Lo sciakuddhi, il folletto dispettoso del Salento

il folletto salentino, visto da Daniele Bianco

 

di Paolo Vincenti

Lo sciakùddhi, o sciacuddhi, è la maschera popolare del Carnevale della Grecìa salentina, protagonista delle colorate sfilate in maschera che si tengono nei giorni carnascialeschi. È un termine greco-salentino col quale si indica un curioso folletto, esponente di quell’immenso patrimonio che sono le tradizioni popolari del nostro territorio, abitato da molte altre maschere o “spauracchi”, quali la catta scianara, l’uomo nero, le macare, il Nanni Orcu, ecc.  Lo sciakùddhi è conosciuto sotto nomi diversi non solo negli altri comuni del Salento ma anche in tutta la vasta area meridionale italiana. Nella fantasia popolare, esso è un folletto, molto piccolo, bruttino, fosco, peloso, vestito di panno e con un buffo cappellino in testa; in genere scalzo, smanioso di possedere un paio di scarpette, quindi riconoscente nei confronti di coloro che gliele donano, ai quali regala un gruzzolo di monete sonanti o indica il luogo dove si trova nascosto un tesoro, l’acchiatura. Ha l’abitudine di saltare di notte sul letto delle case che visita, raggomitolandosi sul petto del dormiente e dandogli un senso di soffocamento, poiché esercita una forte pressione; e probabilmente, proprio dalla voce dialettale carcare, ossia “premere”, deriva carcaluru, nome con cui è più conosciuto nel nord Salento.  Per la verità, questo che stiamo descrivendo è propriamente il tipo dello scazzamurrieddhu, assimilato allo sciakùddhi, mentre lu moniceddhu è raffigurato come un uomo piccolissimo, vestito con un abito da frate ed è considerato uno spiritello più bizzarro e scherzoso che cattivo, come è invece  lu scazzamurrieddhu : “piccin piccino, gobetto, con gambe un  po’ marcate in fuori, è peloso in tutta la persona, gli copre il capo un piccolo cappelletto a larghe tese e indossa una corta tunica affibbiata alla cintola”, come  ci informa il Castromediano.

Vi è almeno una trentina di modi in cui è chiamato questo folletto: oltre a quelli già citati, asciakùddhi, variante di sciakùddhi, nella Grecìa Salentina, soprattutto a Martano; àuru, nelle varianti lauru e laurieddhu, a Lecce; diaulicchiu o fraulicchiu, o, più raro, piccinneddhu, nel medio Salento; scarcagnulu, diffuso nel Capo di Leuca; altrove anche uru, urulu, ecc.

Per il Rohlfs, sciacuddhi /sciaguddhi è un folletto ed anche un incubo; il suo nome verrebbe dal greco σκιαούλον, ossia “piccolo spettro”, da σκιά ,“ombra”, con influsso del latino augurium. In altre aree del Salento si ha però, come abbiamo detto, anche scazzamurreddhu, scazzamaurrieddhu, che secondo il Vocabolario dei dialetti salentini vale “spirito, folletto” e “incubo”. L’origine si trova in un cazzamurreddhu che, oltre a presentare l’aspetto di una parola composta, si mostra anche congruente col francese cauchemar. La somiglianza non è sfuggita a Rohlfs, che infatti rimanda la nostra forma a un composto tra la voce dialettale cazzare, “schiacciare”, e il germanico mara, “fantasma”. Nonostante la voce salentina (e meridionale) presenti un vocalismo e uno sviluppo morfologico più tipico, l’origine di questo secondo elemento è rafforzata dal primo, visto che TLFI (Trèsor de la langue francaise informatisè) ritiene che il francese cauche dipenda proprio da un latino calcare, “schiacciare” e, in sintonia con la proposta di OED (Oxford English Dictionary on line) per l’inglese nightmare, riconduce il francese mar a forme di tipo mare, “spettro” presenti in neerlandese, tedesco e inglese antico.

Munacceddhu e animali, visto da Daniele Bianco

 

A Napoli, “o munaciello” è quasi una maschera popolare; ma, a differenza del monaciello napoletano, che miracolosamente nacque dalla bella Mariuccia e dall’ottantenne doli Salvatore, come informa Giovan Battista Basile nel Cunto de li cunti, lu scazzamurrieddhu salentino non ha lasciato traccia della sua venuta al mondo. Può essere lo spirito di un bambino morto senza aver ricevuto il battesimo, come il monachicchio, l’omologo lucano del nostro moniceddhu, di cui parla Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli. Oppure, questo spirito lo si credeva sprigionato dal fumo delle carcare (da cui, forse, un’altra etimologia per carcaluru), nelle quali si produceva la calce utilizzata per le costruzioni. Dal fumo della calce ribollente, veniva fuori l’astuto folletto e guai alla casa che prendeva di mira, nella quale si intrufolava passando dal camino, e guai agli abitanti della stessa, che venivano svegliati di soprassalto dallo scazzamurrieddhu, il quale in questo modo, sonoramente, sottolineava il proprio arrivo. Certo, il comitato di benvenuto che il furbo carcaluro si sarebbe aspettato di trovare al suo arrivo non era proprio la “festa” che gli arrabbiatissimi famigliari, svegliati di soprassalto, gli volevano fare. Il Nostro è dunque un nano, categoria dalla quale ha attinto molta letteratura per l’infanzia e in ispecie le fiabe (pensiamo, su tutti, a Biancaneve e i sette nani).

Il primo e il più famoso di questi nani è lu cumpare Sangiunazzeddhu, così chiamato perché piccolissimo quasi quanto un sanguinaccio, secondo il Castromediano. Sangiunazzeddhu sta per Sanguinello e la derivazione forse più attendibile di questo termine, secondo Rossella Barletta, è quella di Silvanus, una divinità agreste della mitologia romana che più tardi il popolo convertì in una specie di folletto.

A volte, egli può volgere la sua attenzione agli animali: di notte striglia, abbevera i cavalli e gli asini nelle stalle, oppure li bastona; può vedere di buon occhio il cavallo e mal vedere l’asino, e allora toglie la biada all’uno e la porta all’altro. Una volta infilatosi in casa dal camino, comincia a compiere una serie di scherzetti anche pesanti: nasconde o cambia la disposizione degli oggetti, rompe piatti, bottiglie, bicchieri, producendo un gran frastuono, facendo sobbalzare nel letto i componenti della famiglia. Guai se vi è un ospite sgradito in casa: lu moniceddhu comincia a premergli il petto fino a toglierli il respiro. Ma se l’oppresso riesce a vincere l’affanno e a catturare il folletto, prendendolo per il ciuffetto e tenendolo fermamente, allora il dispettoso spiritello piange e prega e tutto promette per riavere la libertà.

disegno di Daniele Bianco

 

Un altro modo per sottometterlo è impadronirsi del suo berretto rosso, lu cappeddhuzzu. Senza il suo copricapo, il folletto non può vivere e per riaverlo promette di rivelare ai padroni della casa il luogo in cui si trova un’acchiatura. Ciò può essere un tranello e, per ritrovare questo fantomatico tesoro, l’uomo può cacciarsi in grossi guai, sempre che il folletto non sia nel frattempo scappato, dopo aver ricevuto il suo cappeddhuzzu, senza rivelare alcun nascondiglio. Essendo un burlone, se gli si chiede denaro, egli colma la casa di cocci; se invece gli si chiedono cocci, egli dà il denaro. “E’ uno di quei folletti”, dice ancora il Castromediano, “tra il bizzarro e l’impertinente, tra lo stizzoso e lo scherzevole, cattivo con chi lo ostacola o sveli le sue furberie, benefico con chi usa tolleranza”.

