ingresso è sormontato dallo stemma dell’originario proprietario, il Marchese Dott.Antonio Romano, anch’egli citato, insieme al primogenito figlio Dott.Salvatore da cui Giuseppe Moschettini discende per affinità, da Giacomo Arditi a pag.404 del libro sopra riportato. Sia il Marchese Antonio Romano che il figlio Salvatore, di professione entrambi Medici-Chirurghi, in epoca più recente sono stati ripresi a pag.204 nel libro intitolato “Neviano” (Edizioni Nuova Prhomos, 2015), da Don Giovanni Cartanì parroco presso la Chiesa diocesana di Nardò-Gallipoli, che attesta: “Il Palazzo, all’origine, fu dimora dell’illustre Antonio Romano che si distinse per cultura e umanità. Antonio Romano, nel 1817, pubblicò un trattato agrario sulla coltivazione della patata… . Antonio ebbe un figlio, di nome Salvatore, che fu filosofo, medico, botanico e agronomo, valente quanto il padre e forse anche più di lui.

 

il marchese Antonio Romano

 

Sul fronte dell’immobile spicca un portale sormontato da un balcone a linee spezzate al centro del quale è chiaramente visibile lo stemma della famiglia Romano, consistente in uno scudo sullo sfondo del quale figurano un cavallo, una croce e tre stelle”.

stemma della famiglia Romano

 

Il Marchese Antonio Romano morì nel 1819 e fu seppellito nella Chiesa di San Michele Arcangelo, in Neviano, come riportato nella dichiarazione di morte dal Curato d’epoca Arciprete Achille Perillo, che scrive testualmente: “Corpus eius sepultum fuit in hac Parochiali Ecclesia”.

 

dichiarazione di morte di Antonio Romano

 

Sulla porta di ingresso della cappella si trova ancora oggi la scritta: “Qui non si gode immunità”, residuo storico di un antico privilegio riservato ai luoghi di culto pubblico, in forza del quale se una persona si nascondeva in quella Chiesa non poteva essere perseguitata o arrestata, perché il tempio, come luogo pubblico, era considerato extra-territoriale. Nel Palazzo sono state custodite in una teca, sino ai primi del 1950, le spoglie di San Valeriano Martire tramandate dai Romano nel corso dei secoli da eredi a successori. In punto di morte le spoglie del Santo furono poi donate alla Chiesa di San Michele Arcangelo da Cristina Grassi, dama di carità presso la Parrocchia locale.

All’interno del palazzo in oggetto, analogamente a quanto all’epoca presente nei palazzi Moschettini di Martano, insiste una vasta biblioteca contenente centinaia di testi antichi di vario genere: letteratura, storia, medicina, giurisprudenza e sacri, che documentano l’estrazione intellettuale delle famiglie avvicendatesi nel tempo alla conduzione del palazzo, riscontrate dai diplomi di laurea intestati ai medesimi titolari.

La predetta documentazione libraria, pertanto, rappresenta una valida testimonianza storico-culturale a riguardo dell’elevata volontà di studi espressa da famiglie appartenenti ad elevati ceti nobiliari, volta ad affermarsi anche in campo intellettuale. Di conseguenza, vari antenati, rivestirono  incarichi di grande prestigio c/o le istituzioni pubbliche da cui dipendevano.

Dalla lettura di un testo in possesso del Dott. Giuseppe Moschettini, a proposito delle origini di siffatta famiglia, si legge, quanto dall’ autore del presente atto al momento si ritiene di voler rendere noto: “La famiglia suddetta è da secoli numerata tra le più antiche famiglie dei primi gentiluomini di Martano ed ha la sua origine da molti savi, e probi dottori di Leggi; e taluno ancora della famiglia istessa è stato impiegato pure nei passati tempi con decoro alla Milizia….. . Ognuno dunque, che sia di buon senso fornito, ha da riputare senza meno, che la famiglia suddetta sin da molto tempo prima era di Nobile Genìa, e dotata di ben proprie commodità, dacché sin da duecentocinquanta, e più anni indietro, ha dato all’ umana società dei dottori. Si sa, che l’uomini di tali Privileggi dotati sono stati sempre da tutte le Leggi ascritti nella classe dei Nobili”.

A riscontro e riconoscimento del valore intellettuale, dimostrato in vari settori dalle famiglie Romano-Moschettini nel corso dei secoli, le stesse come sopra premesso, furono citate da Giacomo Arditi nel libro edito nel 1879.

