L’ambiguità artistica dei due pittori salentini Catalano e D’Orlando

Catalano e D’Orlando: un’apparente ambiguità artistica tra i due pittori. Sulla bottega del gallipolino e alcune sue opere “sicure”

 

di Santo Venerdì Patella

Leggendo vari scritti che riguardano il gallipolino Gian Domenico Catalano e il neretino Antonio Donato D’Orlando (pittori attivi nel Salento tra gli ultimi decenni del ‘500 ed i primi del ‘600), pare che in alcune opere loro attribuite vi sia un rapporto artistico ambiguo tra i due artisti: che il D’Orlando alcune volte copi il Catalano.

Le paternità delle opere la cui attribuzione oscilla tra i due pittori, è caratterizzata da una qualità non “elevata”, e tende a favorire il più “arretrato” D’Orlando adducendo giudizi che in generale sottolineano una essenzialità stilistica della composizione della sua opera, che riguarda il colore, l’espressività dei volti e il carattere devozionale dell’opera stessa.

In queste opere si è scritto, come accennavo prima, che il D’Orlando copi il Catalano; questa osservazione però può valere quando i diversi elementi che compongono l’opera del neretino rimandano ad un aggiornamento generale del suo stile, ma non quando questi elementi sono specifici del Catalano.

Il fatto che il D’Orlando copi questi elementi pedissequamente, senza una propria originalità, non mi ha mai convinto del tutto. Il D’Orlando, nelle sue opere che ho esaminato, non copia mai il Catalano, quasi fosse un suo falsario. Immaginare il D’Orlando che vada in giro per il Salento a copiare angeli, visi, panneggi, cromie, decori, pennellate ecc. e poi nelle sue opere si prenda la briga di riposizionarli, a volte nei posti equivalenti delle stesse opere del Catalano, mi sembra quantomeno deviante. Il neretino ha un suo stile, e nella sua evoluzione artistica, al massimo si aggiorna sul Catalano e non ha bisogno di copiare passivamente chicchessia.

Al contrario, avviene che alcune opere riportate come certe del Catalano, e che in alcuni casi gli sono vicine stilisticamente, più “arcaiche”, in virtù della certezza documentaria, o stilistica, non sono di sicuro attribuibili al D’Orlando.

Questo fraintendimento critico potrebbe presentare anche una bizzarrìa, un paradosso: se il D’Orlando a volte si “aggiorna” seguendo il Catalano, allora anche il Catalano a volte “regredisce” mediante il D’Orlando?

Entrando nello specifico ho notato che alcune delle opere assegnate al D’Orlando hanno, non a caso, la stessa qualità artistica, e lo stesso stile, di altre “sicure” attribuite al Catalano e che, perlomeno, rientrano nella scia di una qualità media della produzione dello stesso pittore gallipolino.

Come esempio per tutte si tenga conto della tela della Vergine con bambino e i Santi Eligio e Menna nella cattedrale di Gallipoli, riconosciuta alla bottega del Catalano grazie alle fonti documentarie.

Venendo al dunque, in queste opere, si dovrebbe valutare piuttosto l’ambito artistico del Catalano, bottega o aiuti, che magari realizzano opere, o parti di esse, meno sostenute qualitativamente ma che sono sempre pertinenti al gallipolino.

Ora possiamo accostare perlomeno alla “qualità media” della produzione del Catalano un elenco di alcuni dipinti che dalla critica, nel corso del tempo, sono stati attribuiti ad entrambi gli artisti in questione:

La “Madonna del Carmine tra San Giacomo Maggiore e San Francesco d’Assisi” a Galatone, chiesa della Vergine Assunta;

La “Madonna col Bambino in trono e i Santi Domenico e Pietro Martire” a Matino, chiesa del Rosario;

Il “Perdono di Assisi” (realizzato nel 1608) a Muro Leccese, chiesa Madre;

Il “San Francesco e le Anime purganti” (1613 ca.) a Squinzano, chiesa di San Nicola;

Il “Perdono di Assisi” (1616 ca.) a Campi Salentina, chiesa Madonna degli Angeli;

La “Madonna del Carmine tra San Carlo Borromeo e San Francesco di Paola”, (realizzata tra il 1613 ed il 1624) a Muro Leccese, chiesa Madre.

I confronti che seguono riguardano ancora altre opere del Catalano.                            Partendo dalla tela sopra menzionata della Vergine con Bambino e i Santi Eligio e Menna che si attribuisce con una certa sicurezza, grazie alle fonti documentarie, alla bottega del Catalano, è importante notare che nel 1614 era ancora allo stato iniziale dell’esecuzione e venne completata nel 1617.

Effettivamente in quest’opera si nota un livello qualitativo meno aulico rispetto alle opere maggiori del Catalano e che si può spiegare con la presenza di aiuti; tra essi si può individuare il nome del figlio del Catalano, Giovan Pietro, che nel 1617 aveva circa 18 anni e che da qualche anno poteva già lavorare col padre (nel XVI sec. la soglia della maggiore età si situava tra i 12 e i 14 anni). Pochi anni più tardi invece vi sarà la presenza di un pittore romano che collaborò col Catalano dal 1621 sino alla sua dipartita. Si può anche citare la vicinanza stilistica alla maniera del Catalano da parte del pittore leccese Antonio Della Fiore, che dipinse il “San Carlo Borromeo” nella cattedrale leccese, dove è molto evidente l’influsso dell’artista gallipolino.                  

Facendo dei confronti ed accostando la tela della Madonna del Carmine tra San Giacomo Maggiore e San Francesco d’Assisi della chiesa della Vergine Assunta di Galatone [fig. 1] alla tela della Madonna del Carmine tra San Menna e San Eligio possiamo notare che la Madonna col Bambino è sovrapponibile in entrambe.

Fig. 1. Tratto da “La Puglia, il Manierismo e la Controriforma”, Galatina : Congedo, 2013

 

Si noti che per realizzare queste opere, si è fatto ricorso al tipo iconografico della Madre di Dio della “Bruna“, conservata nella Basilica Santuario di Santa Maria del Carmine Maggiore a Napoli.

Altre tangenze le ritroviamo nei volti posti di profilo, tra loro speculari, del Sant’Antonio Abate nella tela della Regina Martyrum di Squinzano [fig. 2], chiesa di San Nicola, e il San Giacomo Maggiore della tela di Galatone [fig. 3], simili sono anche i medaglioni istoriati a quelli della tela di San Carlo Borromeo di Surbo.

 

Fig. 2

 

Fig. 3

 

Per quanto riguarda il modo di dipingere gli angeli notiamo che sono simili alla tela del San Tommaso della chiesa del Rosario di Gallipoli, dove è stato anche ipotizzato l’intervento della bottega del Catalano; angeli simili sono anche in altre opere qui citate: Madonna del Carmine a Muro [fig. 4 e Perdono di Assisi a Campi [fig. 5]. Per quanto riguarda i panneggi alcune spigolosità ricordano quelli dell’Andata al Calvario di Scorrano e del Martirio di Sant’Andrea a Presicce.                                                                                                                           

  

Fig. 4 tratta da Anronaci, Muro Leccese, Panico, Galatina 1995

 

Fig. 5

 

Stessa iconografia mariana della “Bruna” di Napoli, e stesso stile delle precedenti opere sopramenzionate, è stata utilizzata per la tela della Madonna del Carmine tra i Santi Carlo Borromeo e Francesco di Paola di Muro Leccese [fig. 4] (commissionata da Pascale Rotundi tra il 1613 ed il 1624), somiglianze vi si rintracciano negli angeli, come nel modo di dipingere il saio dei santi francescani, figure presenti nella tela di San Francesco e le Anime purganti di Squinzano. Va sottolineato che le anime purganti già attribuire alla bottega del gallipolino, appaiono di qualità inferiore.

Tangenze con l’immagine di San Carlo Borromeo della tela del Carmine di Muro le possiamo intravedere anche nelle figure dello stesso santo esistenti nei dipinti di Surbo (Parrocchiale), nella chiesa della Lizza ad Alezio e nel trittico della Regina Martyrum, della chiesa di San Nicola a Squinzano. Una ulteriore somiglianza ai medaglioni della tela murese del Carmine è riscontrabile anche in quella della Madonna del Rosario di Casarano, (Parrocchiale).

 

Fig. 6, tratta da “La Puglia, il manierismo e la Controriforma”

 

Ora cerchiamo di approfondire ulteriormente la tela del “Perdono di Assisi” di Muro Leccese [fig. 6]. Come ho già affermato nel 2003, anche in questo dipinto le creature angeliche sono simili a quelle esistenti nelle tele del Catalano. Un esempio potrebbe essere rappresentato dall’angelo posto a destra della Madonna del dipinto in questione che è simile ad uno degli angeli di destra, al di sopra dell’Arcangelo Gabriele, nella tela dell’Annunciazione nella matrice di Specchia Preti; come pure simile è anche ad un altro angelo posto nella tela dell’Annunciazione di Squinzano, (chiesa di San Nicola) [fig. 7 A-B-C]. Simili sono anche altri angeli posti a destra del Perdono e della Dormitio Virginis della chiesa di San Francesco di Gallipoli [fig. 8 A-B]. Si noti che sul piano compositivo equivalenti sono le ubicazioni, e parzialmente anche le posture, che queste figure occupano nelle rispettive opere.

Fig. 7A

 

Fig. 7B

 

Fig. 7C

 

Fig. 8A

 

Fig. 8B

 

Le stesse somiglianze ritornano anche nelle figure del San Domenico e in quelle del committente della tela della Madonna con Bambino ed i Santi Domenico e Pietro martire di Matino, – ex chiesa dei Domenicani – infatti sono uguali le teste del San Francesco murese e del San Domenico matinese, come pure la postura dei committenti maschili [fig. 9 A-B].

Fig. 9A

 

Fig. 9B

 

A voler essere scrupolosi si possono individuare altre similitudini con altre opere riconosciute del Catalano: la frangia posta sul paliotto con croce gigliata al centro, dipinta con tre o quattro colori distinti [fig. 10], la si ritrova: nella tela della Circoncisione nella chiesa del Rosario a Gallipoli, in quella della Presentazione di Gesù al tempio, chiesa di San Francesco, Gallipoli, e addirittura anche sulla dalmatica di Santo Stefano nella tela Regina Martyrum a Squinzano, e sule vesti del Sant’Eligio della tela della Vergine con Bambino nella cattedrale di Gallipoli. Ritornando alla croce gigliata, sopra menzionata, la ritroviamo dipinta anche nel paliotto della tela di San Carlo Borromeo della chiesa parrocchiale di Surbo.

Fig. 10

 

Fig. 11

Sulla tela del Perdono di Assisi di Campi (simile al Perdono murese, che rappresenta una versione semplificata sia nelle dimensioni che nell’articolazione della composizione) [fig. 11]: le figure angeliche, sia quelle a figura intera che quelle con le teste alate, sono riprese da quelle analoghe dalla tela dell’Annunciazione di Squinzano [fig. 12]; anche qui ritorna la frangia descritta prima usata nelle altre opere già citate.

Fig. 12

 

Il volto del San Francesco, eseguito di tre quarti, é sovrapponibile a quello del Cristo della tela dell’Andata al Calvario, dei Cappuccini di Scorrano, e anche in quello del San Francesco della tela dell’Annunciazione, nella chiesa di San Francesco a Gallipoli [13A e B].

 

Fig. 13A

 

Fig. 13B

 

Rammento la mia attribuzione del 2003 al Catalano, piuttosto che al D’Orlando, della tela del “Perdono di Assisi” di Muro Leccese, purtroppo non sempre condivisa. Venne mantenuta – inspiegabilmente a mio parere – l’attribuzione al D’Orlando senza considerare le effettive tangenze stilistiche riscontrabili nei dipinti esaminati.

Pertanto, oltre a tutte le comparazioni precedenti, credo vada sottolineata la questione relativa all’angelo con le vesti celesti che si ritrova (insieme alle cromie e alle pennellate) nelle tele di Muro, “Perdono di Assisi” [fig. 7A], e Specchia, “Annunciazione” [fig. 7C].

In merito approfondiamo l’epoca di realizzazione delle due opere ed i rispettivi committenti.

La tela murese è datata 1608 ed ho potuto appurare che è stata commissionata dal “Regio Judice ad contractus” Annibale Adamo (non a caso lo stemma alludente della famiglia Adamo, o D’Adamo, richiama il pomo di Adamo); mentre la tela di Specchia, vista la sua qualità artistica, viene di solito datata al periodo maturo del Catalano. Facendo il confronto con altre opere simili dovremmo trovarci nel secondo decennio del ‘600; i personaggi ritratti in questa tela, dovrebbero essere pertanto (dopo aver valutato gli altri feudatari di Specchia nel periodo che va dagli ultimi decenni del ‘500 ai primi decenni del ‘600), Ottavio Trane e la moglie Isabella Rocco Carafa, ed ipotizzerei, vista anche l’intitolazione della tela all’Annunciazione di Maria, la data 1611, data di nascita di Margherita Trane, futura Marchesa e moglie di Desiderio Protonobilissimo, in tal caso questa tela potrebbe configurarsi come una sorta di ex voto.

