Ai tempi delle lumachine di terra

lumachine

di Mimmo Ciccarese

 

Nel passato, durante le giornate di primavera, gli abitanti di una ridente località di Terra D’Otranto, si alzavano di buonora, per raggiungere in bicicletta i territori dell’Arneo, in località Monteruga, per raccogliere l’origano e le cuzzeddhe (euparypha pisana).

Al loro rientro, con il cesto colmo di cuzzeddhe, il passaggio obbligato dalla piazza del paese confinante, gli sfiniti raccoglitori che non avevano il tono da collezionisti, erano costretti ad accelerare il passo della ruota, solo per non sentire le parole degli schernitori seduti accanto alle osterie.

Si ribatteva in tono giocoso e non offensivo, alludendo alle estremità retrattili delle malcapitate chiocciole, che nel frattempo cercavano un’improbabile via di fuga dal cestello prima di finire bollite in padella.

Sembrava lo aspettassero al crocicchio: “Curnuti alle cozze! curnuti alle cozze!”, cui seguiva la secca replica del raccoglitore: “Tie ‘uardate la razza, se nu bbuei cacci le corne come ‘sta cozza!”.

Altri tempi perduti, altri costumi ormai in disuso, da quando la raccolta spontanea dei prodotti della terra si è inflazionata a causa anche dell’inquinamento. Gli habitat dove la raccolta spontanea si può fare sono davvero rari. Non c’è più la certezza che prodotti come funghi, cicorie selvatiche o appunto le lumachine, siano esenti dall’assorbire i metalli pesanti dello smog o da substrati tossici.

Toni burleschi a parte, le lumache sono state simbolo di movimenti lenti e antichi, ricchi di significati e profonde e serie metafore.

Anche le lumachine come le api dovrebbero essere protette dall’abuso dei pesticidi. Sono sgradite dall’agricoltura convenzionale perché ghiotte di lattughe e cavoli. Chi vuoi che se ne accorga del loro sterminio? Bisogna far sapere che esistono possibilità naturali per allontanarle senza ucciderle e senza ricorrere ad altri metodi.

Intanto godiamoci l’incredibile equilibrio di queste tre lumachine su un esile capolino di margherita, ricordando che la loro presenza/assenza è indice dello stato ambientale, di quei delicati equilibri in cui vive anche l’uomo.

L’umile ma utile canna domestica

 canne

di Mimmo Ciccarese

“Siamo proprio come le canne al vento,  Ester mia. 

Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento” 

(da “Canne al vento” di Grazia Deledda)

 

Pianta antichissima, certamente utilizzata dagli antichi messapici, che pare utilizzassero i suoi culmi come unità di misura (2,50 cm), oltre che per scrivere e disegnare.

Nel ventoso territorio salentino le canne non mancano mai, anche perché perenni,  ritrovandosi assai frequenti in luoghi prevalentemente umidi o acquitrinosi dolci o salmastri, sebbene non sia una pianta acquatica.

Oggi considerate infestanti, un tempo erano assai utilizzate per svariati scopi, ma soprattutto per realizzare con i suoi fusti gli insostituibili cannizzi, sui quali si collocavano principalmente fichi e pomodori da essiccare nei mesi estivi, ma anche per procurarsi ombra nelle ore più calde, per proteggersi durante la falciatura del grano, per la fabbricazione di còfane e panari. I fumatori sapevano ben scegliere quelle dal giusto calibro, visto che da una parte del fusto ricavavano parti della pipa, come celebra il proverbio dell’alto Salento: “ci uei fumi tuttu l’annu pippa te crita e cannuccia ti canna”.

Con quelle più lunghe ed elastiche, i cosidetti masculini, si poteva andare a pesca o le si utilizzava come supporto per fissare i pennelli con cui tinteggiare i muri. Con quelle più tozze si costruivano le matassareddhe, per incanalare i legnetti del telaio sul tessuto, ma anche come sagome per fare la pasta casareccia ed alcune tipologie di dolci da riempire con crema. E ad esse si ricorreva anche per realizzare i giochi dei bambini, tra i quali senz’altro gli aquiloni (prumete o cumete), dei quali ne costituivano lo scheletro su cui poi si attaccavano i fogli di carta velina. Frequente anche l’utilizzo per i terribili fucili a molla, o per ricavarne cerbottane a fiocchetto, fischietti, girandole, trottole (curruli) ed archi da tiro. Non ci risultano altre piante dall’utilizzo così svariato.

Forse particolarmente abbondanti dovevano essere in quel di Cannole, un piccolo centro vicino ad Otranto, che la volle riprodurre nel suo stemma municipale. La tradizione vuole che le distese di queste piante sarebbero state utili ai residenti per nascondersi in occasione delle tanti invasioni turche.

Appartenente alla Classe delle Monocotyledones, Ordine delle Cyperaceae, la Famiglia è quella delle graminacee. Il suo nome scientifico è Arundo donax L.

Le canne hanno molto bisogno di acqua per crescere, anche fino a 5 cm giornalieri di lunghezza durante i mesi primaverili, fino a raggiungere, in condizioni ideali, i cinque metri in altezza, con un diametro di tre centimetri. Sarebbero ottime se assunte come robuste siepi frangivento.

Le foglie lanceolate, rastremate in punta, presentano un ciuffo peloso alla base. I semi sono raramente fertili e la loro riproduzione avviene attraverso rizomi sotterranei, tipicamente legnosi e nodosi, che penetrano fino ad spannare anche un metro di profondità, insinuandosi tra gli interstizi del terreno e diffondersi come una colonia di radichette tra gli strati superficiali più compatti e paludosi.

La consistenza legnosa del fusto o culmo è eccellente per realizzare ance per flauti, clarinetti e cornamuse; è fonte di cellulosa per l’industria cartiera e grande serbatoio di stoccaggio di carbonio nel suolo agrario, fino a venti volte in più di una coltura annuale.

L’infiorescenza della pianta è una pannocchia fusiforme, di colore marrone, lunga circa 40-50 cm; la sua fugacità viene celebrata dai salentini con uno stornello che ancora si ricorda: “Fiorin di canna, nu crìtere alla tonna ca lusinga, prima tice t’amu e poi te inganna, fiorin di tutti i fiori, fiorin di canna”.

Al di là delle note di folklore rispetto alle altre piante ha un alto coefficiente fotosintetico che le conferisce un alto pregio ecologico. Uno degli aspetti importanti è la sua capacità di bonificare e decontaminare gli ambienti molto inquinati da metalli pesanti o reflui organici urbani e zootecnici. È infatti una pianta fitodepuratrice, che iperaccumula tratti di terreni senza peraltro dimostrare alcuna sofferenza.

 

Identikit di un’oliva


di Mimmo Ciccarese

 

Indovinello salentino: “Autu, autu e lu miu palazzu, erde suntu e niura me fazzu, casciu anterra e nnu me scrafazzu, au alla chesa e luce fazzu”.

Asciula, cafareddhra, mureddrha, saracina, cilina nchiastra, licitima, fimmina e masculara, cillina te Lecce, te Nardò o te Scurranu sono solo alcuni dei sinonimi utilizzati per indicare o meglio identificare la tipica oliva coltivata nel Salento.

Di essa non si sa con esattezza per opera di quale popolo sia iniziata la sua diffusione; sarà sicuramente un affascinante racconto dissolto tra secoli di memoria e segrete leggende. Di certo c’è invece, che il valore attribuito alla coltivazione di questa varietà che oggi classifichiamo come Cellina di Nardò, è equivalente all’empatico desiderio di proteggerla. Si accendono i riflettori su questo albero.

In un modo o nell’altro il principio dell’estrazione del suo olio (uegghiu) pare sia quasi simile a quella di un tempo ma le caratteristiche fisiologiche del suo frutto non sono affatto cambiate.

Le sue drupe (ulie) riunite fitte sui rami vigorosi e assurgenti (inchi e calaturi) sono piccole ellissi, come visi bruni, in pietosa attesa di ruzzolare per essere poi raccolte e frantumate (rispicu e macinatura). L’operosità della sua raccolta scandisce due stagioni di tradizionale raccolta su quasi 60.000 ettari di meridione pugliese dove si aggira. Ogni visitatore che abbia varcato la soglia messapica ha ammirato la sua imponente meraviglia e qualcuno poi, ha chiesto addirittura di promuoverlo come patrimonio dell’umanità.

Da sempre, questa varietà, è presente nella storia dei salentini, nei loro riti, nella vita di ogni giorno e a volte ci si può meravigliare come dai suoi tronchi curvi e corrucciati (rape sturtigghiate) riescano a ricavarne un essenza così morbida e armonica al palato. L’intensità di retrogusti piacevoli di amaro e un po’piccante (pizzica alli cannaliri) con evidenti percezioni di mandorla, di pomodoro o di erba fresca sarebbero i suoi migliori requisiti.

Qualità inaspettate dall’olivo trasmesse da millenni, incantano le nostre abitudini, specialmente quando si parla di chimica che non troviamo solo nel suo olio, non di quella sintetica per intenderci, ma di quella che riguarda le sostanze naturalmente contenute nelle sue cellule.

Cellule ricche di oleuropeina, droga amara, contenuta nelle sue cellule, e di un cospicuo elenco di acidi, chinoni, flavoni, glucosidi, enzimi, tannini, zuccheri, oli essenziali e antiossidanti di natura non identificata.

Ma come ogni alimento, senza fare discriminazioni farmacologiche, il suo olio extravergine di oliva è conosciuto da sempre per le sue proprietà, per la sua composizione in acidi grassi come l’acido oleico, linoleico, linolenico e di quella benamate antiossidante e protettive vitamina.

Chi l’avrebbe mai detto che da una piccola drupa dall’insolito nome orientale potessero scaturire tante ricerche? Se ne parla da anni! Pare che l’olio estratto (10-17%) contenuto nel suo frutto aiutasse quindi a vivere meglio.

Ma come identificare la vera qualità di un olio d’oliva? Non è il caso di quantificare un valore nutrizionale di un olio mal conservato o immoralmente prodotto.

L’albero d’olivo è sacro come il suo olio, il suo produttore e la sua terra. Allora perché questa pianta così decantata diventa spesso un indistinto oggetto alla mercé di un agricoltura intensiva?

Alberi come schiavi, forzati a vegetare e produrre in fretta, drupe avvelenate da insetticidi, radici bruciate da diserbanti per semplificare la raccolta. Dovremmo chiederci spesso che fine fanno le volpi e gli uccelli che si rintanano tra i sui vetusti tronchi “benedetti”.

Può questo atteggiamento essere un incivile trasgressione per sciagurati o insani principi? Soprattutto, può questo alimento pregiato diventare mezzo di sostanze sicuramente dannose per la nostra salute? L’agricoltura salentina non sa più che olio vendere; su di essa si riabbassa la scure dei prezzi, il lavoro non si ripaga e l’albero s’abbandona. Allora, solo favorendo il consumo dell’olio da Cellina di Nardò con un scelta sana e consapevole che il Salento può ritrovare la ruralità del suo volto e a maggior ragione, prima di ogni sciagurata decisione, il diritto di ammirarne la sua bellezza.

 

Le sagre del Salento. Occorre un disciplinare?

leccesalento.it
da leccesalento.it

                

di Mimmo Ciccarese  

Periodo estivo, periodo di divertimento e di miriadi di sagre. Il Salento, territorio ormai evocato all’accoglienza turistica, che fra tutti vanta il maggior numero di comuni in Italia, deve quasi inevitabilmente promuovere le sue produzioni locali attraverso le sagre. Perché?

La sagra dovrebbe figurare il coacervo produttivo dei suoi residenti ed questo mi pare uno sforzo più che pregevole. La sagra è un elogio al territorio, su questo non ci sono dubbi ma da sola non colma il vuoto della sua promozione.

Al turista vero che arrotonda le critiche della sua ricerca sui social forum, al residente rassegnato che antepone lo sgabello sull’ingresso della sua abitazione per non far posteggiare, alla vecchietta costretta a rimuovere i vuoti a perdere dalla soglia della sua casa, a chi vuol parlare o riposare e non può per l’esplosione della musica battente, ci pensa mai qualcuno?

È possibile che tra questa baraonda di eventi ci sia qualcosa di tedioso e stonato o che non riesce ad andare per il verso giusto. Per questi e altri motivi, forse, il complesso delle sagre salentine non potranno quasi mai diventare ecosostenibili in toto. Ci sarebbe ancora molto da ridefinire.

Nel Salento ci si concede il lusso di visitare dieci sagre in una serata. Se non piace la melanzana, ci si conforta con la pizzica, se poi non piace neanche la solita tiritera, puoi spostarti al paese accanto dove c’è la sagra del maialetto e il giorno dopo sulla stessa piazza quella delle sue interiora.

A questo punto c’è da chiedersi come mai per le sagre di paese non esista un disciplinare comune per evitare disservizi e malcontenti e quanti sono quei comuni che in realtà, l’hanno pianificato? Solo poche amministrazioni previdenti ci hanno pensato, articolando una serie di regole, fondamentali per la buona riuscita di una sagra.

Il vacanziere che non conosce la nostra campagna e i suoi prodotti di stagione, potrebbe ritrovarsi nel bel mezzo di una sagra salentina a degustare qualcosa di non proprio intonato al territorio che lo ospita. Qualcuno di essi potrebbe pensare che nel Salento ci siano più castagne che olive o che le famose “pittule” si friggono meglio nell’olio di girasole che in quello d’oliva.

Ad esempio, la definizione di sagra non è molto chiara, non specifica se i prodotti debbano essere necessariamente locali, non è poi così importante, almeno, si spera non si utilizzino prodotti surgelati d’origine sconosciuta spacciandoli per prodotti freschi tipici e locali.

La definizione di sagra potrebbe riguardare il comune pensiero che si tratti di un evento a carattere folclorico, momento di aggregazione sociale, di trattenimento e svago, espressione di cultura, di tradizione e storia della comunità locale.

È certo che una sagra, quanto più è consolidata tanto più porta valore economico ma occorre ripetere e far garantire che i prezzi alla cassa siano equi per tutti e più bassi di quelli imposti nei locali al chiuso, che la tipologia dell’evento corrisponda realmente a quella descritta nella presentazione o almeno dare una parvenza d’informazione su quello che si somministra.

Per questo per non cadere nel tranello del binomio sagra – profitto, non ci si può improvvisare, serve esperienza, buon senso e delicatezza, delineare un disciplinare collettivo per conservare dignità e identità, rispetto dei luoghi e della storia che i patrimoni culturali ricevuti in eredità sono molto più importanti di quanto si pensi.

L’albero di Natale: storia di un culto nato ad Otranto?

di Mimmo Ciccarese

Il culto degli alberi ha un ruolo importante nelle culture e nelle religioni di tutto il mondo! Esistono su quest’argomento innumerevoli notizie o leggende. Gli alberi entrano in questo modo a pieno titolo tra gli elementi spirituali oggetto di venerazione.

Molti uomini hanno sempre creduto che gli alberi fossero governati da spiriti e divinità: tra i primi furono i greci che adoravano la quercia come dimora di Zeus e la consideravano, come l’ulivo, pianta il cui sacrilego atto di sradicarlo era punito severamente.

Per alcune popolazioni africane, nella creazione del mondo, l’albero è protagonista perché contiene la forza spirituale e materiale di un dio arcaico che si manifesta a tutti gli altri esseri proprio attraverso radici, foglie e rami. È consuetudine per alcuni popoli africani radunarsi sotto la chioma di alberi sacri per prendere decisioni d’interesse collettivo.

L’albero è conoscenza, sopravvivenza e nutrimento per ogni popolo.  Il legame con gli alberi era per i Celti così forte tanto che si sentivano parte di essi. Per questi popoli, l’albero era il collegamento tra terra e cielo, un riferimento cosmico che appellava perfino i cicli lunari, i luoghi e le famiglie.

Quando le missioni di altre religioni iniziarono la loro opera di conversione su questi popoli, in nome di decisioni supreme, per impedire il perdurare dei loro culti arborei, rasero al suolo le loro foreste sacre. Si può facilmente immaginare cosa sarebbe accaduto dopo, a coloro che, in segno di venerazione portavano offerte agli alberi o chiedevano protezione per i propri familiari o per i propri beni.

Singolare è la storia di San Martino vescovo, che con il grado di difensore di tali editti, si fece legare a un immenso pino da abbattere per sostenere e comprovare la virtù della sua fede alle popolazioni pagane; dopo il suo segno di croce, l’albero cadde graziandolo e il miracolo favorì le conversioni.

Le storie di alberi tagliati e di proclami che proibivano i riti pagani si susseguirono in tutta Europa durante tutto il medioevo. Emblematici furono i tagli d’albero eseguiti per sancire la fine o l’inizio di nuove epoche. La storica decisione nel 1188 di Goffredo di Buglione, feudale della prima crociata, di far tagliare un olmo a Gisors alla presenza di due sovrani decretò la fine di un’alleanza e l’inizio di un dissidio.  Gli eroici abitanti di Capannori in Toscana salvarono l’ultrasecolare “quercia delle streghe”dalla scure nazista che la gradivano come legname; poi cittadini di ogni luogo in difesa di ulivi, querce, lecci, pini di carattere monumentale da ricorrenti minacce antropiche.

Non esiste simbolo più rappresentativo dell’albero per le festività di Natale. L’alberello del nostro focolare è un singolare documento di fede, certamente assorbito da primitivi simbolismi e antiche tradizioni.

La scelta di un sempreverde per celebrare una nascita, in grado di trasferire il messaggio d’immortalità  e di rinnovamento era già diffuso tra i romani che ricorrevano decorando le loro case con coccarde di rami di pino. I druidi (dal gaelico querce) e i vichinghi , invece, per il giorno più breve dell’anno si auspicavano fertilità e rinascita vegetativa addobbavano i loro sacri abeti rossi con diversi frutti.

Yggdrasillm, albero cosmico primordiale

Qui si presenta il confronto dell’albero natalizio con la mitologia nordica dell’albero cosmico detto Yggdrasill, albero invisibile e simbolico fonte della vita, origine della sapienza e dell’immortalità, simile a quello raffigurato nel mosaico del Duomo di Otranto, splendido esempio uscito nel 1165 d.C. per opera del monaco Pantaleone che era riuscito a ramificare natura e mitologia in una delle prime missive ecologiche che il Salento ricordi.

Klimt, L’albero della vita

Anche nella pittura G. Klimt con il suo “albero della vita” rievoca un riferimento alla naturale combinazione tra spirito e materia tramite l’amore e la conoscenza, mentre nella letteratura, H. Hesse, con la sua favola trasforma il protagonista Pictor, giunto nell’Eden, in albero, per  descrivere e completare l’uomo con una metafora arborea.

Il termine albero della vita era menzionato nei riferimenti biblici della genesi  e nell’apocalisse: “E in mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trovava l’albero della vita, che fa dodici frutti e che porta il suo frutto ogni mese;  le foglie dell’albero sono per la guarigione delle nazioni”. Altri riferimenti si rintracciano sorprendentemente anche tra popoli egizi, assiri, mesopotami nel buddismo, induismo e nella cabalà ebraica.

Da qui potrebbe essere nata la tradizione dell’albero di Natale, che le prime missioni cristiane chiamarono “albero del paradiso” sul quale comparivano mele e ostie come simbolo di redenzione poi nel tempo sostituite da candele, frutta secca, dolci  e doni vari.

I sempreverdi più utilizzati sono il peccio, il pino e l’abete, specie incensate dai colori intensi che dovrebbero essere, di rigore, veri e vegeti se si vuol dare significato e continuità all’allegoria cristiana.

Con un albero artificiale, quindi, non si avrebbe alcuna percezione; il senso della ricorrenza sarebbe relegata a effimero consumismo. Agli italiani pare incanti il falso albero, perché assicura la prontezza dell’installazione, risolve le gestioni economiche durante le feste e poi si può usare per più anni. In genere sono fatti in PVC, polietilene, derivati del petrolio, materie, spesso non degradabili, che in futuro dovrebbero finire in discarica.

