Lo sciakuddhi, il folletto dispettoso del Salento

il folletto salentino, visto da Daniele Bianco

 

di Paolo Vincenti

Lo sciakùddhi, o sciacuddhi, è la maschera popolare del Carnevale della Grecìa salentina, protagonista delle colorate sfilate in maschera che si tengono nei giorni carnascialeschi. È un termine greco-salentino col quale si indica un curioso folletto, esponente di quell’immenso patrimonio che sono le tradizioni popolari del nostro territorio, abitato da molte altre maschere o “spauracchi”, quali la catta scianara, l’uomo nero, le macare, il Nanni Orcu, ecc.  Lo sciakùddhi è conosciuto sotto nomi diversi non solo negli altri comuni del Salento ma anche in tutta la vasta area meridionale italiana. Nella fantasia popolare, esso è un folletto, molto piccolo, bruttino, fosco, peloso, vestito di panno e con un buffo cappellino in testa; in genere scalzo, smanioso di possedere un paio di scarpette, quindi riconoscente nei confronti di coloro che gliele donano, ai quali regala un gruzzolo di monete sonanti o indica il luogo dove si trova nascosto un tesoro, l’acchiatura. Ha l’abitudine di saltare di notte sul letto delle case che visita, raggomitolandosi sul petto del dormiente e dandogli un senso di soffocamento, poiché esercita una forte pressione; e probabilmente, proprio dalla voce dialettale carcare, ossia “premere”, deriva carcaluru, nome con cui è più conosciuto nel nord Salento.  Per la verità, questo che stiamo descrivendo è propriamente il tipo dello scazzamurrieddhu, assimilato allo sciakùddhi, mentre lu moniceddhu è raffigurato come un uomo piccolissimo, vestito con un abito da frate ed è considerato uno spiritello più bizzarro e scherzoso che cattivo, come è invece  lu scazzamurrieddhu : “piccin piccino, gobetto, con gambe un  po’ marcate in fuori, è peloso in tutta la persona, gli copre il capo un piccolo cappelletto a larghe tese e indossa una corta tunica affibbiata alla cintola”, come  ci informa il Castromediano.

Vi è almeno una trentina di modi in cui è chiamato questo folletto: oltre a quelli già citati, asciakùddhi, variante di sciakùddhi, nella Grecìa Salentina, soprattutto a Martano; àuru, nelle varianti lauru e laurieddhu, a Lecce; diaulicchiu o fraulicchiu, o, più raro, piccinneddhu, nel medio Salento; scarcagnulu, diffuso nel Capo di Leuca; altrove anche uru, urulu, ecc.

Per il Rohlfs, sciacuddhi /sciaguddhi è un folletto ed anche un incubo; il suo nome verrebbe dal greco σκιαούλον, ossia “piccolo spettro”, da σκιά ,“ombra”, con influsso del latino augurium. In altre aree del Salento si ha però, come abbiamo detto, anche scazzamurreddhu, scazzamaurrieddhu, che secondo il Vocabolario dei dialetti salentini vale “spirito, folletto” e “incubo”. L’origine si trova in un cazzamurreddhu che, oltre a presentare l’aspetto di una parola composta, si mostra anche congruente col francese cauchemar. La somiglianza non è sfuggita a Rohlfs, che infatti rimanda la nostra forma a un composto tra la voce dialettale cazzare, “schiacciare”, e il germanico mara, “fantasma”. Nonostante la voce salentina (e meridionale) presenti un vocalismo e uno sviluppo morfologico più tipico, l’origine di questo secondo elemento è rafforzata dal primo, visto che TLFI (Trèsor de la langue francaise informatisè) ritiene che il francese cauche dipenda proprio da un latino calcare, “schiacciare” e, in sintonia con la proposta di OED (Oxford English Dictionary on line) per l’inglese nightmare, riconduce il francese mar a forme di tipo mare, “spettro” presenti in neerlandese, tedesco e inglese antico.

Munacceddhu e animali, visto da Daniele Bianco

 

A Napoli, “o munaciello” è quasi una maschera popolare; ma, a differenza del monaciello napoletano, che miracolosamente nacque dalla bella Mariuccia e dall’ottantenne doli Salvatore, come informa Giovan Battista Basile nel Cunto de li cunti, lu scazzamurrieddhu salentino non ha lasciato traccia della sua venuta al mondo. Può essere lo spirito di un bambino morto senza aver ricevuto il battesimo, come il monachicchio, l’omologo lucano del nostro moniceddhu, di cui parla Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli. Oppure, questo spirito lo si credeva sprigionato dal fumo delle carcare (da cui, forse, un’altra etimologia per carcaluru), nelle quali si produceva la calce utilizzata per le costruzioni. Dal fumo della calce ribollente, veniva fuori l’astuto folletto e guai alla casa che prendeva di mira, nella quale si intrufolava passando dal camino, e guai agli abitanti della stessa, che venivano svegliati di soprassalto dallo scazzamurrieddhu, il quale in questo modo, sonoramente, sottolineava il proprio arrivo. Certo, il comitato di benvenuto che il furbo carcaluro si sarebbe aspettato di trovare al suo arrivo non era proprio la “festa” che gli arrabbiatissimi famigliari, svegliati di soprassalto, gli volevano fare. Il Nostro è dunque un nano, categoria dalla quale ha attinto molta letteratura per l’infanzia e in ispecie le fiabe (pensiamo, su tutti, a Biancaneve e i sette nani).

Il primo e il più famoso di questi nani è lu cumpare Sangiunazzeddhu, così chiamato perché piccolissimo quasi quanto un sanguinaccio, secondo il Castromediano. Sangiunazzeddhu sta per Sanguinello e la derivazione forse più attendibile di questo termine, secondo Rossella Barletta, è quella di Silvanus, una divinità agreste della mitologia romana che più tardi il popolo convertì in una specie di folletto.

A volte, egli può volgere la sua attenzione agli animali: di notte striglia, abbevera i cavalli e gli asini nelle stalle, oppure li bastona; può vedere di buon occhio il cavallo e mal vedere l’asino, e allora toglie la biada all’uno e la porta all’altro. Una volta infilatosi in casa dal camino, comincia a compiere una serie di scherzetti anche pesanti: nasconde o cambia la disposizione degli oggetti, rompe piatti, bottiglie, bicchieri, producendo un gran frastuono, facendo sobbalzare nel letto i componenti della famiglia. Guai se vi è un ospite sgradito in casa: lu moniceddhu comincia a premergli il petto fino a toglierli il respiro. Ma se l’oppresso riesce a vincere l’affanno e a catturare il folletto, prendendolo per il ciuffetto e tenendolo fermamente, allora il dispettoso spiritello piange e prega e tutto promette per riavere la libertà.

disegno di Daniele Bianco

 

Un altro modo per sottometterlo è impadronirsi del suo berretto rosso, lu cappeddhuzzu. Senza il suo copricapo, il folletto non può vivere e per riaverlo promette di rivelare ai padroni della casa il luogo in cui si trova un’acchiatura. Ciò può essere un tranello e, per ritrovare questo fantomatico tesoro, l’uomo può cacciarsi in grossi guai, sempre che il folletto non sia nel frattempo scappato, dopo aver ricevuto il suo cappeddhuzzu, senza rivelare alcun nascondiglio. Essendo un burlone, se gli si chiede denaro, egli colma la casa di cocci; se invece gli si chiedono cocci, egli dà il denaro. “E’ uno di quei folletti”, dice ancora il Castromediano, “tra il bizzarro e l’impertinente, tra lo stizzoso e lo scherzevole, cattivo con chi lo ostacola o sveli le sue furberie, benefico con chi usa tolleranza”.

Frequentando le stalle, può succedere che si innamori di un’asina o di una cavalla ed allora è tutto premure e dolcezze. Pettina e lucida il crine o la coda della cavalla di cui è innamorato e, a questa soltanto, porta tutta la biada, sottraendola agli altri animali, che diventano sempre più rinsecchiti, per somma disperazione dello stalliere che non riesce a darsi una spiegazione per lo strano fenomeno. La famiglia che abita la casa visitata dal nanetto, a causa della sua presenza ossessiva e fastidiosissima, può anche decidere di cambiare casa; sempre che il terribile folletto non decida di seguire le sue vittime nella nuova abitazione.