Un ulteriore dilemma infine è relativo all’attribuzione del Perdono di Muro, assegnato dalla critica al D’Orlando: può l’angelo con le vesti celesti di questa tela, datata 1608 e attribuito al D’Orlando, essere stato realizzato dal Catalano nella successiva tela dell’Annunciazione di Specchia e ritenuta opera certa del pittore gallipolino?

La soluzione credo di averla espressa – in forma differente – già nel 2003, con tutte le prove del caso; il dipinto andrebbe attribuito all’ambito artistico del Catalano, come le altre tele proposte, e vista la sua qualità artistica e la caratura sociale di chi la commissionò, la riterrei anche una buona opera dello stesso pittore gallipolino.

 

Bibliografia essenziale

E. Pendinelli, M. Cazzato, Il pittore Catalano, Galatina 2000.

S. V. Patella, Una nova opera del pittore Giandomenico Catalano. Originali, copie e riprese del gallipolino a Muro Leccese, in “Il Bardo”, XIII, n. 1, p. 2, Ottobre, Copertino 2003.

L. Galante, Gian Domenico Catalano “Eccellente Pittore della città di Gallipoli”, Galatina 2004.

A. Cassiano, F. Vona (a cura di), La Puglia, il manierismo e la controriforma, Modugno 2013.

 

Archivi consultati: Archivio diocesano di Otranto e Archivio storico parrocchiale di Muro Leccese.

Ringrazio Luigi Mastrolia per avermi fornito gentilmente le foto del “Perdono di Assisi” di Campi.

 

Una nuova opera del pittore Giandomenico Catalano. Originali, copie e riprese del gallipolino a Muro Leccese

di Santo Venerdì Patella

Sino a non molto tempo fa l’unico pittore conosciuto del tardo manierismo napoletano a Muro era, secondo quanto si evince dall’Antonaci, il neretino Donato Antonio D’Orlando con le tele della Madonna con bambino tra il Battista e San Francesco (firmata e datata 1596), il San Giovanni Battista (senza firma) ed il Perdono di Assisi (datata 1608, senza firma) conservate nella chiesa di Maria S.ma Annunziata matrice della città[1].

Da buon murese e per motivi di passione e studio, essendo al termine degli studi universitari in beni culturali, ammiro di frequente queste tele e spesso mi son domandato come mai una delle tre tele, il Perdono di Assisi fosse, a mio parere, diversamente bella dalle altre due.

Anche il De Giorgi ne aveva intuito la diversa bellezza e scrive, nei Bozzetti di Viaggio: “Due altri quadri sono collocati… (nella chiesa dell’Annunziata)…, uno S. Gio. Battista, l’altro Gesù Cristo che benedice S. Francesco (il Perdono). Sotto quest’ultimo si scorgono, alla base del dipinto, le effigie votive dei donatori. Sono del 1608 e di buon pennello, specialmente l’ultimo dei summentovati”.

Dopo questo breve preludio arrivo immediatamente all’oggetto del contendere.

Antonio Donato D'Orlando
Fig. 1 tratta da “La Puglia, il manierismo e la controriforma / a cura di Antonio Cassiano, Fabrizio Vona”, Congedo, Galatina 2013

 

Propenderei ad attribuire la tela del “Perdono di Assisi” [fig. 1] non più al D’Orlando bensì al Catalano, anche alla luce delle molteplici prove di seguito fornite.

Anzitutto faccio una sintetica descrizione dell’opera: la scena è pensata geometricamente; l’ipotetica metà verticale, che bipartisce in due la composizione del Perdono, a prima vista sembrerebbe passare tra le figure di Maria e Cristo con la mano destra alzata (vertice dell’altrettanto ipotetica piramide che inscrive le due figure), e per la croce greca al centro dell’altare damascato, su cui esse sono assise in trono.

In realtà la linea, che bipartisce la composizione, passa attraverso il centro della figura della Vergine ed il mazzo di fiori posto davanti al San Francesco, che in ginocchio contempla a bocca aperta, quasi inebetito, le divinità sovrastanti.

Ai lati sono presenti due scenette con paesaggi riguardanti la storia del Perdono: nella parte superiore schiere d’angeli (alcuni musicanti) completano l’opera bilanciandola ed impreziosendola; in quella inferiore i tre busti dei committenti.

Ora addentriamoci nell’analisi delle prove.

-Dato di non poco conto, è la presenza a Muro sempre nella chiesa matrice, della tela della Madonna con bambino tra San Carlo Borromeo e San Francesco di Paola, attribuita tempo fa da Mario Cazzato al gallipolino Catalano[2] ritenuta dall’Antonaci di autore ignoto (opera su cit.).

Grazie a M. Cazzato sfatata è quindi la presenza del solo D’Orlando come unico pittore conosciuto ed attivo tra il 500 e 600 a Muro (oltre la tela della Madonna del Carmine attribuita allo Strafella, ritrovata poco tempo fa dopo il furto del 1987).

Perciò, ad arricchire la schiera degli artisti che hanno onorato Muro con le loro opere, v’è già il Catalano artista locale tra i più interessanti se non il più importante del suo periodo storico.

La Madonna con bambino è la prova del contatto dei committenti muresi col Catalano. Altro dato interessante è che la tela, anche se non datata, non è stata compiuta prima della canonizzazione di San Carlo Borromeo, anno 1610, pertanto realizzata dopo il Perdono di Assisi, datato 1608 che diviene la prima opera murese conosciuta del gallipolino.

-Anche se simile è l’impostazione originale nel trattare il Perdono, in confronto con le altre due tele del D’Orlando, non si ritrova però quello stile leggermente “arcaizzante” del modo di presentare i personaggi del neretino.

La linea delle figure del Perdono si presenta meno rigida, più fluente e sinuosa, bellissima ed elegante nei tratti dei visi e dei panneggi, specie nella maniera di dipingere le varie figure angeliche e le nubi.

Tipiche del Catalano le capigliature bionde ed ondulate delle creature celesti leggermente stempiate (quasi una “firma” dell’artista), disposte in cerchio sovra le nuvole, anche se nel gruppo di destra si potrebbe ipotizzare l’intervento della bottega.

-Altra “firma” si ritrova nelle scene con paesaggi poste ai lati dell’opera, specie nella città che è sita in alto a destra, usuale paesaggio fantastico dell’artista.

Quasi costante è la presenza dell’edificio a pianta centrale con cupola e relativa lanterna e la chiesa con facciata a capanna di gusto romanico, strutture simili a quelle dipinte nella tela dell’Annunciazione nella chiesa del Rosario, a Gallipoli.

Pongo all’attenzione dei lettori due curiosità:

1) questi paesaggi sono tanto interessanti che un altro grande pittore presente a Muro, il settecentesco Serafino Elmo, nella sua gigantesca tela del David che danza davanti al trasporto dell’Arca (posta nel coro della chiesa matrice) riprende quasi fedelmente l’architettura che il Catalano dipinse sulla tela della Santa Caterina d’Alessandria (conservata nell’oratorio di S. Giuseppe, a Gallipoli) specie nella struttura difensiva della torre; tutto questo quasi 130 anni dopo!

2) non manca a Muro anche la copia di un’altra tela del Catalano, la Salita al Calvario, il cui originale e conservato a Scorrano: anche se riprende in massima parte lo schema compositivo della tela scorranese, viene però realizzata col gusto di un’icona bizantina, opera curiosa e affascinante d’un artista “Bizantino-Naif”, esempio ultimo in città del gusto stilistico orientale del meridione; già il Maggiulli nella sua Monografia di Muro Leccese menziona queste pitture in tal modo: “…sono da rimarcarsi alcune pitture di antichissima data condotte alla maniera greca del mezzo tempo”.

-Altra caratteristica del nostro artista è di riutilizzare in più opere i cartoni o disegni preparatori; questo lo si noti nelle figure del San Domenico e del committente nella tela di Madonna con bambino ed i Santi Domenico e Pietro martire di Matino [fig. 6], ex chiesa dei domenicani: identiche le teste effigiate di profilo del nostro San Francesco e del San Domenico matinese, come identica la postura dei committenti maschili, specie nelle mani giunte, tanto simili da sembrar fratelli (per il nostro Perdono, l’opera matinese attribuita giustamente al Catalano, rappresenta quasi una pietra di paragone che avvalora le attribuzioni di entrambe.

Anche uno degli angeli posti a destra della Madonna nella tela murese è identico ad uno degli angeli posto a destra sopra l’Arcangelo Gabriele, nella tela dell’Annunciazione della chiesa matrice di Specchia, come simili sono alcuni degli angeli posti a destra del Perdono e della Dormitio Virginis della chiesa di San Francesco di Gallipoli.

Si noti che equivalenti sono i posti, ed in parte le posture, che queste figure hanno nelle rispettive opere.

Ora è fuor di dubbio che questa tela appartenga al Catalano; possiamo anche escludere che essa appartenga al D’Orlando che imita lo stile del gallipolino, perché semmai così fosse, in questa opera esso si sarebbe in realtà annullato come produttore d’opere originali, divenendone solo un “emulo-falsario” e verrebbe meno pure la loro ipotizzata rivalità, fatto questo che dichiarerebbe la “vittoria”, in termini artistici, del Catalano sul D’Orlando.

Pertanto possiamo ora esser certi della veridicità di quanto scritto, ed affermare che il Perdono di Assisi sia anche tra le migliori opere realizzate dal Giandomenico Catalano.

A Muro la partita tra i due grandi pittori, alla luce dei fatti sin ora scoperti, ebbe com’esito un salomonico risultato di parità: CATALANO – D’ORLANDO: 2 a 2.

 

(pubblicato in “Il Bardo”, XIII, n. 1, ottobre 2003, p. 2)

 

Note

[1] cfr. A. Antonaci, Muro Leccese Storia e Arte, Galatina 1994, p. 364.

[2] cfr. E. Pendinelli – M. Cazzato, Il Pittore Catalano, Alezio 2000, p. 41.

Il tarantolismo e il medico di Muro Leccese Giuseppe Ferramosca

Sullo strano caso di tarantolismo esaminato dall’illustre medico cerusico Giuseppe Ferramosca in quel di Muro in Terra d’Otranto il 3 Giugno 1834

 

di Romualdo Rossetti

 

Giuseppe Ferramosca (Muro 20 aprile 1780 – 16 aprile 1867)

 

Nato a Muro[1] in provincia di Terra d’Otranto il 20 aprile del 1780 da Antonio Ferramosca, di professione medico-cerusico e speziale come lo era stato anche suo nonno Luca, e dalla nobildonna Teresa Foscarini, Giuseppe Ferramosca dimostrò fin da fanciullo di possedere lo sguardo di Asclepio[2] e quell’inclinazione all’esercizio dell’arte lunga ereditata dai suoi avi, tanto da decidere d’intraprendere gli studi medici soli quindici anni d’etàNel 1801 si trasferì nella capitale del suo Regno per perfezionarsi nella disciplina medica presso l’Università Regia degli Studi di Napoli. Lì divenne allievo del celebre medico filosofo massafrese Francesco Nicola Maria Andria[3] che lo orientò verso studi di carattere fisiologico che lo avrebbero più tardi avvicinato alla nuova concezione medica, per certi versi rivoluzionaria per l’epoca, legata alle concezioni di Philosophia Naturalis del medico scozzese John Brown che a partire dal 1778 aveva cominciato a elaborare una teoria iatrica detta “brownismo”o “eccitabilismo” basata sull’eccitabilità del cervello e delle fibre muscolari da parte dell’ambiente esterno.

Francesco Nicola Maria Andria

 

John Brown

 

Il medico scozzese si palesò sicuro delle sue tesi al punto da essere convinto che se gli stimoli esterni fossero venuti meno, si sarebbe configurata, conseguentemente uno qualsivoglia patologia fisica. Teorie, le sue che vennero combattute dai maggiori medici inglesi dell’epoca. Nonostante ciò si può affermare che il successo lo ricevette con gli interessi altrove, Italia compresa. Così, sulla scia del medico patologo parmense Giovanni Rasori, che nel 1792 aveva tradotto e divulgato in Italia gli Elementa Medicinae di John Brown, nel 1803, a Napoli, Ferramosca diede alle stampe la sua prima opera scritta intitolata: Il sistema di Medicina di Brown[4].