Gli scandinavi hanno stimato e paragonato i consumi energetici e di produzione tra un albero vero e uno falso (anche utilizzati a lungo termine) dalle stesse forme e dimensioni ed hanno riscontrato che il primo ha un valore etico e ambientale cinque volte maggiore.

Procurarsi un albero vero da un vivaio specializzato rigenera la coltivazione della specie e favorisce l’assorbimento della CO2 dall’atmosfera durante il suo accrescimento.

È convinzione diffusa che gli alberi di natale provengano da deforestazioni e che ogni anno avvenga uno sterminio di alberelli; grazie ai controlli o alle certificazioni ambientali (Forest Stewardship Council) che garantiscono il rispetto e la conformità tecnica, si può stare tranquilli.

Ovviamente la preferenza di utilizzare alberelli autoctoni, acquistati da vivai locali (km 0), possibilmente a produzione bio, sarebbe una buona scelta e magari, dopo la festività, ripiantare gli stessi in habitat idonei, per contribuire a mitigare le cause della desertificazione.

Allora alla luce di queste considerazioni potremmo confermare che ogni albero, a prescindere dal suo rito, è certamente, un luogo di ricerca e di riflessione, una relazione di valori ed emozioni e di unione tra terra e cielo; ecco perché non dovrebbero essere mai tagliati. Questo potrebbe essere il primo augurio per il Natale.

mosaico di Otranto

Libri. L’ulivo e la Mezzaluna

L'Ulivo e la Mezzaluna il 7 novembre 2014 a Soleto
L’associazione DnaDonna col patrocinio del Comune di Soleto è lieta di invitarvi il 7 novembre alla presentazione de “L’ulivo e la Mezzaluna” di Mimmo Ciccarese.Un viaggio nel Salento, che vede protagonisti i suoi ulivi secolari, la terra, il mare, la Storia e la gente di un luogo magico e affascinante, da sempre considerata la porta che collega l’Oriente e la Cultura araba all’Occidente. Un itinerario cui affidarsi grazie anche alle mappe e ai percorsi forniti, con l’ausilio della tecnologia digitale, per chi volesse ripercorrere la via indicata dall’autore.

Saluti:
Davide Cafaro. assessore alla cultura del comune di Soleto.
Emanuela Mangione,presidente associazione DnaDonna.

interverranno:
Mario Spedicato,ordinario Università del Salento.
Giuseppe Pascali, giornalista e scrittore.
Sergio Macrì, agronomo.
Gianni Proto, avvocato.
modera:
Fabio Lettere, agronomo.

L’INGRESSO è LIBERO.

A proposito di olio e ulivi! Si parla troppo e si agisce poco?

Olio

di Mimmo Ciccarese

 

I tanti dibattiti previsti sulla tutela degli ulivi e dell’olio d’oliva sono davvero così utili? Quale sarà la prossima questione? Si parlerà ancora del rinnovo del settore, dell’atteso arrivo della nuova politica agricola comunitaria (Pac), del miglioramento della qualità o degli aiuti previsti per le organizzazioni professionali? Sempre la stessa tiritera, dirà qualcuno, ma questi dibattiti, servono proprio a mantener vive le relazioni tra i produttori, i trasformatori, le associazioni agricole, i consorzi.

Quando ci si vuol barcamenare tra questi quesiti e quando i simposi non sono per pochi eletti, probabilmente conviene partecipare, ascoltare con passione per poi trarne delle dovute e adeguate valutazioni.

I dibattiti non sono solo passeggiate mediatiche, si comprende da subito cosa essi ti serbano, ti fanno comprendere e giustificare gli eventi e le persone con un minimo di riflessione o puoi addirittura capire se un dibattito è sincero o maschera ad esempio possibili atti speculativi. Con essi associ e intendi il motivo che ci spinge all’unione all’espressione e al commento libero.

Nel frattempo abbiamo facoltà di arguirci un po’ sopra e chiederci magari se i suggerimenti proposti per la difesa degli ulivi e del Made in Italy non siano poi così efficaci come ci si dovrebbe aspettare. Dopo un lungo dibattito ci si può tornare appagati, delusi o del tutto indifferenti; si può carpire facilmente lo stato del pubblico dalla sua manifestazione.

ph Mimmo Ciccarese
ph Mimmo Ciccarese

Qualche solito ignoto partirà in quarta magari con la sua impostata polemica o critica banale da luogo comune e qualcun altro, invece, con la sua valida proposta con la speranza che questa volta sia meglio ascoltata.

I relatori tornerebbero più paghi dopo il loro “quarto d’ora di popolarità”, sguainando le loro tesi, criticabili o meno, non importa; sono sempre lesti ad abbozzarne di nuove specialmente se sono sostenute dai loro tutor preferiti.

Ormai si sa, in questo settore, non sempre otteniamo certezze e verità, lo dice anche un proverbio salentino: “l’ulia è niura e te face niuru” (l’oliva è nera e ti fa nero) così come per dire che di certo possiamo confidare nella percezione e nell’intuito ma con le dovute cautele perché i cambiamenti possono sempre essere repentini.

Con la nostra fatale intuizione potremmo perfino supporre che fra la civiltà rurale Salentina si avranno dei mutamenti. Quali fossero, come avvenissero e se fossero buoni o negativi non è dato saperlo. Di certo non saremo degli indovini ma neanche cattivi osservatori.

Chissà, forse un giorno, ci accorgeremmo che molti impegni per la salvaguardia di un comparto così importante sia stato tempo, lavoro e denaro sprecato. Gli eventi e i dibattiti pubblici servono a questo, a generare movimenti, formare gruppi e condividere le idee, cambiare eventualmente rotta se sbagliata.

Ben vengano gli eventi quindi per valorizzare il settore agricolo e le misure da adottare per difenderlo e che giungano con serenità senza creare tante esitazioni sul suo futuro.

Se i risultati per l’olio d’oliva non soddisfano, se ci sono state o ci saranno decisioni, irrazionali, affrettate o sofferte per qualcuno, avremo tutto il tempo necessario e la possibilità di riparare, recuperare e ripartire.

Continuiamo pure ad aver fiducia nel buon operato degli addetti ai lavori. Valutiamo il grado della loro esperienza, valutiamo i termini con cui essi si proferiscono senza però trascurare la voce dei produttori che sono i primi a incassare i colpi.

Se in questi dibattiti registrate troppi dubbi, allora si può chiedere e proporre in modo costruttivo. E anche se vi guarderanno con altri occhi, continuate ad approfondire l’argomento senza tante preoccupazioni con il coraggio e l’umiltà che avete ereditato.

I produttori avranno pure la facoltà e il diritto di ascoltare altre voci. La ricerca scientifica ed economica è davvero disciplina quando diventa certezza. Di certo quello che gli ulivi e i produttori ci dicono e ci insegnano vale molto di più.

Nell’olivicoltura il ritornello si ripete metodicamente sempre prima dell’arrivo di contributi comunitari che giustamente supportano i produttori. Senza quegli aiuti come si farebbe a sostenere i costi di produzione?

Tra una Pac e l’altra si parlerà d’olio d’oliva, quasi una sequenza di eventi. Uno dei più interessanti è l’Expo 2015, senza dubbio una bella vetrina per le eccellenze italiane. Si tratta di grandi spazi per ogni prodotto, ma per il nostro olio d’oliva? È possibile che sia finito tra i padiglioni dei condimenti come l’aceto? Il grande e piccolo Salento con i suoi milioni di ulivi monumentali terra produttrice d’intingoli, quindi?

Gli eventi sono dibattiti ma anche spazi di slogan da acquistare. Gli ulivi secolari sono il nostro biglietto da visita. C’è un mondo che ci guarda e ci compra attraverso il social network, c’è un mondo preoccupato per le sorti di un patrimonio arboreo e si chiede come mai i salentini non si siano ancora accorti di navigare su un fiume dorato.

Il Salento potrebbe cambiare davvero direzione se solo fosse interessato. I suoi residenti potrebbero rivendicare saperi e sapori con la dovuta energia sull’intero territorio nazionale, non vogliono svendere la loro produzione a marchi esteri e ne passare in secondo piano.

ulivi borgagne santoro

Le istituzioni e le associazioni di copertina devono capire che la griffe Salento con i suoi olivi non può passare inosservata perché rappresenta un lato importante di quella dieta mediterranea che lo Stato volle indicare nel 2010 come patrimonio dell’Unesco.

Chi avrebbe quella grande forza di render voce e certezze alla nostra olivicoltura? Si propongano pure gli eventi e i dibattiti all’uopo ma per cortesia che non siano sempre gli stessi barbosi modi di argomentare.

Un grande medico al servizio degli ulivi secolari

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di Mimmo Ciccarese

 

Il 24 giugno del 1720 nacque a Gallipoli, Giovanni Presta, uno degli studiosi più noti che il Salento possa annoverare tra i suoi annali. Già a sedici anni si recò a Napoli per frequentare medicina e in altri momenti per approfondire gli studi di matematica e astronomia. Le sue doti di letterato e raffinato poeta lo aggiunsero con merito tra le accademie e le società più colte del suo tempo.

Appena laureato in medicina ritornò nella sua città natale, per esercitare la professione ma nel mondo divenne più noto per i suoi studi agronomici e in particolare sulla tabacchicoltura e sull’olivicoltura.

Furono saggi così notevoli che la provincia di Lecce non esitò ad onorarlo con la scuola agraria a ridosso dell’antica città messapica di Rudiae. Per questo l’istituto per periti agrari, forte del suo retaggio e per le sue egregie attività formative e sperimentali, acquisì fascino e valore in tutta la Puglia.

Presta si concentrò molto sulla specie dell’ulivo, aveva ben compreso la sua importanza sul territorio, era per lui una certezza da offrire con la Memoria su i saggi diversi di olio e su della ragia di ulivo della penisola salentina messe come in offerta a Sua Maestà Imperiale Caterina II, la Pallade delle Russie (1786), con Memoria intorno ai sessantadue saggi diversi di olio presentati alla Maestà di Ferdinando IV, Re delle due Sicilie, ed esame critico dell’antico frantoio trovato a Stabia (1788); Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio (1794).

 

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Presta analizzò con scrupolo la produzione agricola nel Salento, le condizioni del suo territorio, indagando sulle cause storiche che le avevano determinate, a risolvere i problemi di un meridione orientato al degrado e alla povertà. Per qualcuno quell’impegno sarebbe stato visto come un vero e proprio mandato morale da eseguire ad ogni costo.

Nella prima parte dell’opera Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio (1794) Presta avvia il trattato con un’esposizione di questa pianta accreditandone utilità e bellezza: “Di quanti mai vi son’alberi finor noti sopra la terra, se si ha riguardo all’utilità, che ciascun arreca, si può dire senza fallo, che l’Ulivo è il migliore tra tutti, l’Ulivo è il primo tra tutti, l’Ulivo è il Re”. In questo primo ritaglio si riscontra il riferimento ai tempi dell’antica Grecia, del modo con cui questi popoli divinizzavano questa essenza.

Nel Regno delle due Sicilie, il mercato dell’olio era fiorente. In quel tempo proprio nella città portuale di Gallipoli, Presta osservava la partenza dei bastimenti fiamminghi carichi d’olio lampante e già pensava di descrivere con la dovuta professionalità la fonte di quella produzione per ricavarne altra utilità.

A distanza di secoli da tali studi Presta, purtroppo, l’ulivo monumentale è oggi rapportato da qualcuno come “una pianta come tante”, una coltura da far produrre in regime intensivo, come strumento economico o perfino solo come un mezzo per accedere ai finanziamenti comunitari.

Allora ecco gli aiuti alla produzione che ravvivano l’olivicoltura pugliese che creano associazioni di categoria, cooperative, centri di assistenza agricola per far diventare l’olio il Re degli alimenti, un buon condimento ideale per nutrire la politica e la società.

Dai tempi dell’olio lampante a quello del miglioramento qualitativo, l’olio di oliva guadagna sempre più potere, diviene un andirivieni economico sempre più intenso, una materia preziosa da stoccare gelosamente, un’energia in grado di alimentare centinaia di migliaia di famiglie.

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Il dottor G. Presta ha compiuto una grande opera, con i suoi trattati è riconosciuto dal mondo accademico come il primo grande tecnico dell’olivicoltura e non solo. Chi mette in dubbio il suo impegno e l’efficacia della sua molteplice conoscenza e sensibilità?

Le abili capacità del luminare G.Presta di comunicare la vita e la forma delle piante d’ulivo risiedeva anche in quegli studi astronomici e matematici, della biologia e forse anche della filosofia tra l’ammirazione e lo stupore dei suoi colleghi.

Il tecnico agrario dovrebbe animare talento e passione con il coraggio e la lealtà così come fece il grande ricercatore salentino. In ogni caso un tecnico non rimane indifferente alle problematiche agricole, anzi, sostiene, propone e condivide le sue conoscenze al servizio della gente che reclama risposte.

L’esperto serve i cicli della natura, rende voce alla biodiversità e la difende, acquisisce così giudizio oltre che dignità per essere ben voluto dai suoi residenti. Chi allontana o disapprova questa valutazione tradisce i suoi apprendimenti e non può dire d’amare e dimorare la sua terra.

Chi pensa, invece, che il tecnico agrario non sia altro che uno scrivano sciupato tra i fogli e i corridoi di un ufficio si sbaglia in pieno perché il suo mondo è molto più variegato e per niente standardizzato.

Il competente, però, non deve esaudire i comandi di una sola voce, deve anche arricciarsi un po’, tra le riflessioni e gli studi che gli altri suggeriscono, proponendosi a sua volta con razionalità e rispetto, deve rendere operativa l’efficienza del suo sapere o almeno stimolare la sua curiosità e quella del suo prossimo.

Un tecnico dovrebbe dimostrare la volontà di respirare umilmente i valori che insegnano le molteplici civiltà rurali affinché esso non smarrisca la sua identità, senza mai nascondersi dietro misere bautte di qualsiasi tipo ed essere in grado di ascoltare con umiltà senza mai umiliarsi.

Per questi motivi i delegati al settore dovrebbero essere ispirati dal gran valore di Giovanni Presta, dalla sua umanità che ha reso tantissimo alla nostra agricoltura; lo studioso è stato un modello di benessere morale, un’intelligenza con cui poter conversare apertamente di tesi e dottrine.

Un uomo che ha dedicato un’esistenza a classificare ed esporre la produzione dei suoi tempi per rendere conoscenza ai suoi posteri non può che ispirare unità, comprensione e gratitudine.

Seguire la generosità di questi uomini, sarebbe il piccolo gesto che potrebbe fare un tecnico agrario come quello di supportare proprio quegli ulivi che il famoso studioso gallipolino ci aveva descritto qualche secolo prima.

Gli stessi ulivi secolari descritti, oggi, forse ci/si stanno abbandonando all’incuria, nei viluppi del disinteresse o in chissà quale altro tipo di speranza. Ecco un altro valido motivo per difenderli con risolutezza.

Il canestraio: un artigiano contadino

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testo e foto di Mimmo Ciccarese

 

Il suo nome è Angelo, novantenne, ultimo dei canestrai, superstite di un’antica civiltà, quella che per intenderci ha navigato con doveroso silenzio le difficoltà del periodo fascista e gli anni del dopoguerra lavorando assiduamente senza mai desistere.

Angelo, seduto sul suo panchetto, ha tanto da rivelare mentre ordisce quei fascetti di canna finemente mondati prima di “chiudere” le bordature del paniere e ridefinire la sua simmetria con pochi e rapidi accordi delle dita. Nel frattempo, mi racconta della sua terra d’Arneo, storia vibrante di giovani braccianti in cerca di terre da abitare, spazi dove ci si sostava tra i cespi di macchia e olivastri per realizzare in fretta un pratico cesto di vimini da riempire lungo la via del ritorno con qualcosa di buono. Angelo riesamina la sagoma del suo cesto per assicurarsi che non ci sia altro da spuntare, accorcia qualche aspro spigolo qua e là, lo libera tra la stretta delle sue ginocchia e poi lo ripone lentamente sul ripiano accanto agli altri.

Il doppio intreccio eseguito dalle abili mani di Angelo
Il doppio intreccio eseguito dalle abili mani di Angelo

Ce ne sono decine di diverse dimensioni e sfumature; qualcuno è sospeso alla bacchetta di una vecchia bici, un altro si tiene al cavicchio di una vecchia scala da potatore; tutti dissimili, ogni pezzo è unico e raro, grondante di semplicità e di pregevole tradizione. Nonostante le sue mani nodose non fossero abili come un tempo e la sua vista sia diminuita, Angelo, tesse con tenacia la sua dose giornaliera di vimini e rianima il suo sentimento popolare realizzando cestini con il pensiero di regalarli.

Il suo diletto spiegato dai vecchi cestai di paese, artigiani di professione o afferrato dagli zingari camminanti nelle fiere d’ ottobre, nasce così, in modo semplice, raccogliendo lungo i fossi delle macchie e della campagna salentina, esili rametti di salice chiaro, d’olmo, polloni d’ulivo, di ginestra, di lentisco e di fresche canne.

Il fondo, mi dice Angelo, è l’ossatura a raggiera, una sorta di mandala, che permette di reggere il peso dei frutti; la sua resistenza dipende dal materiale utilizzato e dalla parsimonia spesa per costruirlo e poi aggiunge sottovoce: “con una dose di passione il cesto può venire bene anche nel suo profilo”; quando l’utilità giunge prima del suo aspetto.

Le panare capovolte sull’arco del manico, anche se vuote, sono per me, già ricolme di naturale empatia verso la terra e di nobile cultura popolare che non basterebbe un solo racconto per descriverli. Si riconosce la specie del giunco dal suo profumo, l’elasticità della sua fibra dal momento in cui si coglie, quando è ben lignificata, nel periodo invernale, perché il vimine deve strizzare senza spezzarsi, per essere tessuto, accavallato lungo i lati, sovrapposto o rivoltato tante volte. Spesso, dopo una scrupolosa stagionatura, si ripone il fascetto o il vimine da lavorare, in un bacile d’acqua, per alcuni giorni, per ravvivarlo e ammorbidirlo al punto giusto, prima dell’intreccio che raddoppia la sua compattezza.

la bordatura del canestro
la bordatura del canestro

I salentini lo chiamano panaru (paniere) o panareddrha, quando si tratta di un paniere per la merenda o ancora caniscia, per la raccolta del tabacco o della biancheria, tipico prodotto artigianale della zona di Castrì di Lecce o di Acquarica del Capo dove vi è ancora l’occasione di ritrovare il bravo intrecciatore. L’intreccio delle fibre vegetali si perde nella notte dei tempi, sin dal neolitico ai giorni nostri, il suo utilizzo è unanime, adatto per ogni circostanza: per raccogliere le drupe e i legumi, per lo stoccaggio del grano, per portare cibi caldi ai contadini tra campi o annodato a una fune per salire su il pane.

Lu panaru in particolare era lo strumento che accompagnava le donne “allu rispicu”, cioè alla spigolatura delle ultime olive cadute sottochioma o per la raccolta delle dolci “racioppe” piccoli racemi scordati sul ceppo dopo la vendemmia.

Legati allu panaru sono i cicli della stagione invernale che invita a zappare e potare in gennaio per avere un buon raccolto, “zzappa e puta te scinnaru se uei bbinchi lu panaru”, o che indicano la piovosità di febbraio come buon auspicio, “l’acqua te fibbraru te inche lu panaru”. Pittoreschi invece i detti che ricordano il sentimento non ricambiato e il tradimento continuato, “l’amore luntanu è comu l’acqua intra lu panaru” e “ puerti cchiu corne tie ca nu panaru te municeddrhe!

“Mìntere fiche allu panaru” (aggiungere fichi al paniere) “culare come nu panaru” (fare acqua da tutte le parti) o “perdere filippu e panaru” (perdere il paniere ed altro)  sono ancora modi di dire in grado di rievocare il quotidiano della civiltà salentina. Auguriamoci allora che il valore di questa espressione rurale sia condivisa perché una simbiosi così affettiva con le piante, non può che non essere recuperata e tramandata.