Frequentando le stalle, può succedere che si innamori di un’asina o di una cavalla ed allora è tutto premure e dolcezze. Pettina e lucida il crine o la coda della cavalla di cui è innamorato e, a questa soltanto, porta tutta la biada, sottraendola agli altri animali, che diventano sempre più rinsecchiti, per somma disperazione dello stalliere che non riesce a darsi una spiegazione per lo strano fenomeno. La famiglia che abita la casa visitata dal nanetto, a causa della sua presenza ossessiva e fastidiosissima, può anche decidere di cambiare casa; sempre che il terribile folletto non decida di seguire le sue vittime nella nuova abitazione.

Fra i vari dispetti, il peggior male è, senz’altro, quello di non dormire la notte o di dormire male, con un sonno agitato dagli incubi. C’è un altro rimedio per tenerlo lontano: si può apporre ad un arco o alla sommità della porta principale della casa un paio di corna di bue o di montone, di cui il folletto ha una paura tremenda. Come visto, un altro nome con cui viene indicato dalle parti di Lecce è lauru o auru, auricchiu nel suo diminutivo. Secondo Rossella Barletta, l’origine del termine auro deriva da “augurio”, dal latino augurium, derivato da augur, cioè “augure”, intendendo con questo termine quei sacerdoti che, nella religione romana arcaica, divinavano la volontà degli déi attraverso la lettura dei segni celesti o anche attraverso il canto o il volo, oppure ancora le interiora, degli uccelli. Ma il termine “augurio”, nella nostra lingua, è collegato con qualcosa di positivo, un buon auspicio, e questo ci fa pensare alla componente buona, o almeno duale, del carattere di questo folletto-divinità della casa. Maurizio Nocera individua un’altra etimologia per laurieddhu: “Le due parole (Laurieddhu e Monachicco) non sono in contraddizione fra di loro, anzi: Laurieddhu si riferisce al luogo e ha la sua origine etimologica da laura, grotta naturale, spesso usata nel primo millennio d. C. dai monaci bizantini per i loro ritiri, per pregare ed anche per dormire. In Salento le laure basiliane sono molte tuttora visitabili. Monachicco invece significa appunto piccolo monaco, che vive nella laura”.

Ricorda, Nocera, le sue paure di bambino nel piccolo paese agricolo (Tuglie) in cui è nato: “La mia paura era legata soprattutto al buio e ai racconti che si facevano intorno a questo elemento della natura. Una volta andati a letto, ai bambini si raccomandava di mettersi sotto le coperte e di non mettere mai fuori la testa da esse, pena l’arrivo del laurieddhu e gli scherzi di cattivo gusto che egli avrebbe potuto fare. A ciò vanno aggiunte le paure derivanti dai racconti legati all’apparizione di anime morte o comunque di spiriti maligni. Ovviamente da bambino anch’io ho creduto a tutto ciò, e non dimentico il terrore che avevo per questo strano spiritello. Il mio lettino stava affianco a quello di mio fratello più grande, oltre al quale c’era il camino, di giorno acceso, di notte spento. Una volta coricato e messa la testa sotto le coperte, l’immagine della mente più appariscente che mi si presentava era sempre quella della bocca del camino nero, dal quale poteva uscire lo gnomo dispettoso o qualche anima morta. Terrore e tremore fino a che il sonno non vinceva. Da adulti, mio fratello mi ha ricordato che durante quella prima fase di sonno ipnagogico, parlavo molto, a volte gridavo anche, e le parole che scandivo erano sempre rivolte allo gnomo affinché stesse lontano da me. Paure di bambino scaturite dalla narrazione.

Oggi di tutta questa leggenda sono rimasti solo i racconti”. Fatto sta che, nonostante la disponibilità di contributi autorevoli di figure di spicco della cultura salentina, deve ancora allestirsi una bibliografia sugli esseri immaginari salentini, anche in relazione a quelli di altre aree dello spazio mediterraneo.

Per trovare l’origine degli scazzamurrieddhi, secondo noi, si può certamente risalire ai Lares, ai Penates e ai Manes, le divinità domestiche della casa romana. Nella religione romana, i Lares erano protettori di uno spazio fisico ben preciso e circoscritto, la casa appunto. Ad essi si portavano delle offerte, come un grappolo d’uva, una corona di fiori o cibarie. Il Lar Familiaris è invocato da Catone nel De agri cultura e da Plauto nell’Aulularia. I Penati erano, etimologicamente, gli dèi del penus, cioè il vano delle provviste. Anch’essi erano i protettori della casa e dei suoi abitanti, in particolare del pater familias. Vi erano poi i Lemures o Manes, cioè gli spiriti dei morti. La morte, nell’antica Roma, veniva ritenuta contagiosa, funesta, e quindi doveva essere purificata con riti appropriati, come il sacrificio di una scrofa a Cerere. Il lutto durava nove giorni. L’ultimo giorno, si faceva un pasto sulla tomba, poi la pulizia con la scopa e la purificazione della casa e di tutti coloro che avevano assistito alla sepoltura. La famiglia infatti si riteneva contaminata, in qualche modo, dal contatto con la morte. Se ai morti veniva data giusta sepoltura, essi potevano sopravvivere in pace nell’aldilà, altrimenti potevano tornare sulla terra e tormentare i vivi. Questi spettri malefici erano chiamati Larvae e i famigliari venivano da essi tormentati. I Lares ed i Penates non abbandonavano mai la casa e ne proteggevano gli abitanti, mentre i Manes, nella loro forma di Larve, potevano essere avversi. Se dunque affondassero nella mitologia romana le origini dei folletti di casa nostra, ciò fornirebbe anche una spiegazione della loro doppia natura, benevola e malevola.

tavola di Daniele Bianco

 

Ringrazio il prof. Antonio Romano per l’ottima consulenza bibliografica.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Federico Capone, In Salento Usi, costumi, superstizioni, Lecce, Capone Editore, 2003.

Salento da favola storie dimenticate e luoghi ritrovati, a cura di Roberto Guido, Lecce, I libri di Qui Salento, Guitar Edizioni, 2009.

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Salento, tra diavoli, streghe e lupi mannari

Il Salento delle leggende.

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

I più grandi piaceri della vita sono certamente quelli più piccoli.

Un bicchiere di vino fresco con gli amici, ad esempio. Magari in una sciroccosa sera d’agosto, preferibilmente in campagna, con stelle e lune rosse sul capo, e baluginio di paesi lontani all’orizzonte.

O rivedere un vecchio film – comico, romantico, d’avventure –, di quelli legati ad un momento speciale della nostra adolescenza (stagione della vita in cui peraltro ogni momento è speciale), ritrovandosi a ridere, o perfino a piangere da soli.

O ancora di più quando, in una benefica sosta dalla frenesia moderna che tutto divora, ci accade di leggere i vecchi cunti della nostra tradizione più terrigna, popolati di magiche figure e luoghi fiabeschi e irraggiungibili: Papa Caiazzu, lu Nanni Orcu, lu Mamau, li Sciacuddhi, le case sperdute nei boschi (identificate da una “luciceddha ca se vide luntanu luntanu”), o le lande spaurenti e  misteriose dove “nu canta caddhu e nu luce luna”…

Se poi li cunti si ha la ventura d’ascoltarli direttamente dalla voce delle nostre antiche nonne (specie ormai assai rara ma che sempre riaffiora nelle incantate contrade salentine) allora si viaggia davvero sulle nuvole.

