Torri colombaie a Montesardo

di Michele Bonfrate

 

Una fotografia [1] molto bella ed interessante ripresa ante estate 1908 è conservata a Roma nelle raccolte fotografiche dell’Istituto Centrale del Catalogo e della Documentazione dipendente dal Ministero della Cultura e documenta la presenza a Montesardo di una antica torre colombaia che era ubicata a qualche decina di metri a sud del margine del centro storico del paese, così come si deduce osservando con attenzione la posizione della torre campanaria della chiesa matrice visibile al centro dell’immagine (fig.1).

Figura 1 – fotografia del 1908 di una torre colombaia a Montesardo

 

Figura 2 – ingrandimento della fotografia del 1908 di una torre colombaia a Montesardo

 

Osservando l’ingradimento della fotografia (fig.2) si nota che:

– la torre era stata costruita con 46 filari di conci;

– presumendo l’altezza del concio in cm 25 si può calcolare la misura dell’altezza della torre in m.11,5;

– rapportando graficamente la larghezza della torre con l’altezza, il diametro della base della colombaia risulta essere m.10,25 circa;

– il 31° filare sembra avere una altezza più bassa degli altri stimabile in circa 15 cm, sporge circa 15-20 cm rispetto alla superficie esterna della torre e secondo l’arch. Vincenzo Peluso tale sporgenza ha la funzione di bloccare l’arrampicata dei topi che potevano divorare uova e pulcini delle colombaie;

–  probabilmente la presenza della fascia di intonaco che ricopre la superficie compresa tra 6° e 10° filare potrebbe essere un altro accorgimento per impedire o ostacolare la risalita dei topi le cui unghie trovano facile appiglio sulla superficie granulosa della muratura non intonacata;

– il 41° filare è caratterizzato da beccatelli modanati sporgenti circa 15 centimetri su cui poggiano altri quattro filari con la stessa sporgenza dei beccatelli;

– il 42° filare è decorato da archetti scolpiti in stile aragonese che inducono a ipotizzare la costruzione della torre colombaia tra la fine del XV ed i primi anni del XVI secolo;

– il 46° ed ultimo filare è una cornice modanata sporgente circa 20 centimetri.

Io [2] non avevo mai visto questa immagine e quindi ne ho parlato subito (novembre 2023) agli amici Paolo Torsello, Raimondo Massaro, Antonio Piscopello e, qualche giorno dopo, anche a Vincenzo Peluso; soltanto Raimondo conosceva questa foto perché l’aveva già vista pubblicata (ritagliata e più sfocata) su internet [3] ma nessuno di loro aveva mai visto questa torre colombaia e neppure conosceva la sua ubicazione.

Vincenzo Peluso (architetto di Martignano che da oltre trent’anni sta studiando, raccogliendo e producendo documentazione archivistica, grafica e fotografica sulle numerose torri colombaie esistenti nelle province di Lecce, Brindisi e Taranto) mi ha informato che nel 1985 aveva fotografato a Montesardo un’altra torre colombaia che poco tempo dopo venne demolita per costruire le attuali abitazioni in via Trieste ai numeri civici 124-128; in quella occasione un testimone oculare gli riferì che nel 1980 circa un’altra torre colombaia era stata demolita per costruire l’attuale fabbricato già falegnameria con soprastante abitazione in via Daniele Manin ai numeri civici 7 e 9; inoltre, l’architetto Peluso mi ha informato che queste due torri sono esattamente cartografate come fabbricati graffati alla particella catastale 610 (la prima, n.9 in fig.3) e alla particella 609 (la seconda, n.10 in fig.3) sul foglio 26 della mappa d’impianto catastale del Comune di Alessano.

Paolo Torsello ha raccolto le seguenti informazioni interpellando tre abitanti di Montesardo: il sig. Franco Calignano (1953) abitante in via Nazionale ha riferito di ricordare la colombaia fotografata nel 1908 nei pressi della colonna con la statua di Sant’Antonio; il sig. Mario Cazzato (1956) abitante in via Daniele Manin ha riferito di ricordare benissimo sia la colombaia che si trovava di fronte casa sua dove ora c’è la ex falegnameria e sia l’altra torre distante circa 100 metri più a sud-ovest in via Trieste e le descrive così: “Quelle colombaie erano strutture molto belle, particolari e caratteristiche, all’interno avevano in cerchio spazi pieni e spazi vuoti in cui i piccioni potevano nidificare, a volte le ho anche scalate”; il sig. Pippi Biasco (1955) abitante in via Daniele Manin ricorda che la torre che era nel suo terreno fu demolita nel 1980 dopo aver ottenuto il permesso di costruzione per la sua casa-falegnameria e la descrive così “La torre era alta circa 12 metri, aveva un piccolo ingresso dal quale si entrava abbassando la testa, era semichiusa in cima, i piccioni si allevavano sia per la carne, sia per le uova e sia per il letame che producevano. L’altra torre colombaia si trovava a cento metri dalla mia. Non ricordo la torre fotografata nel 1908”.

A questo punto, ho ritenuto utile provare a individuare con la massima precisione l’ubicazione topografica di questi tre antichi monumenti perduti di Montesardo; esaminando e confrontando la mappa d’impianto catastale[4] del 1937 (fig. 3) e la fotografia aerea[5] del 1943 (fig. 4) ho potuto rapidamente riconoscere le tre torri colombaie: la torre fotografata nel 1908 ricade nella particella catastale 539 (n.1 nelle figg. 3 e 4, attuale particella 1416, via Trieste n.2, adiacente al recinto della scuola), la torre demolita nel 1980 in via Daniele Manin ricade nella particella 609 (n.9 nelle figg. 3 e 4, attuale particella 1076, via Manin n.7) e la torre fotografata dall’arch. Vincenzo Peluso nel 1985 in via Trieste nella particella 610 (n.10 nelle figg. 3 e 4, attuale particella 1138, via Trieste n.128).

Figura 3, estratto del foglio 26 della mappa d’impianto catastale del 1937 di Alessano. Legenda: 1= torre colombaia fotografata nel 1908 nei pressi dell’attuale via Trieste n.2; 2= torre campanaria della chiesa matrice di Montesardo; 3= chiesa via Leuca; 4= via Nazionale SS275; 5= colonna con statua di Sant’Antonio; 6= via Ruggiano; 7= via Leuca SS275; 8= torrino dell’Acquedotto Pugliese; 9= torre colombaia nei pressi dell’attuale via Manin n.7; 10= torre colombaia nei pressi dell’attuale via Trieste n.128.

 

Figura 4, fotografia aerea di Montesardo del 1943 dell’Istituto Geografico Militare (IGM).
Legenda: 1= torre colombaia fotografata nel 1908 nei pressi dell’attuale via Trieste n.2; 2= torre campanaria della chiesa matrice di Montesardo; 3= chiesa via Leuca; 4= via Nazionale SS275; 5= colonna con statua di Sant’Antonio; 6= via Ruggiano; 7= via Leuca SS275; 8= torrino dell’Acquedotto Pugliese; 9= torre colombaia nei pressi dell’attuale via Manin n.7; 10= torre colombaia nei pressi dell’attuale via Trieste n.128.