Fra i vari dispetti, il peggior male è, senz’altro, quello di non dormire la notte o di dormire male, con un sonno agitato dagli incubi. C’è un altro rimedio per tenerlo lontano: si può apporre ad un arco o alla sommità della porta principale della casa un paio di corna di bue o di montone, di cui il folletto ha una paura tremenda. Come visto, un altro nome con cui viene indicato dalle parti di Lecce è lauru o auru, auricchiu nel suo diminutivo. Secondo Rossella Barletta, l’origine del termine auro deriva da “augurio”, dal latino augurium, derivato da augur, cioè “augure”, intendendo con questo termine quei sacerdoti che, nella religione romana arcaica, divinavano la volontà degli déi attraverso la lettura dei segni celesti o anche attraverso il canto o il volo, oppure ancora le interiora, degli uccelli. Ma il termine “augurio”, nella nostra lingua, è collegato con qualcosa di positivo, un buon auspicio, e questo ci fa pensare alla componente buona, o almeno duale, del carattere di questo folletto-divinità della casa. Maurizio Nocera individua un’altra etimologia per laurieddhu: “Le due parole (Laurieddhu e Monachicco) non sono in contraddizione fra di loro, anzi: Laurieddhu si riferisce al luogo e ha la sua origine etimologica da laura, grotta naturale, spesso usata nel primo millennio d. C. dai monaci bizantini per i loro ritiri, per pregare ed anche per dormire. In Salento le laure basiliane sono molte tuttora visitabili. Monachicco invece significa appunto piccolo monaco, che vive nella laura”.

Ricorda, Nocera, le sue paure di bambino nel piccolo paese agricolo (Tuglie) in cui è nato: “La mia paura era legata soprattutto al buio e ai racconti che si facevano intorno a questo elemento della natura. Una volta andati a letto, ai bambini si raccomandava di mettersi sotto le coperte e di non mettere mai fuori la testa da esse, pena l’arrivo del laurieddhu e gli scherzi di cattivo gusto che egli avrebbe potuto fare. A ciò vanno aggiunte le paure derivanti dai racconti legati all’apparizione di anime morte o comunque di spiriti maligni. Ovviamente da bambino anch’io ho creduto a tutto ciò, e non dimentico il terrore che avevo per questo strano spiritello. Il mio lettino stava affianco a quello di mio fratello più grande, oltre al quale c’era il camino, di giorno acceso, di notte spento. Una volta coricato e messa la testa sotto le coperte, l’immagine della mente più appariscente che mi si presentava era sempre quella della bocca del camino nero, dal quale poteva uscire lo gnomo dispettoso o qualche anima morta. Terrore e tremore fino a che il sonno non vinceva. Da adulti, mio fratello mi ha ricordato che durante quella prima fase di sonno ipnagogico, parlavo molto, a volte gridavo anche, e le parole che scandivo erano sempre rivolte allo gnomo affinché stesse lontano da me. Paure di bambino scaturite dalla narrazione.

Oggi di tutta questa leggenda sono rimasti solo i racconti”. Fatto sta che, nonostante la disponibilità di contributi autorevoli di figure di spicco della cultura salentina, deve ancora allestirsi una bibliografia sugli esseri immaginari salentini, anche in relazione a quelli di altre aree dello spazio mediterraneo.

Per trovare l’origine degli scazzamurrieddhi, secondo noi, si può certamente risalire ai Lares, ai Penates e ai Manes, le divinità domestiche della casa romana. Nella religione romana, i Lares erano protettori di uno spazio fisico ben preciso e circoscritto, la casa appunto. Ad essi si portavano delle offerte, come un grappolo d’uva, una corona di fiori o cibarie. Il Lar Familiaris è invocato da Catone nel De agri cultura e da Plauto nell’Aulularia. I Penati erano, etimologicamente, gli dèi del penus, cioè il vano delle provviste. Anch’essi erano i protettori della casa e dei suoi abitanti, in particolare del pater familias. Vi erano poi i Lemures o Manes, cioè gli spiriti dei morti. La morte, nell’antica Roma, veniva ritenuta contagiosa, funesta, e quindi doveva essere purificata con riti appropriati, come il sacrificio di una scrofa a Cerere. Il lutto durava nove giorni. L’ultimo giorno, si faceva un pasto sulla tomba, poi la pulizia con la scopa e la purificazione della casa e di tutti coloro che avevano assistito alla sepoltura. La famiglia infatti si riteneva contaminata, in qualche modo, dal contatto con la morte. Se ai morti veniva data giusta sepoltura, essi potevano sopravvivere in pace nell’aldilà, altrimenti potevano tornare sulla terra e tormentare i vivi. Questi spettri malefici erano chiamati Larvae e i famigliari venivano da essi tormentati. I Lares ed i Penates non abbandonavano mai la casa e ne proteggevano gli abitanti, mentre i Manes, nella loro forma di Larve, potevano essere avversi. Se dunque affondassero nella mitologia romana le origini dei folletti di casa nostra, ciò fornirebbe anche una spiegazione della loro doppia natura, benevola e malevola.

tavola di Daniele Bianco

 

Ringrazio il prof. Antonio Romano per l’ottima consulenza bibliografica.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Rossella Barletta, Scazzamurrieddhri i folletti di casa nostra, Fasano, Schena Editore, 2002.

Federico Capone, In Salento Usi, costumi, superstizioni, Lecce, Capone Editore, 2003.

Salento da favola storie dimenticate e luoghi ritrovati, a cura di Roberto Guido, Lecce, I libri di Qui Salento, Guitar Edizioni, 2009.

Maurizio Nocera, Il laurieddhu e il culto della papagna nel Salento, in La magia nel Salento, a cura di Gianfranco Mele e Maurizio Nocera, Lecce, Edizioni “Spagine/Fondo Verri”, 2018, pp. 123-136.

La Mandragora in Puglia e in Terra d’Otranto

di Gianfranco Mele

 

Avvertenza preliminare: la Mandragora autumnalis è una solanacea dagli effetti estremamente pericolosi (vari effetti neurotossici, fino all’arresto cardiaco: si rimanda per info dettagliate su queste caratteristiche alle varie trattazioni sia divulgative che scientifiche di farmacologia e tossicologia,molte delle quali presenti anche in rete). Si sconsiglia perciò vivamente qualsiasi forma di sperimentazione suscitata da curiosità.

 

Intorno alla fine degli anni ’80, e successivamente nei primi anni del nuovo millennio, mi imbatto casualmente in due imponenti stazioni di Mandragora autumnalis nel territorio tarantino: da qui, e dalla vista dello spettacolo suggestivo che offrono queste piante, inizio ad interessarmi sia della loro presenza e diffusione in area salentina e tarantina, che delle caratteristiche, leggende, aneddoti e miti legati ad esse.

Questo scritto origina da tali motivazioni e perciò comprende 3 diverse questioni: 1) la diffusione della pianta (e una mappatura in itinere) in Terra d’Otranto e più generalmente in Puglia; 2) una serie di osservazioni su alcune caratteristiche attribuite nella mitologia alla pianta; 3) l’eventuale presenza della mandragora nelle leggende locali e nella tradizione “masciàra” della Puglia.

 

Mandragora autumnalis in fiore
Mandragora autumnalis in fiore

 

Diffusione in Puglia dall’antichità ai giorni nostri

Conosciuta sin dall’antichità, sia come veicolo di ebrezza che come medicinale, è utilizzata anche nella medicina di Ippocrate. In quanto pianta endemica della Puglia sicuramente era conosciuta e utilizzata anche nella antichità magno-greca.

Ci son pervenuti frammenti di un’opera di un commediografo magno-greco, Alexis di Thurii, intitolata Mandragorizomene (la donna che fa uso della mandragora): i 5 frammenti che ci restano non darebbero modo di conoscerne il soggetto e l’intreccio, e le opinioni degli studiosi appaiono discordanti: si tratterebbe secondo alcuni di fatti amorosi e pertanto la Mandragora sarebbe usata dalla protagonista come afrodisiaco, secondo altri ci sarebbero riferimenti alla magia, per altri la protagonista si serve della Mandragora per simulare la morte, ad accertare la quale viene cercato un medico che parlasse dorico.

E’ nota la presenza e l’influenza del Pitagorismo in Magna Grecia e in Taranto: è proprio Pitagora, fondatore della omonima scuola nella Crotone magno-greca, a definire la mandragora “Antropomorphon”. Pierio Valeriano, pur ritenendo che il suddetto termine fu utilizzato da Pitagora per definire la forma della radice, riporta alcune interpretazioni di non specificati altri autori, secondo i quali “Antropomorphon” implica una attribuzione mistica da parte dei pitagorici alla pianta e in special modo ai suoi pomi somiglianti a testicoli.[1]

Si può supporre che la mandragora abbia avuto un ruolo nell’orfismo e nel pitagorismo, e difatti nelle Argonautiche Orfiche dell’anonimo autore del V secolo d.C., è descritta come una delle piante del giardino di Ecate, signora delle erbe officinali e magiche. Più in generale, le varie esperienze descrittive di vari riti misterici, compresi i misteri Eleusini (le visioni terrifiche e quelle celestiali, esperienze di sdoppiamento corporeo, ecc.),[2] danno da pensare che ciò che suggerisce Pier Luca Pierini a proposito proprio dei misteri di Eleusi non sia da scartare, ovvero la presenza della Mandragora come principale agente delle alterazioni dello stato ordinario di coscienza.[3]

In questa prospettiva, diversi elementi collimerebbero tra loro, come ad esempio la coincidenza del periodo della comparsa della Mandragora autumnalis con le celebrazioni dei Misteri, l’accoppiata vite/vino-mandragora conosciuta fin dall’antichità, e infine la probabilissima veridicità dell’ipotesi che la stregoneria medievale, caratterizzata da unguenti e preparati allucinogeni a base di solanacee, costituisca la diretta filiazione di una antica tradizione magico-religiosa (rituali e saperi compresi).