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Le nonne. Quante ne abbiamo avute, noi piccoli d’altri tempi? Ogni vicolo, corte, strada o viuzza del quartiere brulicavano di queste splendide fate vestite di nero e di rughe, coi candidi capelli raccolti ad arte sotto fazzoletti di primavera. Sferruzzavano per lo più sulla soglia di casa, quando non sistemavano pochi panni ad asciugare su una breve corda tenuta distante dal muro tramite una piccola canna, oppure  controllavano i pomodori distesi a seccare al sole sui marciapiedi, fra graticci di fichi e talaretti di foglie di tabacco.

Se le avvicinavi senza timore, allora tiravano fuori dalle tasche del grembiule inenarrabili meraviglie in regalo: rocchetti di filo colorato, foglie inebrianti di menta e di basilico, fichi tostati, pesciolini di liquirizia, frammenti di taralli o mostaccioli, mandorle bianche, qualche lupino. E il loro caldo sorriso.

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Non è appunto al sorriso e al buonumore che muovono molte delle leggende salentine, tanto fantastiche da sembrare vere?

Se Soleto  può in un certo senso vantarsi che la sua celebre “guglia di Raimondello” fu costruita in una sola notte dal mago Matteo Tafuri di concerto con diavoli e streghe, pochi forse sanno che anche a Tricase la cosiddetta Chiesa Nuova  fu opera del Maligno. Il quale, parimenti, la eresse nell’arco di un’unica nottata, dopo un patto con il cosiddetto “Principe vecchio”, che la tradizione popolare identifica in messer Jacopo Francesco Arborio Gattinara,  marchese di San Martino, personaggio realmente esistito.

Secondo la leggenda, i fatti si svolsero in questo modo. Intorno alla fine del XVII secolo, messer Jacopo decise di favorire i numerosi contadini che lavoravano e vivevano nelle campagne (e volevano scacciare le Malumbre ossia gli spiriti maligni), costruendo fuori Tricase, sulla via verso il mare, una nuova chiesa, storicamente ultimata nel 1685, a pianta ottagonale, e dedicata alla Madonna di Costantinopoli. A tale scopo – attraverso il fatato “Libro del Comando” – pensò bene di evocare il Diavolo in persona, peraltro con il segreto intento di prendersi beffe di lui, come vedremo.

La sfida proposta dal nobile di Tricase, che contemplava la costruzione dell’edificio sacro in una sola notte, fu accolta dal Diavolo, a condizione però che, nella stessa chiesa, a offesa e scherno di Dio, il Principe vecchio avesse poi offerto l’ostia consacrata ad un caprone, simbolo di Satana. Per tale impegno, in aggiunta, il Signore delle Tenebre avrebbe lasciato nella nuova chiesa un forziere pieno di monete d’oro.

Sancito il patto, ed eretta la chiesa, la mattina del giorno dopo il Diavolo ricordò la promessa al Principe vecchio, il quale negò di avergliela mai fatta. Sentendosi beffato, e non avendo più il potere di distruggere l’edificio sacro appena eretto, il Diavolo sfogò allora la sua collera aprendo nei pressi un canalone d’acqua (chiamato dai tricasini Canale del Rio) e gettandovi dentro le campane della chiesa, che ancora oggi, nei giorni di tempesta, sembra facciano sentire, risalenti da sottoterra, i loro cupi rintocchi.

E il forziere con le monete d’oro? Il Principe vecchio ebbe modo di trovarlo ed aprirlo, ma dentro – di beffa in beffa – pare che vi si trovassero delle insignificanti monete di metallo vile o (secondo altre versioni) addirittura dei sassi.

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“È natu nu stregone a la casa mia!”  pare che gridassero un tempo i padri di bimbi maschi nati nella notte fra il 24 e il 25 dicembre. In quella data fatidica – la santa Notte di Natale – non si ammetteva infatti che potessero venire al mondo altre creature all’infuori di Gesù Cristo. Sicché, quando succedeva, era credenza diffusa che gli “sventurati” maschietti ereditassero una doppia natura, quella umana e quella bestiale, e non c’era altra soluzione di esorcismo che salire sul tetto della casa, a mezzanotte in punto, e gridare al vento la notizia, in modo che il vento stesso la potesse disperdere.

La leggenda s’intreccia con altre leggende, che vogliono la Puglia e il Salento (soprattutto nelle zone tra Nardò e Avetrana, e più a sud-est, verso il litorale idruntino) sono state per secoli considerate terre di lupi mannari. Alcuni antropologi sostengono anzi che la licantropia abbia avuto le sue origini proprio nella nostra regione.

Secondo il mito, Licaone, re dell’Arcadia e padre di cinquanta figli, ne sacrificò uno a Zeus per ingraziarselo. Ma il Padre degli dei, inorridito dall’empietà del gesto, inseguì il re fino in Puglia, dov’era riparato, e qui lo trasformò in lupo, lasciandogli tuttavia assumere alternativamente tanto la natura umana (visibile quasi sempre di giorno) quanto  quella belluina (manifesta di notte, ed in particolare nelle notti di plenilunio).

La più antica storia di lupi mannari la troviamo addirittura nella Bibbia, e riguarda il famoso re Nabuccodonosor che, per la sua vanità, fu trasformato in lupo da Dio. Anche nella mitologia egizia, il dio Ap-uat che traghettava i morti nell’aldilà aveva sembianze di uomo-lupo. Fino ad arrivare al periodo fra il 1500 e il 1600, in cui in tutta Europa la “caccia ai licantropi” era addirittura diffusa quanto e più di quella alle streghe.

A tale proposito, sentiamo il dovere di fornire ai nostri lettori alcuni utili consigli, nel caso dovessero incontrare qualche lupo mannaro, e volessero metterlo in fuga. La prima e più sicura precauzione è posizionarsi al centro di un incrocio, perché questi esseri hanno terrore delle croci. Tuttavia, se nelle vicinanze con ci fosse un incrocio disponibile, basterà salire sopra un gradino e aspettare tranquilli che il lupo mannaro se ne vada: è noto infatti che i lupi mannari sono del tutto incapaci di salire le scale, e perfino un solo gradino.

Se per colmo di sventura non disponeste neanche di gradini, allora spargete per terra del sale grosso (tenetene sempre prudentemente una piccola scorta nelle tasche): il nostro avversario, in tal caso, si fermerà a raccogliere e contare ad uno ad uno i granelli di sale gettati per terra, lasciandovi tutto il tempo per svignarvela alla chetichella.

Infine, se nessuno degli antidoti di cui sopra fosse a vostra disposizione, recitate con fiducia una preghiera, e sperate ardentemente che il lupo mannaro di fronte a voi abbia già fatto per suo conto un’abbondante colazione…

 

A proposito di streghe,lo sapete che nel nostro Salento ce ne sono ancora tantissime? No, non ci riferiamo alle varie megere di più o meno diretta conoscenza, tipo suocere e affini: parliamo veramente di striare e macare, le streghe originali di Terra d’Otranto, che zòmpano, ballano e cavalcano scope volanti.