Giovanni Rasori

 

Secondo il “Brownismo” la vita nella sua essenza non era affatto uno stato normale e spontaneo ma, al contrario, andava concepita come fosse quasi uno stato artificiale, costretto e mantenuto da continui stimoli, per cui le condizioni di salute o di malattia dipendevano dalla dosatura degli stimoli, ovverosia dal grado di eccitabilità dei vari organi. Tuttavia, la pratica browniana palesava, di fatto quanto fosse arduo diagnosticare uno stato di astenia o di iperstenia e eventuali gradi eccitabilità in un paziente. L’accertamento dello stato di salute di un malato si basava principalmente su un’anamnesi di stimoli patiti in precedenza che erano inseriti in una vasta gamma di variabili, come potevano essere: le condizioni climatiche del luogo, il regime alimentare dell’individuo esaminato insieme al suo stile di vita, sulla misurazione del polso e soprattutto su “prove terapeutiche”, atte a esaminare la reazione fisica all’introduzione di sostanze stimolanti leggeri o forti. Secondo terapia browniana era necessaria una stretta e continua osservazione del paziente che di fatto risultava difficile da effettuare tanto in clinica quanto in ambito domiciliare. Oltretutto i trattamenti con stimolanti risultarono ben presto essere molto esosi per tutti quei malati non facoltosi. Anche il problema della dipendenza dalle droghe rischiava di divenire sempre più evidente. Alcuni commentatori contemporanei denunciarono alcuni eccessi di utilizzo di oppio e di alcol che finirono col nuocere ai pazienti. In ogni caso, con la sua enfasi sui trattamenti stimolanti e rinvigorenti il brownismo aveva generato anche dei seri dubbi sul valore della terapia evacuante classica costituita da prescrizioni di salassi, di purghe e di sostanze emetiche. Per molti pazienti indeboliti non solo dalla loro malattia, ma soprattutto dalla classica applicazione della dottrina galenica, risultò senza ombra di dubbio alcuno più vantaggioso un trattamento secondo i nuovi principi browniani. Fu proprio la vicinanza teorica all’eccitabilismo che fece diventare il Ferramosca un attento osservatore dei tanti casi di tarantolismo che ciclicamente affliggevano i contadini della sua terra, come vedremo più avanti nel dettaglio. L’anno seguente, nel 1804, a dimostrazione, del suo interesse per la scrittura e la ricerca medica pubblicò, sempre a Napoli un Trattato teorico-pratico sulla Podagra[5], male che affliggeva prevalentemente la classe agiata.

Al ritorno dalla sua parentesi universitaria partenopea, per la stima dei suoi concittadini divenne sindaco del suo paese dal 1827 al 1831e operò a favore delle politiche igieniche acquisite con l’abnegazione allo studio. Durante il suo mandato amministrativo individuò quale potesse essere migliore area dove erigere lontano dall’abitato il nuovo cimitero. Si scelse l’area adiacente al vecchio monastero basiliano di Santo Spirito che, ripristinato al culto cattolico e affidato alle cure dei Padri Predicatori dal feudatario Giovan Battista I° Protonobilissimo nel 1561[6], tanta fama aveva avuto in passato per la diligenza negli studi teologici e filosofici così come fedelmente ebbe modo di riportare lo storico Luigi Maggiulli nella sua Monografia di Muro Leccese:

Alla parte del Nord di questo diruto Convento si costruì il pubblico Cimitero, e quest’opera che tanto interessa la pubblica salute, la religione e la mesta memoria dei nostri che furono, venne eseguita non appena gli Amministratori Comunali ne compresero l’importanza e l’utilità. Governava nel 1830 il Distretto di Gallipoli il Sottintendente Filangieri ed il Comune Giuseppe Ferramosca, ed in quell’anno appunto si gettarono le fondamenta del Cimitero.[7]

Cav. Comm. Luigi Maggiulli

 

La dedizione all’arte medica fece sì che intorno alla figura del dottor Ferramosca si consolidasse una sorta di legenda aurea tanto da farlo paragonare a una specie di medico anargiro di antico stampo. Circolava voce che un giorno, udendo per caso, il canto cristallino di un suo emaciato compaesano carrettiere, avesse inviato una sua donna di servizio a fermarlo e a invitarlo nel suo studiolo. Una volta giunti in loco il dottor Ferramosca lo avrebbe invitato a chiudersi in uno stanzino e a defecare in un alto pitale in cui precedentemente aveva disposto sul fondo del latte di mucca insieme ad altre non meglio specificate sostanze. Alle rimostranze dell’uomo, il dottore gli avrebbe imposto la sua volontà riuscendo a liberare gli intestini del malcapitato da un lungo creatura serpentiforme che non si sa come avesse trovato in quelli collocazione. Con gli occhi di oggi, molto più disincantati di quelli del popolino agricolo di quel tempo, quel lungo essere serpentiforme altro non sarebbe stato che una taenia che da parassita naturale aveva colonizzato, a causa delle scarse condizioni igieniche alimentari, l’intestino del malcapitato carrettiere.

Fu presumibilmente intorno alla prima estate del 1834 o alla mezza estate precedente[8], che giunse a Muro presso il suo ambulatorio una donna proveniente da Otranto che lamentava varie tipologie di sofferenze, in primis un forte bruciore alla laringe. Il dottor Ferramosca ebbe modo di annotare tutto ciò che accadde in sua presenza per pubblicarlo poi presso una prestigiosa rivista medica milanese a cura di Carlo Giuseppe Annibale Omodei intitolata Annali Universali di Medicina. In quella sua nota diligentemente descrisse quanto segue:

Maria Penna, di Otranto, da più giorni soffriva una straordinaria malattia nervosa, consistente in convellimenti generali, maggiori negli arti toracici, che alternavano con una specie di epistotono; la pupilla era mobile: si affacciavano vomiti con impeti continui di tosse, dietro la quale cacciava poco moccio, né vomitava sostanze alimentari, perché l’ammalata non prendeva cibo. Dopo breve tranquillità era presa da somma difficoltà di respiro, e di uno sospiro particolare indefinibile, e chiesta del suo stato, non potendo articolar parola, atteggiavasi in modo da esprimere il dolore, indicando la gola come sede di sua sofferenza. Le sostanze fetide aggravavaano le sofferenze, le quali non si calmarono dietro i bagni generali, i narcotici, i nervini. La musica consigliata da un altro medico, otto giorni dopo il principiar del male, indusse la inferma a danzare, dietro di che migliorò sorprendentemente il suo stato, rimanendo superstiti il cennato sospiro, la tosse ed i frequenti conati al vomito. Dopo sei giorni di miglioramento, ad un tratto dietro uno sforzo di vomito e di tosse si vede uscir dalla bocca dell’inferma una tarantola argentea attaccata al suo filo di ragnatela, ciò che fu seguito dalla guarigione di quella donzella. Sorpreso il dottor Ferramosca, cominciò ad indagare in qual modo la tarantola potè cacciarsi nella  gola di quella donna, e rilevò, che la vigilia dello sviluppamento della malattia, erasi essa recata ad un vigneto  con alcune sue giovani compagne, e colà avendo la prima  trovato un grappolo di uva primáticcia già quasi maturo,  pompa avendone fatto, accorsero le compagne perché di mano glielo togliessero, ed ella fuggendo a morsi a morsi ne trangugiò buona parte, senza aver tempo di ben frantumare gli acini masticandoli, ed in tal modo avea potuto ingollarsi quella tarantola che doveva trovarsi appiattata fra gli acini d’uva. Il carattere dignitoso e grave del signor Ferramosca, già noto qual distinto pratico per varj suoi medici articoli, non permette che abbia a ritenersi questo fatto come immaginato per esaltare gli animi degli appassionati del tarantismo.

 

Carlo Giuseppe Annibale Omodei

 

 Il singolare caso esposto dal Ferramosca sugli Annali Universali di Medicina del 1835 sollevò la critica dell’opera di Carlo Giuseppe Annibale Omodei che ebbe modo di addurre alcune interpretazioni divergenti, proprie del mondo medico di altre zone della penisola italiana, riguardo l’effettiva utilità di quella terapia coreutica (il ballo) da sempre ritenuta dai medici pugliesi come l’unica capace di placare le sofferenze dei tarantolati. Si esibì come riprova anche la testimonianza del dottor Migliari che esaminando un caso di morsicatura da tarantola nel bolognese ebbe modo di osservare una ben diversa evoluzione della malattia che non vide certo il malcapitato ballare come accadeva invece nel Salento, il che lasciava supporre che la terapia coreutico-musicale appartenesse proprio all’etnos dei pugliesi e non a quello di altri popolazioni:

Cosi ancor la pensa il chiarissimo cav. Migliari, il quale per altro lungi dall’accreditar l’opinione volgare, che la tarantola costringe a ballare coloro che ne sono morsicati, inclina a credere, che la danza sia l’effetto di quell’atrocissimo dolore, di quella indescrivibile smania, che al pari di quanto accade in altre malattie di cruccio, obblighi li pazienti a varj non indifferenti movimenti, che col saltellamento incominciano onde ritrarre dal dolore qualche sollievo. Inclina altresì a credere, che il ballo sia in tali casi l’effetto delle preconcepite idee dei pugliesi, e non del morso della tarantola, e che il suono sia il rimedio di quelle contrade e non della malattia. Confermasi egli in questa idea nel riflettere, che nel giovine morsicato dalla tarantola nel Bolognese (di cui esso parlò a pag. 99 del suo Osservatore Medico per l’anno 1825) si riscontrò in vece irresistibile tendenza al sonno ed estrema prostrazione di forze, e che senza ricorrere, anzi neppur pensare alla musica, guarj con rimedj tolti alla farmacia…

 

Nell’articolo degli Annali si rincarò la dose di deplorazioni riguardo quella terapia antiscientifica  adducendo come riprova altre prestigiose testimonianze che ne smentivano, di fatto,  l’efficacia:

…nel riflettere al coraggio del dottor Sanguinetti, che osò farsi dalla tarantola mordere nella più ardente stagione, senza riportarne alcun male: nel riflettere , che li due infermi ( O. M. pag. 144 , 1827 ) del dott. Spizzirri, di Marano, in Calabria, risanarono senza liuti, senza chitarre e senza medico, avendo ad essi un di quei ciurmadori apprestato un bagno coi vapori di vino aromatizzato; nel riflettere, finalmente, che il Wirtzmann in Odessa, ove si trovano molte tarantole, osservò pure, che i morsicati provavano del sollievo nell’eseguire un moto che ha qualche analogia col ballo. – Non volendo però noi defraudare i nostri leggitori della conoscenza di altri aneddoti, che hanno avuto luogo sul proposito, diremo, che il chiarissimo prof. De Renzi[9], nei 45 giorni, pei quali s’intertenne nella capitale della Francia, eccitato da lettera d’invito del dotto Segretario dell’Accademia di Medicina di Parigi, comunicò a questa il suo lavoro, di cui rendemmo conto nel cennato vol. LXVIII di questi Annali. Nel che la prelodata Accademia adottando un dottissimo rapporto dei suoi commissarj Andral e Virey, trovò riprensibile e quanto era stato detto circa talune particolarità nella storia naturale della tarantola, e riguardo alla etimologia di una tal voce, che intorno alle mediche conchinsioni da lui dedotte. Opinarono li valenti Commissarj Virey ed Andral Seniore (Numero XII 1834 dell’O. M. del chiarissimo cav. Migliari, e. num. XLIV. Agosto 1834 del Filiatre Sebezio), che gli aragni arabi comunicano nel morso un veleno col quale uccidono anche dei piccoli vertebrati, ma ch’essi fuggono l’uomo;

2.º che in niun’altra regione la tarantola è pericolosa;

3.º che i sintomi, che attribuisconsi alla tarantola, si debbano ripetere dall’amore, dalle passioni ardenti, ecc.

Al che anzi ne aggiugne il De Renzi, che il sig. Delle Chiaje non ha trovato nelle tarantole un apparecchio ghiandolare proprio per segregare un veleno, ma soltanto l’apparecchio ghiandolare comune. Li giornali francesi han trattato l’argomento, ciascuno secondo la sua opinione, senza tutti pro nunziarsi per la negativa assoluta. Resa poi di pubblico di ritto la istoria del dottor Ferramosca nel num. XII dell’O. M., di cui è qui parola, venne al prof. De Renzi drizzata una lettera anonima, che fu da lui nel quaderno di agosto 1834 del suo Filiatre originalmente trascritta, ed in cui figuravano alcune riflessioni critiche sulla Memoria del dottor Ferramosca.

Ma in risposta a queste critiche osservazioni altra lettera anche anouima è stata spinta al medesimo signor De Renzi, il quale bramoso di letteraria discussione che tenda alla ricerca della verità, bramoso di preferire i fatti alla sua propria opinione ed il bene della umanità al suo amor proprio, si è tosto dato premura inserirla nel fascicolo di gennajo corrente anno 1835 del suo Filiatre senza comento alcuno , riservandosi (son sue parole) di trattare più lungamente a suo tempo questo argomento.

Or delle due Note degli Anonimi in censura ed in apologia del Tarantismo, non che in censura ed in apologia del fatto riferito dal Ferramosca si avrebbe qui ora a tenere ragionamento critico. Siccome per altro ognun vede, che trattasi di un fatto, in cui non può portarsi giudizio senza dipendere dalle osservazioni altrui, cosi amando di rimetterci a chi voglia e sappia consultare con sana filosofia l’istoria dei fatti nella patria del tarantismo, attenderemo la novella gita, che colà si propone di fare sul subbietto il prof. De Renzi; ovvero attenderemo che per opera di chicchessia istituite vengano e rese di pubblico conto 320 imparziali osservazioni, ed in buon numero, e nelle debite norme dell’autenticità.

Troviam plausibili i dubbj, e giudizîose assai le riflessioni del chiarissimo estensore dell’Osserv. Medico, l’amico cav. Magliari ed i leggitori nostri il decidano. “Per comun consentimento di tutti si conviene, che il morso della tarantola comincia dal destare un atrocissimo dolore, una indescrivibile smania: ciò posto, qual meraviglia se colui che ne viene affetto cominci dal saltellare pel dolore e con qualche sollievo? E non è questo quanto avviene a chiunque è improvvisamente colpito da un vivissimo dolore? … e dimostra forse tranquilli nel loro letto coloro che sono vessati da forti dolori, specialmente intestinali? Non si vedono essi con sollievo aggirarsi per le loro camere?