 

Probabilmente gli ingegneri che intorno all’anno 1939 progettarono e costruirono il torrino[6] dell’Acquedotto Pugliese (n. 8 nelle figure 2 e 3) nei pressi della chiesa in via Leuca si ispirarono a quella bellissima torre colombaia che distava meno di cento metri.

Seguendo l’invito di Antonio Piscopello (bibliotecario di Alessano) di cercare notizie sulle torri presso l’Archivio di Stato di Lecce, ho consultato i registri catastali del Comune di Alessano nei quali risulta che nel 1937 la signora Maria Saveria Motolese (nata a Grottaglie nel 1889, vedova di Bartolomeo Serafini Sauli) era la proprietaria del terreno ove sorgeva la torre fotografata nel 1908 e che la signora Anna Romasi (nata a Alessano nel 1881) era la proprietaria dei terreni ove sorgevano le altre due torri.

Chi avesse la curiosità di osservare da vicino e di toccare un’altra antica torre colombaia ancora ben conservata può percorrere la strada rurale Vigna La Corte che inizia dalla strada provinciale per Specchia a meno di due chilometri a nord di Alessano[7]; chi non ha la possibilità di andare sul posto può visionare varie immagini di questa torre cercando le parole “Lu Palummaru” su Google Maps o visualizzando il link https://maps.app.goo.gl/NZ16eqGciB2hPzdy5.

michelebonfrate@gmail.com

 

Note

[1] Fotografia n.E002279 nell’Archivio Gabinetto Fotografico Nazionale presso l’ICCD (Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del Ministero della Cultura).

[2] Nell’estate del 1998 su proposta di Vincenzo Santoro (allora consigliere comunale delegato alla cultura) fui incaricato (insieme al fotografo Raffaele Puce) dal Comune di Alessano di produrre ed allestire una mostra fotografica sui beni culturali del territorio intitolata “Alessano-Montesardo: Appunti” che fu esposta nel frantoio ipogeo di Villa Potenza di Alessano dall’8 al 30 agosto 1998 nell’ambito delle manifestazioni culturali dell’Estate Alessanese; in quella occasione nessuno mi parlò dell’esistenza di torri colombaie e neanche trovai menzione di esse nella bibliografia che avevo consultato per lo studio e l’esplorazione del territorio comunale svolti per individuare le cose da fotografare.

Presso la biblioteca comunale di Alessano (inventario n.2819, collocazione GEN SAL AV 292, https://www.bibliando.it/SebinaOpac/resource/alessanomontesardo-appunti/PUG02177570) è conservata ed è consultabile una copia della mia relazione dattiloscritta avente lo stesso titolo della mostra che consegnai in originale al Comune e ad alcuni amici interessati tra i quali Paolo Torsello che pensò bene di farne un’altra copia che portò al bibliotecario Antonio Piscopello che la acquisì al patrimonio bibliografico comunale.

[3] L’immagine vista da Raimondo Massaro si trova sul portale SAST – Sistema Archivi Storici Territoriali del Segretariato regionale del Ministero della Cultura per la Puglia ed è consultabile al link http://sast.beniculturali.it/index.php/teca-digitale?view=show&myId=4fdb4282-9a9f-4b58-ab6b-52dac0a5b9f9.

[4] I disegni cartacei originali della mappe catastali d’impianto dei comuni della provincia sono conservati presso l’Ufficio del Territorio dell’Agenzia delle Entrate di Lecce e documentano la situazione catastale ufficiale alla data di attivazione del vigente Catasto Terreni; il 1° gennaio 1937 è la data in cui ci fu la “Attivazione del nuovo catasto per i Comuni dell’Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Alessano” stabilita dal decreto del Ministro per le finanze 17 ottobre 1936 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia n.275 del 27 novembre 1936, pagina 3416..

[5] Il negativo originale di questa fotografia aerea del 24 maggio 1943 è conservato presso l’Istituto Geografico Militare di Firenze.

[6] Il torrino dell’Acquedotto Pugliese a Montesardo è visualizzabile su GoogleMaps al seguente link https://maps.app.goo.gl/1pLV6yWTPfKzcRhM9.

[7] Partendo da Alessano da via Giudecca si imbocca la strada provinciale n.242 per Specchia, si percorrono km 1,4 circa, si svolta a destra in via Vigna La Corte (non asfaltata) e dopo circa 100 metri si svolta di nuovo a destra e la torre colombaia appare alla distanza di circa 70 metri. Nella mappa catastale di Alessano la torre si trova nella particella 137 del foglio 7; le coordinate geografiche 39.902527, 18.321077.

Montesardo e i suoi due famosi Geronimo/Girolamo

di Armando Polito

immagine tratta da http://www.lameta.net/blogsalento/?attachment_id=275

Può sembrare uno stupido campanilismo, con la globalizzazione in atto, soprattutto se detto da me che, pur legato alla mia terra, mi dichiaro e mi sento cittadino (se lo dimostro non sta a me giudicarlo) del mondo, non poter negare che ogni terra rimane nella memoria più o meno collettiva, non fosse altro che per aver dato i natali ad un personaggio illustre.

Montesardo, lo dico anche per i salentini, pochi o molti, che probabilmente lo ignorano, è una frazione di poco più di mille abitanti, del comune di Alessano, in provincia di Lecce. Sul toponimo mi soffermo brevemente, prima di passare al cuore dell’argomento di oggi.

A chi non verrebbe in mente in prima battuta di ipotizzare che Montesardo nasca dalla fusione di un sostantivo (monte) e di un aggettivo (sardo)? A quel punto, però, ci si chiederebbe: passi il monte, ma la Sardegna che ci sta a fare con il Salento? Prima di avventurarsi in una navigazione tempestosa, quella stessa che avrebbe dovuto portare gli isolani a mettere piede da noi, ipotizzando, magari un naufragio a causa di un carico di loro pietre da noi commissionato, col tempo recuperate e poi utilizzate per l’edificazione del primo nucleo abitativo, col rischio che la nostra fantasia contribuisca alla circolazione delle tante bufale che vagano nel web, magari sotto forme di leggende più o meno inventate sul momento, è proprio alla ricerca delle fonti che dovremmo subito dedicarci.