Uno dei luoghi deputati per i famosi (o famigerati) sabba stregoneschi è il cosiddetto “noce del mulino a vento” in agro di Uggiano La Chiesa. Quest’albero magico pare sia ubicato nei pressi di un antico frantoio ipogeo d’epoca seicentesca (recentemente restaurato), ma nessuno ne conosce esattamente il sito, o lo tiene prudentemente segreto, per evitare malocchio e sfortuna.

I paesani comunque sostengono che ancora oggi, in alcune notti di luna piena e fino all’alba, in un’ampia zona della campagna tra Uggiano e il vicino borgo di Casamassella si diffondono nell’aria suoni indistinti e spaventevoli, inframmezzati da alte grida, canti e risate oscene, che terrorizzano perfino gli animali domestici e la selvaggina.

Se, vostro malgrado, vi dovesse capitare di trovarvi coinvolti in un sabba, e volete evitare di essere risucchiati in aria, rischiando poi di ballare freneticamente per una notte intera e di morire stremati, imparate e recitate all’occorrenza, per tre volte consecutive, questa filastrocca scaccia-guai: “Zzumpa e balla, pisara, zzumpa e balla forte, se scappi de stu chiacculu non essi cchiui de notte… Sutta l’acqua e sutta lu jentu sutta lu noce de lu mulinu a jentu”.

Buona fortuna.

 