Quando l’ulivo è monumentale?

ph. http://www.frantoionline.it/

di Mimmo Ciccarese

 

La tutela degli alberi monumentali è legge dello Stato, è stata pubblicata con la G.U del 1 febbraio 2013, per la prima volta in Italia. I comuni dovranno censirli, documentarli e chi ne provoca l’abbattimento potrebbe essere sanzionato con ammende salate. Tali norme riguardano anche il verde urbano e prevedono l’istituzione della giornata degli alberi il 21 novembre. Già si contano in Italia circa 22.000 alberi notevoli tra cui 2.000 esemplari di grande interesse e 150 di eccezionale valore storico. È senza dubbio un passo di rilievo per lo sviluppo sostenibile delle città che comunque peccano ancora di riferimenti comuni sulla manutenzione degli spazi verdi urbani.  I sindaci, a cui si appella l’esplicita richiesta di consultare le giuste competenze di tecnici e appassionati, dovranno rendere noto alla fine del loro mandato il bilancio del verde. Tale regolamento convalida la bontà e la perseveranza  delle campagne ecologiche sostenute fino ad adesso, in favore del patrimonio arboreo e boschivo.

Con l’attuazione del protocollo di Kyoto e le politiche di riduzione delle emissioni, la prevenzione del dissesto idrogeologico e la protezione del suolo si giunge ad evidenziare la monumentalità come fattore vitale. Con il rito della giornata degli alberi si vogliono interessare le scuole di concerto ai ministeri dell’Istruzione e delle Politiche agricole per promuovere iniziative in sostegno all’ecosistema, nel rispetto di tutte le specie vegetali. Modelli di educazione civica e ambientale senza dubbio forti e ricchi di volontà di cambiare gli attuali atteggiamenti d’indifferenza o d’imperizia amministrativa in tema di verde.

Allora cosa cambierà con tale legge per gli ulivi millenari e soprattutto adesso le domande diventano più che pertinenti!

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Cosa definisce la “monumentalità”?

C’è da riflettere sul David o la Pietà di Michelangelo, sul Quarto Stato di Pellizza da Volpedo o l’Urlo di E.Munch e poi associarli ad uno solo dei nostri ulivi; per quelli che un mio amico salentino mi ripete sempre: “se riesci a vedere un solo profilo su queste piante è troppo poco”.

Per la legge regionale del 2007 sulla “Tutela e Valorizzazione del paesaggio degli Ulivi della Puglia” si definisce il carattere di monumentalità quando la pianta possiede un’età plurisecolare. L’art.2 della legge, lo deduce dalla dimensione del tronco, che deve avere un diametro uguale o superiore a un metro misurato all’altezza di un metro e trenta dal suolo; nel caso di alberi con tronco “frammentato” il diametro è quello complessivo ottenuto ricostruendo la forma teorica del tronco intero.

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Avete mai provato a misurare un albero d’olivo millenario?

La monumentalità non è solo una questione di assi cartesiani! Saremmo certamente in grado di ricavarne grandezze come altezza o circonferenza, quando un fusto è regolare o la sua impalcatura non deriva da un innesto su olivastro. Quasi sicuramente potrebbero sfuggire tante altri variabili utili all’intenzione di valutarne monumentalità o perfino l’età di un albero, come quelle relative alla velocità d’accrescimento, all’incidenza della sua chioma, alla sua biomassa o alla sua produzione di CO2.

Se la purezza di queste valutazioni si traduce con una misura del tronco inferiore alle aspettative, si dovrebbe valutare anche il “carattere”.  “Il carattere di monumentalità può attribuirsi agli uliveti che presentano una percentuale minima del 60 per cento di piante monumentali all’interno dell’unità colturale, individuata nella relativa particella catastale”. Va bene porre un parametro per questa stima, ma si sa, il territorio pugliese, in particolare quello più meridionale è molto frazionato ed ancora intorpidito da incertezze sociali ed economiche.

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Ma  cosa s’intende per “unità colturale”?

L’azienda olivicola media ha pochi ettari e, in genere, ha differenti unità produttive sparse in più comuni; il rilevamento satellitare in tempi recenti ha rivalutato questo concetto e i ritocchi su questa materia potrebbero essere in itinere. Per queste sollecitazioni dovremmo solo rendere merito a migliaia di piccoli conduttori di piccoli unità secolari, che con amorevole dedizione tra tante difficoltà hanno tutelato questo patrimonio conoscendo solo le leggi della natura. Purtroppo, a questo proposito, va accentuato il riferimento all’uso dei pesticidi sotto chioma degli ulivi per la preparazione delle piazzole di raccolta. Per questo motivo, un sistema di tracciabilità di un olio proveniente da olivi secolari ben venga, ma che sia anche salutare; non è certo piacevole pensare alla tutela di un olivo senza considerare anche il suo agro-ecosistema, compreso quello delle aree protette.

 

La legge sulla Tutela degli ulivi accetta la monumentalità quando accerta il “valore storico-antropologico, quando sono citati o rappresentati in documenti o in rappresentazioni iconiche – storiche”.

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Quanti epiteti d’eccezione conoscete nel vostro agro?

Fortunatamente, d’immagini, ritratti e testimonianze ce ne sono a bizzeffe da accreditare e conservare un intero territorio, basterebbe solo consultare le antiche mappe medioevali. A differenza di altre regioni, dove gli olivi secolari sono rari, identificati e appellati, la Puglia possiede un patrimonio così esteso che non riesce neanche a marcare un’identità per ognuno di essi e comunque individuarli o mapparli è già un atto di tutela che ogni cittadino potrebbe assumere. Un censimento è difficile ma non impossibile se ci si avvale dei moderni mezzi di rilevamento e di tracciabilità disponibili. In Puglia il valore storico-antropologico ed emotivo oltrepassa qualsiasi valutazione tecnica o teorica.

 

Cosa definisce una forma teorica nel regolamento di Tutela degli ulivi?

La cosiddetta  forma teorica, infatti, può essere: spiralata, alveolare, cavata, con portamento a bandiera o con presenza di formazioni mammellonari tanto che qualcuno riesce a riconoscerne una faccia, un’espressione, una danza o addirittura una caricatura. Forse sarebbe il caso di consultare  una commissione di esperti d’arte per valutare la struttura scultorea dell’albero e magari anche di definire il suo limite spaziale ed estetico.  Per la “Tutela degli ulivi” una pianta è monumentale quando trovasi (localizzata) adiacente a “beni d’interesse storico-artistico, architettonico, archeologico riconosciuti ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137)”. Una regione come il Salento, con centinaia di migliaia di alberi secolari di respiro messapico dovrebbe essere rivalutata o meglio dettagliata. In questa terra non c’è uliveto secolare senza un menhir, un dolmen, un ipogeo o un’antica masseria.

L’adiacenza non specifica la distanza reale, anzi, in alcuni casi diventa paradossalmente un infelice anomalia per la stessa pianta. Basterebbe, quindi, riconoscere meglio il valore di questi ultimi per proteggere un solo ulivo e di chi vive della loro presenza.

 

Allora non sarebbe il caso di riassumere le nostre riflessioni su questo argomento?

L’ulivo secolare dovrebbe essere vissuto come un richiamo per chiunque voglia relazionare il proprio status creativo con il territorio. L’osservatore percepisce questa dimensione ecologica e naturale con lo stesso stupore con cui ammira un opera d’arte, s’incuriosisce e quota con interesse; quasi sempre ritorna ai piedi del suo albero più caro in segno di devozione e ringraziamento. Si dovrebbe dire monumentale anche quando si riconosce il suo valore simbolico ed ecologico; questa definizione avrebbe una considerevole valenza anche per i gruppi olivicoli più appassionati, quelli che per intenderci, sarebbero eticamente i veri custodi degli alberi secolari con cui adesso ogni comune dovrebbe relazionare. L’ulivo è stato da sempre portavoce di pace per i popoli del mediterraneo ed indubbiamente emblema di grazia e sacralità da millenni. Secondo il mito fu proprio Atena a ingentilire l’oleastro per farlo diventare simbolo di castità. Per i romani era il simbolo degli uomini illustri, per gli ebrei era simbolo di giustizia e sapienza, mentre per i cristiani è figura di rigenerazione e di riconciliazione della terra con il cielo tanto che il suo olio è ancora oggi usato nelle celebrazioni liturgiche.

 

L’Italia con l’art 9 della costituzione Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Lo Stato italiano demanda alle Regioni la tutela e la selezione delle aree protette, tra cui i monumenti naturali. La Legge quadro 394 del 1991, chiamata anche legge Moschini, al comma 8 dell’art. 2 recita: «la classificazione e l’istituzione dei parchi e delle riserve naturali d’interesse generale e locale sono compiute dalle Regioni». Ai fini della presente legge costituiscono il patrimonio naturale, le formazioni fisiche, geologiche, geomorfologiche e biologiche, o gruppi di esse, che hanno rilevante valore naturalistico e ambientale. I territori nei quali siano presenti i valori di cui al comma 2, specie se vulnerabili, sono sottoposti ad uno speciale regime di tutela e di gestione, allo scopo di perseguire, in particolare, le seguenti finalità: a) “conservazione di specie animali o vegetali, di associazioni vegetali o forestali, di singolarità geologiche, di formazioni paleontologiche, di comunità biologiche, di biotopi, di valori scenici e panoramici, di processi naturali, di equilibri idraulici e idrogeologici, di equilibri ecologici”. b) applicazione di metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare un’integrazione tra uomo e ambiente naturale, anche mediante la salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici e architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali e tradizionali; c) promozione di attività di educazione, di formazione e di ricerca scientifica, anche interdisciplinare, nonché di attività ricreative compatibili; d) difesa e ricostituzione degli equilibri idraulici e idrogeologici. I territori sottoposti al regime di tutela e di gestione di cui al comma 3 costituiscono le aree naturali protette. In dette aree possono essere promosse la valorizzazione e la sperimentazione di attività produttive compatibili.

Alla luce di tali regolamenti e dell’insieme di valori sarebbe importante considerare la regione Puglia come un enorme Parco degli Ulivi secolari, magari accompagnato da un valido disciplinare di produzione, in cui gli enti locali dovrebbero acquisire le prerogative e la volontà di farne parte integrante, come una sorta di debito etico nei confronti di una civiltà rurale ancora fondata sull’atavica passione per il suo patrimonio estremamente vulnerabile. Evidentemente c’è ancora molto da censire: si spera che questo impegno abbia la sua utilità.

 

Novità in Puglia per chi opera nell’agriturismo e nelle masserie didattiche

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di Mimmo Ciccarese

 

Il giorno del solstizio estivo la Regione Puglia propone la rassegna “ Masseria sotto le stelle” come felice occasione per far conoscere ai visitatori alcune delle fattorie che vi aderiscono.

È una giornata in campagna, dove ogni azienda apre a chi ha il desiderio di scorrere una giornata tra asini, greggi e prodotti tipici, vivere la coltivazione, condividere i laboratori didattici e culturali.

La Puglia promuove diligentemente il suo territorio, riportando sulle tavole imbandite intorno alle aie e sotto le balaustre delle masserie fortificate un modello di consumo e di coltivazione ecocompatibile, un esempio da dimostrare come si svolgono i ritmi rurali.

Un lavoro iniziato alcuni anni fa con le biofattorie didattiche, appreso da altre regioni, amplificato e reso accessibile successivamente con un iter selettivo in grado di garantire competenze e trasparenza.

Tempestivamente qualche giorno prima la Regione Puglia approva in bando con il Piano di Svilupo Rurale 2007/2013 la possibilità per gli imprenditori agricoli e non che intendano aprire un’attività come azienda agrituristica o masseria didattica di specializzarsi con due attività formative che riguardano quelle di” Operatore agrituristico” e di “Operatore di masserie didattiche”.

 

Si tratta di offerte della durata di 90 ore che prevedono un aiuto attraverso un voucher formativo a favore di ciascun destinatario e a copertura del 100% dei costi.

La scadenza del bando è fissata alla data del 10 luglio 2014.

 

Lettera per gli ulivi secolari di Puglia

La lettera che segue, che volentieri rieditiamo, è stata scritta da Mimmo Ciccarese ed inviata lo scorso anno all’Assessore regionale Barbanente.

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È un momento davvero delicato ciò che vivono i pugliesi adesso; si creano movimenti per la protezione dell’ambiente in ogni angolo della loro regione, dalla Capitanata di Foggia al Capo di Leuca. Assistiamo a storici cambiamenti, ad inconsuete rapine di spazi naturali, è sotto gli occhi di tutti: è un popolo turbato e scosso dalla necessità di tutelare l’incolumità di un ecosistema minacciato, sempre più stretto dalla morsa antropica.

È la cittadinanza che ravviva il concetto di paesaggio e si schiera con smisurata passione con la ricchezza è l’identità culturale del suo habitat. Si risvegliano piccoli movimenti, quelli del bene comune, coesi, capaci di interagire pacificamente con le istituzioni e comunicare al governo. Lo stesso popolo che resiste senza cedere, onesto e vigile, con la necessità di comprendere o denunciare gli abusi con la stessa decisione di chi attiva da sempre sogni e speranze.

Con la stessa pacifica “rivoluzione gentile”, i pugliesi si sentono più forti, coscienti e liberi di scegliere; è inutile smentirlo: il cambiamento c’è e si muove.

Un cambiamento possibile per quella gente, ad esempio, che rimuove dai balconi della sua casa la produzione di ceneri sottili o per quella che condivide l’ansia di altri ulivi espiantati, di migliaia di agricoltori irritati, che reclamano supporto e assistenza quando sono  costretti a declassare la produzione su scale economiche terribilmente incerte.

Non ci sono stendardi ad suffragare un territorio, la gente vale quanto il desiderio di disporsi per tutelare il patrimonio ulivicolo e il suo valore, più alto della grande muraglia cinese e certamente molto più stupefacente della Pietà di Michelangelo  o l’urlo di Munch.

Piante impossibili da contare, se non dalle loro stesse moltitudini congiunte da una miriadi di associazioni di tutela, che le descrivono e le rendono fondamentali.

La monumentalità nel caso dell’ulivo è molto di più che una questione di assi cartesiani, non basta misurarlo con un semplice formula empirica, perché tra queste piante potrebbero esserci molti più parametri di quanto si possa pensare.

L’olivicoltura vive gravi complessità e spesso le conferenze-vetrina sull’argomento, non si possono intendere, specie se inorridiscono il diritto di un lavoro, di una collettività dimenticata, spesso costretta ad emigrare o a lasciare la terra. Già, chi ha coraggio di parlare dell’abbandono agricolo? Quello che succede può essere documentato in ogni momento, piccole civiltà contadine che in silenzio affrontano il loro dramma quotidiano e non si può che essere solidali con loro, in particolar modo se si proviene da storie di vecchie lotte contadine come quelle dell’Arneo.

Questi sono i veri dibattiti che vale la pena condividere e non più gli accorati comizio di piazze di paese riempite per l’occasione dal solito carrozzone politico.

Ogni albero borbotta come la voce del suo custode, ma i movimenti sbocciano sempre dalle periferie, dai quartieri dimenticati, dagli angoli delle masserie, nei discorsi tra i frantoi, tra i filari degli ulivi. Testimonianze a bizzeffe: agricolture avvelenate, alberi bruciati o decapitati, discariche e sconforto, nonostante l’inesorabile impegno globale per supportare l’ecosistema olivicolo.

Ogni terribile abbattimento è espressione di una decadenza, è un attimo di solitudine nel silenzio delle cavità dei loro tronchi spesso seviziati da potature selvagge, fatte ad hoc, nei limiti della buona pratica agricola, per far decadere un antichissimo equilibrio: l’opposto di quello che i nostri progenitori facevano innestando il gentile sul selvatico.

Si assiste ancora a tagli irrazionali, ancora oggi non è chiara ad esempio, la differenza, tra ciò che definisce una “ capitozzatura”, “taglio della chioma” o “spalcatura” in un capitolato di un appalto di potatura; definizioni opinabili che attendono il parere di tecnici e operai specializzati, quasi mai chiamati a valutare per conformare disciplinari, termini e razionalità degli interventi.

In questo campo, vi è carenza di riferimenti comuni, già vigenti da tempo in altri nazioni che con opportune politiche del verde sono in grado di rendicontare addirittura il valore delle emissioni della CO2 e di quello ambientale, spesso trascurati dalle comunità pugliesi.

Il valore degli ulivi restituisce dignità alle prossime generazioni; ciò che sta avvenendo è inaccettabile; volgarità e l’arroganza di certe scelte consumano i territori.

È opportuno, quindi, creare condizioni fondamentali che traccino i percorsi di un ulivo espiantato, per evitare possibili fenomeni d’illegalità diffusa, tramite un adeguata sorveglianza, che coinvolga la passione della gente comune e, perché no, l’interesse delle associazioni di categoria presenti in Puglia, affinché la sua popolazione sia risarcita da un possibile oltraggio ambientale.

Mappare e preservare gli alberi sul territorio di competenza è di grande utilità per conoscere, ad esempio, le misure da adottare per contenere le cause del dissesto idrogeologico o della desertificazione, creare percorsi eco turistici o favorire i prodotti tipici e i consorzi di olio extravergine prodotto da ulivi secolari ancora meglio sostenere le idee che tutelano il paesaggio. Oggi schierarsi dalla parte degli ulivi, dei loro portavoce, ribadisce il coraggio e la replica; chi è indifferente a queste questioni non può dire di amare la sua terra né le sue meravigliose creature.

 

 

Mimmo Ciccarese

Tecnico agroambientale

Una riflessione sull’abbattimento degli alberi

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di Mimmo Ciccarese

 

Perché nei paesi del Salento l’abbattimento di un’alberatura non passa inosservata? Ci sarà un elenco per ogni realtà amministrativa che restituisca dati esatti circa la quantità del verde urbano per abitante?

La legge n 10 del 14 gennaio del 2013, già in vigore, obbliga i comuni con più di 15.000 abitanti a piantare un albero per ogni nascita o per ogni adozione registrata all’anagrafe. Quali responsabili del verde urbano hanno letto questo recente regolamento e quante amministrazioni hanno analizzato gli studi ISTAT su tale argomento?

Dal duemilaundici, il verde urbano rappresenta il 2,7% del territorio dei comuni capoluoghi di provincia, anche se quasi il 15% della loro superficie è incluso nelle cosiddette aree naturali protette. La superficie agricola utilizzata corrisponde nella media del 45,5%. Mediamente, un abitante italiano ha 30,3 mq di verde urbano e dall’osservazione delle tavole si evince la classifica.

In quanto a disponibilità di verde per abitante, la nostra bellissima e dotta Lecce, purtroppo, è una delle ultime, con i suoi miseri 5,6 mq rispetto a Matera, la prima in Italia, con 978,2 mq. Per rendere meglio l’idea, in proporzione, quest’ultima città ha verde urbano pari a circa due campi regolari da tennis, mentre il capoluogo salentino dovrebbe appagarsi con circa la metà di corridoio di mezzo campo (1,4 m x 5,5 m), appena la superficie per piantare un filare di basilico. Se si considera che un passo d’uomo nell’unità di misura romana corrisponda a 75 centimetri, circa due piedi, è il caso di dire davvero che si esce per fare “quattro passi” nel verde.

Esaminando la citata legge, si potrebbe avere l’opportunità di rivalutare concretamente il patrimonio di piante nell’ambiente urbano quando negli articoli si descrive quell’obbligatorietà di pubblicare i bilanci arborei che alla fine di ogni mandato l’amministratore deve dettagliare e firmare.

La demolizione di un’alberatura a volte programmata per una giustificata causa o perché irrazionale e inaspettata, rende sempre un briciolo di amarezza e rabbia nell’animo dei residenti non solo per un motivo ambientale ma anche per difendere una radice storica o etica per cui ogni rovina arrecata deve essere qualificata e quantificata anche con queste valutazioni.

Il cosidetto Sprawl urbano o dispersione urbana, indica quell’avanzare rapido e disordinato di una città che si manifesta tra le case di periferia oppure fra quei luoghi rurali prossimi ai paesi e destinati a una decadenza certificata.

Nel tipico segno dello Sprawl urbano si evidenzia sempre una puntuale e sistematica riduzione della densità abitativa e degli spazi verdi, un tempestivo consumo del suolo, un’assenza e una distanza dei servizi pubblici più scontati e quindi di conseguenza un’insufficienza di mobilità alternative, come le piste ciclabili.