Se dunque molte altre malattie spingono gli infermi a non indifferenti movimenti, perché far di questi movimenti un esclusivo fenomeno de’ tarantolati? … In Calabria in Odessa, ecc., il morso della tarantola non è innocuo, spinge gli infermi ad un movimento, ma non al ballo dei pugliesi, e guariscono senza la loro musica: non potrebbe forse star dunque, che il ballo sia l’effetto delle preconcepite idee dei pugliesi e non del morso della tarantola, e che il suono fosse il rimedio di quelle contrade e non della malattia?

D’altronde, quantunque sia ben vero, che il chiarissimo Compilatore del Filiatre-Sebezio l’amico prof. De Renzi, appoggiato a due casi non caduti sotto li suoi occhi e che non escono dalla sfera dei già osservati, si mostri nel suo primo lavoro piegato alla conchiusione di riconoscere il tarantismo, nulla di manco confessar fa d’uopo, ch’egli non mira ad accreditare in tutta la estensione loro i pregiudizj del volgo pugliese. Egli vi riconosce la prevenzione, l’esaltamento cerebrale, il prestigio della fantasia la dubbiezza di buona fede bene spesso dei pazienti, l’età della maggiore energia delle passioni. Così non è raro, che l’amore rappresenti la parte essenziale del dramma, e che vezzose forosette si mostrino attarantate per nascondere più grave ferita che le fa delirare. Ma ben plausibili troviamo li raziocinj di lui, e soddisfacentissima la spiegazione, che da suo pari ci offre dei fatti medesimi, siccome già facemmo riflettere in questi Annali (pag. 337, e seg. del vol. LXVIII).

Dopo le cose fin qui dette, ci asterremo dal portar giudizio qualsiasi sulle Note degli Anonimi più sopra enunciate, e che aggiransi a squittinare e la condizione della tarantola nel caso del sig. Ferramosca, e la condizion dell’esofago, e’ l modo onde in questo s’introdusse, e l’esistenza del veleno tarantolino, e la maniera con cui venne questo innestato nel caso in questione. Ma nella ipotesi di potersi ammettere con sobrietà casi ben rari di tarantismo, e di ammetterli modificati senza l’intervento di veruna moral passione, astenerci dovremo dall’esprimere con ingenuità le nostre dubbiezze sulla essenza del fatto riferito dal sig. Ferramosca? sulla essenza di un fatto, in cui non parlasi di alcun mal essere della paziente , dal sabato (in cui ingoliò il grappolo di uva con la presupposta tarantola) fino all’epoca del seguente giorno in cui venne scossa dal suon dell’organo della chiesa ed in citata al ballo? sulla essenza di un fatto, in cui , per tal modo di riflettere, si svolse la malattia dopo una lunga incubazione della causa ed in un ordine inverso di quadro fenomenologico? sulla essenza di un fatto, in cui sembra desiderarsi l’annunzio di sintomi indicanti il continuato morso o almen più volte ripetuto dal falangio ancor vivente? sulla essenza di un fatto, in cui non manca la prevenzione, essendasi il medico ordinario della famiglia più fiate impegnato a persuader di tarantismo il sig. Ferramosca ? in cui non manca l’energia di una passione amorosa (benchè forse destramente occultata) per tradimento di un amante, che venne pur chiamato a far parte del dramma? in cui da ultimo non mancano perciò i giuochi d’ illusione?

Dir forse non potrebbesi, che la inferma del sig. Ferramosca risanasse per una sagace destrezza della sua familiare in quel modo appunto, in cui risanò quel tale, di cui parla il Muratori (nel suo Trattato della forza della fantasia umana), e che avendosi fitto in mente gli fossero nate le corna saltò guarito dal luogo della magnifica operazione di seghe eseguita da un medico, ANNALI. Vol. LXXIV che gli fe’ veder le sue corna ai piedi? Dir non potrebbesi, che il buon uomo, il sig. Ferramosca (di cui d’altronde apprezziamo i talenti e le cognizioni) siasi questa volta fra l’oscurità delle tenebre lasciato illudere da una fantesca, e che per tal modo (come suol dirsi) abbia stretto al seno una nuvola invece di abbracciar Giunone? (Osserv. Med., Giugno , 1834). (Tonelli).

A ben vedere la stroncatura da parte della rivista omodeiana dell’insolita testimonianza del Ferramosca, nella quale si individuava il nesso scatenante il malessere della giovane donna idruntina nel morso di un ragno sopravvissuto alla masticazione del grappolo d’uva, e la risoluzione dello stesso, tramite l’espulsione fortuita dell’aracnide dalla laringe per mezzo di un colpo di tosse, fosse dipesa dal brownismo del medico murese malamente applicato al caso in questione oltretutto senza l’ausilio di alcun farmaco o terapia idonea e basato solo con l’eliminazione della causa materiale senza aver tenuto in debito conto il coinvolgimento socio-etno-psicologico come, invece aveva suggerito il De Renzi.

Va però, altresì ricordato che, qualche anno dopo la pubblicazione della nota del Ferramosca sugli Annali Universali di Medicina, sul famoso Dizionario Classico di Medicina Interna ed Esterna edito a Venezia dall’editore Giuseppe Antonelli nel 1839 alla voce Tarantismo, tra le varie ipotesi inerenti alla presunta fattibilità terapeutica coreica e iatromusicale[10] adoperata nel Salento insieme ai riferimenti disincantati del De Renzi che giustamente pose la sua attenzione agli effetti propri del latrodectismo sulla ritualità propria del tarantismo, non mancò di venire riportata per intero la vicenda descritta dal dott. Giuseppe Ferramosca precedentemente trattata dalla rivista di Omodei a dimostrazione che l’opinione medica del tempo non fosse del tutto concorde sulla vexata quaestio. Alla voce Tarantismo quel dizionario riportò:

 

Salvatore De Renzi

 

 

TARANTISMO, s. m. Indicasi con tal nome una malattia cui dicesi endemica della Puglia, e prodotta dalla morsicatura della tarantola, la quale risulta comune in quelle contrade. Siffatta malattia, aggiungesi essere caratterizzata principalmente da irresistibile tendenza al ballare, o dallo sfrenato desiderio di udire musica. Altri, all’opposto, asserirono che siccome il tarantismo o l’affezione pro dotta dalla morsicatura della tarantola, che consiste talvolta nella sonnolenza, fu vinta dalla musica, così formossi la volgare opinione che la musica fosse necessaria per combattere il veleno della tarantola che veniva espulso mediante il sudore provocato dalla danza. Comunque siasi la cosa, esperienze positive dimostrarono la innocenza della tarantola; forse che, nei paesi meridionali, essendovi certa predisposizione particolare, avvengano alcuni accidenti cerebrali in conseguenza della morsicatura di tale specie di aragno; è però avverato che se esistette od esiste nella Puglia una monomania endemica il cui straordinario bisogno di danzare costituisce il principal sintomo, non la si può attribuire ad un preteso veleno della tarantola. Le osservazioni sul tarantismo di Puglia, formarono argomento pel dottor Salvatore de Renzi di una sua Produzione recitata nell’ordinaria seduta dell’accademia medico-chirurgica di Napoli il giorno 18 luglio 1832. L’egregio autore diede principio a questo lavoro con una breve, ma elegantissima descrizione topografica delle Puglie, della terra d’Otranto, e singolarmente di Taranto. Colà recatosi per accompagnare da medico un rispettabile personaggio, volle trarre dalla sua itinerazione un profitto per il pubblico. Tra le numerose osservazioni che gli si offersero, trovò più degne della sua dotta, tenzione il costipo ed il tarantismo. Per costipo ivi intendesi qualunque reumatica affezione acuta, e le malattie di petto acute dal catarro alla polmonia. Vengono in quella regione favorite oltre modo siffatte affezioni per la variabilissima temperatura di quel clima, in cui ciascheduno mira a cautelarsene, tanto più che spesso prendono ivi tai morbi lo stato cronico, tal che le reumatalgie e le tisi, conseguenze di essi, sono fatalmente comuni della Provincia, ed un quarto di quei che scendono alla tomba vi trapassa per tisi in Lecce e Taranto. Stagion non era, in cui potesse l’autore esser testimone degli effetti che produce il morso del phalangio di Aristotele; ma usò ogni cura per prenderne indagini da persone degne di fede, e raccolse numerose spezie dell’animale istesso. È questo un insetto appartenente alla famiglia dei ragni, che presenta l’esterno di diversi coloriti. Ve n’hanno dei neri che sono più temuti, e di maggior volume, e portano la voce comune di saetlone; ve ne sono di bigi, giallicci e variegati. La più bella tarantola presenta l’addomine ed il dorso di un rosso vivo con un solco nero sul dorso; il rimanente del corpo e la grossa testa sono dipinti da una lucida vernice nera, segnata alla parte superiore da due linee bianche; nere sono le antenne, e la proboscide è nera, ma degli otto suoi piedi, i due anteriori terminano con bianco pelame, i quattro seguenti hanno la penultima maggior falange di un rosso di carne, ed i due ultimi sono di color cinerino. Posseggono esse otto occhi, dei quali quattro ne sono invisibili ad occhio nudo, e tengono inoltre due maggiori e due minori mascelle, fra le quali evvi nuda proboscide. Ma egli: “è vero, che il morso della tarantola produca gli effetti che comune mente le si attribuiscono, che non si curano che ballando al suono di dati accordi? Ripiglia l’autore, da pochi porsi in dubbio quel che il filosofo del pari che l’idiota assicura no, e che testimonj si presentano quei medesimi, che vi andarono soggetti. Ritiene il volgo muoversi ciascuna tarantola ad un accordo particolare, e che li morsicati abbisognano di quella data melodia per muoversi; e che gli atteggiamenti che colle mani accompagnano il ballo, sono quei medesimi che la tarantola eseguisce colle sue falangi nell’intessere la sua tela. Riferisce l’autore il caso narra togli in Novoli di una bambina, che al terzo mese della età sua venne morsicata dalla tarantola. La bambina ne diviene in sulle prime inquieta, manifesta quindi un inceppamento nel respiro, ed un acuto pianto ed uno stridulo lamento caccia fuori fra le forti inspirazioni. Sintomi soffogativi, vomito, lassezza e celerità di polso, non che gl’indizj della flogosi locale nel sito del morso, confermano gli afflitti genitori sulla natura della malattia. Si tenta il suono consueto, e la bambina si agita, si dimena come in una forte convulsione; si fa muovere allora per lungo tratto, finché a bondevole sudore viene a manifestar si sulla cute, e l’innocente fanciulla n’è defaticata, oppressa, avvilita. Coricata, si abbandona ad un sonno che diviene riparatore, e dal quale torna quasi sana ai teneri amplessi materni. Fa per altro osservare l’autore, che sono si oggidì diminuiti nel numero i fatti in confronto di quello narravasi per lo addietro, e che avvengono per lo più i medesimi in persone, della buona fede delle quali può talora dubitarsi, ed in età in cui sogliono le passioni spiegare maggiore intensità. Così non è raro, che l’amore rappresenti la parte essenziale del dramma, e che vezzose forosette si mostrino attarantolate per nascondere più grave ferita[11] che le fa delirare. Altro fatto interessante ci riferisce l’autore cui venne narrato da un colto medico di Lecce, che molto studio ha fatto sull’argomento, e che si diè perfino a pericolosi esperimenti. Egli avvicinò al piede di un mietitore dormiente una tarantola di quelle cui si attribuisce più efficace veleno, ed uccise poi e nascose l’insetto per non dar campo a riscaldamento di fantasia. Svegliasi il mietitore, e sentesi addolorato nel piede, ove osserva un circolare induramento di color fosco-bruno e del diametro di un pollice circa. Fermossi col pensiero che fosse stato ferito da un’ape. Uno stordimento di testa, una specie di affanno, un abbattimento in tutto il sistema nervoso, furono i sintomi che tosto si annunziarono. Oppresso, abbattuto, delirante, trovavasi nello stato il più miserandu, allorchè si tentarono i soliti accordi, i quali svegliarono il ballo consueto, che diè all’infermo compiuta e subita guarigione. E qui avvertasi non esser in tutto lieve cosa il distruggere gli effetti di questo veleno, poiché sovente la vita ne viene tratta all’estremo. Quindi è, che il saggio autore non arridendo all’opinare di alcuni scrittori francesi, che pretesero essere un tessuto di favole quel tanto si narra sul veleno della tarantola, invita a giudicarne partendo dall’esame dei fatti, che devonsi in tali quistioni unicamente consultare, e consultare con sana filosofia. Nè sembrano privi di solidità i raziocinii del dottissimo De Renzi, il quale di questi fatti medesimi emette una soddisfacentissima spiegazione, da suo pari; il veleno della tarantula sembra agire sul sistema nervoso; e quantunque per analogia di effetti possa assomigliarsi a quello della vipera,  pur ne offre dei suoi propri e distinti, che annunziano l’azione sua più diretta sul nervo trisplancnico e sue dipendenze; da che le funzioni del respiro ne sono lese fino dal principio, ed una specie di torpore nel sistema muscolare sembra essere la conseguenza immediata del virus. Egli è, ripeto, sul sistema nervoso che si produce una specie di esaltamento, il quale, unito alla prevenzione, ne aumenta la intensità. Riunito per tal modo l’effetto reale del veleno, e l’esaltazione cerebrale, ne insorgono tutti gli effetti nervosi che hanno dello stravagante. Una energia suscitata nel sistema nervoso medesimo mercè della musica, il violento moto che attiva la circolazione ed apre la diaforesi, sono al certo i mezzi di cui la natura si serve per distruggere il morbo. Potrebbe l’arte a tali mezzi sostituirne degli altri, e specialmente de’ farmaci tratti dalla classe dei diaforetici; ma perché mancanti del prestigio della fantasia, sarebbero di minor efficacia di quelli che sogliono d’ordinario in quel paese adoperarsi, ove è uopo curare l’effetto fisico del morbo, e quello che ne riceve il morale. Fiancheggia il chiarissimo autore un tale asserto con richiamar l’attenzione agli effetti della musica in sul sistema nervoso. E qui, con fino criterio e scelta erudizione, rammenta di volo, che fatti ne possiede la storia sacra e profana, non che la mitologia. Rammenta i numerosi esempi raccolti da Lictenthal nella sua opera “Sull’influenza della musica sul corpo umano”, ove apparisce essersi con dati accordi calmate e guarite date malattie convulsive; rammenta gli speciali accordi della musica, con che Drahonnet, ed il professor Ruggieri videro risanati li loro infermi. Onde poi corroborare il concetto di analogia del veleno della tarantola con quello della vipera, accenna trovarsi in San Pietro a Galatina un pozzo, che, secondo la credenza degli abitanti, contiene un’acqua portentosa a guarire gli effetti del morso del falangio. Nè la utilità di quest’acqua si ripete dall’autore dalla sola influenza morale della bevanda, e dalle conseguenze del vomito che quell’acqua vi spiega, ma più dall’ammoniaca, di cui è pregna la medesima, perché raccoglie le acque imputridite della città, e perché ricca di sostanze animali putrefatte. Quindi è chiaro come siasi utilmente amministrata l’ammoniaca da alcuni nel morso della vipera, e come nel morso della tarantola sia stata con vantaggio prescritta dal dottor Giri. Conchiude quindi il nostro autore potersi con ragione affermare, che il veleno della tarantola sia vero e reale; che agisca sul sistema nervoso e sanguigno; che i suoi effetti non sono quasi mai mortali, e che sgombrar si possono mediante un trattamento energicamente diaforetico.