Ma veniamo ora alla presenza e diffusione della pianta nella flora spontanea pugliese.

Miniatura dal Dioscoride viennese, codice greco prodotto a Costantinopoli attorno al 512. Vi è raffigurato Dioscoride seduto che allunga la mano per afferrare la mandragora antropomorfa che Euresis gli offre. Un cane morto è legato con una corda al piede destro della pianta
Miniatura dal Dioscoride viennese, codice greco prodotto a Costantinopoli attorno al 512. Vi è raffigurato Dioscoride seduto che allunga la mano per afferrare la mandragora antropomorfa che Euresis gli offre. Un cane morto è legato con una corda al piede destro della pianta

 

In Puglia sono documentate o testimoniate presenze di Mandragora nella flora spontanea, a partire dalle ricerche degli autori cinquecenteschi.

Scrive Andrea Mattioli:

“Nascono le Mandragole per sé stesse in più luoghi per li monti in Italia, e massime in Puglia e nel monte Gargano, il quale chiamano di Sant’ Angelo, onde ci recano le corteccie delle radici, e i Pomi alcuni Erbolaj, che ogni anno vengono a noi…” [4]

Il Medico e letterato Girolamo Marciano (1571-1628) a sua volta documenta la presenza di Mandragore in Terra d’ Otranto, elencando la “Mandragora maschio” e la “Mandragora femmina” tra le piante spontanee che crescono nella “Provincia”. [5]

L’ umanista settecentesco Cataldantonio Carducci, nella sua traduzione e commentario delle Delizie Tarantine del D’Aquino, riferisce della presenza della Mandragora presso i vigneti del monte tarantino Aulone, e di una contaminazione dei vini:

“…. lmperciocchè attenta la grassezza de’ pascoli di Saturo, di cui era parte Aulone, le pecore vi s’ impinguavano, onde provveniva l’ ottima qualità delle lane: ed attento il buon terreno di Aulone, molto confacente a viti, il vin che producea, era rinomatissimo. Ed in quel tenimento v’ è tuttavia il corrotto vocabolo monte Melone, e la pezza di MeIone, per dove forse si estendevano le viti d’Aulone. E v’è pure una ragion naturale circa la bontà de’ suoi vini: mentra questa nasceva, dacchè ritenea la qualità della mandragora, erba ipnotica, o sia soporifera, di che eran pieni que’ suoi vigneti, e che tuttavia alligna in quel terreno; onde nacque quel greco adagio mandragoram bibisse (Erasm. in adag.) che si appropriava a quegli infingardi o neghittosi, cui piace una vita molle e lascìva. Quindi Orazio non per altro riguardo lo disse amicus, mentre il suo vino gustato ch’cra, spirava della languidezza, e conciliava il sonno. Plutarco nel libro de audiendis Poetis ci attesta, che la mandragora nascendo presso alle viti, infonde la sua Virtù nel Vino, e fa più soavemente dormir coloro, che ‘l bevono. E Vaglia I’ esempio di Annibale, al ‘dir di Giulio Frontino Strateg. 2, il quale spedito da’ Cartaginesi a domar lo spirito ribelle degli Afri, sapendo ch’ essi erano troppo dediti al vino, procurò di mischiarvi in quello quantità di mandragora, la quale operando con la sua virtù, gli rese deboli e sonnacchiosi , di modo ch’ egli ne trionfò. Anzi tanto è più bello quell’epiteto amicus, che Orazio attribuisce ad Aulone, quanto ch’ essendo questo luogo, come si è detto, ferace di mandragore, il nome di questa pianta presso gli orientali serba la nozion di amore, ch’ è Dod [6] […]” [7]

Sempre a proposito della mandragora in Taranto, scrive il Giustiniani, riprendendo in parte le tesi del Carducci:

“In tutta quella regione, e in esso colle ancora, vi si vede finanche inoggi nascere abbondantemente la Mandragora, erba ipnotica e soporifora, di cui Plinio molto parla; e se mai sia vero quel che dice Plutarco che una tal’erba nascendo presso le viti infonde la sua virtù nel Vino, e fa che dormono soavemente tutti coloro, che il bevono: mandragora (mi valgo del Xilandro) iuxta vites nascens , suamque in vinum virn diffundens, efficit ut suavius dormiant, qui id biberurnt, ebbero perciò a farvi una ricca piantagione di viti, dalle quali ne raccoglievano poi vino assai in pregio.” [8]

Nella sua opera La flora salentina, il botanico ottocentesco Martino Marinosci, di Martina Franca, riferisce, a proposito di quella che egli identifica come

“Mandragora officinalis, o officinarum Atropa L.”: “ Vi è una varietà a foglie larghe con fiori, e radice bianca, ed un’ altra presso Lecce con radice fosca, foglie strette ondate, fiori porporini” [9]

Ancora, il botanico inglese Henry Groves nella sua opera “Flora della costa meridionale della Terra d’ Otranto” riporta nel 1887 la presenza di Mandragora autumnalis a Leucaspide (Statte, TA) e Gallipoli.[10]

La Mandragora autumnalis è presente nelle attuali checklist della flora salentina.[11] Benchè sia inserita nelle specie di lista rossa, cioè a rischio di estinzione, sono state individuate, anche molto recentemente, diverse stazioni sia dai botanici che da ricercatori indipendenti e appassionati.[12]

Presenze certe sono state rilevate nei pressi di: Tuturano (BR), Porto Cesareo, Otranto e Porto Badisco (LE), Taranto, S. Marzano di S. Giuseppe (TA)[13].

La Mandragora si comporta da pianta “infestante” e dunque laddove è insediata allo stato spontaneo non si trovano mai individui isolati o numericamente esigui, ma stazioni di numerosi esemplari che occupano fette consistenti di suolo in ciascun sito che le ospita. Da verificare, segnalazioni sulla costa tarantina, nei pressi delle gravine massafresi, di Martina Franca, San Giorgio Jonico, e in altre zone della provincia di Taranto e di Lecce.

 

Osservazioni e comparazioni con il mito: odore, luminosità e altro

Osservazioni dirette, ripetute, ci hanno consentito di far caso all’odore dei frutti e ad altri aspetti della pianta come la cosiddetta luminescenza. In una fase intermedia tra quella del frutto verde, acerbo, e la maturazione vera e propria, i frutti emanano un odore particolare, quasi di tipo spermatico. Più il frutto è maturo, più l’odore perde quella caratteristica e si avvicina a quello del marcio. Probabilmente l’associazione della Mandragora con lo sperma, ripetuta in più e diverse leggende, ha a che vedere anche con questa caratteristica del frutto nella sua fase di pre-maturazione: “nasce dallo sperma degli impiccati”, forse perchè ha effettivamente un odore che ricorda e rievoca quello dello sperma. Più in generale la Mandragora è collegata allo sperma anche al di là del tema dell’impiccagione: un nome arabo dei suoi frutti è anche “testicoli del diavolo”, e un appellativo turco, sempre dei frutti, “testicoli di cane”.

Nel mondo arabo è diffuso anche il nome “uova del genio” laddove il termine “uova” deve essere inteso come eufemismo di “testicoli”.

Vedremo in seguito, invece, perchè probabilmente è stabilita una relazione anche con i morti e con le loro anime dannate.[14]

A proposito del mito della luminosità della Mandragora, non abbiamo notato luminescenze o fosforescenze di sorta nei frutti, in nessuna fase della fruttificazione, nonostante osservazioni ripetute. Bouquet nota, a suo dire, una sorta di luminescenza, ma la attribuisce al fenomeno della fosforescenza, tipico di diversi organismi, e tuttavia percepibile, secondo il ricercatore, a occhio nudo anche a distanza di 2 mt. dalla pianta[15]: non abbiamo notato nulla di ciò. Occorre aggiungere che la cosiddetta luminescenza non è univocamente attribuita ai frutti: Le Quellec riporta, a proposito del nome arabo “Lampada del demone” :

“Ibn el Baitar riporta che secondo el-Edrisi “la parte interna della corteccia dello stelo brilla nella notte […] al punto che si potrebbe pensare in fiamme.” [16]

La cosiddetta luminosità è attribuita in questo caso alla brillantezza della corteccia dello stelo e non del frutto: e difatti alla luce della luna piena o di una torcia questo “risalto” di quella parte della pianta, ci risulta.