In molti casi, questo fenomeno potrebbe essere connesso a quell’arte del governo di non essere in grado o di non gradire lo sviluppo civile di un quartiere anche con il fermo diniego di progettare parchi e giardini.

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Si evidenzia, con maggiore frequenza, la raffinata pratica di capitozzare o diminuire in qualche modo quella libera facoltà della pianta di svolgere la fotosintesi, creandogli ambienti sfavorevoli per destinarla a disseccamento certo, ridurne la sua longevità o trasfigurandola in elementi spogli, brutti e inutili.

Le città, in questo modo, ci appaiono sottratte di altri spazi verdi, con un modello che coincide a qualcosa di non ben definito, illogico e indescrivibile, forse frutto di una dilagante biofobia o di chissà che altro.

Nel lento fenomeno della dispersione urbana, si sbiadisce il confine tra città e campagna, lo spazio è comunemente destinato a nuovi parcheggi, a un uso funzionale delle autovetture che ci consentono di raggiungere con semplicità i centri di lavoro, quelli commerciali e ludici.

Il risultato è che l’urbanizzazione si accresce in misura molto superiore rispetto al concreto aumento della cittadinanza; è una scansione accelerata che tende a far insediare spesso serie di quartieri privi di piante, colori e di altri elementi che animano una città vivibile.

Occorre perciò un nuovo approccio, un’ecologia urbana che non sia solo lo sporadico ideale del solito ambientalista ma un’esigenza dovuta, un vivace monito di quelle comunità coraggiose che comprendono la quotidiana importanza degli alberi o che sono in grado di segnalare con nerbo gli abusi fatti sugli alberi.

 

Lettera ecologica alla Befana

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di Mimmo Ciccarese

 

Cara Befana, come piccini ansiosi, non dovremmo dimenticare di scriverti la nostra umile letterina, senza dettature, con pura libertà e coscienza civile. Sappiamo che la tua dolcezza accoglie di solito le nostre richieste. È stato un anno passato senza un qualcosa, un periodo di crisi ecologica da dare alle fiamme, un avanzo di carbone che non potremmo più gradire.

Quando da bambino scrivevo la lista dei desideri, ero attento a non farla troppo lunga, imparavo a tratteggiare i paragrafi, gli elenchi puntati e numerati dei doni più ambiti, descrivevo forme, colori e qualche volta perfino i modi di consegna.

Ripassavo a grassetto per assicurarmi che il ricevente fosse davvero esatto perché la letterina, insieme al calzerotto vuoto da riempire fosse ben visibile.

Qualche volta gli illuminavo il camino con una fioca vampa di candela e poi le porgevo le mie scuse per la mia condizione, per avergli mancato di rispetto. La sua notte era insonne, mi turbava il pensiero di quello che avevo combinato durante l’anno trascorso, mi aspettavo sempre un pizzico di polvere di carbone. Era una notte divisa tra sospetto e devozione, passata a spiare e origliare nella sua quiete che perfino lo scricchiolio del legno o lo sgocciolio del rubinetto mi sembrava una presenza.

La vegliarda assonnata giungeva sempre taciturna e puntualmente sbagliava o scambiava il regalo ma quello che importava era di esser venuta perché il giorno dopo dovevo descrivere l’omaggio ai miei amici.

Nell’immaginario odierno aspettiamo la Befana come una vecchietta attardata, lucida e razionale, un po’fata e un po’strega, certamente magica, ripresa da un rito pagano che arretra l’origine tra le sue antiche divinità.

Era un mito furente tra i solstizi del gelo e i mezzi toni lunari con un rituale propiziatorio consacrato a Diana, dea della fertilità, alla guida di un esercito di amazzoni sulle semine autunnali e sul loro raccolto.

Con la Befana, si riprende il rispetto verso i cicli delle stagioni, quel giorno di rinascita in cui si esorcizza con il fuoco la privazione materiale e i possibili insuccessi.

Le missive per Lei saranno lo sguardo di chi si vedrà sottrarre altro paesaggio in favore di decisioni errate dettate dalla biofobia di gente indegna di essere ricambiata.

Il giorno dell’Epifania è tutt’altro che astratto, speriamo che giunga nonostante tutto, tra i consumi esagerati dell’essere urbano e l’ineffabile decadenza sociale. La vegliarda più che assonnata e indifferente, a cavallo del suo potere, potrebbe raffigurare l’espressione di un risveglio morale oltre che una sana riscoperta della natura.

Una nota sul mirto

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di Mimmo Ciccarese

 

Il mito di Myrsine si perde nei secoli del mediterraneo e rende il nome alla pianta del Mirto comune, così diffusa tra le macchie salentine. La pianta si associa alle virtù di una fanciulla imbattibile nelle competizioni ginniche dell’antica Attica uccisa a tradimento dall’imboscata di un uomo invidioso della sua vitalità.

In questi casi a rendere giustizia tra le piante c’è sempre una dea che si commuove e tramuta eroi e martiri in arbusti, foglie e fiori odorosi.

Il mirto di Mirsyne è considerato il simbolo di molte forme dell’amore, della bellezza e della gioia; era sacro perfino alla sensuale Afrodite, madre di Enea, che si rifugiò tra i suoi arbusti per sfuggire ai satiri che la rincorrevano.

I fiori propiziatori erano usati per decorare le case nuziali e il bouquet della sposa, i rametti intrecciati simboli di vittoria diplomatica di una battaglia e per premiare i poeti e letterati nell’antica Roma.

La pianta ricca di tannini è stata utilizzata dalle concerie del cuoio, della stoffa o dall’industria della cosmesi, della fitoterapia, i suoi fiori si raccolgono in piena estate mentre le sue bacche in novembre. Le foglie insieme all’alloro sono impiegate per insaporire le olive in salamoia e i piccoli frutti per fare ottimi liquori. Dal mirto si ricavano oli, decotti, estratti, che già i romani utilizzavano per proteggersi da malattie come quelle delle vie respiratorie. Il mirtolo olio etereo ricavato dalla distillazione del mirto, un tempo impiegato nella cura della malaria, è usato come antisettico, sedativo o balsamico.

Che cosa succede tra le cantine di Terra d’Otranto

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di Mimmo Ciccarese

 

I tralci alleggeriti dalla vendemmia e dalle foglie, iniziano a sbadigliare e appisolare i loro tessuti in un dolce vortice che la biologia definisce come quiescenza, una sorta di letargo invernale in cui la pianta rallenta le sue attività. Una dormienza che ogni pianta pianifica durante il suo sviluppo affinché abbia il giusto tempo di accumulare le riserve nutritive per il risveglio primaverile e per difendersi dai morsi delle gelate.

Tutt’altro che dormiente invece l’attività nelle cantine, il mosto ha quasi esaurito il suo fruttosio che altri organismi stanno lentamente trasformando in alcool, inizia a virare il suo carattere, aumentare il bouquet dei suoi profumi, assorbire dai barrique nuovi sentori.

Uno stato di calma per niente apparente, quindi, è quello che si descrive con i fermenti del dopo vendemmia, un gran movimento che porterà ad assestare le migliaia di essenze sulle nostre tavole.

Adesso aspettiamo trepidamente i rosati del negro amaro e la corposità dei primitivi che promettono bene; l’evoluzione del miglior vino salentino ora è in mano all’esperienza di chi lo custodisce.

Si percepisce il buon umore tra i viticoltori attraverso l’intensità degli aromi e del filtro di colori che decantano nell’alveo dei loro calici, dal travaso di note floreali che inizia ad abitare le cantine più rinomate che si spande tra i paesi del DOC Salice e Manduria; un effluvio di milioni di ettolitri pronti per la consueta festa del novello.

Fa piacere sentire che il Negroamaro e il Primitivo siano vini ricercati da nuovi mercati, davvero si possono ritrovare stupori di etichette, frutto del buon diletto e dell’operosità della viticoltura salentina.

Un’opera di rinnovamento iniziata grazie all’audacia di pochi tecnici dagli anni settanta dai tempi in cui il robusto Negro amaro era considerato solo come vino da taglio per i vini del settentrione; un processo evolutivo che ancora oggi continua a sorprendere che rende qualità e calore all’assaggio; le cantine che rincorro, adesso, sono liete di conoscervi.

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Riparte la vendemmia nel Salento: la storia continua

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testo e foto di Mimmo Ciccarese

 

Scampato il timore di un possibile temporale nel Salento alla fine del mese di agosto che avrebbe potuto compromettere la produzione, riparte il rito della vendemmia. Già nelle rinomate zone a denominazione d’origine controllata si respira la prima aria di raccolta dell’uva e con essa le ansietà proprie di questo periodo. Chi raccoglie in modo tradizionale e chi in modo meccanico in un felice divario che equipara la consegna di un buon prodotto presso cantine private e cooperative sociali.

Sembra che anche quest’anno i viticoltori abbiano raggiunto in campo un’appagante gradazione zuccherina, grazie all’ultimo solleone che ha fatto schizzare le caratteristiche qualitative al top.

Come il mostimetro misura la buona percentuale di zuccheri nell’uva e quindi rende l’idea del futuro maggior grado alcolometrico, così i viticoltori valutano tra di loro la soddisfazione tra le piazze di paesi importanti per la produzione di vino DOC Salice Salentino.

Riprende il conto alla rovescia prima della consegna delle uve o della vinificazione in proprio. Si contano i grappoli per ogni ceppo, si moltiplicano e si dividono i risultati possibili, si formulano ipotesi produttive come quando si pianificano le scelte più importanti senza perdere alcun dettaglio come si fa da secoli: scegliere la forza lavoro, contrattare il prodotto e vinificarlo.

Il tempo di settembre comincia così nell’area salentina settentrionale, con i motocarri scoppiettanti carichi d’uva, scorazzare le stradine del paese tra pigiadiraspatrici e tini capovolti a scolare per bene tutto il mosto della pregevole produzione.

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Si può ancora sentire in alcuni quartieri l’ipnotico tintinnare delle più vecchie presse idrauliche al ritmo di movimenti lenti e appassionati come intese tra produttori e l’odore del negroamaro; potrebbe essere l’era dell’enoturismo che già qualche cantina propone e che dovrebbe essere riesaminato dalle istituzioni.

La vendemmia è una sinfonia tra gli operai: chi taglia l’uva (fimmine), imbacuccate per proteggersi dalla rugiada mattutina e chi la versa nei tini (ndiacacacanisce), chi la trasporta sul dorso (cufiniciaturu), uomo corporato con il dono congiunto della forza e della resistenza e chi la conduce a macinare (lu camiu) presso lo stabilimento (parmientu), pilota con il dono della solerzia e l’esperienza della “pesata”.

Eppoi gli strumenti: “sicchiu e forbicetta”, rigorosamente personali, il “muscale”, fagotto ripieno di stracci per ammortizzare il peso dei cufiniciaturi, le “tinelle”, contrassegnate dalle iniziali del proprietario che non sono mai esatte ai numeri produttivi previsti e infine l’immancabile “guantiera”, vassoio di caldi “pasticciotti leccesi”, delicata sorpresa del datore di lavoro per i lavoratori. Svegliarsi di buona ora, con le prime percosse scherzose dei più allegri operai che destano il sorriso dei più assonnati e il cufiniciaturu che distribuisce con precisione svizzera l’equidistanza dei contenitori più grandi sulle file del vigneto.

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S’inaugura così la raccolta del primo ceppo con un’atmosfera bucolica e si finisce tra le chiacchiere e i commenti di paese che aiutano a sveltire e raggirare la fatica. Poi giunge il tempo della sosta-siesta che una volta si definiva “allu utare”, cioè al voltare della capezzagna del filare dove trovavi sempre un muretto a secco, un’ombra di gelso, di noce o di fico accanto ad una cisterna d’acqua utile per sciacquare le mani prima del meritato spuntino o per concedersi una “bevuta” dallo “mbile” tipico otre salentino di terracotta.

Il mezzogiorno decreta così ancora umili scampoli di vendemmia, i grappoli migliori lasciati come uva da tavola come scorta autunnale o come dono di buon augurio per trasformare la pregiata produzione di quest’anno in ottimo vino; ma questa è un’altra storia.

Lettera per gli ulivi secolari di Puglia

La lettera che segue è stata scritta da Mimmo Ciccarese ed inviata mercoledì scorso all’Assessore regionale Barbanente.

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È un momento davvero delicato ciò che vivono i pugliesi adesso; si creano movimenti per la protezione dell’ambiente in ogni angolo della loro regione, dalla Capitanata di Foggia al Capo di Leuca. Assistiamo a storici cambiamenti, ad inconsuete rapine di spazi naturali, è sotto gli occhi di tutti: è un popolo turbato e scosso dalla necessità di tutelare l’incolumità di un ecosistema minacciato, sempre più stretto dalla morsa antropica.

È la cittadinanza che ravviva il concetto di paesaggio e si schiera con smisurata passione con la ricchezza è l’identità culturale del suo habitat. Si risvegliano piccoli movimenti, quelli del bene comune, coesi, capaci di interagire pacificamente con le istituzioni e comunicare al governo. Lo stesso popolo che resiste senza cedere, onesto e vigile, con la necessità di comprendere o denunciare gli abusi con la stessa decisione di chi attiva da sempre sogni e speranze.

Con la stessa pacifica “rivoluzione gentile”, i pugliesi si sentono più forti, coscienti e liberi di scegliere; è inutile smentirlo: il cambiamento c’è e si muove.

Un cambiamento possibile per quella gente, ad esempio, che rimuove dai balconi della sua casa la produzione di ceneri sottili o per quella che condivide l’ansia di altri ulivi espiantati, di migliaia di agricoltori irritati, che reclamano supporto e assistenza quando sono  costretti a declassare la produzione su scale economiche terribilmente incerte.

Non ci sono stendardi ad suffragare un territorio, la gente vale quanto il desiderio di disporsi per tutelare il patrimonio ulivicolo e il suo valore, più alto della grande muraglia cinese e certamente molto più stupefacente della Pietà di Michelangelo  o l’urlo di Munch.

Piante impossibili da contare, se non dalle loro stesse moltitudini congiunte da una miriadi di associazioni di tutela, che le descrivono e le rendono fondamentali.

La monumentalità nel caso dell’ulivo è molto di più che una questione di assi cartesiani, non basta misurarlo con un semplice formula empirica, perché tra queste piante potrebbero esserci molti più parametri di quanto si possa pensare.

L’olivicoltura vive gravi complessità e spesso le conferenze-vetrina sull’argomento, non si possono intendere, specie se inorridiscono il diritto di un lavoro, di una collettività dimenticata, spesso costretta ad emigrare o a lasciare la terra. Già, chi ha coraggio di parlare dell’abbandono agricolo? Quello che succede può essere documentato in ogni momento, piccole civiltà contadine che in silenzio affrontano il loro dramma quotidiano e non si può che essere solidali con loro, in particolar modo se si proviene da storie di vecchie lotte contadine come quelle dell’Arneo.

Questi sono i veri dibattiti che vale la pena condividere e non più gli accorati comizio di piazze di paese riempite per l’occasione dal solito carrozzone politico.

Ogni albero borbotta come la voce del suo custode, ma i movimenti sbocciano sempre dalle periferie, dai quartieri dimenticati, dagli angoli delle masserie, nei discorsi tra i frantoi, tra i filari degli ulivi. Testimonianze a bizzeffe: agricolture avvelenate, alberi bruciati o decapitati, discariche e sconforto, nonostante l’inesorabile impegno globale per supportare l’ecosistema olivicolo.

Ogni terribile abbattimento è espressione di una decadenza, è un attimo di solitudine nel silenzio delle cavità dei loro tronchi spesso seviziati da potature selvagge, fatte ad hoc, nei limiti della buona pratica agricola, per far decadere un antichissimo equilibrio: l’opposto di quello che i nostri progenitori facevano innestando il gentile sul selvatico.

Si assiste ancora a tagli irrazionali, ancora oggi non è chiara ad esempio, la differenza, tra ciò che definisce una “ capitozzatura”, “taglio della chioma” o “spalcatura” in un capitolato di un appalto di potatura; definizioni opinabili che attendono il parere di tecnici e operai specializzati, quasi mai chiamati a valutare per conformare disciplinari, termini e razionalità degli interventi.

In questo campo, vi è carenza di riferimenti comuni, già vigenti da tempo in altri nazioni che con opportune politiche del verde sono in grado di rendicontare addirittura il valore delle emissioni della CO2 e di quello ambientale, spesso trascurati dalle comunità pugliesi.

Il valore degli ulivi restituisce dignità alle prossime generazioni; ciò che sta avvenendo è inaccettabile; volgarità e l’arroganza di certe scelte consumano i territori.

È opportuno, quindi, creare condizioni fondamentali che traccino i percorsi di un ulivo espiantato, per evitare possibili fenomeni d’illegalità diffusa, tramite un adeguata sorveglianza, che coinvolga la passione della gente comune e, perché no, l’interesse delle associazioni di categoria presenti in Puglia, affinché la sua popolazione sia risarcita da un possibile oltraggio ambientale.

Mappare e preservare gli alberi sul territorio di competenza è di grande utilità per conoscere, ad esempio, le misure da adottare per contenere le cause del dissesto idrogeologico o della desertificazione, creare percorsi eco turistici o favorire i prodotti tipici e i consorzi di olio extravergine prodotto da ulivi secolari ancora meglio sostenere le idee che tutelano il paesaggio. Oggi schierarsi dalla parte degli ulivi, dei loro portavoce, ribadisce il coraggio e la replica; chi è indifferente a queste questioni non può dire di amare la sua terra né le sue meravigliose creature.

 

 

Mimmo Ciccarese

Tecnico agroambientale

Gli ulivi pugliesi invocano l’arte!

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 di Mimmo Ciccarese

Paesaggio

Il campo
di ulivi
si apre e si chiude
come un ventaglio.
Sopra l’uliveto
c’è un cielo inabissato
e una pioggia scura
di stelle fredde
Tremano giunco e penombra
sulla riva del fiume.
Si arriccia il vento grigio.
Gli ulivi
sono carichi
di grida.
Uno stormo
di uccelli prigionieri,
che muovono le loro lunghissime
code nell’ombra.

Federico Garcia Lorca

 

Scandiscono le canzoni popolari intorno alle stagioni;  densità di ritratti, milioni di ulivi e urli d’angoscia quando si abbattono senza alcuna ragione e rispetto.

 

La canzone dell’ulivo

“Tu, placido, pallido ulivo,
non dare a noi nulla; ma resta!
ma cresci, sicuro e tardivo,
nel tempo che tace!
ma nutri il lumino soletto
dell’ultima pace!”
G.Pascoli 

 

Gli ulivi sono tessuti di poesia, esplosioni continue di gemme,  che incidono gli animi intorno ai loro corpi ripiegati, agrodolci espressioni di popoli elusi.

Tra i due capi della regione più lunga d’Italia gli ulivi sorvegliano come eserciti silenti, avamposti e ripari di perdute crociate e di duri lavori, in attesa di nuovi rinforzi.

Il richiamo degli ulivi attraverso i varchi della poesia, descritti dai più grandi artisti toccano la coscienza; se ne erano già avveduti poeti come Dante, Pascoli, Foscolo, Hikmet e grandi pittori come V. Van Ghogh. Ulivi, come pagine di saperi, dunque, essenze mordaci affioranti tra pietre fitte e frantoi medievali, capolavori che varcano da millenni la soglia dell’arte che non rimane indifferente.

Arte che consola la marcia di uomini, appassionati e sensibili, locomotiva e fiumana in difesa di un patrimonio inestimabile. Questo accade in Puglia, dove da semplici dialoghi di periferia, si diffondono i comitati e si invocano gli artisti a loro sostegno.

Il Salento eletto territorio dell’anno 2013, purchè sia rispettata la sua biodiversità

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di Mimmo Ciccarese

 

Dobbiamo riprenderci il diritto di conservare i semi e la biodiversità. Il diritto al nutrimento e al cibo sano. Il diritto di proteggere la terra e le sue diverse specie”.