Scopriremmo, così, che la più antica testimonianza del toponimo risale al XVI secolo. Antonio de Ferrariis detto il Galateo così scrive nel De situ Iapygiae scritto tra il 1510 e il 1511 e pubblicato postumo per i tipi di Perna a Basilea nel 1553, scrive:

A Vastis nulla occurrunt antiquitatis vestigia usque ad Montem Arduum oppidum, ab acra Iapygia VII millibus passuum remotum, ubi et urbs antiqua fuit; eius pars in colle, pars in plano sita, mediocris magnitudinis: huius et nomen abolitum est. In eminentiore huius urbis parte in edito colle pulchrum est oppidulum. Memini me a veteribus audisse Graecis hanc urbem τραχεῐον ὅρος, quod Latine asperum, seu arduum montem exprimit: erat enim urbs in lapidoso, et aspero monte sita. Hic pars est Apennini,qui ad Acram Iapygiam terminatur. Quin etiam a peritis navigantibus me audisse memini usque ad XL, aut L milia passuum in mare protendi iuga Apennini, cum hinc atque illuc illius metiatur mare

(Non si presenta nessun resto antico da Vaste fino alla città  Monte Arduo, distante sette miglia dal promontorio iapigio, dove ci fu pure un’antica città; una sua parte sita su un colle, l’altra in pianura, di mediocre grandezza. Il suo nome è scomparso. Nella parte più alta di questa città su un colle elevato c’è un un grazioso piccolo villaggio. Ricordo di aver sentito da vecchi che per I Greci  questa città era τραχεῐον ὅρος, che in latino significa ripido monte: infatti la città era sita su un monte pietroso e scosceso.Qui c’è la parte dell’Appennino che termina presso l’estremità della Iapigia. Anzi ricordo do aver sentito pure da esperti naviganti che la catena dell’Appennino si protende in mare fino o quaranta o cinquanta miglia, considerando il suo mare dall’una e dall’altra parte).

Luigi Tasselli in Antichità di Leuca, Eredi di Pietro Micheli, Lecce, 1693: … ho inteso da persone molto erudite che Monte Sardo era Città antichissima, e si chiamava da tutti con nome scorretto Ananduso, o in lingua messapia Vetuso: e che quando arrivarono i Mori nella Salentina, i Primari di Montesardo, mandarono tutto l’oro, che havevano in Vereto,  Città in quei tempi fortissima, acciò ivi meglio si custodisse: perloche i Veretini, così l’oro proprio, come di Montesardo, scavando una fossa, lo sotterrarono.  Ma spianata da’ Mori Vereto, e rovinata tutta la Puglia da questi Barbari, havevano sempre in proverbio le genti, e dire: L’Oro di Amanduso , o Vetuso, dentro Vereto sta chiuso.

La testimonianza del Galateo è quella tenuta più in conto ai fini dell’etimo del toponimo. In buona sostanza: Montesardo sarebbe il risultato della deformazione di un originario Mons arduus, a sua volta traduzione in latino del greco τραχεῐον ὅρος. Il carattere deformante del processo si sostanzierebbe nella conservazione della s finale di mons dopo la sua traduzione in monte.

In rete, tuttavia, non mancano proposte alternative che, partendo dal Galateo e dal Tasselli,  mettono in campo il capo messapico Artas. A tal proposito segnalo al lettore interessato: http://montesardo.ilcannocchiale.it/

http://www.salogentis.it/2011/11/27/appunti-sullorigine-e-la-storia-di-montesardo-monte-aspro-o-monte-di-artos/

Certo è che tutto è dubbio quando già le uniche due  fonti di partenza mettono in campo a suffragio del loro ricordo fonti orali (memini me a veteribus audisse il Galateo e, parallelamente, ho inteso da persone molto erudite il Tasselli) e, dando per scontato in tal tipo di trasmissione la probabilità più alta di deformazioni , magari nel tempo sedimentate l’una sull’altra, qualsiasi ipotesi è teoricamente plausibile .

Chiusa la parte toponomastica, va detto che tutta la Terra d’Otranto in passato (oggi non saprei …) è stata la culla vivace di personalità di livello spesso non solo nazionale e già per Alessano ho avuto occasione di ricordare Cesare Rao (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/10/13/cesare-rao-di-alessano-e-il-suo-bestseller/?). Oggi lo farò per due figli della sua frazione, l’uno pressoché contemporaneo del Rao (XVI secolo), l’altro fiorito nella prima metà del secolo successivo, il primo filosofo e docente nell’Università di Padova, poi di Salerno e infine di Napoli, il secondo musicista.

Il taglio di questo post è esclusivamente bibliografico, perciò mi limiterò a presentare i frontespizi delle loro opere più significative che sono riuscito a reperire. Comincio dal filosofo.

Di seguito il colophon da cui si ricava la data di edizione.

Passo ora al musicista, Girolamo Melcarne, tanto legato alla sua terra da assumere il nome di Girolamo Montesardo.

Alcune sue composizioni furono inserite alle p. 15-17 dell’opera, postuma, di un altro musicista pugliese (era nato a Bari) Pomponio Nenna (1556-1608). Di seguito quest’ultimo frontespizio.

Convegno. Monsignor Belisario Balduino vescovo da Montesardo al Concilio di Trento

stemma balduino larino montesano

di Francesco Greco

“Monsignor Belisario Balduino Vescovo da Montesardo al Concilio di Trento”. E’ il titolo del convegno-commemorazione sulla figura dell’illustre Prelato (in foto il suo stemma) nato in Terra di Montisardui (Lecce) nel 1518 e morto a Larino (Campobasso) nel 1591, passato alla storia per aver istituito il primo Seminario della Cristianità.

Si svolgerà mercoledì 17 settembre.

Ecco il programma dei lavori:

Chiesa Madre (ore 18.30): Santa Messa in suffragio di Monsignor Belisario Balduino a 450 anni (26 gennaio 1564) dalla nascita, a Larino, del primo Seminario, celebrata da S. E. Monsignor Vito Angiuli, Vescovo della Diocesi Ugento – Santa Maria di Leuca, col Coro Parrocchiale di Montesardo diretto da Antonio Torsello e Rossella Torsello.

Alle 19.30 ci si sposterà nei Giardini del Castello (dove ha sede la Residenza Protetta “Gaudium”): dopo i saluti del parroco don Pietro Carluccio, il sindaco del Comune di Alessano Osvaldo Stendardo e Donato Melcarne, assessore al Welfare, seguiranno gli interventi di S. E. Monsignor Vito Angiuli, del Prof. Francesco Danieli sul personaggio e il contesto storico in cui visse e agì, titolo: “Monsignor Belisario Balduino, un Vescovo meridionale pioniere della tridentinizzazione”, di Francesco Calignano, studioso e Giuseppe Mammarella, Direttore dell’Archivio Storico Diocesano (Diocesi di Termoli-Larino):

“Il Seminario di Larino, primo della Cristianità e il suo Vescovo fondatore”.

Intermezzi del M° Doriano Longo (violino) che eseguirà brani di musica barocca. Gli atti del primo Sinodo (ne celebrò altri due, nel 1564 e 1571) tenuto a Larino il 26 marzo 1556 saranno letti dall’attrice Giustina De Jaco.