Altre leggende e interpretazioni investono l’intera pianta di un potere “luminoso” o “ardente”: alcuni antichi erbari affermano che “la pianta brilla nella notte come una lampada”, secondo alcune leggende “la pianta irradia fuoco”, “assomiglia al fuoco”, “è calda”, ma “fuoco e “calore” sono riferiti anche alla potenza del veleno della pianta e ai suoi effetti. Il “calore” è collegato da altri alla canicola estiva (periodo di raccolta della varietà officinarum). [17]

In Garfagnana (prov. di Lucca) son state raccolte delle testimonianze da nativi che affermano che “dove c’è la mandragola c’è il fenomeno del gas, del lumicino[18] e anche qui il fenomeno pare attribuito alla pianta a prescindere dai frutti: “finchè la mandragola non è grande non fa il lumicino[19], e “se vive cento anni fa cento anni di lumicino[20].

Illustrazione dall'opera di Pierre Boaistuau, Histoires prodigieuses,1560: frontespizio del capitolo XXII. Vi è raffigurata la classica scena del cane legato alla mandragora, che è raffigurata però come una pianta fiammeggiante
Illustrazione dall’opera di Pierre Boaistuau, Histoires prodigieuses,1560: frontespizio del capitolo XXII. Vi è raffigurata la classica scena del cane legato alla mandragora, che è raffigurata però come una pianta fiammeggiante

 

Probabilmente nei vari miti sulla luminosità della pianta si intrecciano caratteristiche e percezioni differenti: una osservatrice che scrive per una rivista divulgativa sulle piante, riporta in un articolo la sua personale esperienza osservativa:  “in autunno, si forma un denso ciuffo di fiori imbutiformi a cinque lobi di un azzurro violetto intenso e luminoso”.[21] Questa percezione di una sorta di luminosità del fiore è comune a molti osservatori, e io stesso fui colpito, sin dalla prima volta che vidi un gruppo di piante, da una sorta di risalto vesperale del fiore, che ho ri-percepito a distanza di anni. D’altro canto, l’accostamento ad una lampada potrebbe provenire anche dalla forma suggestiva che assumono frutto e calice nell’insieme, come si può notare in una delle foto qui riportate.

Frutto di mandragora con il suo calice
Frutto di mandragora con il suo calice

 

La comparsa della Mandragora autumnalis in Salento avviene immancabilmente verso metà-fine di agosto, subito dopo le prime piogge, e spesso quasi in concomitanza appaiono i primi fiori. La fruttificazione inizia verso la metà di ottobre.

I miti della pioggia legati a questa pianta, detta in alcune regioni italiane “l’erba che chiama l’acqua” se sfalciata,[22] hanno una ovvia correlazione con il suo riaffacciarsi dopo i primi temporali estivi e con il loro irrobustirsi alle piogge successive[23] .

Un’altra cosa che abbiamo potuto osservare è la presenza di chiocciole sulla pianta: ne sono molto attirate e ne divorano le foglie. Questa osservazione coincide con quanto riportato da altri studi.[24]

Secondo alcuni studiosi “gli uccelli e gli animali dei campi trovano che la carne succosa della Mandragora è irresistibile[25]: questa appetibilità sarebbe, tra l’altro, tipica delle gazze, corvi e altri volatili che si ciberebbero dei frutti. In effetti, in una zona popolata da mandragore e da corvi non siamo riusciti a ritrovare presenza di frutti nelle piante dopo la fioritura, proprio perchè probabilmente i corvi li consumavano poco dopo la loro comparsa sulle piante.

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Cantareus apertus su foglie di Mandragora

 

La leggenda dell’ “urlo” della pianta potrebbe avere origine dal “rumore” che fanno le radici, specie in grossi esemplari, a contatto con la terra e a seguito di una brusca estrazione, laddove il terreno è soffice o è stato “preparato” a poter estrarre la radice intera.[26] abbiamo potuto notare l’identico fenomeno, casualmente, estraendo bruscamente, d’un colpo, un esemplare di Daucus carota (lo sfregamento della radice contro il terreno aveva provocato un rumore, per la verità appena percettibile, ma acutissimo): un informatore siciliano ci riporta, a proposito della Mandragora:

“ho sentito uno pseudo-urlo (del quale posso fornire anche la registrazione), che somiglia molto al rumore del cuoio se strofinato, e altro non è che lo stridere delle radici appena la pianta si tira fuori dal terreno.”

 

La Mandragora nella stregoneria salentina

In uno scritto di prossima pubblicazione parlo dettagliatamente della presenza di Solanacee psicoattive nell’esperienza della stregoneria salentina; in questa sede riporterò alcuni passaggi significativi rapportabili al possibile utilizzo specifico della Mandragora.

Solanacee tropaniche di vario genere paiono inequivocabilmente presenti nella composizione di unguenti, polveri e bevande afrodisiache e affatturanti. In un testo del Chiaia si legge di una misteriosa “Erba del trasporto” utilizzata da un masciàro pugliese[27] che potrebbe essere la Mandragora stessa o altra solanacea dagli effetti analoghi, mentre nei resoconti forniti al tribunale del santo Officio della diocesi di Oria tra ‘600 e ‘700, si leggono esperienze significative, benchè, ovviamente, mediate dalla penna dell’ inquisitore.

Non sappiamo quali Solanacee in particolare rientrassero nelle varie composizioni (probabilmente tutte quelle di tipo tropanico disponibili e reperibili, vista l’interscambiabilità a livello di proprietà), ma alcuni passi ci suggeriscono la possibile presenza della Mandragora. Li analizziamo nell’articolo al seguente link:

http://www.academia.edu/35567465/Il_possibile_ruolo_della_mandragora_nella_stregoneria_salentina

 

Laùri e Mandragore

Il Laùro salentino è un demone prettamente autunnale: le sue apparizioni sono frequenti nelle credenze popolari del Salento e della Puglia e il suo habitat sono le antiche case dei contadini, ma anche i frantoi oleari.[28] E’ spirito domestico, descritto come una sorta di omuncolo nero, o marrone, comunque scuro, con o senza cappello frigio (che a volte è rosso, a volte è nero) o a sonagli.[29] Può avere aspetto umano, aspetto di gatto, di bambino demoniaco, di giullare. Spirito benevolo, ma anche terrifico a seconda delle circostanze e delle simpatie/antipatie o dei meriti e demeriti dell’ospite.

E’ il Lare (spirito degli antenati), ma anche la Larva dei romani (spirito di morti che non hanno ricevuto sacramenti o di morti dannati), è Genius, Incubus, Pan, ha caratteristiche ed aspetto che possono farlo identificare con Ailuros (divinità-gatto) ma anche con Alraune (spirito della mandragora). In questa figura sincretica o forse archetipica del folletto salentino sono riassunti e si sovrappongono i connotati caratteriali e gli aspetti di tutti questi esseri mitologici. E’ il Lare domestico della commedia Aulularia (pentola d’oro) di Plauto, che custodisce il tesoro degli avi della casa.

Il Laùro custodisce tesori e pentole, protegge la casa, può regalare ricchezze (ma anche pentole rotte, per burla), può spaventare. Come l’ Incubus degli antichi romani si poggia sul ventre e toglie il respiro, terrorizza e insegue come Pan, Fauno (divinità della natura, della campagna, dei boschi).

Come gli Incubi romani, può trasmettere sogni cattivi e terrifici o anche cercare di imporre alle donne rapporti sessuali. Emissario degli inferi, può apparire in forma di gatto come alcune divinità egiziane note in mitologia greca con il nome di Ailuros (Ailouros in greco antico significa gatto). Nel nostro folklore è identificato anche come lo spirito di un morto di morte violenta o di un morto bambino non battezzato, come la Larva romana, e come le Larve può perseguitare e terrorizzare.

Nella tradizione germanica Alraune è lo spirito della Mandragora, che terrorizza, fa trovare tesori, ha forma antropomorfa. Ma nella mitologia germanica esiste anche il Kobold, spirito familiare come quello degli antichi romani, più anticamente spirito di una pianta o di un albero. Nel Medioevo in Germania si usava scolpire figure di Coboldi plasmandoli con il legno di un albero, il Buxus sempervirens, o con cera, ma anche con la radice della Mandragora o di altra pianta spacciata per tale. Si pensava che lo spirito del Coboldo vivesse nel materiale utilizzato per la figura. Kobold ha un etimo comune a Kobaloi, spiriti della mitologia greca, piccoli, dotati di un grande fallo, e compagni di Dioniso.