                                       Vandana Shiva

 

Queste parole condividono stadi evolutivi favorevoli per abbozzare nuovi pensieri o per tutelare la variabilità biologica di geni, specie, habitat ed ecosistemi, cioè di quello che, in una sola voce, riepiloga il concetto di biodiversità. La biodiversità è alimento vitale per un territorio, specialmente quando la sua ripresa naturale esplode di varietà e stimola la volontà di difenderla.

Attualmente si celebra il cosiddetto“restyling ambientale” per interessi economici o spesso si pianifica in ambito urbano e agricolo  senza le opportune e dovute competenze, che eviterebbero di far commettere danni irreversibili e quindi perdita di paesaggio.

Ristrutturare l’ambiente, invece, è un proposito serio che potrebbe davvero interessare, ad esempio, l’introduzione di ecotipi locali di specie autoctone in via d’estinzione o di quelle che da sempre hanno assicurato sussistenza proprio in quelle aree che l’apparato scientifico classifica come “sensibili”.

Anche il Salento è un luogo abbastanza sensibile e la sua vulnerabilità dipende proprio dall’incessante sottrazione di spazi naturali e minacciati dal quel fenomeno definito da molti come un eccesso di “biofobia”, che non ammette alcuna forma di biodiversità.

La “resilienza”, termine che intende la capacità delle specie di reagire a eventi dannosi estremi, insieme a quello di “desertificazione”, ricorre sempre di più nei dialoghi che interessano le interazioni naturali.

Nel Salento se ne parla, eccome, tra le aree protette e i parchi naturali, tra quelle degradate, erose, abbandonate o, dove gli alberi sono più a rischio di espianto per far posto a quegli spazi artificiali che levano respiro e orizzonte in poco tempo.

fondazione terra d'otranto

Il paesaggio Salentino con tutto il suo splendore, dona piacere ed entusiasmo ma ogni tanto si spezzetta, appare discontinuo o disarmonico; ti accorgi che qualcosa non va e lo intuisci subito quando ti soffermi su qualche orrore dissonante, concesso con faciloneria o forse addirittura senza regole.

Qui è semplice rimuovere in un istante l’immagine del disinteresse, com’è altrettanto possibile coccolare il ricordo di un seducente percorso tra ulivi secolari, con tutte le creature che lo abitano; avverti solo dopo l’incredibile mutevolezza che tratteggia questa terra e non puoi fare a meno di amarla.

Dai risultati di un’indagine popolare, il Salento è stato eletto territorio dell’anno, amato da più del 10% degli italiani; dato che supera addirittura le Cinque terre, la costiera Amalfitana e il Chianti per cui, adesso, non si può più dire che esso sia solo una spazio di confine “te sule, te mare e te ientu”, ma una terra di primo piano. Con questo bel riconoscimento, a maggior ragione, per rafforzare e condividere il pensiero di Vandana Shiva sulla biodiversità, sarebbe ora auspicabile che sia rispettata l’attitudine ecologica del Salento, senza la quale esso perderebbe in identità.

Terra d’Otranto e Terra di Bari: due Dop a confronto

di Mimmo Ciccarese

 

OlioSalvo che non si avesse il titolo di assaggiatore ufficiale, riconoscere al palato senza tecniche di conoscenza di base la provenienza di un olio d’oliva non è per nulla semplice.

Percepire pregi e difetti, e aver poi la facoltà di descriverne differenze o sensazioni, è un dono di pochi; è quasi come avere un buon orecchio musicale. L’armonia del gusto di un olio extravergine d’oliva, si potrebbe descrivere quando si riesce a risolvere con decisione l’amaro, il dolce, il piccante o rilevare tutti gli aromi possibili. La qualità di un olio, in ogni caso, giunge proprio dalla sua terra, dal suo produttore oltre che da una moltitudine di elementi che lo caratterizzano. Con le moderne tecniche produttive e una sana dose di passione, la capacità di estrarre buoni requisiti da una normale oliva è universale ma è di solito condizionata dall’andamento stagionale.

La razionalità e le misurazioni tecniche nel campo olivicolo sono ormai una prassi consolidata che riesce a estrarre dall’obbligo delle buone regole un motivo di sostentamento per migliaia di aziende. Un tappeto di varietà, quindi, disteso su migliaia di ettari, disciplinate da diverse denominazioni d’origine protetta tra cui due importanti: la Dop “Terra d’Otranto” diffusa nel Salento e la Dop “Terra di Bari” con le sue diverse menzioni geografiche.

Sono territori a forte esperienza produttiva in cui singoli produttori e le decine di associazioni olivicole spesso competono tra loro per aggiudicarsi il premio per la migliore produzione.

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Allora, se i propositi sono gli stessi, cosa restituisce la diversità di questi territori? Che cosa dovrebbe preferire un olio rispetto a un altro se non per la soggettività del gusto o per un semplice campanilismo.

Le varietà che nel Salento sono caratterizzate prevalentemente da Ogliarola Leccese e Cellina di Nardò, e nel Barese da Coratina, Cima di Bitonto o Ogliarola Barese, possono riservare molteplici sorprese e la possibile fusione dei blend possono perfino creare sapori non identificabili neanche dai più raffinati panel. Con tali varietà, l’olio barese e quello leccese sono prodotti che derivano da due terre a confronto, con aspetti apparentemente simili, ma con sistemi d’impianto e mentalità produttive nettamente diverse. Paesaggi e gusti varietali non paralleli anche nell’analisi dei loro disciplinari di produzione; Dop che dovrebbe garantire, all’atto dell’immissione al mercato, standard come colore, sapore, acidità, punteggio al panel test, numero di perossidi o quantità di trigliceridi.

Ad esempio, nel Salento un olio Dop extravergine che riguarda le varietà Cellina e Ogliarola leccese dovrebbe essere di colore verde o giallo con riflessi verdi dal sapore fruttato con una leggera sensazione di piccante e di amaro.

Nel barese, invece, la Dop disciplina, se si tratta di varietà Coratina, un colore giallo oro con riflessi verdi, odor di fruttato medio o leggero, con sapore di frutti, sensazione di erbe fresche e sentore delicato di amaro e piccante, come nel caso della Cima di Bitonto, dell’Ogliarola barese o della Coratina. Per la menzione geografica “Murgia dei Trulli e delle Grotte un fruttato con sensazione di mandorle fresche e leggero sentore di amaro e piccante è tipico della Cima di Mola.

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Con un’acidità massima totale espressa in acido oleico, in peso, non superiore a grammi 0,8 per 100 grammi di olio la qualità è quasi una certezza; ma ciò non è ancora sufficiente nella nostra attenta valutazione. All’opposto, il numero dei perossidi è un parametro rilevante per la qualità dell’olio extravergine di oliva; esso misura proprio la concentrazione, appunto, di queste sostanze che si sviluppano in seguito all’ossidazione dei radicali degli acidi grassi che costituiscono i trigliceridi. Il numero di perossidi aumenta come l’acidità negli oli derivanti da olive deteriorate da eventi climatici o parassitari, da olive trasportate, stoccate in cattive condizioni o da moliture irrazionali.

Quello che mette di pari passo e concorda il valore delle Dop è la presenza dei polifenoli che affermano un altro sicuro fattore di qualità. Tali sostanze oltre a influire sulla stabilità di un olio, cooperano attraverso il consumo a combattere i fenomeni ossidativi a carico delle membrane cellulari da cui deriva l’invecchiamento dei tessuti e altri aspetti della salute.

Per la legislazione vigente e per tutte le Dop, un olio extra vergine deve tenere uno standard di perossidi ben stabilito e assieme ad altri parametri di genuità correlati alla presenza di smisurate sostanze come colesterolo, stigmasterolo b-sistosterolo7, trilinoleina, stigmastadieni, e sostanze connesse alla sicurezza come pesticidi fosforati e benzopirene.

Dal complesso mondo olivicolo si rinnova quindi il desiderio di suggerire una sana competitività in direzione di un’altrettanta qualità dell’olio extravergine di oliva che stimoli anche la voglia di degustarlo nel migliore dei modi possibili.

Piovono medaglie d’oro sul Salento al Premio Biol 2013

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di Mimmo Ciccarese

 

Si è appena concluso ad Andria il XVIII Premio Biol 2013, il meeting di un concorso che ha visto impegnati a contendersi il primato di miglior olio extravergine d’oliva biologico oltre 350 oli provenienti da ogni angolo del continente.

La lunga kermesse internazionale è stata indubbiamente un’ottima occasione di dibattito e di buone intenzioni per lo sviluppo dell’agricoltura biologica nel mondo.

Un autorevole premio voluto, come ogni anno, dal Consorzio Italiano per il Biologico in nome di uno dei suoi promotori Nino Paparella e promosso da Regione Puglia, Camera di Commercio di Bari e dalla Città di Andria. La felice contesa è stata il pretesto per potenziare l’attività di tante aziende agricole che in Puglia olivicola straripano al pari di regioni come Calabria e Sicilia con oltre 5000 aziende e un patrimonio arboreo di 40.000 ettari che hanno scelto questo metodo produttivo.

Il premio ha aperto i battenti con l’insediamento del giurì planetario formato da 27 raffinati assaggiatori d’olio d’oliva del mondo con un’entusiasmante cerimonia.

Un interessante convegno su “Olio di oliva biologico come fattore di sviluppo locale integrato” per risollevare l’attenzione sui mercati dei paesi emergenti come Cina, India, Brasile e Usa e per chiudere, poi, il 15 marzo con una giornata dedicata alle scuole primarie che hanno visto formare centinaia di baby assaggiatori. I baby giurati selezionati tra oltre 24 classi per 700 alunni provenienti da ogni provincia pugliese, hanno poi affiancato i giurati senior nelle valutazioni nell’ambito del premio Biolkids.

Per ogni singola classe è stata un’occasione per presentare i diversi progetti sull’educazione alimentare e sull’ecologia con i ”laboratori di terra e del villaggio sostenibile”, negli spazi dei padri Trinitari di Andria per poi accerchiare nel vero senso della parola l’affascinante maniero di Castel del Monte. Dalle scuole di Maisach, in Baviera è nato un gemellaggio con la Puglia prima di annunciare con un gran rituale i premiati ai piedi dell’affascinante Castel del Monte.

I vincitori sono stati proclamati alla presenza dell’assessore alla Cultura della Regione Puglia Silvia Godelli, del sindaco di Andria Nicola Giorgino e dell’assessore all’Innovazione agricola della Provincia di Bari Franco Caputo.

L’edizione del Premio biol 2013 è stata vinta dall’olio l’extravergine “Titone Dop Valli Trapanesi” dell’azienda Titone di Trapani, il BiolPack è stato assegnato allo spagnolo “LA Organic”e quello attesissimo del Biolkids allo sloveno “Morgan”.

Gold Medal e Gold Silver sono stati assegnati poi a circa cento oli che saranno presentati in un copioso catalogo poi alle principali fiere internazionali, dal BioFach di Norimberga al Sana di Bologna.

Anche cinque aziende salentine riportano a casa le “Gold Medal”, riconoscimento riservato all’operosità delle nostre varietà olivicole e alla bontà del loro olio.

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Nino Paparella, coordinatore del Biol, ha rilevato come -“La giuria internazionale ha ancora una volta rilevato la qualità degli oli bio migliori di anno in anno, con eccellenze in grado di superare gli oli tradizionali e come l’ottima qualità dei fruttati, sempre più verdi, ricchi e profumati permettono di ottenere grandi risultati dappertutto sia coltivando varietà difficili che in aree climatiche svantaggiate”.

L’istituto Marcelline di Lecce, la scuola primaria via Apulia di Tricase, quella di Spongano e di Vignacastrisi, hanno aderito al Premio BiolKids, partecipando con impegno e dimostrando interesse verso i temi ambientali e del loro paesaggio.

Sensibilità doverosa che pone in primo piano gli uliveti secolari, la produzione agroalimentare e la civiltà rurale che ha sublimato la presenza delle amministrazioni comunali di Spongano, Tricase e di alcune associazioni di categoria.

Potenzialità e garanzia dell’olio d’oliva, quindi, provate dalla competenza inusuale di centinaia di ragazzi che con il loro interesse hanno emozionato un’iniziativa da ripetere. Il Premio Biol è stato patrocinato da Ifoam e AgriBio Mediterraneo e si è svolto in collaborazione con Gal Le Città di Castel del Monte, Gal Murgia Più, Associazione BiolItalia, Consorzio Puglia Natura.

 

Tutti i sensi implicati per degustare un buon miele

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di Mimmo Ciccarese

 

Tra gli antichi popoli era una felice consuetudine offrire alla coppia dei novelli sposi una sufficiente scorta d’idromele, un’ambrosia alcolica ottenuta dalla fermentazione del miele, come simbolo di fertilità e buon auspicio. Tale usanza pare fosse corrente anche tra le diverse stirpi europee, arabe, e particolarmente diffusa nel Medioevo, quando la sposa portava in serbo un po’di miele da porgere all’amato nella sua prima luna di nozze. I rituali connessi alle fasi lunari, chiamati Esbat, suggerivano giugno come il “mese del miele”, il periodo favorevole da dedicare ai mutamenti, alla responsabilità e al matrimonio.

Il matrimonio per i Messsapi, s’officiava, invece, con l’offerta di mosto d’uva fermentato e dolcificato con miele e misteriose spezie, ricette già citate, in qualche modo, da Apicio, fortunato cuoco al servizio degli imperatori romani. Tra i colonizzatori di Terra d’Otranto, la produzione del miele era diffusa nella regione detta Valle della Cupa, dove si riscontravano arcaiche arnie, le cosiddette “ucche” o “apàri”, manufatti litici che appellavano alcune località annesse all’antica Rudiae, l’odierna Lecce.

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Le testimonianze che evidenziano le analogie d’allevamento delle antiche civiltà con quelle attuali sono davvero cambiate di poco; i metodi di raccolta e la cura degli apiari, ad esempio, sono molto simili.

È proprio tra maggio e giugno, quando il cisto, il timo e l’acacia esplodono di stami, che gli apicoltori smielano i favi per il prodotto nuovo, quello che riassumerà in seguito, dopo la filtrazione, tutti i suoi requisiti.

Il valore di un miele, come avviene per l’olio e il vino, può essere qualificato attraverso le analisi sensoriali degli esperti riconosciuti dal Ministero delle Politiche Agricole; sin dal 1999, quindi, su un apposito albo sono rubricati tutti gli assaggiatori capaci di testarne e accreditarne la sua bontà. L’obiettivo di tale istituzione è sicuramente quello di uniformare tutte le misurazioni utili per tracciarne le proprietà intrinseche. Migliorare la qualità significa tutelare la tipicità di un territorio, la sua realtà produttiva, magari con azioni di promozione sotto forma associativa o di marchio collettivo. Ogni miele manifesta una virtù, un gusto che lo differenzia da un altro.

Esistono parametri ben definiti, uniformati alle tecniche di assaggio, che consentono di spiccare attraverso i sensi descrizioni utili come l’origine botanica, i suoi pregi e i suoi difetti.

Non è per nulla semplice individuare o classificare un miele. Le procedure che riguardano l’osservazione permettono di rilevare se esso sia pulito, omogeneo, cristallizzato o troppo liquido; se le tante sfumature di colore spaziano dall’ambrato al panna o dal pesante al luminoso.

L’olfatto offre la possibilità di precisare l’intensità degli aromi floreali, l’odore di resina, del fruttato, dell’uva, della mela, del malto o del cacao.

Il movimento dalla bocca tende a far identificare i quattro gusti basilari, caratterizzati spesso dalle punte di amaro o di acido.

Le sensazioni legate al tatto, concedono valutazioni sulla consistenza del prodotto: la pastosità, la viscosità, la cremosità, la qualità e la dimensione dei suoi cristalli, la tendenza a essere gelatinoso, la densità e la fluidità.

Molto interessante, a questo proposito, ricordare il concorso internazionale Premio Biolmiel 2013, favorito dal Consorzio Italiano per il Biologico, che da Bologna, passando per il Biofach di Norimberga, ha recentemente premiato i migliori mieli, ottenuti secondo i disciplinari bio. Il giurì internazionale, composto da intenditori provenienti da tutta Europa, si è raccolto presso il Cra-Api, centro di ricerca e divulgazione sull’apicoltura, dove risiede l’albo nazionale degli esperti di analisi sensoriale del miele ed ha analizzato oltre 170 campioni di miele provenienti da disparati paesi europei e americani, oltre che da tutte le regioni italiane.

Parlare di miele oggi riconduce inevitabilmente, oltre che alla protezione delle api che muoiono per colpa di troppi inquinanti, anche a quella di altre specie che garantiscono con l’impollinazione la riproduzione di gran parte delle piante agronomiche per la nostra alimentazione.

 

 

Quando l’ulivo è monumentale?

ph. http://www.frantoionline.it/

di Mimmo Ciccarese

 

La tutela degli alberi monumentali è legge dello Stato, è stata pubblicata con la G.U del 1 febbraio 2013, per la prima volta in Italia. I comuni dovranno censirli, documentarli e chi ne provoca l’abbattimento potrebbe essere sanzionato con ammende salate. Tali norme riguardano anche il verde urbano e prevedono l’istituzione della giornata degli alberi il 21 novembre. Già si contano in Italia circa 22.000 alberi notevoli tra cui 2.000 esemplari di grande interesse e 150 di eccezionale valore storico. È senza dubbio un passo di rilievo per lo sviluppo sostenibile delle città che comunque peccano ancora di riferimenti comuni sulla manutenzione degli spazi verdi urbani.  I sindaci, a cui si appella l’esplicita richiesta di consultare le giuste competenze di tecnici e appassionati, dovranno rendere noto alla fine del loro mandato il bilancio del verde. Tale regolamento convalida la bontà e la perseveranza  delle campagne ecologiche sostenute fino ad adesso, in favore del patrimonio arboreo e boschivo.

Con l’attuazione del protocollo di Kyoto e le politiche di riduzione delle emissioni, la prevenzione del dissesto idrogeologico e la protezione del suolo si giunge ad evidenziare la monumentalità come fattore vitale. Con il rito della giornata degli alberi si vogliono interessare le scuole di concerto ai ministeri dell’Istruzione e delle Politiche agricole per promuovere iniziative in sostegno all’ecosistema, nel rispetto di tutte le specie vegetali. Modelli di educazione civica e ambientale senza dubbio forti e ricchi di volontà di cambiare gli attuali atteggiamenti d’indifferenza o d’imperizia amministrativa in tema di verde.

Allora cosa cambierà con tale legge per gli ulivi millenari e soprattutto adesso le domande diventano più che pertinenti!

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Cosa definisce la “monumentalità”?

C’è da riflettere sul David o la Pietà di Michelangelo, sul Quarto Stato di Pellizza da Volpedo o l’Urlo di E.Munch e poi associarli ad uno solo dei nostri ulivi; per quelli che un mio amico salentino mi ripete sempre: “se riesci a vedere un solo profilo su queste piante è troppo poco”.

Per la legge regionale del 2007 sulla “Tutela e Valorizzazione del paesaggio degli Ulivi della Puglia” si definisce il carattere di monumentalità quando la pianta possiede un’età plurisecolare. L’art.2 della legge, lo deduce dalla dimensione del tronco, che deve avere un diametro uguale o superiore a un metro misurato all’altezza di un metro e trenta dal suolo; nel caso di alberi con tronco “frammentato” il diametro è quello complessivo ottenuto ricostruendo la forma teorica del tronco intero.

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Avete mai provato a misurare un albero d’olivo millenario?

La monumentalità non è solo una questione di assi cartesiani! Saremmo certamente in grado di ricavarne grandezze come altezza o circonferenza, quando un fusto è regolare o la sua impalcatura non deriva da un innesto su olivastro. Quasi sicuramente potrebbero sfuggire tante altri variabili utili all’intenzione di valutarne monumentalità o perfino l’età di un albero, come quelle relative alla velocità d’accrescimento, all’incidenza della sua chioma, alla sua biomassa o alla sua produzione di CO2.