A seguito di non facili ricerche effettuate nel corso del tempo dallo stesso Dott. Moschettini Giuseppe, nei riguardi del Dott. Cosimo Moschettini di Martano (1746-1820), fratello del dante causa Giuseppe da cui il medesimo scrivente discende, si è appreso, che l’avo in oggetto, si laureò a soli 22 anni in Medicina e Chirurgia a Napoli, divenendo col tempo Prof. di Medicina c/o lo stesso ateneo, fu anche filosofo e quindi uno dei più grandi scienziati mondiali in agraria, con pubblicazione di vari saggi in materia riportati anche dal Prof. Ennio De Simone nel testo intitolato al Dott. Cosimo Moschettini, edizioni Del Grifo-Lecce, 1997. Cosimo Moschettini è stato anche citato dal Parroco Don Giovanni Cartanì nel libro intitolato: “Neviano”, edizioni NUOVAPRHOMOS, 2015.

 

Una lettera inviata dal Dott. Cosimo Moschettini ad uno dei più grandi scienziati di medicina pro-tempore specialista in fisiologia è conservata c/o un notissimo museo di una capitale europea.

In considerazione, quindi, della prestigiosa carriera a suo tempo intrapresa, il Dott. Cosimo Moschettini, a cui le amministrazioni comunali pro-tempore di Martano e di Casarano, intestarono nei rispettivi paesi delle strade a suo nome, riportata e documentata anche da: biblioteca – Accademia dei Georgofili[2] , Atti della società pontaniana di Napoli[3] , Cosimo Moschettini scienziati italiani[4], l’ avo in oggetto, risulta iscritto c/o numerose Accademia e quindi socio dell’Accademia dei Georgofili di Firenze, dell’Accademia Pontaniana di Napoli, dell’Accademia delle scienze, della Reale Accademia di incoraggiamento di Napoli, dell’ Accademia di Montpellier e della società economica agraria di Zara, della economica di Spalato e della georgica de’ castelli di Traù in Dalmazia.

Annualmente, inoltre, nel mese di ottobre in Martano, si svolge la “Sagra della volia cazzata” promossa dall’Associazione culturale “Cosimo Moschettini”.

In epoca più recente, il Dott. Giuseppe Moschettini (1876-1946), figlio del Dott. Ettore Moschettini medico-chirurgo in Martano e proprietario di palazzo Andrichi-Moschettini[5] trasferitosi a Neviano esercitò per circa 40 anni la professione di medico-chirurgo. Per tale ragione e per meriti acquisiti durante l’esercizio della sua professione, gli Amministratori comunali pro-tempore, considerato che il suddetto medico ha dimostrato di possedere meriti professionali non comuni, espressero nella delibera c.c. n. 14 del 1908 un voto di lode e di plauso per l’opera intelligente e laboriosa prestata nel Comune.

Inoltre, avendo partecipato ad entrambi i conflitti mondiali col grado di capitano medico, fu insignito di medaglia dall’allora Ministro della guerra Benito Mussolini.

riconoscimento del Comune di Neviano a G. Moschettini

 

Medaglia al Valore a G. Moschettini

 

Sul retro del Palazzo si articola un ampio giardino con rampe di accesso ai piani superiori e alle terrazze. Nel giardino figurano due grandi nicchie affrescate da maestranze locali, una di esse raffigura la Pietà su uno sfondo paesaggistico; in alto si nota una schiera di cherubini e ai lati, la gloria dei Santi.

La “Pietà” nel giardino monumentale

 

particolare del giardino monumentale

Colonnato ne giardino

 

altra veduta del giardino

 

Note

[1] www.salentoviaggi.it

[2] www.georgofili.it:ricerca

[3] book.google.com

[4] amp.it.google-info.org e  book.google.it

[5] it.m.wikipedia.org

La culia (lo spicchio)

di Armando Polito

Mi è capitato spesso di non poter rispondere nello spazio riservato ai commenti a qualche gentile lettore che si è degnato, suscitando in me una gratitudine di gran lunga superiore a quella che di solito accompagna un mi piace facebookiano, di fare le sue critiche e fondate affermazioni o di dare il suo prezioso contributo integrativo. Anche questa volta sono costretto a ricorrere ad un post ad hoc non solo e soprattutto perché il tema che ora svilupperò richiedeva adeguata riflessione e qualche indagine, in parole povere un po’ di tempo, ma anche perché esso meritava, almeno, credo una visibilità, che mi auguro comporti ulteriore partecipazione, difficilmente assicurabile da una semplice risposta ad un commento.

