Stoccafisso e baccalà

 

di Massimo Vaglio

La storia italiana dello stoccafisso, come molte storie importanti, inizia casualmente e vede protagonista il nobiluomo e mercante veneziano Pietro Querini, che il 25 Aprile 1431 salpa con la nave di cui era proprietario e capitano, da Candia, allora dominio veneto, con un carico di vino di malvasia, spezie ed altre mercanzie  alla volta dei porti di Bruges e di Anversa seguendo la famigerata  rotta di Fiandra. Una destinazione che lo stesso non avrebbe mai raggiunto, infatti, dopo varie vicissitudini, il 17 dicembre dello stesso anno, la nave sarebbe naufragata nei pressi della Manica e dopo oltre due settimane solo una delle due scialuppe sarebbe riuscita a toccare terra con undici sopravvissuti, fra cui un salentino, tal Cola di Otranto. Querini, aveva raggiunto l’isola di Rost nel remoto arcipelago delle Lofoten a Nord della Norvegia oltre il circolo polare artico. Il povero Querini, avvilito da tanta sfortuna, appella il remoto luogo “Culo mundi”, l’isola per sua fortuna è popolata da centoventi ospitali abitanti, tra l’altro fedeli e devoti cattolici, che ospitano con generosità i suoi marinai nelle loro case, mentre egli e i suoi due luogotenenti Cristoforo Fioravante e Francesco Querini di Candia vengono ospitati in casa dal sacerdote con il quale  riescono ad intendersi in latino. Nei centouno giorni di permanenza, il Querini, pone molta attenzione agli usi e costumi del luogo, ma da buon commerciante anche ai suoi traffici e alla sua economia. Nota, con stupore che gli abitanti dell’isola, come quelli di tutto l’improduttivo arcipelago, si procurano: legumi, cuoi, panni, ferro e  quant’altro necessario al loro sostentamento barattando il merluzzo da loro pescato ed essiccato senza sale, al vento e al sole, localmente appellato stocfisi, che fungeva perfettamente da moneta sonante. Il traffico si svolgeva in più tappe, alcuni brigantini effettuavano la raccolta dello stoccafisso, nei vari villaggi sparsi nel profondo dei fiordi delle coste norvegesi e nel sopra menzionato arcipelago e lo conducevano a Bergen nel sud della Norvegia dove giungevano navi cariche di mercanzie da barattare da Francia, Inghilterra, Germania, Scozia, Prussia, etc. Questo, ci fa intendere, come questo prodotto, al tempo del Querini completamente sconosciuto in Italia, fosse invece un alimento comune ed apprezzato in molti altri paesi europei compresa la vicina Francia, dove era alimento molto comune già nel XIV secolo, ma conosciuto già intorno al X secolo, introdotto da quei temerari uomini di mare che erano i baschi, i primi, se si escludono i vichinghi, a trattare i merluzzi. Tanto Pietro Querini, quanto i suoi due luogotenenti, come evidentemente era costume fare a persone  aduse ad aggiornare minuziosamente i giornali di bordo, tornati a Venezia, stilano dei precisi resoconti,  ove con ottima proprietà di linguaggio e un inaspettato rigore scientifico fanno la descrizione degli usi e costumi del posto, nonché del mirabile sistema di conservazione del merluzzo ivi ideato e lasciano intravedere la proficuità dei traffici che ne potrebbero scaturire. Non possiamo collegare con certezza la sfortunata avventura del nostro capitano con l’entrata nella cucina mediterranea di questo nobile prodotto, ma il sospetto è forte, visto che poco dopo, nei primi decenni del Cinquecento, questo viene già importato sistematicamente in Italia. Com’è noto, sino al Settecento la  navigazione non è ancora molto evoluta e spesso si naviga spostandosi di rada in rada, di porto in porto, ragion per cui, porti oggi di secondaria se non di marginale importanza erano un tempo interessati da ampi traffici ed erano sovente teatro di intensi scambi commerciali. Quindi, se Venezia costituiva il naturale capolinea del commercio del merluzzo essiccato, che trovava nell’interland, allora come oggi, una tradizionale e importante area di smercio, diversi altri porti venivano più o meno direttamente coinvolti lungo la rotta. I porti della Sicilia erano ad esempio una tappa pressoché obbligata per chi faceva il traffico tra l’occidente e i porti dell’adriatico e dell’oriente, le navi delle tratte nordiche venivano a caricare gli agrumi, unica arma contro lo scorbuto e il sale di Trapani, bianco, purissimo e poco igroscopico per cui ritenuto il migliore per la salagione del pesce e presto cominciarono a pagare con stoccafisso e baccalà. Messina per la sua posizione era il principale crocevia di questi traffici non è quindi un caso che qui il “piscistoccu” sia divenuto il piatto d’elezione.