 

Seguì per intero, poi, la sovramenzionata nota del Ferramosca a dimostrazione della sua importanza sebben non certo del tutto accettata, in ambito medico:

Sul tarantolismo, comparve una nota del dottor Giuseppe Ferramosca, scritta da Muro nella terra di Otranto li 3 giugno 1834. Per riferire in compendio il fatto da essa esposto, ne toglieremo la breve de scrizione dal fascicolo gennajo 1835 del Giornale napolitano il Filiatre Sebezio, «Maria Penna, di Otranto, da più giorni soffriva una straordinaria malattia nervosa, consistente in …convellimenti generali, maggiori negli arti toracici, che alternavano con una specie di epistotono; la pupilla era mobile…

 

Dopo la dibattuta esperienza del tarantolismo ivi descritta, il dottor Ferramosca non concluse la sua indagine medico-sociale ma, al contrario, proseguì gli studi su altre patologie permanendo fedelmente nel suo indirizzo di ricerca. Dopo la sua nota sul tarantolismo pubblicò un trattato intitolato Sulla Speronetta[12] sul famoso giornale di scienze mediche edica Filiatre Sebezio nel 1842, un saggio sull’Avvelenamento per morso di vipera[13] nel 1834. Sempre per il “Filiatre Sebezio”, nel 1844 una Monomania ugarita per lo sviluppo di un tumore sull’omoplata destro[14]. Molti altri suoi opuscoli vennero stampati su giornali medici francesi.

Il dottor Ferramosca perì in quel di Muro, circondato dai suoi affetti più cari il 16 aprile 1867. Lo storico murese Comm. Luigi Maggiulli, come riportato a pag. 152 della sua Monografia di Muro Leccese, lesse un elogio funebre dato poi alle stampe presso la tipografia Garibaldi di Lecce nel 1867 a cura del nipote del valente medico il Sig. Ettore Ferramosca.

 

L’autore ringrazia sentitamente il Dott. Antonio Basurto, suo fratello Avv. Alvaro Basurto – ultimi eredi del dottor Ferramosca -, il Dott. Marco Imperio, la Dott.ssa Angelica Serra, la Dott.ssa Emanuela Zitti e il Sig. Gigi Montinaro per la gentile collaborazione che ha permesso la realizzazione del presente lavoro di ricerca.

 

Note

[1] Ora Città di Muro Leccese.

[2] Particolare attitudine innata a cogliere a prima vista la condizione di salute dei malati, un tempo considerata una caratteristica ereditaria dei discendenti del nume greco Asclepio.

[3] Francesco Nicola Maria Andria fu un medico e un filosofo italiano. Egli nacque a Massafra nell’odierna provincia di Taranto, il 10 settembre 1747 e morì a Napoli, dove visse fin al 1814. Tre anni dopo la sua morte il suo nome apparve nella Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli. Studiò a Napoli giurisprudenza, pubblicando nel 1760 un Discorso politico sulla servitù. Decise, poi, di proseguire i suoi studi orientandosi verso la medicina. Allievo di Domenico Cotugno e Giuseppe Vairo, a soli 23 anni aprì a Napoli una scuola privata. Ad appena 27 anni concorse con il medico e patriota partenopeo Domenico Cirillo per l’ottenimento della cattedra di medicina pratica, che fu poi conferita a quest’ultimo. La sua attività di cattedratico, si svolse tra ‘700 e ‘800, nel contesto di un particolare periodo storico politicamente molto dinamico. Presso l’Università Regia degli Studi di Napoli Andria ricoprì vari incarichi d’insegnamento. Detenne la cattedra di storia naturale, di medicina teoretica e pratica, e di agricoltura. Pubblicò diverse opere ad uso degli studenti di medicina molto apprezzate in diverse parti d’Europa. Nel 1808 prese a impartire lezioni di medicina teoretica e poi, nel 1811 di patologia e di nosologia. Malato ed ormai quasi del tutto cieco, venne congedato dall’insegnamento agli inizi del  1814, e insignito del titolo di Cavaliere dal Re di Napoli Gioacchino Murat. Il 9 dicembre morì di tifo a Napoli, dove venne seppellito nella chiesa di Santa Sofia insieme al collega Antonio Sementini.

[4] John Brown (1735-1788) che fu allievo di William Cullen ideò un vero e proprio sistema medico nel quale intese la vita come una conseguenza degli stimoli interni di origine viscerale ed esterni provenienti dall’ambiente e delle risposte date dalla eccitabilità dell’organismo. Quando la risposta allo stimolo era eccessiva si formava uno stato di malattia che definì “iperstenico” e quando la risposta era troppo debole lo definì “astenico”. Le astenie erano di due tipi: diretta se la eccitazione mancava per carenza di stimolo, indiretta quando l’organismo stimolato in eccesso esauriva la sua capacità di rispondere eccitandosi. Una “omeostasi” tra fra eccitamento ed eccitabilità rappresentava per lo scozzese lo stato di salute ideale. Ebbe l’ardire di esprimere Il grado di eccitamento matematicamente per mezzo di una scala che andava da zero a ottanta, con quaranta gradi che rappresentavano lo stato di salute. Forti stimolanti utilizzati in quella terapia furono l’oppio e l’alcol, generalmente somministrati in combinazione con laudano. Stimolanti alternativi furono invece l’etere, la canfora, l’ammoniaca e il muschio. Una dieta proteica ricca di carne era da Brown spesso prescritta come misura “di sostegno”. Anche i metodi decongestionanti ‒ come la flebotomia, le purghe e gli emetici, che erano indicati nelle malattie steniche ‒ erano considerati come degli stimolanti blandi. Cfr. E. Frasca, L’eco di Brown. Teorie mediche e prassi politiche (secoli XVIII-XIX), Roma, Carrocci Editore, 2014.

[5] Nella vecchia terminologia medica, lo stesso che gotta, considerata nella sua forma clinica più tipica, con interessamento iniziale e prevalente all’articolazione tra metatarso e falange dell’alluce. Cfr. G. Ferramosca, Trattato teorico-pratico sulla Podagra, Napoli 1804.

[6] Cfr. R. Rossetti, Il complesso conventuale dei padri Domenicani di Muro Leccese, Fondazione Terra d’Otranto, pubblicazione on-line del 17 settembre 2012.

[7] L. Maggiulli, Monografia di Muro Leccese, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, MDCCCLXXI, p. 147.

[8] Periodo in cui maturerebbe l’uva “primaticcia” presente nel racconto della donna.

[9] Illustre medico e storico della medicina (Paternopoli 1800 – Napoli 1872), professore a Napoli, prima di Patologia generale e Igiene, poi di Storia della medicina. A lui si debbono, tra l’altro, una Storia della medicina in Italia (1845-48), una Storia documentata della Scuola Medica di Salerno (1857) e l’importante raccolta documentaria Collectio Salernitana (5 voll., 1852-59).

[10] Nel lemma in questione si riportarono a favore della terapia tradizionale salentina dei casi particolarissimi di tarantolismo come quello di una infante di Novoli che, a causa della sua tenerissima età mal avrebbe potuto risentire psicologicamente del coinvolgimento socioculturale dei suoi prossimi. Si cercò, poi, di comprendere, anche, le ragioni chimiche ed emetiche dell’acqua del miracoloso Pozzo di San Paolo di Galatina da sempre ritenuta curativa nei casi di tarantismo

[11] Riferimento esplicito alla lacerazione dell’imene da primo rapporto sessuale al di fuori, o precedentemente al matrimonio religioso, che in un contesto rurale rappresentava una grave onta gravante sulla donna che lo aveva subito e che poteva emarginarla dal proprio contesto sociale di appartenenza con tutte le conseguenze del caso. A tal proposito si consiglia l’interessante interpretazione dello studioso magliese Oreste Caroppo intitolata Tarantismo e perdita del primus e della verginità. Alla ricerca del vero profondo rimorso della tarantata. http://naturalizzazioneditalia.altervista.org/

[12] G. Ferramosca, Sulla Speronetta, “Filiatre Sebezio”, Anno XII, Napoli 1842, p.129..

[13] G. Ferramosca, Avvelenamento per morso di vipera, “Igea Salentina”, Volume I, Napoli 1843, p. 216.

[14] G. Ferramosca, Monomania ugarita per lo sviluppo di un tumore sull’omoplata destro, “Filiatre Sebezio”, Anno XIV, Napoli 1844, p. 65.

Un caso emblematico: la statua di Santa Marina a Muro Leccese

Il contesto storico-artistico ed un suo auspicabile restauro

 

di Santo Venerdì Patella

Avevo scritto della statua di Santa Marina già nel 1998[1], dove reclamavo il fatto che la stessa opera fosse stata nuovamente, per l’ennesima volta, ridipinta e manomessa, come in effetti si usava fare all’epoca e molto più di quanto avviene ancor oggi.

In effetti visionando alcune vecchie fotografie, come quella di sopra, si nota che questo simulacro nel secolo scorso ha mutato varie volte policromia, in parte la forma delle vesti, la posizione delle braccia ed il drago.

Nell’ultimo “rifacimento”, avvenuto nel 1993, come riporta la foto in basso, furono eliminate alcune parti del panneggio, l’attributo iconografico della palma ed il drago.

Fui informato, spero giustamente, che tutto ciò che venne tolto era realizzato in cartapesta e che ricopriva una statua più antica in legno, molto malmessa. Viene quindi naturale immaginare che le parti appena menzionate furono verosimilmente aggiunte nei rifacimenti precedenti e pertanto poi eliminate, cercando, in maniera molto empirica, da un lato di ridare la forma originaria a questa statua ma al contempo magari reinventandone di nuove.

Quest’opera è conservata nella medievale chiesa di Santa Marina a Muro Leccese ove il culto della stessa è rintracciabile già nella Santa Visita della Diocesi di Otranto del 1768, in cui è rammentata una imago S. Marinae. Questa statua viene poi esplicitamente nominata in un’altra nota datata 1874[2]. Esaminando anche altre Sante Visite non ho riscontrato ulteriori menzioni della stessa, ma possiamo valutare delle ipotesi in merito al periodo in cui essa venne realizzata. Consultando il catalogo “Il Barocco a Lecce e nel Salento”, mi accorsi che vi erano delle somiglianze tra la Santa Chiara[3] [foto 3], conservata nella omonima chiesa leccese, qui di seguito riportata

e la statua di Santa Marina, in special modo dopo l’ultimo rifacimento sopra descritto: simile la staticità della posa, simile il modo discreto di panneggiare le vesti, simili i tratti dei visi. Tutte queste somiglianze le associai qualche anno dopo anche alla statua di Santa Domenica di Scorrano, di seguito ripresa.