Se mai dovesse essere ricercata una discendenza del mitico folletto salentino da una pianta [30] e dai suoi effetti, la pianta “candidata” a numerosi e sorprendenti elementi in comune con il Laùro è proprio la Mandragora (entrambi sono legati al mondo onirico, spaventano e terrorizzano, ma proteggono anche, possono donare ricchezze e tesori, hanno forma antropomorfa, godono di una interscambiabilità, son considerati spiriti, son paragonati e/o definiti come morti di morte violenta o dannati, e come morti bambini non battezzati). Infine, il Laùro e l’ Homunculus alchemico derivato dalla magica animazione della Mandragora sono fondamentalmente la stessa cosa.
“Mandragora maschio” e “Mandragora femmina” in una antica stampa

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“Mandragora maschio” e “Mandragora femmina” in una antica stampa

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Note

[1]Giovanni Pierio Valeriano, I ieroglifici ouero Commentarii delle occulte significationi de gl’Egitti, Combi, Venezia, 1625, pag. 761

[2]v. Attilio Quattrocchi, I Misteri Eleusini, Accademia Platonica Centro Studi Filosofici http://www.accademiaplatonica.com/i-misteri-eleusini/

[3]Pier Luca Pierini, La Magica Mandragora, Rebis Ed., Viareggio, 1999, pp. 23-33

[4]Pietro Andrea Mattioli, Discorsi, pag. 604, cap. 78, 1544

[5]Girolamo Marciano, Descrizione, origine e successi della provincia di Otranto pag. 190, Napoli, Stamperia dell’ Iride, 1855 (riedizione a stampa dell’antico manoscritto redatto dal Marciano a cavallo tra ‘500 e ‘600)

[6]a proposito del termine “dod” qui citata dal Carducci come sinonimo di mandragora e di “amore”, si veda G. Toro, La radice di Dio e delle Streghe, pag. 18

[7]Cataldantonio Atenisio Carducci, Le delizie tarantine di Tommaso d’ Aquino, Volume 2°, Annotazioni, Napoli, 1772, Stamperia Raimondiana, pag. 269.

[8]Lorenzo Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del regno di Napoli, Manfredi, 1883, pag. 51

[9]Martino Marinosci, Flora Salentina, vol. II, Tip. Ed. Salentina, Lecce, 1870, pag. 91

[10]Henry Groves, Flora della costa meridionale della terra d’ Otranto, Nuovo Giornale Botanico Italiano, vol. XIX, n. 2, aprile 1887, pag. 174

[11] C. Mele, P. Medagli, R. Accogli, L. Beccarisi, A. Albano & S. Marchiori Flora of Salento (Apulia, Southeastern Italy): an annotated checklist Flora Mediterranea 16, Raimondo Ed., , pag. 219

[12] In un suo recente scritto Samorini riporta di “testimonianze di alcuni conoscenti pugliesi e siciliani i quali mi hanno comunicato che, quando incontrano delle piante di mandragore, ne consumano impunemente i frutti maturi”, ripetendo per ben due volte nel testo questo “dato” con la medesima espressione e mettendo in guardia qua e là nell’articolo rispetto alla sconvenienza di questo atteggiamento (G. Samorini, Odori sensuali: il profumo del frutto di Mandragora, in Erboristeria Domani, mar/apr 2017, 401, CEC Editore, pp. 72-79). Non ci risulta un trend di consumi di frutti di Mandragore in Puglia, e tantomeno di comportamenti d’abuso, anche in considerazione del fatto che si tratta di una pianta difficile da scovare e poco diffusa, benchè affatto presente soltanto in area tarantina come afferma l’ autore suddetto (difatti abbiamo registrato la presenza di poche ma significative stazioni sparse in tutta la Terra d’ Otranto). Ciò che risulta più significativo nella esperienza pugliese è in realtà il fatto che si è creata una rete comunicativa spontanea e di scambio di informazioni composta da ricercatori delle tradizioni, botanici, ecologisti e naturalisti, escursionisti, con al centro delle attenzioni non soltanto la Mandragora o le piante psicoattive, ma tutta la flora spontanea del territorio, i suoi utilizzi nella tradizione, nella alimentazione, nella medicina popolare. Obiettivi condivisi sono lo studio, e lo scambio di informazioni, l’individuazione e la classificazione delle specie presenti nel territorio, la preservazione della flora spontanea, specie quella a rischio di estinzione, e, quando possibile, il suo ripopolamento. A questo proposito, intendo ringraziare Oreste Caroppo, Giuseppe Mascia, Marcello Morelli , il Prof. Piero Medagli con i loro preziosi contributi, e quanti altri hanno preso parte attiva a ricerche, discussioni, scambi di informazioni, escursioni .

[13] Nota curiosa, le Mandragore osservate in S. Marzano in periodo autunnale, non presentavano fioritura né fruttificazione e avevano una conformazione fogliare sensibilmente diversa rispetto alle altre. Questi aspetti han fatto pensare ad un esempio di polimorfismo, ma sarebbe da approfondire quanto riferito in passato dal Marciano e da Marinosci: entrambi identificano 2 specie differenti di Mandragore in Terra d’ Otranto. La “Mandragora maschio” e la “Mandragora femmina” di cui parla il Marciano corrisponderebbero in realtà, rispettivamente, alla attuale distinzione tra Mandragora officinarum e Mandragora autumnalis. Lo stesso Marinosci, come si è riportato di sopra, riferisce di due differenti varietà.

[14]Cfr. Jean Loic De Quellec, La Mandragore: Plantes, sociétés, savoirs, symboles. Matériaux pour une ethnobotanique européenne. Actes du séminaire d’ethnobotanique de Salagon, vol. 3, 2003-2004 : « Les cahiers de Salagon » 11, Musée-conservatoire de Salagon et Les Alpes de lumière, Mane, 2006, pp. 91-92

[15]J. Bouquet, La Mandragore en Afrique du Nord, Bulletin de la Société des Sciences Naturelles de Tunisie, vol. 5, pp. 29-44, 1952

[16]Jean Loic Le Quellec, op. Cit., pag. 88

[17]an Loic Le Quellec, op. Cit., pp. 88-90

[18] Alberto Borghini, Varia Historia – Narrazione, territorio, paesaggio: il folklore come mitologia, Aracne editrice SRL, 2005, pag. 118

[19]Ibid.

[20]Ibid.

[21]Flavia Angotti Mandragora autumnalis, in Giardini & Ambiente, https://www.giardini.biz/piante/erbacee/flavia-angotti/

[22]Cfr. Tiziano Mannoni, Diego Moreno, Maurizio Rossi, APM- Archeologia Postmedievale, 10, 2006 – Pietra scrittura e figura in età postmedievale nelle Alpi e nelle regioni circostanti, All’Insegna del Giglio, 2007, pp. 186-190

[23]Analogo mito si origina rispetto asd un’altra solanacea magica, lo Stramonio, cfr. Vittorio Lanternari, Religione, magia e droga. studi antropologici, Manni Ed., 2006, pag. 171 .

[24]Cfr. Gianluca Toro, La Radice di Dio e delle streghe, Yume Ed., 2014, pag. 75

[25]Alexander Fleisher, Zhenia Fleisher, The fragrance of Biblical Mandrake, Economic Botany, 48 (3): 243-251

[26]Questo fenomeno è stato già decritto da Bouquet ma egli lo attribuisce ad un rumore secco causato dalla radice che si spezza allorquando è estratta in modo non corretto (J. Bouquet, La Mandragore en Afrique du Nord, Bulletin de la Societè des Sciences Naturelles en Tunisie, Vol. 5, pp. 29-44, 1952) ). Al contrario, nella nostra esperienza lo stridio proviene proprio dalla estrazione brusca ma corretta della radice, cavata dal suolo per intero, ed è causato come già detto dallo sfregamento della radice stessa con la terra. Giusta, invece, la successiva osservazione di Bouquet secondo il quale il silenzio e l’atmosfera della notte, in cui avveniva l’estrazione, avrebbero amplificato in modo suggestivo ciò che veniva udito.

[27]Luigi Chiaia, Pregiudizi Pugliesi, in: Rassegna pugliese di scienze, lettere, arti, Trani, 1887-88, Ried. a cura di Arnaldo Forni Editore, 1983, pp. 75-76

[28]Cfr. Gianfranco Mele, Lu Laùru, il nostro demone in La Voce di Manduria, giovedi 2 nov. 2017;

[29]Il “cappuccio dei pazzi”, il berretto a sonagli tipico di folli e giullari, potrebbe rappresentare la stilizzazione di una pianta di mandragora con i suoi frutti.