Lu fattu te lu Nanni Orcu

di Alfredo Romano

Nc’era ‘na fiata ‘nu cristianu ca se chiamava Giuvanninu. Tenìa tanti fiji e lla mujère stia malata intra llu jettu. La fame era tanta mo’ e nnu’ ssapìa comu ia ffare cu ttroa quarche ppocu te mangiare. Ma ‘nu giurnu ca facìa friddu e mmutu jentu tisse:«Nnà! mo’ me piju la retrucàrica e bba’ bbìsciu ci pìju ‘nu pocu te auceddhi pe’ la mujère mia e ppe’ lli fiji mii ca sta mme mòranu te fame.»
Ia šcire mutu luntanu mo’, e ppe’ pruiste se mise ‘n poscia giustu do’ ove ddelessate. Camìna e ccamìna, camìna e ccamìna, rriàu intru ‘nnu fondu te ulìe, ma àrburi cusì erti mo’ ca parìa ca rriàvanu ‘n cielu. E llu jentu li facìa te cquai e de ddhai e nc’èranu tanti te quiddhi auceddhi ca se sentìa ci-cì! ci-cì!
«Beddhi mi’!» suspiràu lu Giuvanninu, «ca li fiji mii puru hanu mmangiare!» Tittu fattu e sse mise sparare sai? Ppim! ppum! ppam! Ppim! ppum! ppam! Catìanu ddhi sangu te auceddhi, sai? Tira te cquai, tira te ddhai, ‘nsomma, lu Giuvanninu se inchìu la borsa te auceddhi, e stia cu sse nde torna ccasa, quandu, tuttu te paru, ntise la terra ca ne rimbumbava sotta lli pieti: bum! bum! bum! bum! E quistu bum-bum se mbicinava sempre te cchiùi. Cce ggh’èra? Èranu li passi te lu Nanni Orcu ca te luntanu, sentendu sparare, era ssutu ‘n cerca te carne umana. Quandu lu pòveru Giuvanninu se ccorse ca era lu Nanni Orcu, addhu nu’ ppotte fare ca cu sse rràmpica susu ll’àrburu cchiù ertu ca nc’era. Addhai ca lu Nanni Orcu ne rriàu sotta e ffacìa cu sse rràmpica puru iddhu cu rria sse lu mangia. Ma era mutu crossu e scrufulava.
Ma lu Giuvanninu, a ddha ssusu a ddhunca stia, tenìa la retrucàrica sempre a ttirezione te lu Nanni Orcu.
Ma quandu lu Nanni Orcu tuccàu ccustata ca nu’ llu putìa propriu zziccare lu Giuvanninu, tuttu rraggiatu pijàu ccritare:
«Šcindi ca t’aggiu mmangiare! šcindi ca t’aggiu mmangiare!»
«Sì, ca era fessa mo’!» li rispundìa a ttonu lu Giuvanninu, facendu ddivedère ca nu’ llu timìa. E ntorna:
«Šcindi ca t’aggiu mmangiare! šcindi ca t’aggiu mmangiare!»
«Sienti, Nanni Orcu, cerca cu tte stai quetu quetu. Ca cce tte pensi? Ca iu su’ cchiù fforte te tie!»
«Comu sarebbe ddire ca si’ cchiù fforte te mie. E ffamme bbisciu comu sinti cchiù fforte!»
Lu Giuvanninu ‘llora cacciàu te poscia le ddo’ ove ddelessate e nne tisse:
«Sta lle viti ‘ste ddo’ palle te fierru?»
«Sta lle vìsciu! sta lle vìsciu!»
«Cuarda: iu cu ‘nna manu sula fazzu cu sse rùmpanu.» E nnu’ spicciàu te tire, ca le ddo’ ove ddelessate èranu già scrafazzate.
«Sangu te cusì!» castimàu lu Nanni Orcu «allora quistu è cchiù fforte te mie!» E sse vutàu a llu Giuvanninu e nne tisse:
«Sai cce ffanne? Šcindi ‘llora, nu’ mboju tte mangiu cchiùi, facìmu pace; anzi sciamu ccasa mia e nne facìmu’ ‘na beddha mangiata.»
«Parola ca nu’ mme mangi?»
«Parola!» tisse lu Nanni Orcu.
«Cuarda ca iu šcindu cu lla retrucàrica, cu stai ccortu. E poi vòju tte vvisu te ‘n’addha cosa, e ttiènila mmente senò su’ gguai pe’ ttie: se tieni la ventura cu mme tocchi puru cu ‘nnu tìsciatu, te nde uli ‘ll’aria e scumpari te la facce te la terra.»
«None none, nu’ tte toccu, nu’ tte toccu!» tisse lu Nanni Orcu. E ppoi tra de iddhu: «Sangu te cusì! Quistu hae béssere cchiù fforte te mie!»
E tutti toi te paru pijàra la strata ca scia a ccasa te lu Nanni Orcu, e quistu caminava e sse tenìa luntanu te lu Giuvanninu. Ca va’ ssacci… cu nnu’ ssia ia bulare ‘ll’aria!
Ma lu Giuvanninu lu tenìa sempre t’occhiu lu Nanni Orcu. Ca va’ sacci… quiddhu a llu meju se putìa menare sse lu mangia.
Quandu ca èranu ‘ppena rriati a lla casa te lu Nanni Orcu, la Nanni Orca, ca stia intru ccasa cu ffazza servizie, ntise già la ndore te carne umana. Sicché essìu te pressa e quandu vitte lu forastieru cu mmarìtusa, tisse sbabbata:
«Bongiornu, bon omu.»
«Bongiornu, bongiornu» rispuse iddhu mo’ cu nn’aria te omu benforte.
Ma la Nanni Orca, ccustànduse a ‘nna ricchia te lu Nanni Orcu, ne tisse cittu cittu:
«Beh, iu sta mmoru te fame: quandu ete ca ne lu mangiamu ‘stu cristianu?»
«Nu’ ccangi mai! Pe’ mmoi statte queta, àggi ‘nu pocu te canza: ca quistu è cchiù fforte te nui, tocca llu pijámu a ll’ampruìsa. Ma tie ‘ntantu cconza tàula, ca facìmu prima cu mmangia e ccu bbia, e ppoi, quandu ca s’hae binchiatu bonu bonu, lu mandamu sse curca. E quandu ca sta dorme ‘n chinu ‘n chinu, ne preparu ‘nu bbeddhu carizzu.»
E lla Nanni Orca giustàu tàula e tutti ttre se mìsera mmangiare. Li Nanni Orchi però mangiàra picca, ca sapìanu ca a llu cramatina s’ìanu binchiare te carne umana. Ca mo’ nu’ bbitìanu l’ora, no?
La Nanni Orca preparàu la stanza cu ddorma lu Giuvanninu e quistu, patrefijoluspiritusantu, sciu sse curca.
Quandu ca se fice notte funda, lu Nanni Orcu dišcitàu la Nanni Orca e nne tisse:
«Tie va prepara lu furnu, ca iu mo’ vau, lu fazzu a stozze e ccramatina ne lu mangiamu.» E lla Nanni Orca te pressa sciu cu dduma lu furnu.
Cce ffice lu Nanni Orcu? Pijàu ‘na sorta te ‘ccetta, crossa quantu osci-ccrai e šciu cu apre chianu chianu, senza ffazza rumore, la porta te la cambara a ddhunca sta’ ddurmìa lu Giuvanninu. Trasìu a llu scuru, sciu a ttirezione te lu jettu e nne zziccàu mmenare susu corpi te ccetta: tiritìnghi e tiritànghi! tiritìnghi e tiritànghi! E lle stozze se nde vulàvanu a ll’aria a ddhunca t’ete, ca ne catìanu puru ‘n facce.
«Ah, comu sta tte lu cumbinu,» facìa tuttu cuntentu lu Nanni Orcu «sta mme ddefriscu propriu. Cramatina vegnu mme ccoju ‘ste beddhe stozze: acchiàtu comu n’imu bbinchiare!» E llassàu tuttu comu se toa e scìu sse curca.
Ma se critìa iddhu mo’ ca lu facìa fessa lu Giovanninu! Lu fattu foe ca quistu l’ia pensata ca lu Nanni Orcu s’ia misu quarche ppianu ‘n capu cu llu ccite. Sicché cc’ia fattu? Ia pijàtu tante beddhe cucuzze ca ia truvatu intra ‘nnu canišcione e ll’ia giustate susu lu jettu, cu ffazza ccritìre mo’ ca iddhu stia ddha ssusu. Poi s’ia misu cu spetta a ‘nn angulu te la càmbara.
Quandu a llu cramatina lu Nanni Orcu trasìu intru lla stanza cu ‘nna canìšcia cu sse ccòja le stozze… e nnu’ bba tte vite lu Giuvanninu tuttu beddhu mpizzatu ca sta sse la passaggiava?
«Bongiornu,» tisse lu Nanni Orcu, ca nu’ ccritìa a ll’occhi soi, «hai turmùtu bonu stanotte?»
«Sì, sì, eccòmu! Àggiu turmùtu propriu bonu; sulamente ca a ‘nnu beddhu mumentu m’àggiu sentutu rriare ‘n capu scorze te nuci.»
«Sangu te cusì!» castimàu lu Nanni Orcu intra te iddhu. «Comu, l’aggiu fattu a stozze, l’aggiu fattu, e quistu tice scorze te nuci? Sangu! Ma quistu ‘llora è cchiù fforte te mie!»
Passàu tuttu lu giurnu. Alla sera ntorna mangiàra e llu Giuvanninu scìu sse curca. Ma a llu vutare te la menźanotte, lu Nanni Orcu tisse ‘n’addha fiata a lla Nanni Orca cu bbàscia pprepara lu furnu pe’ llu cramatina. Tenìa ‘n addhu pianu ‘sta fiata. Cce ffice? Sciu cu ppìja ‘na rota te trappitu, ca pisava quarche quintale, e sse mise cu lla spinge susu lle scale ca purtàvanu a lla làmmia te la càmbara a ddhunca turmìa lu Giuvanninu. Susu ‘sta làmmia nc’era ‘nu trabuccu ca tia luce e cca stia propriu terittu susu lu jettu. Sette camise sutàu lu Nanni Orcu cu lla pozza spingìre a ddha ssusu la rota. Aprìu ddhu sangu te trabuccu e scurumbulàu la rota susu lu jettu te lu Giuvanninu.