Moderatore dell’evento (che ha il patrocinio del Comune di Alessano) il giornalista Francesco Greco (info: 328-6457836).

4 dicembre. Santa Barbara. La chiesa di Santa Barbara nel territorio di Montesardo (Lecce)

 

di Danilo Ammassari e Mariangela Sammarco

Facciata della chiesa di Santa Barbara (lato sud).

Sulla dorsale collinare che si estende in direzione Sud-Est, sul lato settentrionale della via che collega Montesardo con la frazione di Sandana è la chiesa dedicata a Santa Barbara, appartenente ad un monastero femminile benedettino; attiva in età angioina, l’abbatia Sanctae Barbarae fu abbandonata dalle religiose certamente prima del 1590, anno dalla relazione ad limina del 1590 del vescovo della diocesi di Alessano Ettore Lamia, il quale dichiarava che monasteria monialium in dicta civitate (i.e. Alexanus), et in eius dioecesi non ad sunt; la chiesa continuò invece ad essere officiata e a portare una rendita di 80 ducati annui al conte di Alessano, sotto il cui patronato si trovava la chiesa dopo l’abbandono del monastero: de iure patronatus Comitis Alexani valoris ducatorum 80 quae repetitur commendata dominio Joanni De Doio presbitero Brixiensi.

I documenti medievali più antichi relativi al monumento sono rappresentati dal rapporto dei collettori delle decime pontificie relative agli anni 1324 e 1325, sebbene in entrambe le circostanze la struttura convenutale sia erroneamente indicata al Alessano, che distava da Montesardo poco più di 3 km.

La chiesa di Santa Barbara compare quasi un secolo dopo in un atto notarile del 29 maggio 1599 con cui il barone Orazio Trani di Tutino, procuratore dell’abate Faraone commendatario dell’abbazia di Santa Barbara, dà in consegna al conte di Montesardo gli arredi della chiesa.

aula interna
aula interna

Una breve ma interessante descrizione della chiesa è contenuta nella visita pastorale del 1628; i benefici «sotto titulo di S. Barbara, sito in proprio Cappella fuori l’abitato di Montesardo» sono invece elencati nel catasto onciario di Montesardo.

Dalle prime sommarie descrizioni dell’edificio, cui si aggiunge una recente analisi della decorazione pittorica, si è giunti ora ad uno studio organico che ha previsto l’analisi stratigrafica degli alzati, agevolata dal rilievo analitico delle murature, opportunamente integrato con i dati derivanti dalle, seppur scarse, fonti documentarie. L’insieme delle informazioni così ottenute è, infine, risultato utile ad una più completa lettura della funzione del monumento all’interno del paesaggio storico in cui si colloca.

Santa raffigurata sulla parete del catino absidale

La chiesa, utilizzata negli ultimi decenni come fienile, è stata recentemente acquisita dall’amministrazione comunale di Alessano; al momento è in stato di abbandono, in attesa di un corretto recupero delle testimonianze edilizie e pittoriche d’età medievale, in parte nascoste da maldestri interventi di restauri, e di un’auspicabile indagine archeologica.

L’edificio, oltre ad alcuni piccoli interventi di manutenzione subiti dopo aver perso la funzione sacra, conserva grossomodo le caratteristiche architettoniche originali, con impianto a navata unica rettangolare di m 11,50×5 desinente in un abside semicircolare.

La facciata, esposta ad Ovest, è articolata in una porta d’accesso con architrave monolitico sormontato da una lunetta nella quale sono visibili resti di intonaco che costituiscono, probabilmente, ciò che rimane del supporto di un affresco. Subito al di sopra della lunetta è posizionato il rosone, oggi occluso da conci di tufo, che presenta una sottile modanatura interna alla circonferenza. L’apparecchiatura muraria in facciata è realizzata con conci in calcarenite locale disposti in corsi regolari legati da malta terrosa a base di calce. Sul lato sinistro, alla base della parete e dello stipite destro della porta, sono reimpiegati quattro blocchi di dimensioni maggiori, che costituiscono materiale di riutilizzo forse riferibile alle mura in opera quadrata che cingevano l’abitato messapico di Montesardo e che dovevano correre poco lontano (Il fenomeno del riuso di elementi di spoglio in edifici di culto medievali è ben riconoscibile nelle vicine chiese di San Pietro presso Giuliano e San Giovanni a Patù nelle quali sono reimpiegati elementi architettonici provenienti da edifici funerari d’età imperiale della necropoli orientale di Veretum); Il prospetto meridionale presenta una muratura differente da quelle della facciata e del retro: i conci, anche se disposti in corsi regolari, non sono perfettamente squadrati e i vuoti sono riempiti con zeppe litiche di piccole dimensioni e da frammenti di coppi. Nella struttura sono presenti tre catene verticali disposte a distanza regolare l’una dall’altra costituite da conci messi in opera di testa e di taglio. Questa stessa situazione si riscontra anche sul prospetto Nord, ma con la differenza che da questo lato si apre un varco d’ingresso; tra la spalla destra su cui si imposta l’arco che sovrasta l’apertura e lo spigolo destro della muratura si sviluppa una catena che, come sul lato Sud, è costituita da conci squadrati disposti di testa e di taglio; sul lato opposto del varco la catena è assente, probabilmente a motivo del ridottissimo spazio rimanente tra la spalla sinistra dell’arco e lo spigolo del muro. Anche la muratura del prospetto posteriore è costituita da conci disposti in corsi regolari, le cui dimensioni risultano però costanti.

Particolare della parete absidale. Concio affrescato che rappresenta parte di un abito vescovile, riutilizzato per tamponare la nicchia

L’abside, orientata ad Est, è diruta e se ne legge l’innesto della muratura che sporge di pochi cm dal prospetto orientale. Un rozzo muro di tompagno costruito con blocchi squadrati chiude attualmente l’apertura.

Le murature dell’intero edificio presentano tecnica uniforme che prevede due paramenti in conci squadrati ed un nucleo murario a sacco con spezzoni di pietre di piccole dimensioni e frammenti ceramici allettati con malta terrosa.