[30]In un articolo inserito in un sito web salentino denominato “Il Tacco d’ Italia”, dal titolo “Il folletto dell’ Italia meridionale e la papagna”, il Laùro viene riportato forzatamente, attraverso una serie di associazioni e costruzioni fantasiose e improbabili, nonché attraverso una serie di errori descrittivi e interpretativi, nonché etimologici, al Papaver somniferum (cfr. a questo proposito Armando Polito, Il Laùru, ovvero diaboliche etimologie, in Fondazione Terra d’ Otranto, sito web omonimo 10 dic. 2013 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/10/il-lauru-ovvero-diaboliche-etimologie/ ). Si vedano anche:

LÀURI, SCIACUDDHI & MUNACIELLI

Fatti e misfatti dello spiritello domestico salentino

I dispetti del folletto domestico salentino

 

LÀURI, SCIACUDDHI & MUNACIELLI

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il folletto salentino, visto da Daniele Bianco

LÀURI, SCIACUDDHI & MUNACIELLI

Viaggio nella letteratura d’autore

alla scoperta del mondo fantastico delle leggende del Sud,

tra gnomi, folletti e altre meraviglie

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

Di Làuri e Sciacuddhi o Laurieddhi, Monaceddhi, Scazzamurrieddhi, Tiaulicchi, Carcagnuli, Uri e simili, come nelle diverse geografie di Terra d’Otranto vengono chiamati gli gnomi e i folletti che abitano le nostre case (spesso maliziosi, dispettosi e burloni, ma sostanzialmente simpatici e benigni) – questa rivista si è già interessata con un bell’articolo a firma di Rino Duma (vedi n. 1 del 2008), ricco peraltro di preziosi elementi storico-antropologici.

Avendo scorso di recente la storia singolare del ‘cugino’ napoletano di questi piccoli amici, e cioè il famoso (o famigerato) Munaciello, mi piace ritornare sull’argomento, fornendo, con questa ed altre fascinose testimonianze d’autore, un contributo essenzialmente ‘letterario’, che riguarda da vicino l’universo, sempre fecondo di suggestioni, delle leggende popolari del nostro Sud.

Questo viaggio speciale nella letteratura parte appunto da Napoli e da Matilde Serao (1856-1927), che a proposito delle origini de ’o Munaciello scrive: «Nell’anno 1445, regnando Alfonso d’Aragona, una fanciulla a nome Caterina Frezza, figlia di un mercante di panni, si innamorò di un garzone di bottega, Stefano Mariconda. E com’è usanza d’amore, il garzone la ricambiò di grandissimo affetto, e di rado fu vista coppia d’amanti egualmente innamorata e fedele. E ciò non senza molto loro cordoglio, poiché per la disparità delle nascite che proibiva loro il nodo coniugale, grande guerra ferveva in casa Frezza contro Stefano. Fu così che in una notte profonda, mani traditrici afferrarono Stefano alle spalle, e dalla ferriata lo precipitarono a sfracellarsi nella via, mentre Catarinella gridando e torcendosi le braccia, s’aggrappava ai panni degli assassini.

[…] La Catarinella fuggì di casa, pazza di dolore, e fu piamente ricoverata in un monastero di monache dov’ella dette prematuramente alla luce un bimbo piccino piccino, pallido e dagli occhi sgomentati. Le suore la consigliarono di votarsi alla Madonna perché al piccolo desse una fiorente salute; ed ella votossi e vestì il bimbo d’un abito nero e bianco da piccolo monaco. Ma altro aveva disposto il Signore, e la Catarinella non s’ebbe la grazia: il figliuoletto suo, negli anni, non crebbe che pochissimo, e fu simile a quei graziosi nani di cui si allietano molte corti di sovrani potenti. Ma ella continuò a fargli indossare il saio da piccolo monaco; ond’è che la gente, in suo volgare, chiamava il bambino: ‘o Munaciello.

Le monache lo amavano, ma i bottegai, e i paesani, e la gente della via si mostravano a dito quel bambino troppo piccolo, con la testa troppo grande e quasi mostruosa, e talvolta lo ingiuriavano, come fa spesso la plebe contro persona debole ed inerme. […] Ad incontrarlo, la gente si segnava e mormorava parole di scongiuro. Quando ‘o Munaciello portava il cappuccetto rosso che la madre gli aveva tagliato in un pezzetto di lana porpora, allora era buon augurio; ma quando il cappuccetto era nero, allora era cattivo augurio. E siccome il cappuccio rosso compariva assai raramente, ‘o Munaciello era bestemmiato e maledetto. Era lui che attirava l’aria mefitica nei quartieri bassi, che vi portava la febbre e la malsania; lui che faceva imputridire l’acqua nei pozzi, lui che portava la mala fortuna…

[…] Finché una sera ‘o Munaciello scomparve. Non mancò chi disse che il diavolo lo avesse portato via pei capelli, come è solito per ogni anima a lui venduta. Dove è stato vivo, ora s’aggira come spirito; dove è apparso il suo corpo piccino, lì ricompare nella medesima parvenza. Dove lo hanno fatto soffrire, là egli ritorna, malizioso e maligno, nel desiderio di una lunga e insaziabile vendetta. Di tutto è capace il Munaciello, che nella sua strana mescolanza di bene e di male, di cattiveria e di bontà, è rispettato, temuto ed amato…».

Questa la ‘triste istoria’ del Munaciello napoletano. Il quale, oltre ad avere un posto di riguardo nella smorfia e cabala del lotto (al numero 37), da molti secoli è personaggio di fortissima influenza nel vivere quotidiano del popolo partenopeo, tanto che nel Pragmatica de locato et conducto (la raccolta delleleggi e consuetudini che dal 1588 regolavano gli affitti delle case in tutta Napoli), una precisa norma, tradotta qui in italiano corrente, evidenziava che: “…qualora il locatario abbia a subire nella propria abitazione visibili turbamenti dagli spiritelli maligni volgarmente denominati ‘Munacielli’, gli è permesso di abbandonare la dimora affittata senza pagare alcuna pigione”. Incredibile, se non fossimo a Napoli!

il folletto salentino, visto da Daniele Bianco
il folletto salentino, visto da Daniele Bianco

Molto simili nel nome al folletto napoletano, ma vicinissimi nella sostanza agli Sciacuddhi salentini, sono i Monachicchi della Basilicata, dei quali si è interessato nientemeno che il più ‘meridionale’ degli scrittori del Nord, Carlo Levi (1902-1975), il cui nome è fatalmente legato al suo mitico Cristo si è fermato a Eboli, capolavoro letterario e sentimentale che più e meglio d’ogni altro rende ‘nudo e crudo’ il senso della cultura e della civiltà dimenticate del nostro Mezzogiorno (e particolarmente della disperante realtà lucana negli anni ‘30 del secolo scorso, da Levi direttamente conosciuta durante il confino patito per il suo ardimentoso antifascismo). Così egli descrive i Monachicchi di Grassano: “…sono esseri piccolissimi, allegri, aerei, corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di procurare ai cristiani ogni sorta di dispetti. Fanno il solleticosotto i piedi agli uomini addormentati, tirano via le lenzuola dei letti, buttano sabbia negli occhi, rovesciano bicchieri pieni di vino, si nascondono nelle correnti d’aria e fanno volare le carte, e cadere i panni stesi in modo che si insudicino, tolgono le sedie di sotto alle donne sedute, nascondono gli oggetti nei luoghi più impensati, fanno cagliare il latte, danno pizzicotti, tirano i capelli, ronzano e pungono come zanzare, e di notte prendono di mira le code e le criniere dei cavalli, che amano intrecciare inestricabilmente”.

Ritornando allo Sciacuddhi di casa nostra, parimenti gradevole è la minuziosa descrizione che ci offre al riguardo l’illustre studioso Sigismondo Castromediano (1811-1895): “…Irritante ed irritabile, danneggia e benefica, secondo capriccio. È il dio Lare di quei tuguri che sceglie a dimora, e dei quali suole impossessarsi scendendo dai tubi fumaioli d’un camino. […] Le cento e più volte l’ho sentito dipingerlo basso, anzi piccin piccino, gobbetto, peloso di tutta la persona, ma d’un pelo morbido e raso. Copregli il capo un piccolo cappelletto a cono e indossa una corta tunica affibbiata alla cintola.