Se la purezza di queste valutazioni si traduce con una misura del tronco inferiore alle aspettative, si dovrebbe valutare anche il “carattere”.  “Il carattere di monumentalità può attribuirsi agli uliveti che presentano una percentuale minima del 60 per cento di piante monumentali all’interno dell’unità colturale, individuata nella relativa particella catastale”. Va bene porre un parametro per questa stima, ma si sa, il territorio pugliese, in particolare quello più meridionale è molto frazionato ed ancora intorpidito da incertezze sociali ed economiche.

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Ma  cosa s’intende per “unità colturale”?

L’azienda olivicola media ha pochi ettari e, in genere, ha differenti unità produttive sparse in più comuni; il rilevamento satellitare in tempi recenti ha rivalutato questo concetto e i ritocchi su questa materia potrebbero essere in itinere. Per queste sollecitazioni dovremmo solo rendere merito a migliaia di piccoli conduttori di piccoli unità secolari, che con amorevole dedizione tra tante difficoltà hanno tutelato questo patrimonio conoscendo solo le leggi della natura. Purtroppo, a questo proposito, va accentuato il riferimento all’uso dei pesticidi sotto chioma degli ulivi per la preparazione delle piazzole di raccolta. Per questo motivo, un sistema di tracciabilità di un olio proveniente da olivi secolari ben venga, ma che sia anche salutare; non è certo piacevole pensare alla tutela di un olivo senza considerare anche il suo agro-ecosistema, compreso quello delle aree protette.

 

La legge sulla Tutela degli ulivi accetta la monumentalità quando accerta il “valore storico-antropologico, quando sono citati o rappresentati in documenti o in rappresentazioni iconiche – storiche”.

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Quanti epiteti d’eccezione conoscete nel vostro agro?

Fortunatamente, d’immagini, ritratti e testimonianze ce ne sono a bizzeffe da accreditare e conservare un intero territorio, basterebbe solo consultare le antiche mappe medioevali. A differenza di altre regioni, dove gli olivi secolari sono rari, identificati e appellati, la Puglia possiede un patrimonio così esteso che non riesce neanche a marcare un’identità per ognuno di essi e comunque individuarli o mapparli è già un atto di tutela che ogni cittadino potrebbe assumere. Un censimento è difficile ma non impossibile se ci si avvale dei moderni mezzi di rilevamento e di tracciabilità disponibili. In Puglia il valore storico-antropologico ed emotivo oltrepassa qualsiasi valutazione tecnica o teorica.

 

Cosa definisce una forma teorica nel regolamento di Tutela degli ulivi?

La cosiddetta  forma teorica, infatti, può essere: spiralata, alveolare, cavata, con portamento a bandiera o con presenza di formazioni mammellonari tanto che qualcuno riesce a riconoscerne una faccia, un’espressione, una danza o addirittura una caricatura. Forse sarebbe il caso di consultare  una commissione di esperti d’arte per valutare la struttura scultorea dell’albero e magari anche di definire il suo limite spaziale ed estetico.  Per la “Tutela degli ulivi” una pianta è monumentale quando trovasi (localizzata) adiacente a “beni d’interesse storico-artistico, architettonico, archeologico riconosciuti ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137)”. Una regione come il Salento, con centinaia di migliaia di alberi secolari di respiro messapico dovrebbe essere rivalutata o meglio dettagliata. In questa terra non c’è uliveto secolare senza un menhir, un dolmen, un ipogeo o un’antica masseria.

L’adiacenza non specifica la distanza reale, anzi, in alcuni casi diventa paradossalmente un infelice anomalia per la stessa pianta. Basterebbe, quindi, riconoscere meglio il valore di questi ultimi per proteggere un solo ulivo e di chi vive della loro presenza.

 

Allora non sarebbe il caso di riassumere le nostre riflessioni su questo argomento?

L’ulivo secolare dovrebbe essere vissuto come un richiamo per chiunque voglia relazionare il proprio status creativo con il territorio. L’osservatore percepisce questa dimensione ecologica e naturale con lo stesso stupore con cui ammira un opera d’arte, s’incuriosisce e quota con interesse; quasi sempre ritorna ai piedi del suo albero più caro in segno di devozione e ringraziamento. Si dovrebbe dire monumentale anche quando si riconosce il suo valore simbolico ed ecologico; questa definizione avrebbe una considerevole valenza anche per i gruppi olivicoli più appassionati, quelli che per intenderci, sarebbero eticamente i veri custodi degli alberi secolari con cui adesso ogni comune dovrebbe relazionare. L’ulivo è stato da sempre portavoce di pace per i popoli del mediterraneo ed indubbiamente emblema di grazia e sacralità da millenni. Secondo il mito fu proprio Atena a ingentilire l’oleastro per farlo diventare simbolo di castità. Per i romani era il simbolo degli uomini illustri, per gli ebrei era simbolo di giustizia e sapienza, mentre per i cristiani è figura di rigenerazione e di riconciliazione della terra con il cielo tanto che il suo olio è ancora oggi usato nelle celebrazioni liturgiche.

 

L’Italia con l’art 9 della costituzione Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Lo Stato italiano demanda alle Regioni la tutela e la selezione delle aree protette, tra cui i monumenti naturali. La Legge quadro 394 del 1991, chiamata anche legge Moschini, al comma 8 dell’art. 2 recita: «la classificazione e l’istituzione dei parchi e delle riserve naturali d’interesse generale e locale sono compiute dalle Regioni». Ai fini della presente legge costituiscono il patrimonio naturale, le formazioni fisiche, geologiche, geomorfologiche e biologiche, o gruppi di esse, che hanno rilevante valore naturalistico e ambientale. I territori nei quali siano presenti i valori di cui al comma 2, specie se vulnerabili, sono sottoposti ad uno speciale regime di tutela e di gestione, allo scopo di perseguire, in particolare, le seguenti finalità: a) “conservazione di specie animali o vegetali, di associazioni vegetali o forestali, di singolarità geologiche, di formazioni paleontologiche, di comunità biologiche, di biotopi, di valori scenici e panoramici, di processi naturali, di equilibri idraulici e idrogeologici, di equilibri ecologici”. b) applicazione di metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare un’integrazione tra uomo e ambiente naturale, anche mediante la salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici e architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali e tradizionali; c) promozione di attività di educazione, di formazione e di ricerca scientifica, anche interdisciplinare, nonché di attività ricreative compatibili; d) difesa e ricostituzione degli equilibri idraulici e idrogeologici. I territori sottoposti al regime di tutela e di gestione di cui al comma 3 costituiscono le aree naturali protette. In dette aree possono essere promosse la valorizzazione e la sperimentazione di attività produttive compatibili.

Alla luce di tali regolamenti e dell’insieme di valori sarebbe importante considerare la regione Puglia come un enorme Parco degli Ulivi secolari, magari accompagnato da un valido disciplinare di produzione, in cui gli enti locali dovrebbero acquisire le prerogative e la volontà di farne parte integrante, come una sorta di debito etico nei confronti di una civiltà rurale ancora fondata sull’atavica passione per il suo patrimonio estremamente vulnerabile. Evidentemente c’è ancora molto da censire: si spera che questo impegno abbia la sua utilità.

 

SOS per le api! Un’altra specie rischia di estinguersi!

 ape

 

Per fare un prato occorrono un trifoglio e un’ape,
Un trifoglio e un’ape,
E immaginazione.
L’immaginazione da sola basterà,
Se le api sono poche
.

Emily Dickinson

 

di Mimmo Ciccarese

 

Immaginate per un momento di essere una piccola e simpatica ape, di ronzare tra un fiore e l’altro, indossare con abile maestria il gineceo di un fiore di acacia o di arancio per suggere il dolce nettare, imbrattarvi di polline e profumo, strofinarvi l’addome su un capolino di margherita, bere dalle goccioline un essudato di germoglio e poi all’improvviso, sentirsi inspiegabilmente tramortiti, non ritrovare la giusta rotta che ci riporta a casa, confusi alla ricerca del nostro caro alveare. Se avessimo il tempo di pensare, i nostri neuroni potrebbero ancora invocare un SOS! Chissà se un altro essere sia disponibile ad aiutarci, a riequilibrare il nostro volo ed a ristabilire la nostra danza.

Quante volte pensiamo agli uccelli, alle farfalle e altri imenotteri che vanno a spegnersi in silenzio dopo aver assorbito da un’erba o da canale inquinati da pesticidi, perché essi non distinguono un parco naturale da un uliveto appena diserbato. Quanti se ne sarebbero accorti se non fosse stato per lo studio di un gruppo di esperti che hanno sollevato la questione? è grazie al loro impegno che oggi si sottoscrive la protezione. Ogni specie si estingue rapidamente con il dissesto di un habitat, quando la visione ecologica non è in grado di riconoscerne la sua vera qualità e si limita a risolverla rozzamente come entità che divide gli spazi artificiali da quelli naturali. È proprio l’uomo biofobo e indifferente che non trova spazio in natura, quello che cavalca l’ordinario declino e la fragilità di altre specie.  Abbiamo riflettuto sulla resilienza e sulla vulnerabilità di un territorio; ma quante volte riveliamo attenzione per la delicatezza degli altri esseri?

La moria delle api è un fatto troppo serio e coinvolge l’homo sapiens perché anello della sua catena alimentare; molto spesso l’uomo sbriciola l’equilibrio della creazione senza alcuna coscienza e confonde il parassita con il simbionte.

Le api sono considerate indicatrici di questo equilibrio; riescono a impollinare un terzo delle coltivazioni agronomiche. Un terzo di quello che mangiamo dipende dal loro ruolo nella riproduzione delle specie vegetali.

“Se le api dovessero davvero estinguersi, l’umanità rischierebbe una carestia a livello mondiale” aveva detto Giorgio Celli, importante etologo del nostro tempo. Saremmo in futuro, costretti a pennellare di polline tutti i fiori di questa terra. Ciò pare che già succeda in alcune regioni dell’Asia, che con questa tecnica costosissima vende i suoi frutti a prezzi stellari.

Presagi che valgono molto di più di una meteora inattesa sulla terra, come un proemio terribile, già rafforzato perfino dal grande Einstein che verosimilmente pare apprendesse tanto dai codici naturali.

Il campanello d’allarme è stato lanciato con recenti studi britannici riguardo il comportamento di api e bombi in alcune regioni del Nord America. Adesso l’EFSA, l’ente europeo che decide sulla sicurezza alimentare, valutando anche ricerche condotte in Italia e Francia, sta attentamente valutando il problema decidendo di mettere al bando i pesticidi più tossici, aprendo così la strada a uno stop globale che scongiurerebbe l’estinzione delle api.

Accanto ai pesticidi che agiscono sugli imenotteri, potrebbero aggiungersi tante altre forme d’inquinamento, quelle che ancora non sono note o dettate dal principio della precauzione. Già oggi non si trovano tra i campi le lucciole, i ragni, i ramarri e le coccinelle, nel cielo le rondini, e tra gli ulivi le volpi e le lepri sono sempre più inconsuete! Quelle che volgarmente s’indicano come erbacce infestanti, un tempo essenze di pregio, finiscono sempre nel mirino della chimica sintetica. Tale verifica tratta in modo indiretto anche di scelte alimentari, difesa ambientale e anche le difficoltà di un distretto importantissimo come quello dell’apicoltura.

 

FONTI

Agricoltura: Moria api, Ue limiterà uso pesticidi neonicotinoidi (La Stampa)
http://www.lastampa.it/2013/01/28/scienza/ambiente/agricoltura-moria-api-ue-limitera-uso-pesticidi-neonicotinoidi-8jxeKKNfnd4bafnaSTizbI/pagina.html

Pesticidi e api: Slow Food, Legambiente e Unaapi chiedono il ritiro degli antiparassitari killer (EcoBlog)
http://www.ecoblog.it/post/49631/pesticidi-e-api-slow-food-legambiente-e-unaapi-chiedono-il-ritiro-degli-antiparassitari-killer

Sos api: apicoltori a Pe, stop Ogm e pesticidi (Agenzia ANSA)
http://www.ansa.it/europa/notizie/rubriche/altrenews/2013/01/22/Sos-api-apicoltori-Pe-stop-Ogm-pesticidi_8117220.html

Ambiente: dossier mette in guardia su pesticidi che uccidono api (Agenzia AGI)
http://www.agi.it/research-e-sviluppo/notizie/201301181452-eco-rt10149-ambiente_dossier_mette_in_guardia_su_pesticidi_che_uccidono_api

Agricoltura/ Moria api, verso stretta Ue su pesticidi killer (Il Mondo)
http://www.ilmondo.it/economia/2013-01-25/agricoltura-moria-api-verso-stretta-ue-pesticidi-killer_185637.shtml

 

Il canestraio: un artigiano contadino

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testo e foto di Mimmo Ciccarese

 

Il suo nome è Angelo, novantenne, ultimo dei canestrai, superstite di un’antica civiltà, quella che per intenderci ha navigato con doveroso silenzio le difficoltà del periodo fascista e gli anni del dopoguerra lavorando assiduamente senza mai desistere.

Angelo, seduto sul suo panchetto, ha tanto da rivelare mentre ordisce quei fascetti di canna finemente mondati prima di “chiudere” le bordature del paniere e ridefinire la sua simmetria con pochi e rapidi accordi delle dita. Nel frattempo, mi racconta della sua terra d’Arneo, storia vibrante di giovani braccianti in cerca di terre da abitare, spazi dove ci si sostava tra i cespi di macchia e olivastri per realizzare in fretta un pratico cesto di vimini da riempire lungo la via del ritorno con qualcosa di buono. Angelo riesamina la sagoma del suo cesto per assicurarsi che non ci sia altro da spuntare, accorcia qualche aspro spigolo qua e là, lo libera tra la stretta delle sue ginocchia e poi lo ripone lentamente sul ripiano accanto agli altri.

Il doppio intreccio eseguito dalle abili mani di Angelo
Il doppio intreccio eseguito dalle abili mani di Angelo

Ce ne sono decine di diverse dimensioni e sfumature; qualcuno è sospeso alla bacchetta di una vecchia bici, un altro si tiene al cavicchio di una vecchia scala da potatore; tutti dissimili, ogni pezzo è unico e raro, grondante di semplicità e di pregevole tradizione. Nonostante le sue mani nodose non fossero abili come un tempo e la sua vista sia diminuita, Angelo, tesse con tenacia la sua dose giornaliera di vimini e rianima il suo sentimento popolare realizzando cestini con il pensiero di regalarli.

Il suo diletto spiegato dai vecchi cestai di paese, artigiani di professione o afferrato dagli zingari camminanti nelle fiere d’ ottobre, nasce così, in modo semplice, raccogliendo lungo i fossi delle macchie e della campagna salentina, esili rametti di salice chiaro, d’olmo, polloni d’ulivo, di ginestra, di lentisco e di fresche canne.

Il fondo, mi dice Angelo, è l’ossatura a raggiera, una sorta di mandala, che permette di reggere il peso dei frutti; la sua resistenza dipende dal materiale utilizzato e dalla parsimonia spesa per costruirlo e poi aggiunge sottovoce: “con una dose di passione il cesto può venire bene anche nel suo profilo”; quando l’utilità giunge prima del suo aspetto.

Le panare capovolte sull’arco del manico, anche se vuote, sono per me, già ricolme di naturale empatia verso la terra e di nobile cultura popolare che non basterebbe un solo racconto per descriverli. Si riconosce la specie del giunco dal suo profumo, l’elasticità della sua fibra dal momento in cui si coglie, quando è ben lignificata, nel periodo invernale, perché il vimine deve strizzare senza spezzarsi, per essere tessuto, accavallato lungo i lati, sovrapposto o rivoltato tante volte. Spesso, dopo una scrupolosa stagionatura, si ripone il fascetto o il vimine da lavorare, in un bacile d’acqua, per alcuni giorni, per ravvivarlo e ammorbidirlo al punto giusto, prima dell’intreccio che raddoppia la sua compattezza.

la bordatura del canestro
la bordatura del canestro

I salentini lo chiamano panaru (paniere) o panareddrha, quando si tratta di un paniere per la merenda o ancora caniscia, per la raccolta del tabacco o della biancheria, tipico prodotto artigianale della zona di Castrì di Lecce o di Acquarica del Capo dove vi è ancora l’occasione di ritrovare il bravo intrecciatore. L’intreccio delle fibre vegetali si perde nella notte dei tempi, sin dal neolitico ai giorni nostri, il suo utilizzo è unanime, adatto per ogni circostanza: per raccogliere le drupe e i legumi, per lo stoccaggio del grano, per portare cibi caldi ai contadini tra campi o annodato a una fune per salire su il pane.

Lu panaru in particolare era lo strumento che accompagnava le donne “allu rispicu”, cioè alla spigolatura delle ultime olive cadute sottochioma o per la raccolta delle dolci “racioppe” piccoli racemi scordati sul ceppo dopo la vendemmia.

Legati allu panaru sono i cicli della stagione invernale che invita a zappare e potare in gennaio per avere un buon raccolto, “zzappa e puta te scinnaru se uei bbinchi lu panaru”, o che indicano la piovosità di febbraio come buon auspicio, “l’acqua te fibbraru te inche lu panaru”. Pittoreschi invece i detti che ricordano il sentimento non ricambiato e il tradimento continuato, “l’amore luntanu è comu l’acqua intra lu panaru” e “ puerti cchiu corne tie ca nu panaru te municeddrhe!

“Mìntere fiche allu panaru” (aggiungere fichi al paniere) “culare come nu panaru” (fare acqua da tutte le parti) o “perdere filippu e panaru” (perdere il paniere ed altro)  sono ancora modi di dire in grado di rievocare il quotidiano della civiltà salentina. Auguriamoci allora che il valore di questa espressione rurale sia condivisa perché una simbiosi così affettiva con le piante, non può che non essere recuperata e tramandata.

La Fòcara di Sant’Antonio: diamo un po’ di numeri!

di Mimmo Ciccarese

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All’inizio dell’inverno, una vecchina, vicina di casa, usava ravvivare il fuoco del suo braciere lasciandolo per alcuni istanti al soffio della tramontana del suo orto. I toni accesi della carbonella ardente erano l’immagine di un’altra storia, quella che pianificava l’accesso ai freddi tramonti di gennaio.

I giorni di gennaio sono ancora oggi per le comunità salentine, quelli del fuoco. In questo periodo è possibile ritrovare tra le campagne le tradizionali focareddrhe a scandire le pause delle lunghe giornate di raccolta delle olive o della potatura secca. Qualcuno, ha già iniziato a potare il vigneto e a recuperare i nuovi sarmenti, quei lunghi e sinuosi tralci arricciati sui loro tutori, che pare quasi non volessero scollarsi dalla loro pianta. Piccoli fastelli posati con ordine lungo i filari prima di essere radunati a formare la poderosa “sarcina te leune” o fascina di tralci di vite, antica unità di misura contadina.

Ci sono ancora vigneti veterani, sopravvissuti ai moderni impianti, alberelli di raro valore, essenze tipiche di una regione, chiamata anche Parco del Negroamaro, di là dal paretone messapico, apprezzata dagli antichi popoli per la sua nota vocazione vitivinicola.

Un saggio vecchietto, mi racconta che da un tomolo di terra, pari a poco più di mezzo ettaro, si riusciva a estrarre con due giornate di lavoro, una quantità pari a circa cento “sarcine de leune” per riempire “ nu trainu ncasciatu” ossia una torre di carretto colma di utile legna.

Nu trainu te leune”, coincideva a circa dieci quintali di rami pronti all’uso, stipate sulle “logge”(terrazze), accantonate nei giardini come scorta per le stagioni fredde o per essere vendute.

Le “sarcine” erano di modesto valore economico ma molto gradite tanto che possederle in famiglia equivaleva ad assicurarsi una certa dose di calore. Bene prezioso un tempo, rifiuto da non sottovalutare oggi per mezzo di un articolo del Dlgs 152/2006 che non chiarisce la sua duplice valenza di riutilizzo. I viticoltori sono obbligati a rispettare molti regolamenti ma anche quello di potare altrimenti la sua filiera produttiva già contrastata dall’aumento dei costi produzione potrebbe decadere.