«Ah, mo’ sì ca l’àggiu ccisu! Cce mmangiata ca m’àggiu ffare cramatina!»
Iddhu mo’ se critìa…Lu Giuvanninu ia sciutu sine sse curca, ma cu ‘nn occhiu ia turmùtu e ccu ll’addhu ia statu ddišcitatu. Sicché, quandu ia ntisu lu rumore te quiddha sangu te rota, era sciutu sse scunde ntorna a ‘nn angulu.
Quandu a llu cramatina lu Nanni Orcu scìu cu sse ccòje ddha bbeddha carne umana, lu vitte ntorna tuttu mpizzatu, ca nu’ ccritìa a ll’occhi soi:
«Bongiornu» ne tisse.
«Bongiornu, bongiornu» rispundìu lu Giuvanninu.
«Beh, comu si’ statu stanotte?»
«Ah, bonu bonu! Sulamente ca a ‘nnu beddhu mumentu àggiu sentùtu ‘n capu do’ scorze te nuci.»
«Do’ scorze te nuci!» tisse intra te iddhu lu Nanni Orcu. «Sangu! N’àggiu menatu susu ‘na rota te trappitu e sta mme cunta te scorze te nuci? Quistu ‘llora hae béssere cchiù fforte te mie!»
Mo’ lu Nanni Orcu nu’ ssapìa cchiùi comu ia ffare cu sse mangia lu Giuvanninu. Pensa e pensa: «Mo’ sa’ cce ffazzu?» tisse «Lu portu intra llu boscu e bitìmu a cci è ccapace cu mmena ‘n àrburu ‘n terra cu lle mane sulamente. Ca… bonu bonu, pìju ‘n àrburu, ne lu menu susu e ffazzu cu mmora!»
«Vo’ tte mmisuri cu mmie?» tisse lu Nanni Orcu a llu Giuvanninu «Vitìmu ci è ccapace crai cu mmena ‘n àrburu ‘n terra te intra llu boscu.»
«Ca percé:» rispuse lu Giuvanninu «nu’ mme tiru rretu iu.»
Ma appena se fice notte, lu Giuvanninu scìu cu ‘nnu serrettu intra llu boscu e ccuminciàu sserrare ‘n àrburu, quiddhu ttantu però cu rresta ‘ppena ‘ppena tisu. Poi fice do’ busci a llu troncu quantu ‘nu tìsciatu e lli inchìu te ricotta.
A llu crai se ‘źara prestu tutti toi cu bbanu intra llu boscu, e llu Giuvanninu ne rripetìu ntorna a llu Nanni Orcu cu stèscia ttentu e ccu ccamina luntanu te iddhu: se no acchiàtu a ddhu se nde vulava.
Rriati ca fora a llu boscu, lu Giuvanninu se mise nnanzi ll’àrburu ca ia serratu e nne tisse a llu Nanni Orcu:
«Vo’ tte fazzu biti ca ‘st’àrburu fazzu ccàscia ‘n terra cu ddo’ tìsciate?»
«Vane! vane! Cce sta’ mme tici? Mo’ sta’ bindi tràpule!»
«Statte ttentu ‘llora.»
E llu Giuvanninu nfilàu do’ tisciate intra lli busci chini te ricotta e, quantu pare ca ne tese ‘na spinta e ll’àrburu catìu.
«Sangu te cusì!» tisse lu Nanni Orcu «Ca quistu è cchiù fforte te mie!»
E ccusì se nde turnàra ccasa. Lu bellu ca la Nanni Orca, lu stessu ca piace, ia preparatu lu furnu cu sse rrùstanu lu Giuvanninu e quandu li vitte rriare tutti toi rimase cu ttantu te cannarozzu.
«Acquai nu’ sse pote fare gnenzi,» ne tisse cittu cittu lu Nanni Orcu a lla Nanni Orca «quistu è cchiù fforte te mie!»
E ppassàvane li giurni e llu Giuvanninu pensava sempre a lli fìji soi ca sta’ mmurìane te fame e a lla mujère soa ca stia intra ‘nnu fundu te jettu. Mo’ nu’ ssapìa comu ia ffare cu sse la squàja te lu Nanni Orcu. Pensa e pensa alla fine ne vinne ‘n capu ‘nu pianu. Nc’era nnanzi ccasa te lu Nanni Orcu ‘na palla te fierru ca pisava ci sape quanti quintali. Cce ffice? Se piazzàu nnanzi ddha palla e ccuminciàu a ccritare menandu le razze a ll’aria:
«Cristiani te quistu mundu e de quiddhàaaddhu… scansàaative… rriparàtive a ‘nn angulu te càaasa… stàu cu ttoccu cu ‘nnu tìsciatu ‘sta palla te fièeerru… stàtive ttèeenti… mo’ se nde vula ‘ll’àaaria… e bba ccate a quarche ppàaarte!»
Lu Nanni Orcu ntise. «Ma cce sta ccrita?» tisse «Vo’ tte fazzu biti ca sta mme cumbina ‘n’addha te le soe? Assa cu bba bbìsciu, cu nnu’ ssia me mena quarche addhu cazzunculu.»
Quandu scìu e llu vitte nnanzi ddha sangu te palla: «’Nsomma se po’ capire percé sta’ ccriti?» ne tisse. E llu Giuvanninu ntorna:
«Cristiani te quistu mundu e de quiddhàaaddhu… scansàaative… rriparàtive a ‘nn’angulu te càaasa… stau cu toccu cu ‘nu tìsciatu ‘sta palla te fièeerru… stàtive ttèeenti… mo’ se nde vula ‘ll’àaaria… e bba ccate a quarche ppàaarte!»
«None none! statte quetu! pe’ ll’amore te ddiu!» Ma nu’ nc’era gnenzi te fare: lu Giuvanninu nu’ lla spicciava te critare ‘cristiani te cquai e ccristiani te ddhai.
«Pe’ ll’amore te ddiu! pe’ ll’amore te ddiu!» nsistìa lu Nanni Orcu «nu’ mme tuccare quiddha palla te fierru! làssala stare! fermu, fermu! Cu nnu’ ssia va nne cate ‘n capu!» Ma lu Giuvanninu nu’ lla spicciava te critare.
«Sièntime cquai, sièntime cquai» risulvìu allora lu Nanni Orcu. «Vòju tte tau ‘nu caricu te sordi: basta ca te nde vai. Te tau ‘nu ciucciu e ddo’ visazze chine chine te tucati t’oru. Vane e nnu’ ffatte cchiùi bbitìre: ca tie quantu cchiùi stai cquai, cchiùi me minti intru lli perìculi.»
E llu Giuvanninu ippe lu ciucciu cu le ddo’ visazze chine te oru, ma prima cu pparta tisse a llu Nanni Orcu:
«Iu sta mme nde vau, ma nu’ ppozzu salire susu llu ciucciu senò se nde vula. Vole tire ca iu caminu ‘ll’ampete e llu ciucciu te coste.»
Salutàu lu Nanni Orcu e lla Nanni Orca e partìu.
Quantu ca fice ‘nu pocu te strata, poi, sicuru ca nu’ llu vitìa cchiui nišciunu, pijàu e mmuntàu susu lu ciucciu. E ffuci ccasa mo’!
Lu Nanni Orcu però già s’ia fattu pentutu te tutti quiddhi sordi ca n’ia tatu. Nu ss’ia datu pe’ vintu ‘ncora.
«Cilaccriatu! tocca llu zzaccu!» tisse, e sse mise mmarciare cu llu rria. Addhai ca lu Giuvanninu mentre sta truttava cu llu ciucciu, sciu bba ssente: bum! bum! bum! bum!
«Sangu te ddhu porcu!» tisse «Lu Nanni Orcu sta mme sècuta!»
Cusì šcise te lu ciucciu, lu pijàu, lu scuse a rretu a ‘nnu cozzu e se mise ccuardare ‘ll’aria pe’ ffinta. Rriàu lu Nanni Orcu e vitte lu Giuvanninu senza ciucciu ca sta ccuardava ‘ll’aria.
«Ma se po’ ccapire cce gh’ete ca sta’ ccuardi?» ne tisse lu Nanni Orcu.
«Nna! è successu ca senza mmancu cu mme ddunu, àggiu tuccatu lu ciucciu cu ‘nnu tìsciatu e quiddhu se nd’è bbulatu ‘ll’aria cu ttutte le visazze. Sta ccuardu ci pe’ ccasu lu vìsciu šcindire a quarche parte.»
«Sangu te cusì!» tisse tra de iddhu lu Nanni Orcu. «Acquai è mmeju cu mme nde vau, cu nnu’ ssia quiddhu, ci va mme tocca cu ‘nnu tìsciatu, me face cu mme nde ulu ll’aria comu lu ciucciu!»
E ‘sta fiata, lu Nanni Orcu se nde turnàu rretu senza nuddha speranza cchiùi cu sse mangia lu Giuvanninu.
E llu Giuvanninu, angrazieteddiu, putìu turnare ccasa soa, ma, a llu trasire ca fice ccasa, truvàu la mujère e lli fiji cchiù mmorti ca bbii. Ma quandu aprìu le visazze e ffice cu bbìscianu tutti quiddhi tucati t’oru, frate miu! l’ii bitire cumu sartàvanu pe’ lla cuntentezza. E llu Giuvanninu chiamàu li fiji e a unu a unu li cumandàu:
«Tieni ‘sti sordi tie! vane e ccatta lu pane; tie nà! vane e ccatta la murtatella, tie ccatta ‘na ringa, tie pija to’ nuceddhe, tie li portacalli, tie la ggiocculata, tie ‘nu beddhu litru te vinu, tie l’òju. E sbricàtive: ca te osci nnanzi intru ‘sta casa la fame nu’ ss’hae mancu nnominare!
E iddhi vìssera felici e ccuntienti e nnui nu’ ìppime gnenzi. Ci voi tte cuntu ‘n addhu me tai ‘nu taraddhu.