Per chi fosse interessato segnalo come punto di partenza la lettura (o rilettura) del post in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/03/23/lu-giunculu-lo-spicchio/ dove troverà il commento che di seguito riproduco in formato immagine.

Dato per scontato che il signor Fernando non è un buontempone che vuole divertirsi alle spalle del sottoscritto e che la voce nevianese esiste veramente, la prima tappa, scontata o quasi, per chi si occupa di queste cose è consultare il Vocabolario dei dialetti salentini del Rohlfs. Ed è stata la prima doccia fredda: nell’opera citata la voce è assente. Ma, si sa, le docce fredde sono estremamente stimolanti …

Il secondo passo è consistito nel prendere in mano il vocabolario di greco. Seconda doccia fredda (nessun vocabolo che potesse candidarsi come padre di culia), ancora più stimolante della prima …

Infatti di colpo mi è venuto in mente che parecchie parole dialettali (ma anche italiane, per esempio rena da arena) sono il frutto di un’aferesi (perdita della sillaba iniziale) dovuta ad un’errata discrezione dell’articolo (per rena: l’arena>la rena>rena). Immaginando che culia sia frutto dello stesso processo, verrebbe fuori un originario *aculia, il quale, a sua volta, fa pensare immediatamente all’italiano aguglia (il pesce) che è dal provenzale agulha, a sua volta dal latino tardo acùcula, diminutivo di acus=ago (evidente il riferimento alla forma del muso). E proprio da aguglia, per aferesi dovuta all’errata discrezione dell’articolo, si è sviluppato in italiano guglia: l’aguglia>la guglia>guglia.

Che il corrispondente italiano del nevianese culia sia proprio guglia? Sul piano semantico tutto procede perfettamente. Ogni spicchio, infatti, ha non una ma addirittura due estremità appuntite. Sul piano fonetico, però, se culia derivasse direttamente da guglia, mi sarei aspettato un cugghia, come in magghia da maglia.

Cerco aiuto nel glossarro del Du Cange, dove per il latino medioevale vedo registrato il lemma acùlea che di seguito riproduco in formato immagine con a fronte la mia traduzione.

Il nostro culia potrebbe più agevolmente sul piano fonetico discendere da aculea (anche lui da acus).

Più in basso nello stesso glossario vi è registrato il lemma aculium.

Per completezza di documentazione riporto pure beccusfredus.

 

Al di là della traduzione leggermente differente dello stesso testo per via di marinus nel lemma precedente accordato con ferrus, qui diventato marinas che si accorda con naves, il beccusfredus (parola composta da beccus=becco e fretum=mare) sembra essere la versione manuale e portatile del rostro.

Ritornando al nostro culia, esso potrebbe derivare da acùlia, plurale di acùlium; la conservazione fonetica sarebbe più spinta ed il plurale spiegherebbe il doppio becco che ogni spicchio presenta.

Tutta questa ricostruzione che ha coinvolto aghi, pesci e macchine da guerra sarebbe perfetta se, segnando l’accento (che con le parole dialettali andrebbe sempre posto, anche quando si trova sulla penultima sillaba, il culia del gentile lettore dovesse leggersi cùlia e non culìa. In quest’ultimo caso in riferimento a quanto fin qui (spero chiaramente …) esposto e, in particolare, alle aguglie nominate all’inizio, sarei il primo ad esclamare: – Certi pesci! -.

A proposito di soprannomi

il palazzo ducale di Seclì
il palazzo ducale di Seclì

di Alessio Palumbo

 

Leggendo, in calce alla poesia “L’innamorato imbranato”, lo scambio di commenti tra Armando Polito e Alfredo Romano sui nomignoli legati alla provenienza cittadina, mi è tornato alla mente un episodio riguardante il mio paese d’origine: Aradeo.

Da ragazzino irrequieto ed eccessivamente vivace qual ero, non di rado mi sentivo appioppare l’appellativo di “taratiaulu”. Il fatto che fossero più persone ad utilizzare quel termine mi incuriosì e, dopo un po’ di tempo, riuscii a risalire al motivo del soprannome, chiaramente frutto dell’unione tra la parola “taraddotu” (ossia aradeino) e “tiaulu” (diavolo). Tutto ha origine dalla inveterata rivalità tra aradeini, seclioti e nevianesi.