All’interno, lungo la parete Nord si apre una porta che fungeva da ingresso secondario, forse collegato agli attigui ambienti monastici; il muro è per la maggior parte ricoperto da una spessa scialbatura di calce che in alcuni punti si è distaccata, facilitando la comprensione della fisionomia dell’apparecchiatura muraria interna. Il paramento appare realizzato con conci in calcarenite di dimensioni variabili disposti in corsi regolari. In alcuni punti questa regolarità viene interrotta dall’utilizzo di pietre di piccole dimensioni o da conci appena sbozzati e disposti in modo casuale (segno di restauri tardi), alcuni dei quali conservano tacce di affresco. Lungo questa parete si conserva la raffigurazione di una Déesis, sebbene la figura del Battista sia andata perduta, residuo della prima fase decorativa, datata al primo Trecento. L’intradosso della volta presenta tracce di un restauro avvenuto probabilmente in tempi recenti: si tratta di uno strato di intonaco imbiancato sul quale sono stati disegnati i giunti dei conci, ad imitazione della tecnica costruttiva della volta.

prospetto posteriore

La parete Sud mostra, alla base, i resti di un gradino che sembra delimitare la zona presbiterale; in corrispondenza del gradino, ad una distanza di circa 1 metro, si apre una piccola nicchia e, a destra di questa, si collocava un’apertura più ampia, ora occlusa con conci di tufo. Oltre, si conservano le figure di Santa Barbara con il canonico attributo iconografico della torre sorretta nella mano destra, e di un San Bernardino da Siena (la presenza di questo santo nell’affresco salentino costituisce un valido terminus post quem per la realizzazione della facies pittorica, da collocare dopo il 1444, anno della morte del Santo). Non si tratta di un pannello isolato, ma di una raffigurazione che va letta in una più articolata sequenza di santi e sante nascosta sotto uno spesso strato di calce, come si intuisce da alcuni frammenti riaffiorati sulla parete in questione. La decorazione, quindi, comprendeva più unità figurative disposte ad altezza uomo che convergevano verso l’abside, ricalcando uno schema di tradizione bizantina diffuso nei più noti cicli tardogotici del Salento. Due esempi si trovano nella chiesa di Santo Stefano a Soleto e Santa Maria della Neve a Galugnano. In quest’ultima, nelle figure delle sante Lucia, Orsola e Caterina d’Alessandria si riconosce la mano del Maestro di Nicola Antonio e Cesare Livieri, un pittore di Galatone, al quale probabilmente si può collegare anche la Santa Barbara di Montesardo.

Planimetria e sezioni del lato nord ed ovest

Nella parete di fondo dell’aula, l’apertura dell’abside, con corda di 3 m, è occlusa da un muro realizzato a secco con la messa in opera di conci di tufo, alcun dei quali mostrano evidenti tracce di affresco, provenienti, probabilmente, dai vicini resti dell’abside; sul lato sinistro il muro posticcio non si addossa all’attacco del muro absidale, lasciando a vista parte degli affreschi che decoravano il catino absidale, attribuiti alla seconda fase decorativa datata tra il primo e il terzo decennio del XIV secolo (Si riconosce una figura di santa che, sebbene non siano leggibili iscrizioni esegetiche che lo confermino, potrebbe essere riconosciuta nella Santa cui è titolata la chiesa).

A destra dell’abside si trova una piccola nicchia occlusa da un concio di riutilizzo sul quale si conserva un lacerto d’affresco in cui si distingue un abito vescovile.

Nei secoli l’edificio ha subìto alcuni interventi che hanno modificato la struttura originaria dei prospetti e della pianta. La planimetria, che comunque conserva le misure originarie dell’aula interna, ha riportato variazioni lungo le pareti esterne settentrionale e meridionale, le quali hanno subito un ispessimento pari al doppio della larghezza originaria, mentre la lunghezza dei muri est e ovest è stata aumentata di oltre un metro.

È possibile leggere questi interventi come conseguenza della sostituzione dell’originale copertura a capriate lignee, la cui esistenza è suggerita dalla fisionomia dei prospetti est ed ovest, con una copertura a volta in muratura (la sostituzione della copertura a capriata con un sistema di volta a botte è documentata in numerosissimi edifici medievali salentini), di maggiore peso e che quindi necessitava un rafforzamento delle murature su cui gravare. Sulla facciata e sul prospetto posteriore sono chiaramente riconoscibili i due contrafforti che si sviluppano per la lunghezza dell’edificio addossandosi alle pareti preesistenti e che hanno il compito di resistere alle spinte determinate dal peso della volta.

Sulla facciata, subito sotto la linea delle falde del tetto, si riscontrano altri interventi di piccola entità; si tratta di restauri eseguiti grossolanamente, con malta a base di cemento, per riempire le lacune createsi tra il tetto e i conci con lo scopo di evitare, forse, eventuali infiltrazioni.

Sul retro della chiesa si notano invece ben più evidenti segni di restauro: la tamponatura di conci squadrati realizzata, evidentemente, dopo il crollo, probabilmente forzato, del catino absidale (l’assenza dell’abside ha compromesso la stabilità strutturale dell’edificio che presenta internamente un’evidente lesione longitudinale passante per tutta la lunghezza della volta e alcune lesioni sulla parete absidale); l’incasso, visibile a destra, dell’abside realizzato per l’appoggio di una tettoia; la gettata di cemento con impronte di coppi sul profilo basso; il restauro visibile tra il tetto e l’abside, caratterizzato da una muratura chiaramente differente che prevede l’utilizzo di conci di pezzatura inferiore. La realizzazione della tettoia potrebbe, invece, essere attribuibile ad un periodo molto recente, quando la chiesa era utilizzata come deposito per attrezzi e fienile.

Dall’analisi strutturale effettuata emerge dunque che l’edificio ha avuto almeno due fasi architettoniche principali. La prima, collocabile in un periodo anteriore al 1324, anno della decima pontificia registrata dalle fonti, riguarda la costruzione della chiesa che presentava un tetto costituito da capriata lignea e aveva dimensioni in facciata inferiori rispetto a quelle attuali. Nella seconda fase si verificò la sostituzione della copertura in legno con una volta quasi ogivale in muratura e la conseguente costruzione dei muri di rinforzo sui lati Nord e Sud; quest’intervento deve essere stato realizzato certamente prima del 1628, anno della visita pastorale  in cui la chiesa appariva fornicata, ovvero era già provvista di una volta in muratura.

Se la fisionomia attuale della chiesa è il risultato di un’evoluzione edilizia avvenuta in due periodi principali a cui sono seguiti alcuni interventi minori avvenuti tra il XVI ed il XX secolo, non mancano comunque i richiami ad altri pressoché coevi edifici salentini, rappresentanti di quell’architettura romanica del Trecento ben riconosciuta nel Santo Stefano di Soleto e nel S. Giovanni Evangelista di San Cesario. Di queste due chiese la Santa Barbara di Montesardo ripete, approssimativamente, le dimensioni, il modello ad aula unica desinente in un’abside centrale, con rosoncino sulla facciata, portale e piccola porta laterale sulla fiancata sinistra, nonché le piccole nicchie interne ricavate nei muri. Precisi riferimenti alle soluzioni tecniche adottate nella fabbrica dei contrafforti esterni, caratterizzata dall’uso di pietrame di pezzatura irregolare alternato a catene di conci squadrati si trovano, ad esempio, nella tecnica costruttiva delle vicine mura di fortificazione del borgo di Montesardo, databili come detto al tardo Quattrocento, mentre per restare nell’ambito di edifici religiosi, i confronti più prossimi si trovano nella chiesa di San Michele Arcangelo presso Corigliano, nella quale compaiono, però, solo catene angolari.