Queste mie supposizioni furono suffragate in special modo dagli ottimi studi contenuti nel testo “Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna”, in cui si descrivono le attinenze decorative e stilistiche della statua di Santa Chiara e Santa Domenica prima menzionate[4]. Il periodo di realizzazione a cui vengono inscritte queste statue può essere collocato in un arco temporale che inizia verso fine del sec. XVI e prosegue lungo i primi decenni del XVII, epoca in cui dovremmo verosimilmente inserire anche la realizzazione della nostra Santa Marina, se ciò fosse verificabile dopo adeguati interventi restaurativi.

Decorativamente parlando le “sorelle artistiche” di Santa Marina: le Sante Chiara e Domenica, ci appaiono, nei decori degli abiti, riccamente ornate con estofadura, particolare tecnica decorativa già presente nell’arte gotica per abbellire immagini sacre su legno policromato, che fu utilizzata largamente in Spagna durante il periodo barocco e fu importata anche nel vice regno con capitale Napoli. Pertanto se la statua in questione dovesse essere restaurata con criteri opportuni, oltre a recuperare in massima parte le forme originarie, potrebbe rivelare anch’essa una decorazione importante ad estofado, che la renderebbe ancor più rilevante dal punto di vista artistico. Senza appropriate indagini rimaniamo però nel campo delle ipotesi.

Se tutto questo fosse riscontrabile la nostra Santa Marina rientrerebbe pienamente in quella temperie artistica ch’è a cavallo del sec. XVI e XVII, e che si riferisce alle pratiche devozionali e cultuali tipiche della Controriforma.

La statua in questione si presenta a tutt’altezza con un panneggio vagamente classicheggiante ed in posizione ieratica, con occhi vitrei e sarebbe ascrivibile ad uno scultore napoletano, che pur operando nei primi decenni del ‘600, conserva ancora una cultura figurativa tardocinquecentesca[5].

Per fare dei paragoni stilistici, e senza andare lontano e ricercare opere famose, possiamo menzionare la tela d’altare conservata nella chiesa dell’Immacolata di Muro Leccese in cui è effigiata la Titolare [foto 5], la figura della Madonna ripropone in massima parte la posa delle statue prima rammentate, a riprova dell’attardamento stilistico, non ancora barocco, della Muro dell’epoca.

Questa tela è databile al terzo decennio del ‘600.

Contestualizzando ancor più il periodo storico-artistico della Muro secentesca possiamo fare dei riferimenti ad altre sculture; mi riferisco al busto-reliquiario di Santa Giusta[6], conservato anch’esso nella chiesa Confraternale dell’Immacolata, attribuibile allo scultore Giovan Battista Gallone (lo si metta in confronto con il busto reliquiario di una delle undicimila vergini della chiesa del Gesù Nuovo a Napoli).

Questa statua, conservata in una nicchia datata 1646, è decorata non a caso ad estofado  ed ha anch’essa una provenienza napoletana.

Nello stesso luogo di culto vi è un altro stipo dedicato a San Largo ma in questo caso non è più conservato il relativo busto-reliquiario dell’omonimo santo. Purtroppo mancano all’appello altri due busti-reliquiario: San Giovino e San Agapito, un tempo conservati della chiesa del S.mo Crocefisso, di cui resta traccia in due infelici foto d’epoca.

San Giovino

 

San Agapito

 

Nella Santa Visita della Diocesi di Otranto del 1755 ritroviamo questa importante notizia che li riguarda e che riporto fedelmente: “Nelli pilastri dell’arco, sotto di cui sta situato d.o altare maggiore vi sono due basette, una da una parte e l’altra dall’altra: in quella della parte destra vi è situata una statuetta a mezzo busto con stragalio […], è colorita, e nel petto v’è una reliquia colla […] di S. Agapito, e nella sinistra altra simile statuetta colla reliquia di S. Giovino.”.

Speriamo che in un futuro queste opere si possano recuperare.

Per ribadire alla fine di queste note quanto un restauro appropriato possa restituire l’idea originaria che l’artista-creatore aveva delle sue opere, porto ad esempio quello da poco effettuato sull’altare maggiore della già menzionata chiesa del S.mo Crocefisso dove, le statue lapidee dei dolenti: la Madonna Addolorata e San Giovanni, realizzate da P. Buffelli entro il 1660, hanno rivelato una ricca decorazione ad estofado, mentre prima risultavano ridipinte ed appiattite con banali tinte monocrome, aumentandone non poco il valore artistico delle stesse.

altare maggiore della chiesa del S.mo Crocefisso

 

statue lapidee dei dolenti: la Madonna Addolorata e San Giovanni, realizzate da Placido Buffelli

 

Note

[1] S. V. Patella, La cultura della cartapesta, in “Liber Ars”, 3, aprile 1998, p. 21.

[2] V. Boccadamo, Terra d’Otranto nel Cinquecento, Galatina 1990, p. 76.

[3] R. Casciaro, Il Barocco a Lecce e nel Salento, Pomezia-Roma 1995, pp. 163-164.

[4] P. L. de Castris, B. Minerva, Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, Roma 2007, p. 24, p. 180.

[5] L. Gaeta, Intagliatori incisori scultori e società nella Napoli dei viceré, Congedo 2015, p. 5.

[6] S. V. Patella, La città di Muro Leccese dalle origini al ventesimo secolo. Antichità, architettura, arte, fonti e documenti, Editrice Terra, Lecce 2012, p. 113.

Ancora sul “fantomatico Manfredi Letizia”

 let

 

di Stefano Tanisi

 

Da assiduo lettore del sito della Fondazione Terra d’Otranto, ho avuto modo di leggere un recente articolo di Luciano Antonazzo dal titolo “Il fantomatico pittore Manfredi Letizia” [cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/21/il-fantomatico-pittore-manfredi-letizia/].

Nella chiesa matrice di Muro Leccese vi è un dipinto dell’Assunta, inserito nell’altare dell’Annunziata, che la storiografia locale lo ritiene realizzato dal pittore Manfredi Letizia.

Lo studioso Antonazzo, nel riferito studio, afferma che il nome del pittore Manfredi Letizia sia frutto di un equivoco che «si deve ad un refuso di stampa che ha fatto saltare la virgola posta dal Maggiulli [L. Maggiulli, Monografia di Muro, 1857, p. 131] tra i cognomi Manfredi e Letizia», ipotesi questa che potrebbe essere condivisibile.

Che l’autore del dipinto dell’Assunta non fosse il “fantomatico pittore Manfredi Letizia” era già noto in un mio saggio “Nota sui dipinti di Aniello Letizia (1669 ca.-1762) nel convento e nella chiesa della Grazia di Galatone”, pubblicato nel 2009 sulla rivista “Miscellanea Franciscana Salentina”, anno 23, quando nella pagina 118 – nota 14 scrivevo: «vanno assegnati ad Aniello anche i piccoli dipinti dell’Assunta (i volti degli Apostoli trovano conferma nelle altre opere galatee) e dell’Immacolata (gli stessi angeli si possono ritrovare nella tela omonima di Montesano Salentino [cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/01/aniello-letizia-e-il-dipinto-dellimmacolata-di-montesano/]) che sono altrove segnalati come opere di Manfredi Letizia (il “Manfredi”, pittore forse inesistente, è confuso presumibilmente con il sacerdote-pittore Giuseppe Andrea Manfredi da Scorrano, poiché nella chiesa [matrice di Muro Leccese] si conservano dipinti di questo artista)».

Nel 2012, pubblicavo sulla rivista “Leucadia. Miscellanea storica salentina”  – anno IV, uno studio, dal titolo “I dipinti di Aniello Letizia (1669 ca.-1762) nella Diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca”, dove, a pagina 31, ribadisco «Nella Chiesa Matrice di Muro Leccese, la storiografia locale ha assegnato a Manfredi Letizia i dipinti dell’Assunta e dell’Immacolata: da un confronto stilistico i dipinti in questione vanno invece attribuiti ad Aniello Letizia. Per il momento non abbiamo rinvenuto nessun documento riguardo ad un pittore di nome Manfredi Letizia di Alessano, pertanto è lecito dubitare se tale pittore sia realmente esistito». Nella nota 19 sempre di pagina 31 evidenziavo che «I volti degli Apostoli dell’Assunta trovano confronto con gli anziani raffigurati nelle tele della Chiesa del Crocifisso di Galatone, mentre gli angeli nell’Immacolata sono simili a quelli dei dipinti del Santuario di Leuca».

Ma la presenza del pittore Aniello Letizia nella maggior chiesa murese è confermata dal fatto che gli si possono attribuire anche i dipinti della Sacra Famiglia con i santi Anna e Gioacchino e di Sant’Oronzo (cfr. i miei saggi).

Di questi miei studi, presumibilmente, Antonazzo ne era a conoscenza, poiché nel 2012 la menzionata rivista di Storia Patria “Leucadia” pubblicava sia il mio saggio che quello dello studioso ugentino (L. Antonazzo, Il castello di Ugento e i d’Amore).

Anche nell’affermare che “Oronzo e Aniello Letizia sono cugini” ha dato per scontato che questa notizia sia da sempre conosciuta, non riferendo che questa indicazione è il frutto di mie lunghe ricerche d’archivio che finalmente hanno ridisegnato con maggiore chiarezza il quadro familiare dei pittori alessanesi Letizia, visto dagli studiosi, fino al 2012,  articolato e confuso.

Un altro nodo secondo me è da sciogliere nell’articolo dell’Antonazzo è l’attribuzione del dipinto dell’Assunta: il dipinto nel momento in cui lo attribuisco ad Aniello Letizia cerco di fornire dei possibili confronti stilistici con opere certe o documentate del pittore. Lo studioso attribuisce il dipinto «forse più ad Oronzo che ad Aniello Letizia», aspettandoci il confronto del dipinto murese con opere certe del pittore Oronzo Letizia, cosa che non si evince.

Il citare fonti d’archivio e bibliografiche ci sembra spesso dovuto a una gentilezza che si fa all’amico che ha pubblicato per primo la notizia che per un senso di scientificità del lavoro.

C’è da dire inoltre che, purtroppo, negli ultimi anni si sta verificando una sorta di “svago” nell’attribuire opere di pittura e scultura senza un metodo scientifico. È come i tanti quiz televisivi che ci si avventura a “lanciare” la risposta, senza aver minima cognizione dell’argomento. È questo sta nuocendo molto per la nostra Storia dell’Arte, perché sembra che le inesattezze vadano avanti e diventino difficili da estirpare, mentre gli studi più attenti vanno nel dimenticatoio o ignorati…

 

 

 

In Allegato foto: A. Letizia (attr.), Sacra Famiglia con i santi Anna e Gioacchino. Muro Leccese, chiesa matrice (foto S. Tanisi)

Muro Leccese. Santa Marina. Uno sguardo verso Oriente

di Massimo Negro

Con questa nota inizia “casualmente” un percorso  composto da brevi note che riguardano il culto di una santa, Santa Marina, giunto nel Salento secoli e secoli addietro sulle barche che portarono nelle nostre terre la religiosità e l’arte di Bisanzio. Quando l’occidente era avvolto da una grigia coltre e le stelle ad oriente brillavano luminose, i loro riflessi giungevano sino a noi.

smarina-

Casualmente, perché nei primi siti da me visitati vi ero andato con altre intenzioni, diverse da quelle di descrivere la vita di questa Santa e le sue numerose tracce nel Salento, così profonde da essere fonte di tradizioni e credenze popolari a me sconosciute.

Devo essere sincero. Di questa santa avevo letto su alcuni libri, anche un po’ vecchiotti, nei quali sono descritti i principali insediamenti rupestri o antiche fondazioni di monaci basiliani nella nostra terra. Ma non pensavo, professo la mia ignoranza, che il culto di questa Santa fosse ancora vivo e partecipato anche ai giorni nostri.

Così quasi senza volerlo, iniziando il mio percorso a Muro Leccese, dove a dire il vero vi andato per i resti messapici presenti in questa cittadina, e grazie a qualche dritta di un caro amico giornalista, mi sono ritrovato a Ruggiano prima e poi a Miggiano. Ma non mi sono fermato qui e con l’occasione ho fatto una capatina a Carpignano Salentino ad una cripta in cui si ricorda il culto della santa. Sempre sulle orme di Santa Marina. Ma a quel punto era diventata una vera e propria ricerca, pur se praticata con i miei limitati mezzi riguardo le fonti storiografiche.

Prima tappa di questa sorta di pellegrinaggio (in fin dei conti parliamo di una Santa) a Muro Leccese, antico centro messapico, ma non solo. Infatti a Muro è presente la piccola ma bellissima chiesetta dedicata a Santa Marina, che viene festeggiata dalla comunità locale nel mese di luglio.

A questa santa si ricorre per diversi motivi. Con questa nota, vi racconto le notizie che ho raccolto per l’occasione della visita a Muro; nelle prossime, seguendo il corso delle mie tappe per il Salento vi racconterò anche di altro e delle credenze popolari che ruotano attorno al culto della santa.

Santa Marina di Antiochia di Pisidia, come tutti i santi sicuramente non ha avuto una vita facile, ma quanto è giunto sino a noi della storia della sua vita sicuramente risente di una certa libertà di prosa da parte della fantasia popolare e della stessa chiesa di allora, che ne ha esaltato le virtù eroiche di martire.