[…] Bazzica volentieri nelle stalle, dove ospitatosi una volta difficilmente ne esce: ed anzi, tosto s’innamora della cavalla o dell’asina che meglio gli garba, e l’assiste e carezza di preferenza, nutrendola della biada sottratta alle compagne, o altrove rubata… e gode inoltre l’alto onore d’essere da lui stesso strigliata, lisciato il pelo ed intrecciati graziosamente i crini del collo e della testa.Di giorno non appare giammai, esercitando di notte le sue trappolerie… Eccolo infatti a metter sossopra masserizie ed annessi, a sparecchiar gomitoli e tele del telaio o a svegliar le persone, rompendo piatti, bottiglie, bicchieri.Guai se è in collera col suo ospite. Se questi dorme i suoi sogni dorati, allora improvviso gli cavalca il petto e glielo calca fino a fargli perdere il respiro”.

Un diavoletto pestifero, insomma! Che ne combina una dietro l’altra…

Ma non è sempre così. A me (nonostante di dispetti me n’abbia fatti d’ogni sorta, e ancora non la smette…), confesso che fa quasi tenerezza. In fin dei conti, può ben considerarsi un giocherellone. Quel che si dice una simpatica canaglia. Chissà che prima o poi non ricambi la simpatia che ho per lui facendomi trovare l’Acchiatura – mitico tesoro di cui dalle nostre parti ancora si favoleggia – o basterebbe che porti bene e mi conservi in allegria.

A tale proposito, va appunto considerato che gli Sciacuddhi si affezionano non tanto alla casa, ma alla famiglia e alla gente che la abita. Per cui, se avviene un trasloco, è sicuro che traslocano anche loro. Mia nonna Anna mi raccontava sempre divertita che un certo Cosimo Sasà e la di lei moglie Concetta, contadini di un paese del Capo, spazientiti dello Sciacuddhi che gliene combinava di tutti i colori, pur di toglierselo dai piedi, avevano deciso di cambiar casa. Caricarono quindi le masserizie su un carretto a mano e si avviarono di buon passo verso la nuova abitazione. Durante il tragitto, la moglie si accorse che aveva scordato di prendere la scopa, che gli sarebbe stata indispensabile per le pulizie: “Nah, Cosiminu – esclamò verso il marito – La scupa mi rescurdai!”. “…Nu te preoccupare! – le fece eco una vocina da dietro – L’aggiu pigghiata ieu!”. Era, manco a dirlo, il loro ineffabile e fedele Sciacuddhi, che li seguiva placido con la scopa sulle spalle…

Al perenne conflitto tra gli Sciacuddhi e le donne di casa rende sorridente testimonianza questa bella filastrocca, raccolta nella Grecìa Salentina: Cu la còppula scattusa / zzumpa ssu lla panza cu tte ncusa. / Uru, Uru malitettu, / a ddhù hai scusu lu scarfaliettu /cu li ori te la sciara? / Nu nc’è cceddhi cu te para…? / Ma se te rrubbu lu scursettu / me l’hai dare lu scarfaliettu!(Col berretto sgargiante / salta sulla pancia per accusarti. / Uru, Uru maledetto, / dove hai nascosto lo scaldaletto / con gli ori della strega? / Non c’è nessuno che possa competere con te – che t’insegni l’educazione? / Ma se ti rubo il berretto / devi darmelo lo scaldaletto!).

E va infine aggiunto, per chi non lo sapesse, che lo Sciacuddhi fu celebrato, nel 1954, perfino dal grande Domenico Modugno (1928-1994) in una delle sue prime incisioni discografiche, intitolata Lu Scarcagnulu, com’è appunto chiamato il prode folletto in tutto il Brindisino.

Nativo di Polignano a Mare, il grande Mimmo (destinato a diventare ben presto famoso in tutto il mondo come Mister “Volare”), visse infatti la propria giovinezza a San Pietro Vernotico, e le sue iniziali produzioni musicali – da Ventu de scirocco a La donna riccia, Lu pisce spada, Sirinata a na dispettusa e altre – ispirate in gran parte ai vecchi “cunti” delle nostre contrade, furono create quasi tutte in dialetto salentino, all’epoca erroneamente scambiato (o forse volutamente strumentalizzato) per siciliano.

Onore quindi a Làuri e Sciacuddhi. Saranno (forse) creature del mondo della fantasia, ma senza fantasia che mondo sarebbe?

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Sull’argomento si veda anche:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/02/27/fatti-e-misfatti-dello-spiritello-domestico-salentino/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/02/23/i-dispetti-del-folletto-domestico-salentino/

 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/10/spauracchi-di-ieri-e-di-oggi/

 

 

 

Il fantastico mondo dei nostri nonni

di Marcello Gaballo

 

Molti di coloro che ci leggono avranno perlomeno sentito parlare talvolta del termine salentino acchiatura, un termine derivato dal verbo acchiare (ital. trovare), ovvero un tesoretto di discreto valore nascosto in caverne, grotte e soprattutto sotto i pavimenti delle chiese.

In particolare era stato riposto non si sa mai da chi e quando nelle chiesette rurali, in un anfratto della sua muratura o ai piedi dell’altare. Nei paesi salentini che conservano menhir o dolmen, sempre secondo la tradizione popolare, essi erano nascosti nelle immediate vicinanze del megalita.

Tali false convinzioni, purtroppo, hanno portato allo sfacelo di intere costruzioni, spesso sventrando pavimenti, demolendo altari, svellendo porte ed infissi di cappelle e oratori privati, per lo più extra moenia, perché non custoditi e privi di guardianìa. Danni incalcolabili per le strutture e, una volta tanto, bisogna essere lieti che simili credenze siano scomparse (anche se, a dire il vero, sono scomparse anche tali architetture minori).
Non credo che l’opinione sia prerogativa del Salento, perché ho trovato scempi similari anche in altre regioni, in Sardegna in particolare.

Trovare uno di questi tesori significava vivere agiatamente il resto della propria vita e mai nessuno ha rivelato ad altri la consistenza della fortuna, tantomeno alla moglie o al marito, nel caso fosse stato il coniuge a rinvenirlo. Insomma, un segreto da portare con sé nella tomba.

Per il nostro popolo custodi di questi tesori erano i folletti, tanto che potevano essere loro a riverlarne il luogo, nelle rare occasioni in cui avrebbero conosciuto una persona particolarmente simpatica e meritevole. A meno che qualcuno particolarmente sveglio non fosse riuscito a strappare il cappuccio dal suo capo, costringendolo così alla confessione. Il folletto in genere custodiva pentole colme di monete d’oro, così come si accadeva per i loro cugini sparsi nelle diverse regioni d’Italia, in Irlanda e in numerose altre nazioni europee.

A dire il vero, ma non per dissacrare radicate leggende, l’evento in più di qualche occasione veniva preso in prestito per giustificare somme introitate in maniera truffaldina o, più spesso, per spiegare denari estorti o elargiti dall’amante.

Ricchezze improvvise in un ambiente in cui si conosceva davvero tutto dei vicini e dei parenti, perfino l’ora della sveglia, oggi sarebbero giustificate da un generoso 13 o da una vincita al lotto o, meglio ancora, da un Grattaevinci. Allora concludevano:
cu tre cose si rricchesce:
cu l’acchiatura, cu la ncurnatura e cu la manica ti tiraturu

(letteralmente: con tre cose ci si arricchisce:
con l’acchiatura, le corna e un cassetto aperto)

ovvero con il tesoro svelato, le corna o un furto.

Spauracchi di ieri e di oggi

di Armando Polito

Se pensiamo al successo, soprattutto economico, di maghi, indovini, fattucchiere e simili non deve far meraviglia che in tempi meno tecnologici e razionali dei nostri ci fossero anche nel Salento entità occulte ad uso degli adulti e dei bambini.
Inizio dal mondo degli adulti sui i quali il discorso è più breve, nel senso che, a parte le entità da loro consapevolmente inventate per i bambini, c’era il solo munacèddhu, spirito folletto delle credenze popolari, molto dispettoso, che sovente assumeva le sembianze di un piccolo monaco, ad alimentare, turbandole, le loro fantasie. Era un’entità, in fondo, benigna che si divertiva a fare piccoli dispetti, come nascondere gli oggetti o sedere sulla pancia del dormiente; con una facile ironia, che non mi sento di condividere completamente perché avulsa dalle pur necessarie considerazioni storico-ambientali (basti pensare che l’omologo napoletano munaciello assurse a dignità giuridica in un decreto emesso il 24 dicembre 1587 dal Conte di Miranda, all’epoca vicerè, per cui si stabiliva quanto segue: “Se avvenga che nella casa locata l’inquilino spinto da panico timore creda essere assalito de’ maligni spiriti che in Napoli chiamansi Monacelli, anche gli si permettesse di lasciarla senza essere tenuto a pagamento di mercede”1), qualcuno potrebbe parlare di folletto-arteriosclerosi nel primo caso, di folletto-digestione difficile nel secondo.
Passo ora ai bambini per i quali l’assortimento di spauracchi era più ampio. Comincio con il meno spaventoso, perché, almeno nell’ambiente salentino, realmente esistente: il mmammòne. Il termine, infatti, designa un parassita delle fave secche, nelle quali scava gallerie; esso corrisponde all’italiano mammone (dall’arabo maymun=scimmia, anche in funzione appositiva nella locuzione gatto mammone, mostro immaginario presente in certe fiabe in lingua) ed è figlio diretto della cultura contadina.