Le quantità ricavabili dalle potature sono variabili secondo i requisiti del vigneto, tanto che con una produzione di tralci da vite del peso medio di circa mezzo chilo per pianta, si possono ottenere tra i 15-30 qli/ha di residui da potatura. Con misure di venti qli a ettaro e umidità del 30-40% si ottiene circa 12-14 qli di sostanza secca. Valutando che un kg di sostanza secca di tralci di vite corrisponde a 3500 kcal e che un kg di petrolio equivale a un potere calorifico di 9000 cal, si potrebbero azzardare altri conteggi ricorrendo ai coefficienti di conversione in energia elettrica oppure considerando che il potere calorifico di un litro di gasolio (10kw) si ottiene con circa 3 kg di legno con umidità del 30%.

E come se da un ettaro di vigneto si ricavasse un elevato potere calorifico espresso in litri di gasolio e riscaldasse per qualche mese diverse famiglie. Gli scarti della vite presentano per questo una capacità calorifica che dipende in ogni caso, dal contenuto di umidità, che si riduce del 10% ogni quindici giorni, e che può variare dalle 4000 kcal/kg del legno secco alle 2.200-2.300 Kcal/kg del legno umido.

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In questo periodo, i falò sono accesi a riempire le piazze per scaldare la gente, sarebbe interessante azzardare alla luce di tali considerazioni, per curiosità, quanto calore potrebbe generare una pira, ad esempio, del peso di circa 600 tonnellate o con quasi 90.000 fascine.

Il 16 gennaio di ogni anno il comune di Novoli suggerisce il suo tradizionale rito, grande evento che richiama moltitudini, preparativi di una festa smisurata, riconosciuta dalla Regione Puglia come bene culturale, che si snoda in ogni angolo del suo paese in onore del santo protettore. Il sacro clou festivo si commuta la sera nel ciclopico e immenso falò di migliaia di “sarcine di leune” accumulate da altrettante braccia volenterose.

In quel giorno Novoli è l’ombelico del mondo che coinvolge ed emoziona col fuoco acceso dal fuoco; espressione di una terra colorita del suo crepitare; moto popolare che “ mpizzica” e “ stuta”; predispone il suo rito con grande intensità emotiva, “cu lu fuecu te l’aria” o “cu lu fuecu ancuerpu”.

Ci aè bisuegnu te fuecu cu se lu troa”, recita un vecchio dittero salentino, vale a dire essere in grado di riscoprirsi appassionati, risvegliarsi dal torpore invernale e ritrovarsi raggianti intorno allo sfolgorio di un cerchio fuoco.

Si apre una nuova era: quella degli alberi

di Mimmo Ciccarese

 

“Gli alberi hanno pensieri di lunga durata, di lungo respiro e tranquilli, come hanno una vita più lunga di noi. Sono più saggi di noi, finché non li ascoltiamo. Ma quando abbiamo imparato ad ascoltare gli alberi, allora proprio la brevità, rapidità e fretta puerile dei nostri pensieri acquista una letizia senza pari. Chi ha imparato ad ascoltare gli alberi non brama più di essere un albero. Brama di essere quello che è. Questa è la propria casa. Questa è la felicità”

(H. Hesse)

 uliveti

Il “21 dicembre” è in arrivo! Con la profezia ci si concede la facoltà di ritoccare, credere e sognare nuovi periodi. In natura i tempi cambiano, si sa, l’evoluzione non ha limiti, i geni si ricombinano a creare nuove varietà in grado di resistere a eventi traumatici, di ogni tipo, ma non a quelli di una possibile fine dei tempi.

Si dice che saranno contati i luoghi dove si può star tranquilli per passare indenni l’ipotetico default calcolato dai Maya. Che cosa dovremmo aspettarci allora da una possibile fine di un’era? Forse un dialogo più avvincente e profondo che riguardi la protezione del Pianeta, oppure già lo stiamo già condividendo senza essercene mai accorti?

Il presunto“grande tilt” che dovrebbe sconvolgere la condotta umana potrebbe essere vicino, se si analizzano le cause dell’effetto serra e gli studi sul cambiamento climatico lo potrebbero anche convalidare. Gli ecosistemi non possono reggere il peso dell’incoscienza e delle scelte errate, quelle che per intenderci, rimuovono continuamente l’habitat delle nostre verdi vedute.

È proprio questa sottrazione che accresce l’affezione e il desiderio di tutelare un paesaggio, rinforza il senso dell’appartenenza alla terra, solleva trincee e fa nascere gruppi spontanei di tutela dell’ambiente, forum aperti di discussione come germogli possibili di cambiamento.

La causa ecologica dovrebbe essere l’inizio della prossima era, quella che non apparterebbe ad alcuna costellazione, rito o divinità ma semplicemente quella che ci meritiamo attraverso la cultura e il rispetto di ogni essere vivente.

Dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere” (Ghandi) e senza troppi quesiti, dovremmo restituirci alla terra con l’esperienza, perché la demolizione dell’ecosistema non è una questione virtuale, ma è qualcosa di tangibile e di misurabile.

alba tra uliveti
alba tra uliveti

La mia terra è un torace dal cuore generoso, spesso pugnalato, i cui ulivi sono una lenta e silente esplosione della propria origine. Alberi secolari spesso divelti, rassegnati come martiri e castigati dalla scure degli interessi o dell’abbandono agricolo; fotogrammi di un paesaggio dove la questione meridionale e le antiche lotte di conquista contadina sono state già dimenticate.

L’immagine di un ulivo sradicato, sbrancato o incendiato, per qualsiasi motivo, è surreale e apocalittica perché per ogni forma di strappo non decade solo la pianta ma anche la memoria storica di un territorio.

Per ogni lacerazione si smarrirebbero una porzione di cultura, un pregio ambientale, la ricchezza e la biografia di un popolo. Se la linfa degli alberi non fosse trasparente e avesse il colore del nostro sangue, forse ci spingerebbe a rispettarli di più e magari condividerli con la semina.

L’auspicio della nuova era si apre, quindi, con un semplice gesto che estrae una semplicissima metafora dagli alberi: questo è il momento in cui si dovrebbe accrescere l’affezione verso ogni, essere naturale per ridare quello che è stato sottratto per restituirci dolcemente alla Terra.

 

L’albero di Natale: storia di un culto nato ad Otranto?

di Mimmo Ciccarese

Il culto degli alberi ha un ruolo importante nelle culture e nelle religioni di tutto il mondo! Esistono su quest’argomento innumerevoli notizie o leggende. Gli alberi entrano in questo modo a pieno titolo tra gli elementi spirituali oggetto di venerazione.

Molti uomini hanno sempre creduto che gli alberi fossero governati da spiriti e divinità: tra i primi furono i greci che adoravano la quercia come dimora di Zeus e la consideravano, come l’ulivo, pianta il cui sacrilego atto di sradicarlo era punito severamente.

Per alcune popolazioni africane, nella creazione del mondo, l’albero è protagonista perché contiene la forza spirituale e materiale di un dio arcaico che si manifesta a tutti gli altri esseri proprio attraverso radici, foglie e rami. È consuetudine per alcuni popoli africani radunarsi sotto la chioma di alberi sacri per prendere decisioni d’interesse collettivo.

L’albero è conoscenza, sopravvivenza e nutrimento per ogni popolo.  Il legame con gli alberi era per i Celti così forte tanto che si sentivano parte di essi. Per questi popoli, l’albero era il collegamento tra terra e cielo, un riferimento cosmico che appellava perfino i cicli lunari, i luoghi e le famiglie.

Quando le missioni di altre religioni iniziarono la loro opera di conversione su questi popoli, in nome di decisioni supreme, per impedire il perdurare dei loro culti arborei, rasero al suolo le loro foreste sacre. Si può facilmente immaginare cosa sarebbe accaduto dopo, a coloro che, in segno di venerazione portavano offerte agli alberi o chiedevano protezione per i propri familiari o per i propri beni.

Singolare è la storia di San Martino vescovo, che con il grado di difensore di tali editti, si fece legare a un immenso pino da abbattere per sostenere e comprovare la virtù della sua fede alle popolazioni pagane; dopo il suo segno di croce, l’albero cadde graziandolo e il miracolo favorì le conversioni.

Le storie di alberi tagliati e di proclami che proibivano i riti pagani si susseguirono in tutta Europa durante tutto il medioevo. Emblematici furono i tagli d’albero eseguiti per sancire la fine o l’inizio di nuove epoche. La storica decisione nel 1188 di Goffredo di Buglione, feudale della prima crociata, di far tagliare un olmo a Gisors alla presenza di due sovrani decretò la fine di un’alleanza e l’inizio di un dissidio.  Gli eroici abitanti di Capannori in Toscana salvarono l’ultrasecolare “quercia delle streghe”dalla scure nazista che la gradivano come legname; poi cittadini di ogni luogo in difesa di ulivi, querce, lecci, pini di carattere monumentale da ricorrenti minacce antropiche.

Non esiste simbolo più rappresentativo dell’albero per le festività di Natale. L’alberello del nostro focolare è un singolare documento di fede, certamente assorbito da primitivi simbolismi e antiche tradizioni.

La scelta di un sempreverde per celebrare una nascita, in grado di trasferire il messaggio d’immortalità  e di rinnovamento era già diffuso tra i romani che ricorrevano decorando le loro case con coccarde di rami di pino. I druidi (dal gaelico querce) e i vichinghi , invece, per il giorno più breve dell’anno si auspicavano fertilità e rinascita vegetativa addobbavano i loro sacri abeti rossi con diversi frutti.

Yggdrasillm, albero cosmico primordiale

Qui si presenta il confronto dell’albero natalizio con la mitologia nordica dell’albero cosmico detto Yggdrasill, albero invisibile e simbolico fonte della vita, origine della sapienza e dell’immortalità, simile a quello raffigurato nel mosaico del Duomo di Otranto, splendido esempio uscito nel 1165 d.C. per opera del monaco Pantaleone che era riuscito a ramificare natura e mitologia in una delle prime missive ecologiche che il Salento ricordi.

Klimt, L’albero della vita

Anche nella pittura G. Klimt con il suo “albero della vita” rievoca un riferimento alla naturale combinazione tra spirito e materia tramite l’amore e la conoscenza, mentre nella letteratura, H. Hesse, con la sua favola trasforma il protagonista Pictor, giunto nell’Eden, in albero, per  descrivere e completare l’uomo con una metafora arborea.

Il termine albero della vita era menzionato nei riferimenti biblici della genesi  e nell’apocalisse: “E in mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trovava l’albero della vita, che fa dodici frutti e che porta il suo frutto ogni mese;  le foglie dell’albero sono per la guarigione delle nazioni”. Altri riferimenti si rintracciano sorprendentemente anche tra popoli egizi, assiri, mesopotami nel buddismo, induismo e nella cabalà ebraica.

Da qui potrebbe essere nata la tradizione dell’albero di Natale, che le prime missioni cristiane chiamarono “albero del paradiso” sul quale comparivano mele e ostie come simbolo di redenzione poi nel tempo sostituite da candele, frutta secca, dolci  e doni vari.

I sempreverdi più utilizzati sono il peccio, il pino e l’abete, specie incensate dai colori intensi che dovrebbero essere, di rigore, veri e vegeti se si vuol dare significato e continuità all’allegoria cristiana.

Con un albero artificiale, quindi, non si avrebbe alcuna percezione; il senso della ricorrenza sarebbe relegata a effimero consumismo. Agli italiani pare incanti il falso albero, perché assicura la prontezza dell’installazione, risolve le gestioni economiche durante le feste e poi si può usare per più anni. In genere sono fatti in PVC, polietilene, derivati del petrolio, materie, spesso non degradabili, che in futuro dovrebbero finire in discarica.

Gli scandinavi hanno stimato e paragonato i consumi energetici e di produzione tra un albero vero e uno falso (anche utilizzati a lungo termine) dalle stesse forme e dimensioni ed hanno riscontrato che il primo ha un valore etico e ambientale cinque volte maggiore.

Procurarsi un albero vero da un vivaio specializzato rigenera la coltivazione della specie e favorisce l’assorbimento della CO2 dall’atmosfera durante il suo accrescimento.

È convinzione diffusa che gli alberi di natale provengano da deforestazioni e che ogni anno avvenga uno sterminio di alberelli; grazie ai controlli o alle certificazioni ambientali (Forest Stewardship Council) che garantiscono il rispetto e la conformità tecnica, si può stare tranquilli.

Ovviamente la preferenza di utilizzare alberelli autoctoni, acquistati da vivai locali (km 0), possibilmente a produzione bio, sarebbe una buona scelta e magari, dopo la festività, ripiantare gli stessi in habitat idonei, per contribuire a mitigare le cause della desertificazione.

Allora alla luce di queste considerazioni potremmo confermare che ogni albero, a prescindere dal suo rito, è certamente, un luogo di ricerca e di riflessione, una relazione di valori ed emozioni e di unione tra terra e cielo; ecco perché non dovrebbero essere mai tagliati. Questo potrebbe essere il primo augurio per il Natale.

mosaico di Otranto

Analisi per un censimento degli ulivi secolari

di Mimmo Ciccarese

 

ph. http://www.frantoionline.it/

“La Regione Puglia tutela e valorizza gli alberi di ulivo monumentali, anche isolati, in virtù della loro funzione produttiva, di difesa ecologica e idrogeologica nonché quali elementi peculiari e caratterizzanti della storia, della cultura e del paesaggio regionale”.

 

In particolare con l’art. 4 della Legge sulla Tutela degli ulivi secolari si definiscono le azioni sistematiche di conteggio, su proposta della commissione tecnica s’introduce un’apposita scheda di rilevazione, un modulo predisposto per la raccolta d’informazioni relative a univoche localizzazioni, proprietà, dimensione e numero delle piante, caratteri monumentali, paesaggistico-ambientali, storico-culturali, tipologie colturali.
Con tale provvedimento la Giunta regionale taglia il nastro sul rilevamento regolare degli ulivi e di uliveti monumentali, che può effettuarsi anche attraverso la stesura di convenzioni e protocolli d’intesa con altri enti o organizzazioni. Singoli cittadini, associazioni, organizzazioni, enti pubblici e loro articolazioni possono segnalare l’esistenza di ulivi e/o uliveti monumentali da sottoporre a tutela e valorizzazione.
Dopo la rilevazione sistematica e le segnalazioni, nell’art.5 si specifica l’elenco delle essenze rilevate e come il ramo ecologico della Regione su parere della commissione tecnica serba, predispone, aggiorna annualmente il censimento e definisce le risorse finanziarie per la loro tutela e valorizzazione.

Tal elenco è un contenitore d’indicazioni catastali utili per l’individuazione delle singole proprietà è pubblicato sul bollettino ufficiale della regione puglia e comunicato agli enti interessati.

A questo proposito è bene ricordare che la regione Puglia con l’art. 30 della Legge Regionale n. 14 del 31/05/2001 ha istituito “l’Albo dei monumenti vegetazionali, nel quale sono iscritti, con le loro caratteristiche fitologiche e panoramiche, gli alberi, di qualsiasi essenza, anche in forma isolata, che costituiscono elemento caratteristico del paesaggio […]”.
Con il DGR n. 345 dell’11 marzo 2011è stata pubblicata la prima lista regionale prevista dal suddetto art. 4. Si riferisce a 13.072 alberi d’ulivo monumentali dotati di numero, comune, foglio e particella, ben poco rispetto ai 354.000 ettari di oliveti considerando che il 35% sono secolari.

(23.000 ettari nel Salento): la densità di circa 4 alberi secolari ad abitante. Per dare un’idea della portata del calcolo, un ettaro di terra può ospitare circa 100 piante d’alberi secolari con sesti tradizionali regolari. Quindi un ettaro di oliveto secolare darebbe respiro a 25 pugliesi.

In ogni caso rintracciare la scheda utilizzata dalla Regione Puglia per il rilevamento e poterla confrontare con quella di altre regioni sarebbe auspicabile per dedurne delle indicazioni a supporto.

In provincia di Como ad esempio il censimento di alberi monumentali si è reso concreto con la collaborazione di appassionati ”segnalatori” supportati da tecnici esperti. Tale territorio ha reso reperibile un modulo di raccolta dati impegnando comunità montane, sedi dei comuni, enti parco, scuole, biblioteche, rifugi e associazioni di volontariato. Il documento contiene dati utili a fini dell’identificazione dell’albero e le relative istruzioni per la compilazione. Durante questa fase sono stati realizzati seminari aperti alla gente con lo scopo di far conoscere gli stessi alberi censiti.

In provincia di Mantova la scheda di rilevamento del monumento, contiene dettagli circa la località, il percorso per raggiungerlo, l’esposizione altimetrica, le coordinate geografiche, i connotati di distinzione, il nome volgare, il quadro strutturale, quello vegetativo e fitosanitario, i trattamenti eseguiti, il quadro dei vincoli, delle minacce e della tutela. Esauriente esempio di descrizione e valorizzazione tecnica ed etica.

Quali sarebbero gli strumenti adoperati per fare un buon censimento?

Ovviamente, alle soglie del 2013, pensare di setacciare un territorio equipaggiato da migliaia di olivi, con semplici strumenti è difficile ma non impossibile. La rilevazione può riportare numeri avvalendosi anche di video e supporti di definite immagini satellitari. Il Sistema Informativo GIS, utilizzato nel settore agricolo, restituisce la quantità di piante, la superficie d’incidenza (proiezione della chioma sul terreno) le eventuali perdite, a causa di un espianto, ad esempio, ma non fornisce età o carattere di monumentalità. Trovare un appezzamento, ormai, non dovrebbe essere più un problema quando s impiegano strumenti come una comune fotocamera GPS. Calcolare dimensioni e altezza quando si usano strumenti laser o a ultrasuoni è ancor più semplice.

Per l’olivo, data la sua fisiologica tendenza a svuotare il tronco, è quasi impossibile stabilire con precisione la sua età; in genere si comparano dimensioni o volume dell’albero oggetto di studio con quelli d’un campione di alberi d’età nota. La padronanza storica e geografica del territorio potrebbero comunicare informazioni sufficienti.

Un lavoro di censimento dovrebbe essere demandato ai singoli comuni perché conoscitori del loro agro e più vicini agli olivicoltori. Mappare e preservare gli alberi sul territorio di competenza è di grande utilità per conoscere, ad esempio, le misure da adottare per contenere le cause del dissesto idrogeologico o della desertificazione, creare percorsi eco turistici o favorire i prodotti tipici.

Identikit di un’oliva


di Mimmo Ciccarese

 

Indovinello salentino: “Autu, autu e lu miu palazzu, erde suntu e niura me fazzu, casciu anterra e nnu me scrafazzu, au alla chesa e luce fazzu”.

Asciula, cafareddhra, mureddrha, saracina, cilina nchiastra, licitima, fimmina e masculara, cillina te Lecce, te Nardò o te Scurranu sono solo alcuni dei sinonimi utilizzati per indicare o meglio identificare la tipica oliva coltivata nel Salento.

Di essa non si sa con esattezza per opera di quale popolo sia iniziata la sua diffusione; sarà sicuramente un affascinante racconto dissolto tra secoli di memoria e segrete leggende. Di certo c’è invece, che il valore attribuito alla coltivazione di questa varietà che oggi classifichiamo come Cellina di Nardò, è equivalente all’empatico desiderio di proteggerla. Si accendono i riflettori su questo albero.

In un modo o nell’altro il principio dell’estrazione del suo olio (uegghiu) pare sia quasi simile a quella di un tempo ma le caratteristiche fisiologiche del suo frutto non sono affatto cambiate.

Le sue drupe (ulie) riunite fitte sui rami vigorosi e assurgenti (inchi e calaturi) sono piccole ellissi, come visi bruni, in pietosa attesa di ruzzolare per essere poi raccolte e frantumate (rispicu e macinatura). L’operosità della sua raccolta scandisce due stagioni di tradizionale raccolta su quasi 60.000 ettari di meridione pugliese dove si aggira. Ogni visitatore che abbia varcato la soglia messapica ha ammirato la sua imponente meraviglia e qualcuno poi, ha chiesto addirittura di promuoverlo come patrimonio dell’umanità.