Santa Barbara. Nella mano destra regge una torre che rappresenta uno degli attributi iconografici della santa

La tecnica costruttiva dell’edificio originario, che si intravede nel lato nord della fabbrica, nel punto in cui si apre il varco dell’ingresso laterale e che appare del tutto simile a quella utilizzata in facciata, si ritrova invece nel Santo Stefano di Soleto, nel San Giovanni Evangelista di Miggiano a Muro Leccese, dalla quale si discosta però per caratteristiche planimetriche.

La chiesa di Santa Barbara si colloca, dunque, nel panorama architettonico salentino tra le forme minori di architettura religiosa, come luogo di culto inizialmente legato ad un monastero e, in seguito, come luogo di culto extraurbano, mantenuto attivo e capace di alte rendite. L’analisi stratigrafica degli elevati condotta sul monumento non basta da sola a fornire elementi di cronologia assoluta, almeno per quanto riguarda l’impianto originario, ma il complesso dei dati architettonici, topografici e storici sembrano convergere verso una datazione inquadrabile nel basso medioevo, suggerita e sostenuta anche da considerazioni di carattere storico artistico sui cicli pittorici.

  

 

 

Area absidale chiusa da un muro di tompagno in conci di riutilizzo

 

 

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S. PALESE, Monumenti e devozioni medievali nel Basso Salento, in C. COLAFEMMINA (a cura di), A servizio del Regno. Studi per il 75° di fondazione del Pontificio Seminario Regionale Teologico Pugliese, Molfetta 1983, pp. 211-254.

D. VENDOLA, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Apulia – Lucania – Calabria (con tre grandi carte topografiche), Città del Vaticano 1939.

Il saggio, in forma più ampia, è stato pubblicato sui Quaderni del Museo della Ceramica di Cutrofiano n°12.

Montesardo (Lecce). Il convento di S. Maria delle Grazie dei frati Conventuali

stemma dei francescani

di Luciano Antonazzo

Nella sua “Corografia fisica e descrittiva di Terra d’Otranto” l’ Arditi (rifacendosi ad un manoscritto di memorie antiche) riferisce che un convento di francescani era stato eretto in Montesardo da Donna Maria de Capua nel 1550.[1]

A sua volta Mons. Ruotolo, oltre a precisare che si trattava di un convento di francescani Conventuali, sostiene che in quello i frati vi “ebbero dimora dal 1610 al 1810”.[2]

In realtà però il convento fu voluto e fondato nel 1527, assieme ad altri cittadini, dalla madre di Maria de Capua, Antonicca del Balzo,[3] e la sua esistenza non durò più di un secolo.

E’ quanto si apprende da alcuni documenti appartenenti all’ex diocesi di Alessano e custoditi nell’Archivio Diocesano di Ugento.[4]

Fra queste carte si è avuta la fortuna di rinvenire proprio l’atto originale di fondazione del convento in oggetto; fu rogato in Alessano il 15 giugno del 1527 dal notaio Luigi Pedilongo di “Montearduo” che intervenne come agente e stipulante tanto in nome proprio che (come persona pubblica) in nome e per parte “Ecclesiae Venerabilis Monasteri Sanctae Mariae de la Gratia de novo costruendo ordinis Sancti Francisci Mendicantorum in terra Monteardui”.

Alla sua presenza si costituirono Donna Antonicca del Balzo, Principessa di Termoli, Contessa di Alessano e Baronessa di Montesardo ed i signori: il Rev. abate Giovanni Paolo, Don Giovanni Baldovino, Giovanni Vitali, Giovanni Carlo Romano, Marco Surracca, il Rev. don Selomu Bleve, il maestro Marco Bleve, Antonio Ingrosso, lo stesso notaio Pedilongo, Evangelista Romano, don Antonio Rizzo, Giovanni Piccinno, Giovanni Schiavone, Bernardino Blanco, Luigi Pezzuto, Bernardino Mastria, Antonio Conte, Nicola Charati, Mattia de Tommaselli, Luigi Caprarica ed il figlio Don Giulio (tutti di Montesardo) ed il sig. Mandil.

Tutti sostennero spontaneamente  di voler donare dei loro beni a suffragio dell’anima dei loro parenti ed antenati e “pro edificando dicta  Ecclesia et Monasterio ”.

Donna Antonicca promise quattrocento ducati da pagarsi in quattro anni e si impegnò anche a nome dei suoi successori a versare ogni anno venti ducati per l’acquisto delle tuniche per i frati; l’abate Giovanni Paolo assegnò 50 ducati, trenta dei quali da pagarsi in otto anni ed i restanti 20 in rate da un ducato l’anno; Giovanni Vitali donò a titolo di donazione irrevocabile tra vivi tutti i suoi beni mobili e stabili  riservandosene l’usufrutto assieme alla moglie vita natural durante ed intanto si impegnò a versare ogni anno 15 tarì. Alla sua morte e di quella della moglie i detti beni sarebbero passati in piena proprietà della chiesa e convento da edificarsi, a condizione che il procuratore della stessa avesse versato ogni anno, in perpetuo, un tarì alla chiesa dello Spirito Santo. Nel caso che la nuova chiesa ed il convento non fossero stati eretti il suo atto di liberalità era da eseguirsi in favore di quest’ultima.

Anche Don Giovanni Baldovino promise 50 ducati, ma da pagarsi in cinque rate annuali da 5 ducati l’una; Giovanni Carlo Romano di ducati ne assegnò 25 da pagarsi con rate annue di 3 ducati l’una ed in più una chiusura con olive e vigna nel luogo detto Vigniscemoli;  il Reverendo Selomo Bleve si impegnò a costruire a sue spese, entro sei anni, una cappella dentro l’erigenda chiesa, mentre il maestro Marco Bleve promise che avrebbe fatto gratis, finchè fosse vissuto e la salute glielo avesse consentito, tutti gli infissi in legno, comprese porte e finestre.

Una seconda cappella promise di farla costruire, anche questa entro sei anni, Antonio Ingrosso con l’impegno a dotarla con due ducati annui in perpetuo per la celebrazione di messe in suffragio dell’anima sua, dei suoi genitori e dei suoi figli.  Lo stesso notaio Pedilongo promise 10 ducati a condizione che gli fosse stato consentito di costruire per sé e per i suoi discendenti un altare con sepoltura.

Una cisterna sita nella pubblica via la donò don Antonio Riccio (Rizzo) che si riservò il diritto di attingere acqua e lo stesso fece  Giovanni Piccinno che assieme alla cisterna donò la chiusura in cui quella si trovava, nel luogo detto le Conche.

Un’altra chiusura, sempre alle Conche, con cisterna ed area fu donata da Luigi Craparica e da suo figlio Don Giulio.