Le creature più spaventose, però, erano quelle immaginarie che, a differenza del mmammòne, erano in grado di divorare interamente un individuo, preferibilmente un bambino (l’ironico di prima parlerebbe di un naturale, maggior gradimento della carne tenera). Ecco, allora, il mau (secondo il Rohlfs deformazione di mago, ma secondo me non è da escludere che sia una voce infantile di origine onomatopeica; ancora oggi, infatti, nei giochi tra bambini la pronuncia cupa e prolungata della m dovrebbe servire, almeno nelle intenzioni, ad incutere terrore): era un mostro gigantesco, dalla voce cavernosa, antropofago.
Siccome probabilmente con qualche bambino particolarmente sveglio il mau non funzionava, venne inventato, per raddoppiamento, il mamàu, che, credo sulla parola, anzi sul suono, qualche effetto doveva farlo anche sui più ribelli. Ma anche in questo campo non mancava la concorrenza e alla pari col mamàu era quotato il nanniuèrcu, composto da nanni, variante di nonnu=nonno (usata solo, con suffisso dispregiativo, nella voce nannàscinu=antenato/uomo molto vecchio e nel nesso alli tièmpi ti lu nanni=ai tempi del nonno) e uèrcu che può derivare dal latino Orcus, dio dell’oltretomba, ma anche da orca, il cetaceo che già presso i Romani godeva fama di voracità ed antropofagia. Bastava (!?) l’espressione mo’ chiàmu lu nanniuèrcu ca ti màngia (=adesso chiamo il nonno orco che ti mangia) per far sì che i bambini ubbidissero o se ne stessero buoni.

E come dimenticare la manu longa (che inevitabilmente avrebbe ghermito il bambino che imprudentemente si fosse affacciato all’orlo di un pozzo e simili) che proprio per questa sua identità mutilata era, forse, la più misteriosa ed inquietante?
Tali sistemi educativi oggi fanno rabbrividire i moderni pedagoghi e psicologi (sarebbe, forse, più opportuno che ogni tanto aleggiasse sul loro volto, almeno su quello dei più attempati, un sorriso non di sprezzante ironia, ma di nostalgico affetto), però vale la pena ricordare che essi (i vecchi sistemi educativi) non hanno traumatizzato nessuno e che sono certo più dannosi quelli odierni basati su una forma di ricatto peggiore, cioè non più sull’assunto antico se non fai il buono perdi qualcosa che già hai (addirittura la vita, per colpa del nanniuèrcu), ma su quello moderno e consumistico se non ti comporti bene, non avrai quella cosa che tanto desideri (il motorino, la playstation, il telefonino nuovo, l’i pod).
Come si fa a spiegare ad un adolescente di oggi quanto fosse più poetica, intrigante, addirittura, forse, misteriosamente più educativa e formativa la figura dell’incombente nanniuèrcu di fronte a quella, tanto per citarne solo una, del freddo e metallico motorino, incombente pure lui in ogni pagina o spot pubblicitario e in ammiccante attesa in questa o in quella concessionaria? La considerazione più amara nasce dal fatto che oggi, paradossalmente, il mau, il mamàu e il nanniuèrcu non sono morti, anzi sono più vivi che mai, solo che hanno assunto sembianze insospettabilmente umane, entrando così in una dimensione più crudele ed innaturale, insomma sono diventati il campione della peggiore umanità, quella dei sadici, degli incestuosi, dei pedofili, peggio ancora se padri o addirittura nonni; e alla manu longa che in passato esercitava il suo ipotetico potere sui bambini imprudenti è subentrata, nelle forme più disparate e impensabili (tv e pubblicità per citarne solo due) , la longa manus che subdolamente manipola le nostre esistenze.
La realtà, purtroppo, ha superato ancora una volta, e in peggio, la fantasia. Quanto al mmammòne che, come ho detto era il meno cattivo o pericoloso, ha fatto la solita fine dei buoni, cioè è scomparso da tempo non solo come spauracchio ma ha i giorni contati pure come parassita, di fronte a veleni sempre più potenti ed ai miracoli (?) della transgenetica. Proprio il contrario di quello che succedeva nelle care, vecchie fiabe!

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1 Gregorio Grimaldi, Istoria delle leggi e magistrati del Regno di Napoli, De Simone, Napoli, 1771, tomo IX  pag. 4.

Fatti e misfatti dello spiritello domestico salentino

Lu munaceddhu tispittusu. Fatti e misfatti dello spiritello domestico salentino

 

di Emilio Rubino

Uno dei personaggi più curiosi ed originali che la storia del nostro folklore pare abbia cessato di tramandarci è il munaceddhu (in altri luoghi – come vedremo – diversamente nominato). Questa vuol’essere un’antologia dei mille e mille episodi di cui il munaceddhu è stato protagonista; essa intende raccogliere in un unico blocco alcuni aspetti, in parte da me già pubblicati una ventina d’anni fa su «La Voce di Nardò», con l’aggiunta di altri esilaranti episodi e nuove considerazioni. Questo revival è pertanto la riedizione ampliata ed abbellita per la novità di episodi accaduti, ad opera di confratelli del munaceddhu, oltre i confini nazionali.

Sul munaceddhu non vi sono dei trattati – come è stato riscontrato – se non solo una deliziosa e breve raccolta fatta da Carlo Levi nel suo pregevole Cristo si è fermato ad Eboli; Eboli, un oscuro paesetto di questo profondo sud, nel quale la vita ed il progresso si son fermati alle porte cittadine così come nostro Signore Gesù  Cristo.

L’elenco che son riuscito a comporre supera di poco la trentina di nomi di “confratelli” (così mi vien da dire) del munaceddhu, compresi i nostrani e gli stranieri: in buona parte, tutti agivano in maniera scherzosa e tutt’al più dispettosa, mentre solo una piccola parte aveva caratteri improntati ad una immotivata cattiveria.

I dispetti del folletto domestico salentino

di Marcello Gaballo

Il nostro folletto domestico, assai simile al brownie britannico e agli elfi della nota letteratura europea, viveva tra le mura di alcune case di campagna, negli anfratti di cavità naturali, in angoli nascosti di masserie, con particolare predilezione delle stalle, talvolta nelle dimore cittadine, qui scegliendo la “rimesa” o lo “stanzino” (deposito a pianterreno), tra le poche masserizie qui raccolte. Raramente alloggiava nella “casscia” (cassapanca), tra le coltri e la dote femminile accumulata nel corso dei decenni.

Tanti anni fa, ancora universitario, la leggenda del “munaceddhu”, variamente denominato (lauru o laurieddhu, scazzamurieddhui, sciacuddhuzzu), mi ispirò due atti che rappresentai con un certo successo con il gruppo teatrale di “Nardò Nostra”.

Avevo raccolto le ultime testimonianze dei nonni e di quanti erano stati “visitati” dallo straordinario personaggio, comprendendo appieno la sua importanza nella cultura e nell’immaginario salentino. 50 centimetri, esile, brutto, imberbe, vestito con tonacella marrò, cappellino rosso porpora, saccoccia appesa alla cintola, scalzo. Così lo ha descritto un mia lontana parente, giovane, circa vent’anni fa, conformemente con quanto aveva scritto un secolo prima un nostro sociologo salentino, L.G. De Simone, ne La vita nella terra d’Otranto (1876): “piccoletti alti tre spanne, bruttini, foschi, pelosi, vestiti di panni color tabacco, con cappellini in testa e d’ordinario scalzi”.

disegno di Daniele Bianco

Notoriamente dispettoso, era solito disturbare nelle ore notturne rompendo coperchi, battendo sulle pentole, rovesciando “capase”, fino a saltellare sul torace dei dormienti, tanto da rendergli difficoltoso il respiro. Le sue attenzioni erano particolarmente rivolte alle fanciulle, alle quali era solito fare il solletico, tirargli i capelli, più spesso premendogli sul ventre, manifestandosi in particolare poco prima del ciclo mestruale.

Non risparmiava neppure i cani, sul dorso dei quali spesso sedeva fino a farli “scunucchiare” per il peso, evocando strazianti guaiti. Particolarmente “antipatici” dovevano stargli i cavalli, cui spesso svuotava le mangiatoie per farli morir di fame, strigliandoli o intrecciandogli la coda e la criniera.

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