Vuoi la vicinanza reciproca, vuoi gli stretti vincoli parentali, vuoi le dimensioni demografiche non eccezionali, sta di fatto che Aradeo, Neviano e Seclì, da secoli, sono strettamente legati tra di loro. Tempo fa, un pescatore gallipolino in vena di canzonare, venendo a conoscere le mie origini aradeine mi chiese:

“Come ve la passate negli Stati Uniti?”

“Gli Stati Uniti?” chiesi io

“Si! Aradeo, Neviano e Seclì…gli Stati Uniti del Salento”

Insomma, tre paesi federati, con una cantina sociale comune, un frantoio comune, iniziative comuni ma, soprattutto, una stazione ferroviaria in comune. Un piccolo parallelepipedo giallo, come tanti altri in Terra d’Otranto.

Come ci insegna la storia e l’esperienza comune, le convivenze non sono mai facili: a dimostrazione di ciò, si potrebbero citare le vecchie poesie di scherno reciproco tra i paesi[1]; oppure vi sarebbe bastato assistere, qualche anno fa, ai derby Aradeo-Seclì ( “li ciucci contru li cavaddhri” diceva qualcuno, ma non sto qui a specificare quale delle due squadre fosse composta da asini) per capire come la federazione non avesse per nulla sminuito le rivalità campanilistiche. Ma torniamo al casus belli, la piccola stazione: proprio questo edificio è stato motivo di accese rivalità tra i tre paesi o perlomeno così tramandano alcuni.

Immediatamente dopo la sua costruzione, sorse un problema di enorme gravità: in quale ordine piazzare i nomi dei paesi? Ovviamente nessuno avrebbe accettato di venire dopo gli altri. Seclì pretendeva il primato in quanto la stazione ricadeva nel proprio feudo. Neviano portava a proprio favore la maggiore vicinanza del centro abitato. Aradeo, infine, cercava di far valere il maggior peso demografico ed il fatto che il terreno dove era sorta la stazione fosse stato espropriato ad un aradeino. Dopo mesi di discussioni, la decisione finale fu: Seclì, Neviano e Aradeo. Un tremendo smacco per gli aradeini.

Ma la faccenda non finì qui e, proprio dagli episodi che seguirono, derivò l’appellativo di “taratiauli” ancora oggi usato da qualcuno.

Tutto si deve ad un imbianchino di Aradeo, incaricato di pitturare sulla facciata dell’edificio i tre nomi. Memore dello smacco ricevuto, l’imbianchino preparò due miscele diverse: una indelebile e l’altra con uno strano composto (si dice con fuliggine). L’aradeino rispettò l’ordine dei nomi oramai stabilito, ma utilizzò la tinta alla fuliggine solo per Seclì e Neviano e quella indelebile per Aradeo. Bastarono le piogge di pochi mesi a smascherare il trucco: la stazione passò ben presto da Stazione di Seclì, Neviano, Aradeo a Stazione di…Aradeo. Una trovata diabolica, secondo i rivali di sempre: “roba de taratiauli”  insomma.

 


[1] Gli aradeini usavano ad esempio recitare: “Ssichijatu cciti patucchi/vai alla chiesa e nu te ngianucchi/ nu te cacci lu coppulinu/ ssichijatu malandrinu”

L’abbazia di San Nicola di Macugno a sud dell’abitato di Neviano (Lecce)

di Cosimo Napoli

L’abbazia di San Nicola di Macugno è un insediamento bizantino ubicato a sud dell’abitato di Neviano, in località “Specchia di Macugno”.
L’insediamento è raggiungibile dalla Neviano – Collepasso per una antica carraia scavata nella roccia, segnata da solchi profondi (per un buon tratto distrutta da uno sbancamento abusivo nel 1985) ed  è annunciato da due tratti di muri secolari; sul limite del muro di destra è incisa una croce patente (simbolo templare).
Il complesso consta di quattro grotte sotterranee; una di esse è assai vasta, con pilastro al centro, e fu, evidentemente, una cripta.
I fabbricati sono costituiti da un corpo turrito fortificato con tracce di caditoia e da un ampio locale con volta a botte e forno.
L’insediamento s’inerpica sul pianoro, oltre i 100 mt. sul livello marino, da dove si domina la vallata sottostante punteggiata dagli abitati di Neviano, Collepasso, Cutrofìano.
Una delle due nicchie della torre ospita ancora uno sbiadito affresco relativo alla figura del Santo Vescovo con mitra e pastorale: si tratta, probabilmente, di San Nicola di Bari, che vigila tuttora sul complesso grottale Nevianese.