Da sempre, questa varietà, è presente nella storia dei salentini, nei loro riti, nella vita di ogni giorno e a volte ci si può meravigliare come dai suoi tronchi curvi e corrucciati (rape sturtigghiate) riescano a ricavarne un essenza così morbida e armonica al palato. L’intensità di retrogusti piacevoli di amaro e un po’piccante (pizzica alli cannaliri) con evidenti percezioni di mandorla, di pomodoro o di erba fresca sarebbero i suoi migliori requisiti.

Qualità inaspettate dall’olivo trasmesse da millenni, incantano le nostre abitudini, specialmente quando si parla di chimica che non troviamo solo nel suo olio, non di quella sintetica per intenderci, ma di quella che riguarda le sostanze naturalmente contenute nelle sue cellule.

Cellule ricche di oleuropeina, droga amara, contenuta nelle sue cellule, e di un cospicuo elenco di acidi, chinoni, flavoni, glucosidi, enzimi, tannini, zuccheri, oli essenziali e antiossidanti di natura non identificata.

Ma come ogni alimento, senza fare discriminazioni farmacologiche, il suo olio extravergine di oliva è conosciuto da sempre per le sue proprietà, per la sua composizione in acidi grassi come l’acido oleico, linoleico, linolenico e di quella benamate antiossidante e protettive vitamina.

Chi l’avrebbe mai detto che da una piccola drupa dall’insolito nome orientale potessero scaturire tante ricerche? Se ne parla da anni! Pare che l’olio estratto (10-17%) contenuto nel suo frutto aiutasse quindi a vivere meglio.

Ma come identificare la vera qualità di un olio d’oliva? Non è il caso di quantificare un valore nutrizionale di un olio mal conservato o immoralmente prodotto.

L’albero d’olivo è sacro come il suo olio, il suo produttore e la sua terra. Allora perché questa pianta così decantata diventa spesso un indistinto oggetto alla mercé di un agricoltura intensiva?

Alberi come schiavi, forzati a vegetare e produrre in fretta, drupe avvelenate da insetticidi, radici bruciate da diserbanti per semplificare la raccolta. Dovremmo chiederci spesso che fine fanno le volpi e gli uccelli che si rintanano tra i sui vetusti tronchi “benedetti”.

Può questo atteggiamento essere un incivile trasgressione per sciagurati o insani principi? Soprattutto, può questo alimento pregiato diventare mezzo di sostanze sicuramente dannose per la nostra salute? L’agricoltura salentina non sa più che olio vendere; su di essa si riabbassa la scure dei prezzi, il lavoro non si ripaga e l’albero s’abbandona. Allora, solo favorendo il consumo dell’olio da Cellina di Nardò con un scelta sana e consapevole che il Salento può ritrovare la ruralità del suo volto e a maggior ragione, prima di ogni sciagurata decisione, il diritto di ammirarne la sua bellezza.

 

La potatura del verde urbano: occorrono riferimenti comuni

di Mimmo Ciccarese

 

Mi sono spesso chiesto se nella gestione del verde urbano esistano delle buone linee guida che siano in grado di disciplinare anche la pratica della potatura. Da una prima analisi purtroppo non sono riuscito a conseguire riscontri concreti su tale argomento. Certo è che negli Stati Uniti, in molti paesi asiatici e in quelli del nord dell’Europa, esistono, già da tempo, delle “condizioni tecniche di massima per la cura degli alberi”. Tali guide, hanno la facoltà di collaudare l’adeguatezza e l’affidamento della gestione delle potature in un ambiente cittadino. Nei capitolati d’appalto non è abbastanza chiaro a cosa si riferisca quel “cura di un albero”; spesso è sottinteso che si debba recidere senza benevolenza e, ahinoi, spesso in modo illogico; è raro che si precisi qual è il vero intervento che s’intende compiere.

Il committente spesso non dirige bene tali termini e, vuoi per la fretta di finire o per qualche altro motivo, spesso si trova coinvolto nel bel mezzo di una risoluzione inspiegabile, quando il danno alla pianta è ormai irreversibile.

Mi chiedo ancora se esiste un “disciplinare delle prestazioni” che fornisca definizioni dettagliate in merito o se nella progettazione dei lavori è prevista la conveniente presenza di un agronomo o di un forestale in grado di verificare i compiti da svolgere. Spesso sono proprio i vocaboli tecnici utilizzati nelle concessioni a creare equivoci e incomprensioni; il limite che marca il termine “taglio della chioma” spesso coincide con un’altrettanta energica “spalcatura” o “capitozzatura”, senza mai definire l’entità del taglio. Forse non  tutti sanno, ad esempio, che l’asportazione di tessuto legnoso con la potatura ordinaria, non deve superare il 30% del volume dell’albero per evitare spiacevoli squilibri. A volte, specie nelle situazioni di albero in  fase di senescenza o di decadenza alcune operazioni sono anche motivate ma in molti casi ci fanno davvero riflettere se non proprio rabbrividire.

Chi ha il peso di attivare un controllo strumentale e tecnico, che sia un dirigente o un collaboratore esterno, ha il dovere di aggiornarsi sull’evoluzione normativa, prima di delegare un appalto di potatura. Per questi motivi una gestione comunale deve valorizzare l’importanza che un patrimonio vegetale ha ai fini ecologici, paesaggistici, culturali e storici nella sua area urbana. Una buona amministrazione comunale dovrebbe garantire il governo, in economia o in appalto, delle aree verdi pubbliche, con lo scopo di ottimizzarne la funzione estetica, ludica, paesaggistica e igienico- sanitaria. La politica, quella che dirige, per intenderci, dovrebbe valorizzare anche le periferie dei comuni secondo le esigenze del territorio.

Particolarmente nel sud dell’Italia lo sviluppo delle zone urbane non ha rispettato i modelli di etica sociale e la considerazione per il verde è stata veramente scarsa. Le città sono fragili e difficili, si sperimenta ogni giorno l’incremento demografico e la sua concentrazione sulle aree di verde e quel poco che c’è o rimane si tratta spesso con faciloneria. Lo comprova anche un recente dossier del WWF.  

Eppure dovrebbe esistere per ogni abitante una superficie a verde (dai dati rilevati da Legambiente nelle città italiane al media è di circa 10 m2./ab). Secondo i dati ISTAT nel 2010, nel complesso dei comuni capoluogo di provincia, la popolazione dispone di 106,4 m2 per abitante di aree verdi . L’Aquila (2.793,8 m2 per abitante), Pisa (1.514,4), Ravenna (1.234,8) e Matera (1.193,1) sono i capoluoghi di provincia che, nel 2010, presentano la maggior dotazione di verde per abitante anche per la presenza sul loro territorio di parchi naturali. Mentre la città di Lecce (con circa 175,6) si attesta al 21° posto con una densità di verde urbano per abitante del 7% ( rispetto a l’Aquila con il 71,9% e Brindisi con il 20,6%).

Molti comuni virtuosi, come il comune di Viterbo, si sono avveduti e si sono riqualificati in tempo dotandosi di apprezzabili regolamenti per la tutela del proprio verde. Altri comuni in qualche modo sono riusciti a pianificare una buona politica connettendo le proprie visioni agli innumerevoli riferimenti legislativi nazionali o regionali, ma ciò non sembra sia sufficiente.

Primo fra questi riferimenti è l’ Art. 9 della Costituzione della Repubblica Italiana: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Con questo articolo si stabilisce il valore e la tutela delle piante quale parte fondamentale del paesaggio del tessuto urbano. La legge R.D. 3267/23, quella che regola per intenderci le formazioni del bosco, poi, le norme del Codice civile, agli articoli 892 che stabilisce le distanze e le dimensioni massime che la vegetazione può raggiungere in prossimità di confini di proprietà. Così come il DM n° 1444 del 2.4.1968 all’art 4 stabilisce la “quantità minima di spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi da osservare in rapporto agli insediamenti residenziali nelle singole zone territoriali omogenee”.

Ci sono alcuni articoli del Codice della strada che stabiliscono l’obbligo per i proprietari confinanti di conservare le siepi delimitanti le strade entro i confini, la loro responsabilità in caso di danneggiamenti e le fasce di rispetto per l’impianto di siepi vive e di alberate rispetto ai confini delle arterie stradali. Inoltre un DPR n. 753 del 17 luglio 1980 stabilisce le distanze e le dimensioni massime che la vegetazione può raggiungere in funzione dell’adiacenza alle ferrovie.
La legge n.113 del 29 gennaio 1992 prescrive e sovvenziona i nuovi impianti destinati al verde e per tutti i comuni italiani un premio per la messa a dimora di un albero per ogni neonato residente. A tutto ciò si aggiungono i vari Piani territoriale paesaggistici regionali ( PTPR) che individuano tra i loro beni anche gli alberi monumentali specificandone tutte le misure di tutela e di valorizzazione, come la legge di Tutela degli ulivi secolari che sta così a cuore ai pugliesi. Come se ciò non bastasse, si dovrebbero considerare anche i vari Piani regolatori, le Norme tecniche di attuazione, PUTT, patto tra i sindaci per adeguamento al PAES ( piani azione energia sostenibile), regolamenti dell’edilizia d’igiene, delibere, ecc.

Ad ogni modo, allo scopo di pianificare una regolare manutenzione del verde, le amministrazioni comunali predispongono un censimento, da aggiornare almeno ogni quinquennio, con le finalità di creare il “catasto degli alberi”, a disposizione degli abitanti. Il censimento ha la sua importanza e deve essere redatto da un professionista abilitato che cataloga, osserva e valuta lo stato fitosanitario delle piante avvalendosi degli apparati tecnologici di rilevazione satellitare. Tutto questo servirà anche ad esaminare meglio il tipo di potatura da adottare, la pianificazione di nuovi impianti arborei e ostacolare addirittura gli abbattimenti sconsiderati. A questo proposito, si ricorda che, con il censimento del patrimonio arboreo e arbustivo pubblico si può quindi richiedere l’apposizione del vincolo (ex-D. Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 e s.m. e i). Inoltre il Ministero per i beni e le attività culturali, per mezzo dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD), cura “la definizione, anche con la cooperazione delle regioni, delle metodologie comuni da seguire nelle attività di catalogazione, anche al fine di garantire l’integrazione in rete delle banche dati regionali e la raccolta ed elaborazione dei dati a livello nazionale” e l’ICCD realizza il Sistema informativo del catalogo generale nazionale dei beni ambientali, architettonici, archeologici, artistici, storici e demo-etno-antropologici. In particolare, ICCD cura la compilazione di una scheda qualificata “Parchi e Giardini” dove vengono censiti sotto il profilo tassonomico gli individui arborei.

La potatura, a mio umile avviso, nelle aree urbane dovrebbe essere un intervento straordinario e deve limitarsi a eliminare i rami secchi, danneggiati o oggetto di patologie. La “messa in sicurezza” andrebbe sempre monitorata avvalendosi di ricorrenti analisi di stabilità (Visual Tree Assesment) e la capitozzatura andrebbe seriamente valutata e autorizzata solo dal suo settore di competenza.

Il personale specializzato (tree climber) dovrebbe avere provate abilità e buona conoscenza delle esigenze dettate dall’ambiente urbano in cui sono incluse le specie vegetali su cui opera; inoltre chi è eletto a ruolo di potatore dovrebbe cercare in ogni caso di rispettare il normale equilibrio degli organi vegetativi, cercando di non intervenire su branche e rami di calibro superiore ai 10 cm e rispettando le regole del taglio e la specie di appartenenza.

Si può richiedere il disciplinare delle prestazioni e l’elenco dei vari lavori che il potatore intende eseguire secondo il “regolamento degli appalti e dei capitolati”, che sarebbe consigliabile sfogliare prima di redigere il contratto. La descrizione della performance deve essere chiara ed precisa affinché tutti i concorrenti possano prenderne atto. Una buona esposizione dovrebbe fornire anche il costo medio di una potatura, a seconda anche dell’intensità dei tagli, alle tante modalità d’intervento che s’intendono eseguire e al dettaglio della valutazione tecnica degli alberi soggetti al taglio, per evitare sprechi di denaro pubblico.

La varietà disarticolata dei regolamenti e dei riferimenti legislativi rileva come sia doveroso, oggi, normalizzare delle linee guida comuni che aiutino a redigere o quotare una corretta gestione del verde urbano. Inoltre le procedure di conferimento di un appalto devono essere sempre trasparenti e guidate da potatori professionisti, affinché possano risolvere facilmente i vari problemi riscontrabili.

Un buon regolamento, quindi, dovrebbe favorire la tutela, il miglioramento e l’incremento della ricchezza vegetale nelle aree del territorio comunale, per preservarla; è un obiettivo da stabilire a priori oltre che uno stadio di civile condivisione.

La mia proposta è quella di istituire corsi formativi per l’acquisizione di un patentino rilasciato solo previo superamento di un esame, così come avviene per l’abilitazione all’uso dei presidi fitosanitari; un’attestazione regolare che certifichi le competenze richieste onde evitare il pericolo di potature irrazionali in ambito urbano e agricolo.

 

*Tecnico agroambientale

La potatura degli ulivi è una pratica lenta che può essere annoverata nello stile della “decrescita felice”

ph Francesco Politano

Una potatura razionale porterà alla salvezza degli ulivi.

Lo stile della decrescita felice applicata alle piante

 

di Mimmo Ciccarese

 

Solo il semplice pensiero di conoscere una pianta ci affascina e ci rende felici; pensare all’ulivo e al suo ambiente oggi, più che mai, apre nuove occasioni di confronto.  Ci siamo mai chiesti da dove proviene questa pianta o come e perché è tra di noi? La Puglia è anche olivicoltura, è risaputo, ma in che modo queste piante si sono mantenute indenni dopo secoli di storia e avversità di qualsiasi tipo; e soprattutto ci chiediamo quali sono state le soluzioni più giuste che abbiano condotto a fissare le varietà, il sito, la profondità e i sesti d’impianto che oggi evocano arte e sentimento nella gente?

Le piccole differenze ci colgono con lentezza; il periodo produttivo, che dura ancora, pur perdendosi nella notte dei tempi, scandisce con forza le nostre accorte coscienze.

L’ulivo è sacro come il suo olio e le sue foglie; il legno che trasporta e le sue radici che assorbono, si espandono e s’intrecciano oltre la proiezione della sua stessa chioma, sono una concetto ben conosciuto tra i tecnici esperti e il valore etico di un olivo è senza precedenti se si pensi, per esempio, alla terribile causa della desertificazione.

Le infiorescenze di un ulivo sono destinati a cadere in primavera ma molti fiori non verranno a frutto; solo una piccola parte delle drupe saranno raccolte per estrarre poco olio. Piccole quantità d’olio, quindi, per grandi speranze; pensare al suo frutto, quindi, significa adottare una pianta e condurla con fiducia e dedizione in tutte le sue fasi vegetative per tenerla integra e ancorata sulla sua stessa dimora.

Tecnicamente la messa a dimora è preceduta da un’accurata scelta varietale su un luogo consono alla sua struttura radicale, al sottosuolo, alla disponibilità di risorse idriche. Tutto ciò dovrebbe rendere l’idea della complessità e dell’importanza di qualsiasi forma di allevamento adottata.

E allora cosa è vitale nella pratica di manutenzione di un olivo? L’equilibrio innanzitutto, fra apparato ipogeo ed epigeo, poi una buona distribuzione della linfa e dei rami all’interno della parte aerea per evitare affastellamenti, competizioni e ombreggiamenti eccessivi. Con la potatura, occorre anche considerare la razionalità nel suo ordine spaziale, l’interazione e l’armonia con il sistema terra, spesso dinamica e variabile, od ancora la sua probabile architettura che fa tenere la pianta ancorata al suolo.

Per questo motivo un ulivo soffre se espiantato e ricollocato su un altro habitat diverso da quello d’origine, magari su un terreno argilloso o a ristagno idrico per esempio, senza considerare una appropriata valutazione tecnica.

Quanti verificano, al momento della messa a dimora il più comodo sesto d’impianto prima di decidere sulla cultivar. Al momento dell’impianto o prima di una potatura ci si chiede  quale sarebbe la più giusta esposizione e l’orientamento al sole, ai venti, al mare, alle rotazioni terrestri e perfino all’influenza lunare?

Non si può operare su un albero senza conoscere la sua morfologia, il suo atteggiamento naturale, la fisiologia dei suoi organi e condurre una potatura “a regola d’arte” senza recare danno. È questo è il motivo per cui, la responsabilità di una massa legnosa di un ulivo non può essere affidata a chi decide di allevarlo senza una minima competenza tecnica.

Quali sono le garanzie che mi offre oggi questo territorio, che ogni tanto abbatte e sradica ulivi sani e che poi perde il controllo in nome del suo tornaconto? Chi ha ricevuto il dono di questo paesaggio e l’ha accudito per decenni con estrema dedizione lo sa benissimo; e poi basta osservare la terra dal satellite per constatare il costante rapimento di superfici agricole.

Chi saranno gli eredi della tecnica del “vaso rovesciato”, della “piramide”, del “taglio di ritorno”, della “slupatura” e di tutte quelle operazioni trasmesse  nei secoli dai nostri avi?  Credete che basti poco per produrre se non si riconosce un ramo a legno da uno a frutto o vi basta solo riflettere all’ulivo come una pianta sempreverde con funzioni estetiche?

Sull’estetica ci sarebbe da dire, ma i maestri di pota sono proprio rari; qualcuno è stato riconvertito per le potature dei lecci negli ambienti urbani ed è sempre  un piacere far frutto del loro sapere. Servirà sicuramente  computare le piante, mappare un territorio e magari applicare quelle regole di potatura che possono  essere comprese veramente da chiunque.

Allora, occorre fornire ai cittadini culture tecniche adeguate per tutelare le nostre “foreste”; si dovrebbe chiedere alle istituzioni, con la forza della gentilezza, un nuovo modello di sviluppo che non perseveri verso l’abbandono di questo patrimonio.

Oggi esistono piccole realtà tecniche di supporto all’olivicoltura di qualità, ma di potatura ce n’é proprio poca; per cui ho pensato, come tecnico, di offrirmi alle vostre curiosità ed ho intenzione di promuovere questa pratica nelle scuole, nelle amministrazioni e tra le associazioni sensibili.

La potatura è una pratica lenta che può essere tranquillamente annoverata nello stile della “decrescita felice” auspicata dal filosofo francese Serge Latouche; per cui se essa può contribuire davvero al piacere collettivo benvenga tra i nostri uliveti. http://facebook.com/miciccarese

 

Ulivi monumentali: patrimonio dell’umanità e diritto alla tutela

ph Donato Santoro

di Mimmo Ciccarese

 

La Puglia, tra tutte le regioni d’Italia, ha il più rilevante patrimonio olivicolo. Oltre 350.000 ettari di superficie agricola sono coltivati a ulivo (pari al 25% della superficie agricola utile regionale); di tal estensione, il Salento leccese conserva circa 84.000 ettari di oliveti, pari a circa dieci milioni di piante. Il 30% di queste piante sono piante di età ultrasecolare.

Alberi plurimillenari, quindi, distribuiti nella penisola salentina, tra preistorici muretti a secco, dolmen e menhir, “paiare” (tipo di trulli). Queste bellezze uniche si possono ammirare, infatti, in ogni angolo del suo territorio: dalla Grecia salentina all’otrantino, dal Parco del Negroamaro al Capo Leuca, nell’Arneo.

I titoli varietali di Cellina di Nardò e Ogliarola leccese la dicono lunga sulla loro origine; ancor di più le caratterizzano gli appellativi popolari che secondo il modello delle loro produzioni vegetative e fruttifere, le indicano con nomi alquanto esotici: “saracina, morella, cafarella, cascia, nardò, termitara, scisciula, scuranese”. 

Decine di migliaia di alberi sparsi, tra cui spiccano epiteti d’eccezione per il loro regale portamento, scultura o grandezza:”albero del pastore”, “lu gigante”, “lu barone”, “la baronessa”.

La loro longevità è di grende importanza se si considera la loro resistenza genetica a varcare indenni ere di ostilità (atmosferiche, cambiamenti climatici, interessi dell’uomo).

Gli ulivi oggi sono il patrimonio e l’identità connaturata dei

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