Marina sarebbe stata figlia di un sacerdote pagano. Rimasta orfana della madre, il padre l’affidò ad una nutrice cristiana che la istruì nella fede e poi venne battezzata.
Mentre pascolava il gregge della famiglia che l’aveva adottata, la sua straordinaria bellezza colpì il governatore della provincia, Olibrio, che voleva sposarla. Subito Marina si dichiarò cristiana. Olibrio ben presto la minacciò e infine la sottopose ad una serie di tormenti, facendola rinchiudere in un carcere buio. Qui fu anche tormentata da visioni diaboliche che la martire dissipò con un segno di croce. Il demonio tornò a tormentarla sotto forma di drago che l’inghiottì viva. Marina, servendosi della croce, squarciò il ventre della bestia e uscì indenne. Da questo episodio della fantasia nacque la devozione a Marina quale protettrice delle donne incinte per avere un parto facile. Infine, fu decapitata.

La chiesa è stata eretta intorno al X e- XI secolo, utilizzando dei blocchi trasportati dalle vicine mura messapiche. Al suo interno la presenza di antichi affreschi risalenti al periodo basiliano, alcuni dei quali rinvenuti sotto l’intonaco che era stato utilizzato nel lontano passato per ricoprirli con nuove decorazioni e immagini risalenti al tardo ‘500.

La chiesa ha una sua particolare importanza in quanto al suo interno si trova (o per meglio dire quello che ne resta) il più antico ciclo di affreschi sulla vita di San Nicola di Myra. Alcuni studi fanno risalire la committenza all’Imperatrice Zoe, sposa di Costantino IX Monomaco (1043) come ex voto al Santo di Myra per la sconfitta di un nemico. La chiesa quindi sorge dedicata a San Nicola e solo più tardi, accanto a San Nicola si affianca il culto di Santa Marina, sino a prenderne il posto. Infatti oggi la chiesa è conosciuta come chiesa di Santa Maria.

Nei calendari orientali la sua festa è segnata il 17 luglio. A Muro Leccese, la martire orientale viene festeggiata la seconda domenica di luglio, anche se il calendario occidentale la riporta il 18 dello stesso mese.

Le foto sono state scattate il pomeriggio della festa, passato a gironzolare tra la Chiesa Madre, in attesa dell’uscita della processione, e nei pressi della Chiesa di Santa Marina, ingannando il tempo a veder giocare a “padrone” un nutrito tavolo di signori del luogo. Visto il contesto e qualche ricordo di gioventù che mi era tornato alla memoria rivedendo quel gioco, cari amici, una birretta era d’obbligo.
__________

Seguendo il link il video con le immagine di quel pomeriggio di luglio
http://www.youtube.com/watch?v=ZmgX5_TjsI4

fonti:
“Santa Marina. Tra Oriente ed Occidente” a cura del Comune di Muro Leccese.

http://massimonegro.wordpress.com/2011/12/06/muro-leccese-santa-marina-uno-sguardo-verso-oriente/

 

Santa Maria di Pompignano

La chiesa matrice di Santa Maria di Pompignano

un bene culturale medievale da salvare ad ogni costo

di Romualdo Rossetti e Oreste Caroppo

 

Chi si trova a percorrere la strada provinciale 363 che da Maglie conduce a Santa Cesarea Terme, all’altezza dello svincolo per Muro Leccese, posta su di una piccola altura in agro di Sanarica, compare sulla sinistra ciò che rimane della chiesa del villaggio medievale di Pompignano, uno dei tanti borghi satelliti (denominati in epoca bizantina choria) che insieme a quelli di Brongo, di Miggiano, di Miggianello e di Pulisano orbitavano intorno al nucleo urbano più importante denominato in epoca medievale Santa Maria de Muro, che a sua volta sorse sullo stessa area urbana in cui anticamente governò l’importante polis messapica di Mios.

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Ingresso di Santa Maria di Pompignano con arco ogivale e volta a crociera (foto Romualdo Rossetti)

Il luogo di culto mariano è ubicato lungo la vecchia strada comunale che conduceva a Palmariggi, a due chilometri dal centro abitato di Sanarica e ad appena un chilometro da quello di Muro Leccese. Ciò che lascia sgomenti è lo stato di abbandono in cui versa l’antico edificio di culto che, per ampiezza volumetrica e localizzazione fisica, testimonia un illustre passato.

Rudere di arco portante ogivale destro del corpo centrale della chiesa (foto di Romualdo Rossetti)
Rudere di arco portante ogivale destro del corpo centrale della chiesa (foto di Romualdo Rossetti)

La struttura della chiesa, risalente grosso modo al X secolo d.C., risulta di pianta rettangolare ad una sola navata che si apre con un grande arco ogivale di fattura quattrocentesca, che introduce in un primo spazio su cui compare una volta a crociera. Nel corpo dell’edificio retrostante si nota ancora la stessa foggia degli archi portanti da cui si diramavano le stesse tipologie di volte ormai irrimediabilmente perdute per l’opera degli agenti atmosferici ed il sovrapporsi, nel corso degli anni, di vegetazione spontanea (rovi ed arbusti di caprifico).

Finestra ellittica lato destro di Santa Maria di Pompignano (foto di Romualdo Rossetti)
Finestra ellittica lato destro di Santa Maria di Pompignano (foto di Romualdo Rossetti)
Porta secondaria con finestra ellittica lato sinistro dell_edificio (foto Romualdo Rossetti)
Porta secondaria con finestra ellittica lato sinistro dell_edificio (foto Romualdo Rossetti)
Particolare di arco ogivale (foto di Romualdo Rossetti)
Particolare di arco ogivale (foto di Romualdo Rossetti)

I continui crolli, soprattutto quello che ha interessato il lato settentrionale della struttura, ha evidenziato a destra della parete absidale la presenza di una stele di epoca presumibilmente romana o addirittura anteriore, presenza archeologica importantissima e forse unica nel territorio comunale di Sanarica dove ricade oggi il bene architettonico in questione.

Risultano caratteristiche anche due finestre  di foggia ellittica,  anch’esse quattrocentesche, poste sulla parte destra e sulla porticina rettangolare dell’ingresso laterale sinistro dell’edificio. Fino a poto tempo addietro si potevano osservare anche dei resti d’intonaco affrescato per terra.

La chiesa di Santa Maria di Pompignano (…ecclesia sub titolo Sancte Marie de Pulpignano”) ricadeva molto probabilmente nel novero delle chiese e dei luoghi di culto facenti riferimento al gran cenobio di San Nicola di Casole, come lo fu per molto tempo il monastero dei monaci basiliani di San Zaccaria (ora del Santo Spirito) e l’abbazia di S. Spiridione sita nel feudo di Sanarica.

Non è improbabile che il borgo medievale di Pompignano sia sorto sulla stessa area dove operava un piccolo fortilizio messapico, e successivamente tardo romano, posto a difesa dei traffici su via. Dell’antico villaggio medievale non esiste più traccia.

Insieme a tantissimi luoghi di culto di rito greco come  S. Eutimio, S. Salvatore, S. Menna, S. Maria di Costantinopoli, S. Spiridione, S. Giorgio, S. Zaccaria, S. Barbara, S. Pantaleone, S. Andrea, S. Maria di Corignano, presenti a Muro, si ritrovano cenni sulla vitalità di questo luogo di culto nelle “sacre visite” pastorali del 1522 e del 10 gennaio del 1540. Quest’ultima fu effettuata per volere dell’arcivescovo di Otranto Pietro Antonio de Capua, che incaricò il domenicano Antonius de Becharis ed il reverendo Mariano Bonusio a recarsi nella “parochie terrum seu Casalis muri”. Dalla lettura del resoconto della visita pastorale  emergeva lo spaccato della vita religiosa della parrocchia sotto esame. Il rito greco persisteva ancora, anche se irrimediabilmente volto al declino, e  nel lungo elenco delle chiese presenti un buon numero di queste risultavano ancora consacrate a santi greci come S. Elia, S. Giorgio, S. Sofia e S. Pantaleone. Alla liturgia greca subentrò pian piano quella latina che si professò nelle chiese dedicate a San Sebastiano e a S. Maria dell’Assunzione.  Per quel che concerneva il rendiconto  dei due religiosi riguardo allo stato degli edifici di culto traspariva che la maggior parte di questi necessitasse già all’epoca di riparazioni strutturali.

Particolare di arco ogivale (foto di Romualdo Rossetti)
Scorcio lato destro di Santa Maria di Pompignano (foto Romualdo Rossetti)

Per ciò che concerne Santa Maria di Pompignano si può oggi ipotizzare che la chiesa versasse ancora in discrete condizioni, possedendo un patrimonio fondiario costituito da piccoli appezzamenti di terreno agricolo ed alcuni alberi di ulivo situati sia nelle immediate vicinanze del luogo di culto che in altre zone poco distanti. Si conosce altresì anche la presenza di un cappellano, di nome Palmerius Gramalatius, che doveva essere uno dei presbiteri della chiesa di Pompignano.

Ora dell’antica chiesa, di proprietà privata, resta solo un rudere prossimo a scomparire, violentato dai continui cumuli di materiali di risulta che gente a dir poco incivile continua ad accatastare ai suoi piedi e nelle vicinanze, proprio in quei luoghi in cui leggende contadine narravano di esemplari e fortuiti ritrovamenti ossei  come femori ed ulne dalle dimensioni gigantesche ed archeologici  come monili e oggetti di vestiario di epoca medievale e moderna.

Vegetazione spontanea che ha invaso l_interno della chiesa (foto Romualdo Rossetti)
Vegetazione spontanea che ha invaso l_interno della chiesa (foto Romualdo Rossetti)

Dinanzi a tanto oblio svetta alto un imperativo categorico: “Bisogna al più presto e ad ogni costo ricostruire Santa Maria di Pompignano dov’era e com’era”.

Restaurare è atto tanto nobile in sé perché non significa riedificare qualcosa che rischia di non essere più, restaurare è recuperare anche la storia ed il carico simbolico che un bene ha posseduto nel corso della sua esistenza. Oggi grazie alla scienza del restauro che si perfeziona sempre di più, e cum grano salis è possibile porre in essere interventi esteticamente parlando poco invasivi che non alterano la struttura originaria con un “nuovo” sovrapposto al “vetusto”. Basta dunque a quelle trovate stupide, come quelle di certa deviata scuola che non vuole ricostruire com’era, ma indicare con colori e materiali diversi il nuovo restaurato, dal vecchio. Oggi restaurare significa tenere conto della complessità dell’oggetto e del contesto in cui l’oggetto viene a trovarsi. Dunque si proceda non solo alla riedificazione ma anche a far ritornare il paesaggio circostante nelle condizioni originarie ( qualora ciò sia possibile s’intende! ndr). Il bene come parte della scenografia delle nostre esistenze che deve essere quanto più possibile gradevole. In questo caso il restauro della chiesa di Santa Maria di Pompignano deve essere integrale e non conservativo altrimenti si è compartecipi della condanna di quel bene alla sua perenne  mutilazione estetica! Supponiamo di avere un affresco (ma vale per tutto), di cui si è consapevoli  di com’era in origine perfettamente, in linee e colori. Se oggi nell’ intervento si  cerca solo di conservare ciò che è rimasto, diciamo il 50 % senza integrare le parti mancanti, nel futuro restauro, ne sarà rimasto solo il 40%, poi il 30% e così via, finché nel 2300 il restauro vorrà dire presentare al pubblico una parete vuota o quasi, senza più percettibili linee e colori, seppur neo-restaurata con grande dispendio di risorse economiche! Il bene culturale è presenza e informazione insieme, informazione anche comprendente il materiale adoperato, e l’informazione si conserva ritrascrivendola in continuazione, come nei computer e nella replica del DNA negli esseri viventi, e così che si dovrebbe intendere il restauro, come è stato inteso nel passato, ermeneutica dell’arte che non solo ha conservato  ma ci ha trasmesso buona parte delle opere che oggi ammiriamo. L’opera, in tal modo, con la sua immutata presenza vivrà nel tempo aionico e continuerà a trasmettere, a comunicare contro il tempo cronico che tutto degrada, persino la pietra. Ed è per questo che il restauro deve essere rispettosissimo del Genius loci dei luoghi e dello spirito delle opere, talvolta dotate di un’ anima stratificatasi nei secoli  che giunge fino ai giorni nostri.

Scorcio lato sinistro (foto Romualdo Rossetti)
Scorcio lato sinistro (foto Romualdo Rossetti)

La città di Muro Leccese dalle origini al ventesimo secolo

 

di Venerdì Santo Patella

 

Questo lavoro è il frutto dell’utilizzo di moderne metodologie di studio,

acquisite durante i miei studi universitari e maturate nel corso delle mie

attività extra e post universitarie: la prima stesura, intitolata “Architettura

e città a Muro Leccese”, risale al 2005 per la mia tesi di laurea in Beni

Culturali, poi aggiornata ed ampliata fino a giungere a questa opera.

L’approccio è stato quello della ricerca storico-artistica: le fonti, la

documentazione d’archivio, la documentazione figurativa, la storiografia.