II sito è coperto da lecci e vegetazione tipica delle macchie; sul crinale (la serra) esso è chiuso e protetto da un muraglione medievale di dimensioni straordinarie, circa mt. 2,5/3,00 di larghezza e mt 2,00 di altezza.
Oltre che delimitativo, l’avanzo murario in questione sembra abbia dovuto assolvere ad una funzione di terrazzamento, proteggendo le grotte e il complesso monastico, posti lungo il declivio, dalle frane e dalla piena delle acque.
Numerosi accessi a scala scandiscono quella specie anche di antemurale ogni 5/6 mt., consentendo di montare in cima e quindi di penetrare all’interno.
L’abbazia di San Nicola di Macugno è attestata per la prima volta nel 1578, nella visita pastorale di Mons. Cesare Bovio, vescovo di Nardò, tra le ” Abatie nuncupate civitatis et dioecesis Neritonensis”.
Essa dipendeva dalla chiesa di Nardò cui doveva obbedienza ed il tributo di una libra di cera all’anno in occasione della festa dell’Assunta.
Nel 1612 il beneficio ” S. ti Nicolai de Macugni appare traslato nella cappella del castello (“in castro dicti Casalis Neviani”) che patronato dei baroni pro-tempore di Neviano, i Pirelli.
Il suo modesto patrimonio fondiario nel 1618 consisteva di “12 tomoli di terre scapole in loco detto lo Prato in medio cuiu adest Ecclesia S. Nicolai. Abbatia nuncupata iuxta bona curiae baronalis dicti Casalis, bona doctoris Thomae Megha de Galatone, ex pluribus lateribus, bona Francisci Epifani di Galatone et alios confines, sei tomoli in loco detto la Ruca, dodici tomoli di terre scapole in loco “nuncupato le Pile seu li Mucchi de la Fontana”.

Una ventina di anni dopo, nel 1636, l’arciprete di Galatone Cosimo Megha, convisitatore del Vicario Granafei, la annotò tra le quindici abbazie della diocesi.
Nel 1650 i terreni abbaziali risultano affittati a tal Colamaria Magi, che per essere moroso viene condannato al pagamento di 300 libre di cera.
Notizie scarse e imprecise dà dell’abbazia, dell’ordine monastico e del sito, il Vetere, il quale in forma dubitativa la ipotizza come istituzione bizantina maschile da localizzare in territorio di Neviano.
L’abbazia fu, quindi, polo di aggregazione per i rurali che vi si insediarono e dettero vita ad un casale.

particolare con la croce potenziata

I Registri Angioini ci forniscono alcune informazioni sulle intestazioni feudali del casale di Macugno, che viene anche denominato Matunii e Matundi.
Nel 1269, appena sedato il turbine delle contrapposizioni svevo-angioine, Carlo I D’Angiò concede ai fratelli Rodolfo e Teobaldo Belerio o De Bulleriis, militi, i casali di Matugnii, Neviani, et Melloni con ” provisio pro possesione”.
Anche in seguito, negli anni 1271-1272-1276-1277, l’angioino conferma e rinnova ai due suoi partitanti “casalia Neviani et Macugnii”.

Trapela dalla medesima fonte che prima della infeudazione in favore dei fratelli de Bulleriis, i nobili Narzone de Toziaco e Riccardo de Petravalda avevano posseduto Neviano e metà di Macugno.
Evidentemente de Toziaco e Petravalda dovevano essere stati signori tra il 1266 e il 1269.
Agli inizi del secolo XIV Macugno è in potere degli Amendolia ed è qualificato come feudo. Dopo essere succeduto al padre Giovanni, Tuzzolino de Amigdolea aveva assegnato il casale Matundi al fratello Nicola, con Neviano, Melissano e Maturano.
Coinvolto nelle oscure lotte tra angioini e durazzeschi, il ribelle Nicola Amendolia fu privato di Macugno nel corso della campagna pugliese del 1384 e fu sostituito col fedele Orso Minutoli.
Fin qui le notizie storiche che si è riusciti ad ottenere.

Nel 2005, dopo diversi secoli di abbandono, l’ abbazia di San Nicola di Macugno è stata acqustata dal Comune di Neviano e, grazie ai finanziamenti europei del PIS 14, è stata nel 2008 completamente restaurata e resa funzionale. Attualmente è sede dell’associazione “Ecomuseo del Paesaggio delle Serre di Neviano”. L’insediamento è visitabile previa prenotazione, contattando il Comune di Neviano.