 

 

Il fatto del Nanni Orco (traduzione)

C’era una volta un tale che si chiamava Giovannino. Teneva tanti figli e la moglie stava nel letto ammalata. La fame era tanta e lui non sapeva come fare per trovare un po’ da mangiare. Ma un giorno che faceva freddo e c’era vento, disse:
«To’! mo’ mi armo di fucile e vado a vedere se piglio un po’ d’uccelli per la moglie mia e per i figli che mi muoiono di fame.»
Visto che doveva recarsi lontano, si mise in tasca per provviste giusto due uova sode. Cammina e cammina, cammina e cammina, giunse presso un fondo d’ulivi, ma ulivi così alti che pareva toccassero il cielo. E il vento li scuoteva di qua e di là e c’erano tanti di quegli uccelli che si sentiva un continuo ci-cì! ci-cì! ci-cì!
«Belli miei!» sospirò Giovannino, «ché pure i figli miei hanno diritto di mangiare!»
Detto fatto. Prese subito a sparare, sai? Pim! pum! pam! Pim! pum! pam! E cadevano gli uccelli, sai? Insomma tira di qua, tira di là, Giovannino si riempì la borsa di uccelli e stava per far ritorno a casa quando, ad un tratto, sentì la terra rimbombargli sotto i piedi: bum! bum! bum! bum! E questo bum-bum era sempre più vicino. Cos’era? Erano i passi del Nanni Orco che, avvertiti gli spari da lontano, si era mosso in cerca di carne umana.
Quando il povero Giovannino intravide Nanni Orco, altro non potette fare che rifugiarsi in cima all’albero più alto che c’era. Lì che Nanni Orco gli si fece sotto tentando a più riprese di arrampicarsi, però, ahimè, lui era così grosso che a ogni tentativo scivolava e scivolava lungo il tronco. Ma Giovannino, appollaiato in alto lassù, non smetteva di tenergli il fucile puntato.
Quando Nanni Orco si convinse di non poter acchiappare Giovannino, preso dalla rabbia, si mise a urlare:
«Scendi ché ti devo mangiare! Scendi ché ti devo mangiare!»
«Sì, che sono fesso io!» gli rispondeva Giovannino, facendogli credere di non temerlo. E di nuovo:
«Scendi che ti devo mangiare! Scendi che ti devo mangiare!»«Senti, Nanni Orco,» più deciso stavolta Giovannino, «stattene quieto quieto! Ma che credi: io son più forte di te!»
«Come sarebbe a dire che sei più forte di me: e fammi vedere allora come sei più forte!»
A questo punto Giovannino tolse dalla tasca le due uova sode, le chiuse in un pugno e gli disse:
«Le vedi queste due palle di ferro?»
«Le vedo, le vedo.»
«Stai attento, perché io posso romperle con una mano sola.» E non finì di dire che le due uova erano già schiacciate.
«Sangue di così!»[2] bestemmiò Nanni Orco, «allora questo è più forte di me!» Quest’ultime parole dette sottovoce. E si voltò verso Giovannino e gli disse:
«Fai una cosa: scendi pure, facciamo la pace, non ti voglio mangiare più. Andiamo a casa mia anzi: lì ci faremo una bella mangiata.»
«Parola che non mi mangi?»
«Parola!» disse Nanni Orco.
«Attento però, che io scendo col fucile. Ti avviso di un altro fatto poi, e tienilo in mente se no saranno guai per te: se tu avessi la ventura di sfiorarmi sia pure con un dito, prenderesti il volo e scompariresti dalla faccia della terra.»
«No no non ti tocco! non ti tocco!» disse Nanni Orco. Ma poi tra sé: «Sangue di così! questo deve essere proprio più forte di me!»
Ed entrambi s’incamminarono per la via che portava alla casa di Nanni Orco. Costui però, a rischio di volare in aria, si teneva ben distante da Giovannino.
Erano appena arrivati nei pressi della casa, che Nanni Orca, intenta alle faccende domestiche, fiutò già l’odore di carne umana. Per questo uscì di fretta e, alla vista del forestiero, fece sorpresa:
«Buongiorno, buon uomo.»
«Buongiorno!» rispose Giovannino con una faccia spavalda.
Ma Nanni Orca, accostandosi all’orecchio di Nanni Orco, gli disse zitta zitta:
«Quando ce lo mangiamo? Ché io sto morendo di fame!»
«Ma tu non cambi mai!» le sussurrò stizzito, «mo’ te ne stai quieta quieta. Un po’ di pazienza diamine! Sai, questo è più forte di me, e bisogna prenderlo di sorpresa! Ma tu aggiusta tavola intanto: prima lo facciamo mangiare e bere e, una volta sazio, lo manderemo a dormire. E mentre lui dorme io gli preparo… una bella carezza!»
E Nanni Orca approntò subito tavola e si misero tutti a mangiare. In verità i due Nanni Orchi mangiarono poco, pregustando più in là un piatto più sostanzioso di carne umana. Giovannino invece ne approfittò perché aveva fame e, una volta sazio, si avviò a dormire nella camera approntatagli da Nanni Orca. Padrefigliolospiritosanto e finì a letto.
Ma appena si fece notte fonda, Nanni Orco svegliò Nanni Orca e le ordinò:
«Tu vai ad accendere il forno, io intanto vado e faccio a pezzi quel cristiano. Ah ah!, domattina che bella mangiata!»
Che ti fece Nanni Orco? Afferrò un’accetta grossa quanto oggi e domani, entrò piano piano nel buio della camera di Giovannino e s’accostò al letto. Qui si mise a menare colpi d’accetta: tiritinghi e tiritanghi! tiritanghi e tiritanghi! I pezzi volavano dappertutto e gli ricadevano pure in faccia. «Ah, come te lo sto combinando!» ripeteva felice Nanni Orco.
Quando credette d’averlo fatto in mille pezzi, lasciò la camera col proposito di tornarci non appena fatto giorno.
Giovannino invece non s’era fatto fregare: il sospetto che Nanni Orco stesse architettando un piano per ucciderlo lo aveva avuto. Così aveva raccolto un bel po’ di grosse zucche e le aveva adagiate sul letto a comporre una sagoma. Poi s’era posto al riparo in un angolo della camera.
E all’alba Nanni Orco varcò la stanza munito di un canestro con l’intento di riempirlo dei pezzi di carne umana. Ma quale sorpresa quando vide Giovannino tutto bello in piedi.
«Buongiorno!» disse Nanni Orco che non credeva ai suoi occhi. «Ma… hai dormito bene stanotte?»
«Sì, sì, eccome!, ho dormito proprio bene! Solo che a una certa ora della notte mi son sentito cadere addosso delle bucce di noci.»
«Sangue di così! Come…» imprecò Nanni Orco tra sé, «l’ho ridotto in pezzi e mi parla di bucce di noci. Sangue! questo allora è più forte di me!»
Trascorse il giorno. A sera, dopo la cena consueta, Giovannino si ritirò nuovamente in camera. Ma, a mezzanotte, ecco Nanni Orca pronta di nuovo ad accendere il forno. Nanni Orco stavolta però aveva escogitato un altro piano. Che ti fece? Raccolse una macina in pietra di frantoio, pesantissima, e prese a spingerla sulla scala esterna che portava al terrazzo, dove un lucernario si apriva proprio sul letto di Giovannino. Sette camicie sudò Nanni Orco per spingervi quella macina, per aprire il lucernario e scaraventarla sul letto di Giovannino.
«Stavolta sì che l’ho ammazzato!» fece sicuro tra sé Nanni Orco.
Giovannino invece… se ne stava ancora tranquillo, rifugiato nel solito angolo.
Quando, fattosi giorno, Nanni Orco tornò in camera per portarsi via la sospirata carne umana, non credette ai suoi occhi quando vide di nuovo Giovannino tutto bello in piedi.