Il sig. Mandil (per sé e sua moglie) assegnò 9 ducati, Luigi Pezzuto 5, Giovanni Schiavone 1 ducato d’oro come Nando Ciullo, mentre Polidoro Pedilongo promise 2 ducati d’oro[5] e Nicola Charati 4, da pagarsi per tutti in tempi diversi.

Con tale dote si diede inizio alla costruzione del convento da intitolarsi al pari della sua chiesa alla Madonna delle Grazie.

Non è dato sapere quando effettivamente ebbero inizio i lavori, mentre è certo che ancora nel 1547 gli stessi non erano stati ultimati; lo documenta un testamento di  detto anno nel quale è contenuto un legato in favore del convento stesso.[6]

Il quattordici marzo il notaio Angelo Securo di Montesardo si recò con i necessari testimoni in casa “egregi”Carlo Perreca, “sita  et positam intus predictam terram Montisardi”, il quale gli dettò le sue ultime volontà.

Egli nominò come sua erede universale di tutti i propri beni mobili, stabili e semoventi, ma nel solo usufrutto, la moglie (di Presicce) Gemma Adamo gravandola di diversi legati.

Innanzitutto destinò alla contessa Antonicca del Balzo un giardino con alberi comuni e con dentro un’abitazione ed un “colombaro”, ed un “clausorio” di terra e vigna con un “tigurio”ed un palmento nel luogo detto “Vigniscemoli”.

Vincolò la donataria assieme ai suoi eredi e successori a non alienare mai detti beni e li gravò dell’onere di far celebrare in perpetuo per la propria anima e di quella dei suoi defunti due messe la settimana nella cappella che egli intendeva far costruire nella chiesa del convento della Madonna delle Grazie e da intitolarsi a S. Nicola. Stabilì che qualora non fosse riuscito a farla erigere egli stesso, l’incombenza di far erigere detta cappella sarebbe stata a carico della moglie che era altresì vincolata a comprare una campana per la chiesa del convento.

Per far ciò autorizzò la consorte a vendere dei beni ereditari fino ad un valore di settanta ducati per ognuna delle due incombenze e ciò nel termine di dieci anni.

Finché fosse vissuta la moglie era tenuta a fargli celebrare una messa a settimana nella costruenda cappella e stabilì che tutti i suoi beni dopo la di lei morte dovessero andare in dote della suddetta cappella di S. Nicola e che i frati in quella dovessero celebrargli in perpetuo sei messe settimanali per la sua anima e dei suoi defunti.

E proseguì dicendo: “Si per caso lo ditto convento di S. Maria della Gratia non si compisse de edificare,& in quello non convenisse de abitare e commorare in ditto Monistero dè S. Maria de Gratia i frati preditti, & in quello servire in divinis secondo solono servire i Monasteri per quello tempo sarà viva la predetta Gemma sua universale erede per spazio di anni dieci,allora la detta cappella se abbia da edificare in lo Monasterio di S. Francesco de Alessano una con ditte robe, e si in ditto Monasterio de ditta Alessano non se edificasse ditta cappella, quella se abbia da edificare in S. Francesco della terra di Specchia”.

Precisò altresì che  la moglie avrebbe potuto godere dell’usufrutto della sua eredità solo nel caso non fosse convolata a seconde nozze, altrimenti i suoi beni erano da considerarsi in piena proprietà dei legatari.

Dispose ancora che la consorte gli dovesse far fare le esequie “secondo la sua condizione” e fargli “dire tre nove quaranta” nel suo anniversario, e che dopo morto avrebbe dovuto fargli fare un “tauto[7] ed in quello deporlo e farlo portare nella chiesa matrice e lì lasciarlo fino a quando non fosse stata completata la sua cappella con relativa sepoltura.

Per il soddisfacimento di questi due legati diede alla moglie la potestà di vendere un pezzo di terra in località “lo Piano”, precisando che dalla somma ricavata, dedotti gli otto ducati ed un tarì, il resto era da distribuirsi ai poveri.

Infine alla chiesa madre legò “tutte le case, & locore cum curtjs cisterna & orto preditto con tutti suoi altri membri riservati li due capienti grandi della sua solita abitazione siti e posti dentro la predetta terra di Montesardo in vicino ditto  la strata di S. Bartololmeo…” per adibirle ad ospizio per i poveri, ospizio il cui “governo”e “dominio” era demandato  in perpetuo al sindaco della città. Qualora detto ricovero non fosse stato realizzato o disattese le sue disposizioni, anche i detti immobili erano da assegnarsi alla sua costruenda cappella.

Legò alla stessa chiesa madre sei ducati “pro edificazione prefate ecclesie” (sic),[8] e due ducati ed un tarì lo lasciò alla chiesa della Madonna del Rosario.

E’ verosimile ritenere, stando a quanto riferito dall’Arditi, che il convento fosse stato completato nel 1550, un anno dopo la morte di Antonicca del Balzo (avvenuta il 23 aprile del 1549) per un impulso economico della di lei figlia Maria; sicuramente però non venne mai realizzata nella chiesa della Madonna delle Grazie (né altrove) una cappella sotto il titolo di S. Nicola e questo probabilmente perché Gemma Adamo  decedette prima di vedere la conclusione dell’erezione del convento.

Del nuovo convento non si rinviene più alcuna notizia degna di nota fino al 1628,  anno in cui la Chiesa Romana per “sorvegliare ed insieme promuovere l’applicazione dei decreti del Concilio di Trento nel Regno di Napoli”, inviò come Visitatore Apostolico della città di Alessano e della sua diocesi il vescovo di Venosa Mons. Andrea Perbenedetti. [9]

L’alto prelato effettuò la visita “Ecclesiae et conventus S. Mariae Gratiarum Montis Ardui Fratrum S. Francisci Minorum Conventualium” il 24 febbraio di detto anno e dalla sua relazione apprendiamo che la chiesa dipinta di bianco era decentemente costruita e con la copertura a volta; una campana era situata sul muro sopra la porta maggiore ed a fianco a questa vi era il fonte battesimale; la stessa porta era dotata di serratura e le finestre erano coperte con tela cerata.

L’altare maggiore era realizzato in forma comune con il tabernacolo dorato nel quale era custodita una pisside argentea; su questo altare i frati erano tenuti a celebrare quattro messe la settimana  per l’anima della defunta Donna Lucrezia delli Falconi,[10] baronessa dello stesso luogo, ed altre due per l’anima di due pii testatori, uno dei quali era verosimilmente il defunto Perreca.

La chiesa era adornata con altri due altari dei quali il primo era sotto il titolo dell’Assunzione di Maria Vergine ed il secondo intitolato a S. Antonio. Su questi non era stato costituito alcun obbligo di messe e le stesse vi si celebravano per devozione solo di quando in quando. La sacrestia si trovava in cornu evangelii dell’altare maggiore e vi si custodivano le necessarie e congrue suppellettili sacre.