Le foto sono di Cosimo Napoli

Da una foto del 1911 ecco il Grande Laboratorio di fichi secchi di Neviano

di Armando Polito e Marcello Gaballo

La foto, gentilmente messa a nostra disposizione  dall’amico Cosimo Napoli, fondatore del gruppo di Facebook ” Neviano – Abbazia di San Nicola di Macugno – Ecomuseo delle serre” , costituisce un prezioso documento non solo sotto l’aspetto storico ma anche sotto quello artistico e del costume.

Cominciando dal primo, la didascalia ci fornisce dati preziosi sulla cronologia e sul soggetto: Grande Laboratorio di fichi secchi diretto dal proprietario Sig. Rocco Miccoli Neviano (Lecce) Ottobre 1911 Fot. Cosimo Greco – Nardò.

Non tutti sapranno e pochi potrebbero pure immaginarlo che fino agli anni ’50 dello scorso secolo il fico1 ha rappresentato un prodotto di spicco nell’economia del Salento. Chi oggi ha più di sessant’anni e da piccolo ha avuto l’opportunità di trasferirsi con la famiglia per la villeggiatura in una casa di campagna (casìnu2) avrà un ricordo, per quanto vago, della raccolta giornaliera dei fichi, operata di solito dagli uomini, mentre alle donne era per lo più riservato il compito di spaccarli e di collocarli sui graticci (cannìzzi3) perché seccassero. Al tramonto del sole, poi, i cannìzzi venivano di solito trasferiti in un locale coperto o, comunque, protetti dall’umidità della notte. Il giorno successivo, dopo che i fichi erano stati rivoltati, venivano riesposti al sole e quest’operazione si ripeteva finché il processo di essiccazione non era completato, il che richiedeva che trascorresse un tempo variabile in funzione delle condizioni atmosferiche, ma, comunque, non inferiore ad una decina di giorni. Quando tutto il prodotto era perfettamente essiccato i fichi venivano lavati e riesposti al sole ad asciugare; dopo di che avveniva un’operazione di scelta: i migliori, di solito quelli di pezzatura maggiore, venivano richiusi con all’interno una mandorla e pezzettini di scorza di limone e sistemati verticalmente uno a stretto contatto con l’altro in grandi teglie rettangolari a bordi bassi (stanàti4); gli altri, per così dire di seconda qualità, trovavano la stessa collocazione ma in

Nell’area del castello di Neviano un insediamento Neolitico?

di Cosimo Napoli

I lavori di sistemazione dell’area circostante il castello baronale di Neviano, eseguiti nel 2009, hanno dato risultati sorprendenti: dai saggi archeologici effettuati, con l’assistenza della Soprintendenza Archeologica di Taranto e la sorveglianza continua dell’Archeologa Dott.sa Barbara Vetrugno, sono venuti alla luce dei reperti di importanza straordinaria.

Sono state trovate le fondamenta di locali precedenti a quelli edificati nel 1700 e poi demoliti nel 1970. Si tratta di locali medioevali del XIII secolo. Scavando il battuto medioevale è stata ritrovata una moneta del V secolo dopo Cristo. Durante il proseguo degli scavi in quella zona ci si è imbattuti in un altro reperto importante: un dado da gioco in osso. Molto antico (foto).

Ma la scoperta più incredibile è stata un coltello del neolitico: una lama in selce della lunghezza di ben 9 centimetri.

E’ un ritrovamento molto raro per il Salento. La selce infatti non si trova nella nostra penisola ed è praticamente impossibile che sia giunta nell’area del castello per puro caso. Tale minerale in quell’epoca aveva un valore enorme, serviva per armi e utensili necessari alla sopravvivenza.
Dal ritrovamento di diversi frammenti di ceramica di impasto, della stessa epoca del coltello, si presume che nell’area del castello di Neviano vi sia stato un insediamento neolitico.

Entrambi i reperti, più tre monete che sono al vaglio degli studiosi, sono stati presi in consegna dal Centro Operativo di Lecce dalla Soprintendenza Archeologica della Puglia.
L’Amministrazione Comunale nel 2009 ha fatto il suo dovere, oggi, deve procedere ad incrementare la cultura e la storia del nostro comune. Occorre reperire i fondi necessari all’acquisizione del castello e al recupero dello stesso.
A livello storico-archeologico è importante che per ogni lavoro, specialmente pubblico, da effettuare nella zona del centro storico siano previsti dei saggi archeologici.
E’ auspicabile, pertanto, non cambiare rotta. Neviano ha diritto ad avere il suo castello, valorizzato, funzionale alle esigenze culturali dei cittadini.