Il periodo preso in esame per questo studio va dalle prime attestazioni pre-

messapiche ai primi decenni del XX secolo, e si concentra in buona parte sulla

Città.

L’analisi del territorio, con escursioni sul campo, mi ha consentito, ad

esempio, di ricostruire la probabile ampiezza della cosiddetta “cinta muraria

interna” e ricostruire la centuriazione romana, comprese le partizioni interne,

e ipotizzando una nuova datazione per i menhir corrispondenti ai termini della

medesima centuriazione romana.

Ho cercato di incrociare e riesaminare i dati fornitimi da queste ricerche e

ciò mi ha permesso di rintracciare il nome medievale del casale prima che

divenisse la “Terra di Muro”, ossia Santa Maria de Muro, ed il secondo nucleo

medievale di Muro, cioè il Casale di San Giorgio, mentre la presenza della

“Terra”, ossia di un luogo fortificato con una sua riconoscibilità formale,

sembra documentata a partire dal 1380.

Dal Novecento una maggiore disponibilità, non solo di fonti, ma anche di

architetture giunte fino a noi, ha modificato in modo sostanziale il corso dell’

indagine nel senso che di ogni secolo è stato possibile seguire le

trasformazioni del tessuto abitativo e di quello viario che ha mantenuto,

almeno sino al XIX secolo, una fisionomia in parte fissata nei secoli

precedenti.

Non a caso ho analizzato, per il periodo moderno, singole emergenze

monumentali considerate nel loro rapporto col più minuto tessuto residenziale.

Si sono così potuti correggere errori di trascrizioni di date e recuperare la

memoria di monumenti non più esistenti come il “Campanile a tre registri” della

chiesa matrice.

Tramite l’analisi artistica ho potuto anche attribuire più opere tra cui le

seguenti: a Gaetano Carrone l’altare dedicato all’Annunziata, a Serafino Elmo

la tela raffigurante Sant’Oronzo, nell’altare omonimo, a Gian Domenico Catalano

la tela dedicata al “Perdono di Assisi” tutto ciò nella chiesa Matrice; a

Placido Boffelli la lipsanoteca sita all’interno del Convento di Santo Spirito;

la ricerca bibliografica mi ha permesso di individuare in Ferdinando De

Ferdinando l’autore dell’altare maggiore in marmi policromi attualmente sito

nella chiesa Matrice.

Grazie anche alla lettura visiva degli organismi architettonici, supportata da

inediti documenti d’archivio, ho descritto antichi interventi di restauro o

rifacimento eseguiti su alcuni edifici simbolo dell’identità cittadina, come la

Matrice e il palazzo Protonobilissimo, detto anche “del Principe”, ed altri.

La ricerca si conclude ai primi decenni del XX secolo, con la descrizione dell’

ampliamento dell’abitato (lottizzazioni Puti e Scurca) e della demolizione di

antichi monumenti, financo medievali (la cappella della Madonna delle Grazie

dei Magistris, la cappella di San Pantaleo).

 

Il mio auspicio è che questa opera sia utile per la tutela e conservazione del

nostro patrimonio artistico, archeologico ed architettonico, a prescindere se

sia vincolato o meno o se sia ubicato o meno all’interno del centro storico, e

che possa stimolare futuri studi sulla nostra Muro Leccese ed essere di

supporto all’attività di trasformazione urbanistica ed edilizia della città e

del suo territorio.

 

Liborio Riccio a Muro Leccese

A Muro Leccese si restaura il Sacrificio di Abramo di Liborio Riccio

La vicenda storico-artistica dell’opera

di Giancarlo Brocca e Santo Venerdì Patella

 

 

Recentemente sono iniziati, a Muro Leccese, i lavori di restauro della grande tela raffigurante il Sacrificio di Abramo, opera  del pittore e sacerdote murese Liborio Riccio (1720-1785), realizzata per la chiesa matrice della sua città natale.

Il quadro è di dimensioni considerevoli: misura quasi 30 metri quadrati, sui quali è campito uno degli episodi più  affascinanti dell’Antico Testamento.

L’opera è attestata per la prima volta nel 1754, nell’inventario redatto durante la visita pastorale dell’Arcivescovo di Otranto Mons. Caracciolo.

Si sa invece con certezza che fino al 1768 la tela aveva una collocazione diversa dall’attuale ed era posta dietro l’altare maggiore tra i due grandi quadri di Serafino Elmo: Eliodoro cacciato dal Tempio e La danza di David davanti all’Arca dell’Alleanza.

In una data imprecisata – ma sicuramente dopo il 1768 – il quadro fu spostato nel braccio destro del transetto e corredato da una cornice in legno e stucco, oggi dorata, su cui fa capolino la testa di un moro, stemma della città.

Fin dall’inizio dei lavori, il restauro del Sacrificio di Abramo (così è intitolata l’opera nelle fonti)  è sembrato un’occasione propizia per uno studio più accurato sull’opera, che servirà certamente a chiarire numerosi dubbi circa le sue vicende storiche.

Intanto la parte posteriore del quadro ha già rivelato alcune novità: si sono riscontrate due aggiunte nelle porzioni laterali, realizzate nel momento in cui l’opera venne spostata dalla sua prima collocazione. Nella stessa circostanza, la parte superiore del corpo centrale della tela, ossia la più antica, fu ritagliata a forma di centina e si provvide anche a modificare il telaio per adattarlo alla nuova collocazione.

Forse, nei prossimi mesi,  ciò che più desterà l’interesse degli studiosi e dei restauratori, sarà l’intervento di pulitura della pellicola pittorica, che certamente promette di riservare molte novità.

Sino a quando lo si è osservato dal basso, posto com’era a diversi metri d’altezza, il quadro risultava abbastanza omogeneo: ora invece, ad un esame ravvicinato, si rilevano delle differenze stilistiche abbastanza evidenti tra il corpo centrale e le due aggiunte laterali.

Queste ultime risalgono a una fase matura dell’artista, di cui se ne riconosce lo stile, mentre la parte centrale, che dovrebbe essere un’opera giovanile, presenta delle affinità stilistiche con la produzione di Serafino Elmo.

Probabilmente il giovane Riccio, all’inizio della sua carriera, prese a modello anche le espressioni del pittore leccese, presente nella sua città già dal 1734, ricordandolo  da vicino in alcuni episodi della sua pittura, al punto tale che verrebbe quasi  la suggestione di vedere nella  parte centrale dell’opera  la mano dello stesso Serafino Elmo, autore delle altre due grandi tele alle quali questa faceva compagnia, (si confronti, ad esempio, la figura dell’angelo del Sacrificio di Abramo con una simile eseguita per la tela di Santa Rosa nella chiesa di San Giovanni Battista a Lecce).

Tuttavia, il Sacrificio di Abramo è da sempre attribuito a Liborio Riccio e  A. Antonaci  sostiene che sia stato commissionato all’artista da parte del Capitolo di Muro nel 1752, senza citare la fonte.

A ogni modo, il pittore  ripropose almeno altre due volte il tema del Sacrificio di Abramo: nella chiesa della Purità a Gallipoli e in quella dell’Immacolata a Taviano. Le opere ricordano quella murese nell’impostazione, ma le figure risultano sacrificate per adattarsi  alla forma a lunetta delle tele.

Il restauro dell’opera approfondirà certamente la conoscenza circa le vicissitudini storico-artistiche a cui si è accennato, ma l’augurio è che ciò possa accadere senza  dover modificare l’ultimo aspetto dato al quadro dal suo stesso autore, il quale lo ingrandì e ridipinse in più parti con l’aggiunta e l’occultamento di alcune figure (come nel caso dell’ariete sulla tela centrale, nascosto da uno strato di colore scuro e riproposto nell’aggiunta al lato destro), per adattarlo al nuovo assetto architettonico e decorativo che la Matrice Murese cristallizzò alla fine del ‘700.

Tali riflessioni, valide per meglio inquadrare l’opera ai fini dell’importante restauro in corso, sono da considerarsi preliminari ad un contributo storico-critico più organico ed esaustivo che sarà possibile realizzare a lavori ultimati.

Il complesso conventuale dei padri Domenicani di Muro Leccese

di Romualdo Rossetti

 

Da sempre luogo di preghiera e di cultura, l’attuale complesso conventuale dei padri Domenicani di Muro Leccese sorse su ciò che rimaneva di un importante cenobio basiliano dedicato al culto di S. Zaccaria, rientrante, secondo quanto afferma lo storico murese Luigi Maggiulli nella sua Monografia di Muro Leccese, nell’orbita politico-amministrativa del più celebre monastero basiliano del Salento, quello di S. Nicola di Càsole, fatto erigere dalla lungimirante politica di Boemondo di Taranto, figlio di Roberto il Guiscardo nel 1098 e raso completamente al suolo dalle feroci armate ottomane di Maometto II° durante l’assedio di Otranto del 1480.

Con la distruzione ad opera dei Turchi del monastero di S. Nicola di Càsole, prima “Universitas” letteraria ante litteram dell’intero bacino del Mediterraneo, fu inevitabile l’emergere di un lento ma inesorabile declino anche degli altri cenobi basiliani del Salento. Di conseguenza, anche il monastero di S. Zaccaria in Muro, come quello di S. Spiridione in Sanarica (ora masseria Incanelli), patirono la stessa sorte del primo, in maniera, forse meno eclatante, ma sicuramente non meno spiacevole per ciò che poteva concernere la salvaguardia della cultura e della tradizione greco-bizantina nel tacco d’Italia.

Nel 1561 sulle rovine dell’antico cenobio basiliano, il principe di Muro, Giovan Battista I° Protonobilissimo volle che si riedificasse un nuovo sontuoso complesso coventuale e si rivolse per l’occasione al sostegno dei frati dell’Ordo Praedicatorum di S. Domenico di Guzmàn.

Il principe donò ai padri Predicatori, meglio noti col nome di Domenicani, affinché si potessero ben sistemare in paese, i poderi che erano stati dell’antico cenobio basiliano di S. Spiridione in Sanarica ed il patrimonio terriero di S. Zaccaria che, all’epoca, risultava però ancora essere un

Liborio Riccio a Muro Leccese

A Muro Leccese si restaura il Sacrificio di Abramo di Liborio Riccio

La vicenda storico-artistica dell’opera

 

di Giancarlo Brocca e Santo Venerdì Patella

 

 

Recentemente sono iniziati, a Muro Leccese, i lavori di restauro della grande tela raffigurante il Sacrificio di Abramo, opera  del pittore e sacerdote murese Liborio Riccio (1720-1785), realizzata per la chiesa matrice della sua città natale.

Il quadro è di dimensioni considerevoli: misura quasi 30 metri quadrati, sui quali è campito uno degli episodi più  affascinanti dell’Antico Testamento.

L’opera è attestata per la prima volta nel 1754, nell’inventario redatto durante la visita pastorale dell’Arcivescovo di Otranto Mons. Caracciolo.

Si sa invece con certezza che fino al 1768 la tela aveva una collocazione diversa dall’attuale ed era posta dietro l’altare maggiore tra i due grandi quadri di Serafino Elmo: Eliodoro cacciato dal Tempio e La danza di David davanti

Emanuele Spano, visual designer, photographer, street photographer

di Stefano Donno

Emanuele Spano. Classe 1978. Il suo background affonda le radici e
prende corpo a partire da due esperienze ad alto potenziale di
“creatività”: il FORMA ovvero il Centro Internazionale di Fotografia e
la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano (NABA).

Per descrivere in cosa eccelle o cosa è in grado di realizzare, non
basterebbe un anno intero, proviamo a sintetizzare in poche immagini.
Emanuele Spano è visual designer, photographer, street photographer e
molto, molto di più. Con l’architetto Yona Friedman, realizza per il
Mart di Rovereto una casa/installazione di origami. Nel suo entourage
circolano nomi “immensi” come Peter Gehrke o Eikoh Hosoe. È stato
assistente/fotografo ufficiale per campagne pubblicitarie di aziende
del calibro di Armani, Yamamay, Richmond. Ha vinto diversi premi di
importanza nazionale e internazionale, suoi lavori compaiono nelle più
prestigiose e autorevoli pubblicazioni a livello mondiale del settore
fotografico e del design. A partire dal 2008 il pulsare della sua
incontenibile voglia di manipolare e realizzare nuovi linguaggi
artistici, lo portano a creare “I’M WHERE I LIVE” a vera e propria
factory presente a Muro Leccese, a pochi chilometri dal capoluogo
salentino.
Un concetto di biocompatibilità tra arte e vita, un vero e proprio
biospazio dove il concetto stesso di factory si trasforma in pura
funzionalità, comfort e bellezza. Uno spazio vitale che è anche
showroom e allo stesso tempo laboratorio, studio, fabbrica artistica e
atelier post-moderno.
“I’M WHERE I LIVE”, questo nome evocativo che è anche un habitat di
vita nasce grazie a uno spunto di della grande Marina Carrara
direttrice della storica rivista CASAVIVA.
Ora Emanuele Spano sta lavorando ad un progetto per immagini di
“eco-visione” dove l’obiettivo cattura ombre, immagini, colori, quasi
fosse senziente. Un progetto di intelligenza naturale della
fotografia.

Info: http://www.emanuelespano.it

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