«Buongiorno!» gli disse.
«Buongiorno, buongiorno!» ebbe per tutta risposta.
«Ma… come hai dormito stanotte?»
«Bene, bene: giusto a una certa ora della notte mi son sentito cadere in testa delle bucce di noci.»
«Bucce di noci!» fece tra sé Nanni Orco. «Sangue!… una macina di frantoio… e quello mi parla di bucce di noci! Questo allora è più forte di me!»
Mo’ Nanni Orco non sapeva più che piano inventarsi. Pensa e ripensa… «Sai che faccio,» si disse? «lo porto nel bosco e lo sfido ad abbattere un albero con le sole mani. Così, sul più bello, gli scaravento l’albero addosso e lo faccio morire!»
«Vuoi misurarti con me?» propose Nanni Orco a Giovannino. «Vediamo chi è più bravo domani ad abbattere un albero del bosco con le sole mani.»
«Non mi tiro indietro!» pronto Giovannino.
Ma appena si fece notte, Giovannino prese una sega e si recò nel bosco. Qui scelse un albero e lo segò in basso, ma quel tanto da consentirgli di tenersi ancora in piedi. Poi praticò due buchi profondi sul tronco, giusto per infilarci due dita, e li riempì di ricotta.
S’alzarono presto il giorno dopo e, sulla via per il bosco, Giovannino non si stancò di ripetere a Nanni Orco di tenersi sempre distante da lui, a rischio di spiccare il volo e perdersi in aria. Giunti che furono nel bosco, Giovannino prese posto davanti all’albero già segato e disse a Nanni Orco:
«Stai a vedere che quest’albero lo faccio cadere a terra spingendolo con due sole dita?»
«Va’ va’! ma che dici: tu mi vendi frottole!»
«E guarda allora.» Detto fatto. Giovannino ficcò le dita nei buchi pieni di ricotta, una leggera spinta e l’albero cadde.
«Sangue di così! questo è più forte di me!» tra sé Nanni Orco.
E così se ne tornarono a casa. Il bello fu che Nanni Orca anche stavolta non aveva mancato di accendere il forno per arrostire Giovannino. Per questo, vedendoli tutti e due di ritorno, rimase con tanto di naso.«Qui non c’è niente da fare!» le disse Nanni Orco in un orecchio, «Questo è più forte di me!»
Passavano i giorni e Giovannino pensava sempre ai figli suoi che morivano di fame e alla povera moglie che stava ammalata in un fondo di letto. Voleva fuggire da Nanni Orco, ma per il momento doveva essere prudente, aveva bisogno di un piano. Pensa e ripensa alla fine ebbe un’idea.
V’era nei pressi della casa del Nanni Orco una grossa palla di ferro. Che ti fece? Si piazzò davanti alla palla e si mise a gridare facendo grandi gesti:
«Uomini di questo mondo e di quell’àaaltro… scansàaatevi… riparatevi a un angolo di càaasa… sto per toccare con un dito questa palla di fèeerro… state attèeenti… adesso prende il vòoolo… va a cadere da qualche pàaarte!»
Nanni Orco intese. «Ma che grida!» disse. «Stai a vedere che vuol combinarmi un’altra delle sue? Fammi andare a vedere, ché quello mi vuol mettere qualche altro cavolo in culo.» Così si avvicinò a Giovannino, ma questi continuava imperterrito a gridare.
«Si può capire perché gridi?» disse Nanni Orco. Ma Giovannino non smetteva:
«Uomini di questo mondo e di quell’àaaltro… scansàaatevi… riparatevi a un angolo di càaasa… sto per toccare con un dito questa palla di fèeerro… state attèeenti… adesso prende il vòoolo… va a cadere da qualche pàaarte!»
«No no, cristiano mio, per l’amore di Dio, non toccarmi quella palla di ferro! lascia stare! fermo! fermo che può cadere in testa a noi!» Ma Giovannino non sentiva ragioni. Alla fine Nanni Orco:
«Stammi a sentire:» gli disse «ti darò un asino con due basti carichi di ducati d’oro: basta che te ne vai! E non farti vedere mai più, perché tu, se continui a star qui, non farai che mettermi nei pericoli.» E Giovannino ebbe l’asino e i due basti carichi di ducati d’oro, ma prima di mettersi in viaggio disse a Nanni Orco:
«Io me ne vado, ma non monterò sull’asino perché tu sai che, se malauguratamente lo toccassi sia pure con un dito, quello prenderebbe il volo. Farò la strada a piedi quindi, a distanza dell’asino.» Poi salutò i due Nanni Orchi e se ne partì.
Ma, fatta un po’ di strada, sicuro di non essere più visto, montò sull’asino e… trotta verso casa mo’!»
Nanni Orco però, nel frattempo, s’era pentito della sua generosità e decise di mettersi in marcia per raggiungere Giovannino. Lì che questi, trottando sull’asino, ti andò a sentire bum! bum! bum! bum!
«Sangue di quel porco!» imprecò, «è Nanni Orco!» Scese subito dall’asino allora, lo nascose dietro a un grosso masso e poi prese a far finta di guardare in aria. Qui che sopraggiunse Nanni Orco:
«Si può capire cosa stai guardando?» chiese a Giovannino.
«Purtroppo senza avvedermi ho toccato l’asino con un dito ed è sparito in aria con tutte le bisacce. Guardo nella speranza di vederlo cadere da qualche parte.»
«Sangue di così!» disse tra sé Nanni Orco, «se questo mi tocca con un dito, mi fa fare la fine dell’asino!» E si allontanò, e questa volta per sempre.
E, ingraziadiddio, Giovannino fece finalmente ritorno a casa dove trovò la moglie e i figli più morti che vivi. Ma quando vuotò le bisacce cariche di ducati d’oro, dovevi vederli tutti saltare di gioia. Così Giovannino chiamò i figli suoi e, a ognuno dando dei soldi, ordinò:
«Tu tieni! vai a comprare il pane, tu to’! vai a comprare la mortadella, tu compra un’aringa, tu delle noccioline, tu le arance, tu la cioccolata, tu un bel litro di vino, tu l’olio e tu questo e tu quest’altro. E sbrigatevi, che d’ora innanzi in questa casa la fame non si deve neppure nominare!»
E loro vissero felici e contenti e noi non avemmo niente. Se volete un altro fatto, datemi un tarallo.

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NOTE

[1] Auceddhi è dialetto di Neviano. A Collemeto si dice ceddhi.

[2]L’espressione Sangu te cusì (sangue di così) nei racconti sostituiva una bestemmia. Quel cusì poteva essere Dio, la Madonna o qualche santo. Era generalmente usata dal narratore timorato di Dio, che, alle prese con un discorso diretto, non se la sentiva di ripetere di pari passo una bestemmia pronunciata da un personaggio del racconto. Gli sarebbe parso di bestemmiare a sua volta. C’è da dire che se era un uomo a narrare non si faceva tanti scrupoli a volte. Se poi c’erano bambini ad ascoltare quel cusì era d’obbligo. Altre finte bestemmie che io ricordi, che della bestemmia conservavano il suono e l’espressione (quindi non sostanziali, inefficaci ai fini del peccato) erano: Sangu te la culonna o Sangu te la matombula (invece di Madonna); oppure Mannaggia lu spiritu canfuratu (al posto di Spirito Santo); ancora: Sangu te santu nuddhu (sangue di nessun santo).

Da: Alfredo Romano, Lu Nanni Orcu, papa Cajazzu e altri cunti salentini. Nardò, Besa, 2008.

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