Anche l’associazione “Ecomuseo del Paesaggio delle Serre di Neviano” chiede il recupero del monumento più importante del paese, da tutti riconosciuto come un vero e proprio baluardo difensivo, proteso verso la pianura salentina.

 

Le foto sono di Cosimo Napoli.

I Tafuri… senza peli sulla lingua!

antico stemma dei Tafuri

 

di Piero Barrecchia

 

Non di rado in terra salentina capita di imbattersi in brandelli del passato, in qualche cimelio di vita consumata tra meandri di palazzi ed alternanze di luci ed ombre di chiostri familiari, tra ruderi e restauri sapienti.

Non di rado in terra salentina, succede di far conoscenze con chiarissime casate nobiliari, colonizzatrici di questa penisola, quasi mai indigene.

Spesso in terra salentina, si è accolti da parenti desueti, di un aristocratico lignaggio, che t’accompagnano lungo il perimetro dei loro manieri, accostando gli usci per impedire la violenza della luce, svelandosi tara le ombre, in quella prorompente discrezionalità e riservatezza, incomprensibile ai più.

Ti esibiscono le loro facciate, tra casine, dimore di residenza e perpetui riposi, tra paraste sinuose o liscie pareti, a volte essenziali, in stile rinascimentale, a volte sorprendenti, in  tardo barocco, rococò o neogotico. Lasciano tracce ed al contempo fuggono dalla tua conoscenza. Tale è il D.N.A. tratto dal midollo storico ed architettonico della famiglia nobiliare dei Tafuri. E non se la prenda qualche discendente, che non ho il piacere di conoscere, ma i suoi antenati sono così schivi da non consentirmi la sua vicinanza, poiché nobili, letteralmente e formalmente nobili, di quella nobiltà ortodossa, inviolabile che non si concede e non permette che l’altrui sguardo varchi la soglia della blasonata casa, per non compromettere la discendenza della stirpe, per non consentire miscele sanguinee o intellettuali, se non a casati con pari requisiti.

E non fanno poi tanta fatica a nascondere la loro indole se tra le loro dimore visitate ho ben percepito, oltre all’eleganza usata e mai esagerata, una certa soggezione ed un certo disagio nel porgere anche e solo lo sguardo sui loro domicili.

Non vi è possibilità di penetrare nelle loro stanze e loro stessi mi avvertono di non attendermi un invito all’ingresso, uno zerbino con su scritto “Benvenuto”.

Il loro diniego ad un’estranea visita è esplicitato in parole, motti e figure.

Sembra volerlo ripetere un qualsiasi pertugio dei loro prospetti “Voi siete un’altrà realtà, qui è un altro mondo, un altro modo di esistere. Ammirateci pure dall’estrerno, ma non vi è concesso entrare nelle nostre viscere. Quel che nostro è nostro!”. Se l’Ade dantesca ostacola l’ingresso alla speranza, l’Eden dei Tafuri è inaccesibile ad anima e corpo. Sfido il visitartore a soffermarsi sul varco principale di una qualsiasi loro dimora e di trovar aperto un varco. Sfido il visitatore a voler percepire qualsiasi forma di benvenuto, nel second’ordine del piano nobiliare, racchiuso in perimetri di finestre serrate al pubblico. Sfido il visitatore a trovar ampie balconate nei loro prospetti. Risulteranno prettamente estetiche, assolutamente impraticabili, quasi un auto-impedimento, affinchè sia precluso ogni contatto tra i due mondi.  Sfido, ancora, lo stesso visitatore ad affermare che non sia stato avvertito, come nel costume dei nobili, con  una frase, con un mascherone apotropaico, con lo stemma stesso.  La pena è un duello subito da parte dell’intervenuto. Antico passo carrabile, divieto d’accesso vetusto, ma sempre e comunque da rispettarsi.

Gallipoli – Palazzo Tafuri, particolare dell’ingresso principale

Così, in Gallipoli, se lo stile rococò, esuberante, invita alla briosità della vita, lo scongiuro alla visita è  percepito dalle serrate imposte ed è amplificato ed esplicitato nell’astrusa capite ingiuriante, che sormonta l’ingresso.