Per quanto riguarda il convento Mons. Perbenedetti relazionò: Conventus ipsorum fratrum ante decreta postremo emanata fuerat extructus, in eoque duo tantum fratres eiusdem ordinisminorum conventualium sunt de famiglia assignati, qui oneribus paedictis missarum satisfaciunt. Vivunt secundum constitutiones regulae quam fuerunt professi in communi de redditibus ipsius conventus, qui ad summam sexaginta annorum ascendunt et ex elemosinis piis fidelium praestationibus elargitis”.[11]         

Veniamo così a sapere che il convento era stato eretto ben prima che venissero concesse le necessarie autorizzazioni, ma non ci è dato sapere quando effettivamente sia entrato in funzione e la sua chiesa officiata; conosciamo invece la data nella quale lo stesso convento entrò in possesso dell’eredità del Perreca.

E’ documentato infatti che il primo marzo del 1578 frate “Antonio de Andrata custode seu guardiano Conventus, seu Monasterii Sanctae Mariae de la Gratia”, si rivolse al notaio Lupo Antonio Mazzapinta di Montesardo asserendo che il notaio Angelo Securo aveva rogato il testamento del fu Perreca e che “antequam dittum testamentum in publicam formam reduceret ad istantiam ditti Conventus dittum Notarium Angelum, sicut Domino placuit suum diem clausisse extremum”; [12] e poiché era interesse del convento avere in pubblica forma tale documento chiese al notaio Mazzapinta di adoperarsi in tal senso. Questi, in virtù delle facoltà e poteri concessigli dalla legge, cercò tra i protocolli del suo defunto collega e rinvenuto il testamento in oggetto ne rilasciò copia al frate guardiano.

I frati del convento ebbero così garantiti gli introiti delle rendite provenienti dalla  eredità del fu Perreca, entrate che, come ci relaziona Mons. Perbenedetti, nel 1628 ascendevano a sessanta ducati, somma comunque appena sufficiente per il sostentamento dei soli due frati che allora vi dimoravano.

Data la esiguità di tali rendite è improbabile che nel convento si sia avuto in seguito un incremento dei frati, ma anche se ciò fosse avvenuto è certo che nel 1652 i residenti non raggiungevano le sette unità, numero che metteva al riparo dalla soppressione prevista dalla bolla “Inscrutabili” di Papa Innocenzo X.

Fu così che il convento di S. Maria delle Grazie dei Conventuali di Montesardo cessò la sua esistenza e lentamente andò i rovina fino a perdersene la memoria; le sue ultime vestigia infatti furono viste dal De Giorgi attorno al 1880.[13]

La stessa sorte toccò alla sua chiesa anche se per qualche anno continuò ad essere officiata per disposizione del vescovo di Leuca ed Alessano, Mons. Giovanni Granafei, il quale si trovò a dover dare seguito alle disposizioni del fu Carlo Perreca.

Come stabilito nel suo testamento, con la soppressione del convento di Montesardo, i suoi beni sarebbero dovuti infatti andare ai Conventuali di Alessano, ma il vescovo, assieme al capitolo, il 15 luglio del 1654 inoltrò una richiesta alla S. Sede tendente ad ottenere che, data la indigenza, la tenuità dei frutti e dei proventi della chiesa parrocchiale di Montesardo, fosse quest’ultima a subentrare nell’eredità del Perreca al posto dei Conventuali di Alessano, fermo restando  l’obbligo per il curato pro tempore di soddisfare al peso delle messe da celebrarsi nella chiesa del soppresso convento.[14]

La richiesta di Mons. Granafei venne esaudita il 27 agosto dello stesso anno ed il 16 ottobre successivo il notaio della Curia vescovile, don Giovanni Stivala, immise il vescovo nella “veram, realem, actualem, &corporalem possessionem” della chiesa, e l’arciprete ed il procuratore della parrocchiale di Montesardo nel possesso dei beni che il Perreca aveva legato al convento dei Conventuali di S. Maria delle Grazie di Montesardo.


[1] G. Arditi: la corografia fisica e descrittiva della provincia di Terra d’Otranto. Lecce, rist. anas. 1979, p. 369.

[2] G. Ruotolo: Ugento -Leuca – Alessano, cenni storici e attualità. Cantagalli Ed. Siena 1969 (III ed.). p.82.

[3] Antonicca del Balzo subentrò come titolare della Contea di Alessano al fratello Raimondo,  morto senza discendenza, nel 1509 e sposò il duca di Termoli Ferrante de Capua. Da detto matrimonio nacquero Isabella, che sposò lo zio Vincenzo de Capua e succedette alla madre morta nel 1549, e Maria che sposò il barone di Giuliano Filippo dell’Antoglietta.

[4] ADU: Docc. Alessano 1527-1770.

[5] Questi ultimi due non figurano tra i costituiti elencati dal notaio.

[6] Questo testamento ci è pervenuto attraverso una copia che il notaio Antonio Tasco di Alessano trasse da quello esistente nel convento dei Conventuali della città di Alessano e che a sua volta era una trascrizione del testamento originario rogato dal notaio Securo e reso pubblico solo nel 1578 dal notaio di Montesardo Lupo Antonio Mazzapinta (v. infra).

[7] Tauto (altrim. tavútu, tabbutu, chiaútu,) = cassa mortuaria (dalla’arabo tabût). V. Gerhard Rolfs: Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo Ed. 1976, vol. I, p.139

[8] Qui evidentemente il testatore si riferisce alla edificazione della stessa chiesa madre.

[9] AndrèJacob: La visita apostolica della diocesi di Alessano nel 1628 in Il bassoSsalento – ricerche di storia sociale e religiosa a cura di Salvatore Palese, Congedo Ed, 1982, pp.131 e ss. (Della realzione di tale visita una fotocopia è conservata nell’Archivio Diocesano di Ugento).

[10] Ferrante delli Falconi acquistò il feudo di Montesardo il 9 novembre del 1607 da Ettore Brayda.

[11] Trad: Il convento degli stessi  frati era stato costruito prima che fossero finalmente emanati i decreti, ed in quello vi sono assegnati soltanto due frati dello stesso ordine della famiglia dei Conventuali, i quali soddisfano agli oneri di predette messe. Vivono secondo le costituzioni della regola da quando furono professi in comune col reddito dello tesso convento, che ascende alla somma di sessanta ducati annui, e con le pie elemosine dei fedeli per le prestazioni elargite.

[12] Trad: prima che detto testamento fosse ridotto in pubblica forma ad istanza di detto convento, detto notaio, come a Dio piacque, aveva chiuso il suo giorno estremo.

[13] Cosimo De Giorgi: La provincia di Lecce- bozzetti di viaggio. Rist. anast. Congedo Ed. Galatina 1975, vol. II, p.95.

[14] ADU: fondo Vescovi –Sede vacante 1651-59.

Da “Il Bardo – fogli di culture” Anno XIX, N.2, Dicembre 2009

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