Per quando riguarda il Salento, una certa importanza rivestivano i porti di Otranto e Brindisi, ove, gli scambi erano comunque limitati a piccoli approvvigionamenti di derrate alimentari pagati sempre cambio merce, ma sovente con prodotti di qualità inferiore, quali baccalà di pezzatura più piccola, e con diversi succedanei più economici, quali le molve essiccate che nella povertà del tessuto economico locale incontravano un vivace interesse di mercato.

L’oritano Vincenzo Corrado, nel suo Cuoco Galante, Napoli 1792 nel capitolo intitolato “Della Frutta di mare e de’salumi “ ci da queste notizie intorno alla varietà di pesce salato che si trovavano in commercio: “vi sono vari pesci salati, come Merluzzo, ossia Baccalà, Salmone, Capitone, Linguattole marinate, Saracche, Aringhe ed altri i quali posson servire in mancanza de’ freschi Pesci da farne delle vivande, che di essi se n’è detto avvertendo solo di levarne bene il sale con acqua fresca facendoli in essa bene ammollire e cambiarla spesso, particolarmente per lo Baccalà il quale prima di metterlo in acqua fredda bisogna con spazzola stropicciarlo e lavarlo bene. (…) Sono stimatissime le trippe e le lingue di Merluzzo ossia di Baccalà. Questo pesce si pesca nei mari oltramontani dal principio di Febbraio per tutto Aprile e viene a noi trasportato in due maniere, salato, cioè fresco in barilotti, ed a secco: ed è quello più atto a conservarsi prendendo meglio il sale.” 

Oggi prelibatezze come trippe, lingue di baccalà, etc… non arrivano più sui banchi dei nostri globalizzati negozi, fortunatamente, hanno trovato in altri posti del mondo nuovi estimatori come le teste essiccate che vengono esportate in milioni di pezzi in Nigeria. Da noi, la scelta spesso si  risolve  tra baccalà (merluzzo salato) e stoccafisso (merluzzo essiccato). Invero, sotto queste generiche denominazioni vengono commercializzati pesci appartenenti a una decina di diverse famiglie e a oltre duecento specie, quasi tutte viventi nelle fredde acque dell’emisfero settentrionale, e che ridotte in filetti è spesso molto difficile distinguere, ma che sarebbe più corretto denominare con i loro nomi propri: pollak, pollak d’Alaska, brosme, eglefino, motella, molva, melù, cappellano, musdea, etc. . Lo stoccafisso e il baccalà, per così dire originali, si ricavano esclusivamente dal merluzzo atlantico specie Gadus morhua, la classificazione dello stoccafisso è materia piuttosto complessa e quindi per addetti ai lavori, i consumatori, in genere conoscono solo la qualità tradizionalmente commerciata nella loro zona, come l’eccellente Ragno, molto grande e dalle carni magre, diffuso nel Triveneto ove è protagonista del celeberrimo baccalà alla vicentina. Oltre al Ragno, le qualità di stoccafisso più apprezzate in Italia sono: il Westre piccolo, il Westre magro, il Westre Ancona, il Gran Premier, il Bremese e l’Olandese, tutte di prima scelta, ognuna delle quali,  è difficile capire perché, incontra maggiori favori in un determinato mercato. A differenza dello stoccafisso, per il baccalà non esiste un’articolata suddivisione in categorie; viene classificato semplicemente in due qualità, a e b, che indicano rispettivamente la prima e la seconda scelta. Diventa baccalà il pesce pescato all’inizio di Gennaio, quando il clima è ancora troppo rigido per iniziare l’essiccamento. Nel Salento, in linea con il gusto del sopra riportato maestro Corrado, è molto apprezzato il baccalà ed è protagonista di molti piatti tipici. Qui, lo stoccafisso è molto meno noto, essendo sempre stato appannaggio di pochissime salsamenterie d’elite, invece è stato sempre molto popolare e diffuso un suo succedaneo povero, la molva essiccata in gergo salentino “stoccu” “stoccapesce”, noto pure con il sinonimo ingentilito, “gronghetto”. Nonostante la solida tradizione gastronomica, il consumo di questo prodotto diviene man mano sempre più marginale, quasi relegato nelle famiglie più tradizionaliste e concentrato prevalentemente nei periodi canonici, un vero peccato, visto che è un alimento nobile e versatile, che come pochi, coniuga straordinarie proprietà nutrizionali a indiscusse qualità organolettiche. Ricchi di proteine nobili, di vitamine A, B e D, e dispensatori di iodio, contengono una piccola percentuale di grassi, peraltro di tipo insaturo, quindi il consumo frequente di stoccafisso e baccalà può allontanare l’arteriosclerosi, il rischio d’infarto, le disfunzioni tiroidee, l’uricemia, diverse altre patologie e grazie alle sostanze antiossidanti il decadimento organico. Il tutto se vogliamo ad un prezzo straordinariamente conveniente, infatti un chilo di baccalà equivale a oltre tre chili di pesce fresco e scusate, se è poco.

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