E mentre Soleto si fregia, ora, dei natali del suo Matteo e dell’opera da lui consegnata all’intera comunità, poco o nulla gli interessa della casa natale dell’illustre figlio dei Tafuri. E così, la decadenza e l’incuria osano irrompere nella patrizia dimora, senza, tuttavia, dimostrare alcun coraggio nel contaminare il monito del geniale cittadino: “Humile so et hulmità me basta: Dragon diventarò se alcun me tasta”.

La guglia di Soleto

E gli scrigni residenziali e le ultime dimore dei Tafuri riecheggiano di tal monito in Lecce, Nardò, Galatina, Alezio ed in chissà quante altre località del Salento.

Se lo stemma estrinseca l’indole di una famiglia, allora, è ben esplicita l’araldica dei Tafuri nelle sue due varianti riscontrate.

La prima variante rappresenta una quercia, simbolo della famiglia, sormontata da un’aquila bicipite, spiegando la provenienza albanese della stirpe. Nella seconda variante, è presente la quercia sormontata da saette che, tuttavia, non la scalfiscono!

Gli impedimenti agli accessi nobiliari, come già detto, sono vari, ma esclusivo mi è sembrato l’ultimo ritrovato.

Un palazzo nobiliare seicentesco, la dimora dei Tafuri in Neviano.

Neviano- Palazzo Tafuri – particolare del quadrato

Scansione simmetrica di finestre rinascimentali, misurata eleganza, alcuna prorompenza estetica, asimmetria dell’ingresso principale alla dimora e centralità del sacro. Tutto, o quasi, lineare, se non fosse per quel mediano campanile a vela, che campeggia sul prospetto principale. Tutto, o quasi, lineare, se non fosse per quel finestrone curvilineo che apre uno spiraglio lì, sempre sulla facciata principale. Tutto, o quasi, lineare, anche nel bianco intonaco, se non fosse per quel quadrato lapideo, lì, sulla porta di un probabile luogo di culto, al quale si potrebbe accedere, se non fosse per quella porta chiusa, come nell’indole propria di questa famiglia. Tutto lineare, ma proprio tutto, se la tradizione dei moniti della famiglia Tafuri, anche qui non è smentita, proprio per quel quadrato lapideo, sul quale è incisa la scritta:“QUI NON SI GODE IMMUNITA’ ”.

Esecuzione tassativa a quanto disposto dal Sommo Pontefice Clemente XIII, nella sua “Pastoralis Officii”, nella quale si  elencano le fattispecie di illeciti criminali per i quali è interdetto ogni tipo di immunità e si specificano i luoghi ove godere di tale beneficio e, per il nostro caso, così recita:

 

“”(…) 3. Di immunità ecclesiastica invece non devono affatto godere: ” Le Cappelle, e gli Oratori esistenti nelle Case de’ Particolari, e Magnati, quantunque abbiano privilegio di Cappelle pubbliche, e l’adito in strada pubblica;(…)

4. Affinché queste Nostre sopraddette disposizioni raggiungano il loro effetto, imponiamo ed ordiniamo con la presente Lettera a Voi, Fratelli Arcivescovi e Vescovi, che ognuno di Voi nelle sue rispettive città e in qualsiasi terra, paese e castello delle rispettive diocesi assegni ai rei e ai criminali che si trovano nelle chiese e nei luoghi immuni il tempo congruo, secondo il Vostro giudizio, e si affiggano i pubblici manifesti ed avvisi, informandoli che in avvenire, secondo la Nostra presente Disposizione, in alcune chiese e luoghi sopraddetti non debbano assolutamente godere dell’immunità ecclesiastica coloro che si trovano presentemente accusati di crimini commessi (…)

(…)  Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, sotto l’anello del Pescatore, il 21 marzo 1759, nel primo anno del Nostro Pontificato.””.

E’ ovvio, dunque, che presso la nobiliare dimora dei Tafuri non era prevista tutela dalla legge ordinaria, per ogni tipo di illecito commesso.

Non è invece ovvio ed è del tutto sorprendente e particolare che la disposizione papale, emanata per tutto il Regno, sia stata eseguita letteralmente e pedissequamente, con l’affissione del quadrato presente sul prospetto di Palazzo Tafuri di Neviano.

Non escludo che vi siano disseminati altri esemplari in Salento.

Tuttavia, è sintomatico che il divieto, ampliamente pubblicizzato su una delle dimore di proprietà dei Tafuri, declami la “chiarezza” della nobile famiglia, poiché, come si suol recitare, le cose “ non le manda, certo, a dire!”.

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