Dialetti salentini: milaffanti, metafora di guerra o di innocenza?

di Armando Polito

L’associazione di particolari piatti a determinate ricorrenze è pratica che le diverse culture hanno messo in atto da tempo immemorabile. La globalizzazione e il consumismo, però, da qualche decennio la stanno cambiando inesorabilmente, e neppure lentamente, sicché fra poco, per fare un esempio, gusteremo in piena estate un dolce che in origine aveva nel periodo del Natale la funzione di deliziare il nostro palato e di evocare nello stesso tempo ricordi e aspettative. Mi pare che oggi qualsiasi legame col tempo che non sia il presente vada cancellato dalla coscienza e pure i piatti tipici di certe ricorrenze sono disponibili in qualsiasi periodo dell’anno, al pari della frutta fuori stagione (quella della natura prima dello stupro umano).

Il piatto nominato nel titolo non si sottrae a questo destino ed è di parziale conforto considerare che il suo consumo anche nelle grandi ricorrenze non era certo appannaggio delle classi meno abbienti, annoverando tale piatto quale ingrediente finale nella sua preparazione il brodo di carne.

Non ho intenzione di continuare nella predica, col rischio di deragliare tra i pandori (prodotto della moderna ignoranza, complice anche la cosiddetta “creatività” dei pubblicitari, accolto a braccia aperte dalla lessicografia attuale1) di personaggi considerati geniali ma che in realtà sono solo furbetti che approfittano della condizione di decerebrazione in atto, e non da oggi, sulla popolazione da parte di chi, per il proprio tornaconto e non per suo conto, gestisce il potere. Passo, perciò, ad altre considerazioni, mi auguro più in linea con le mie competenze che con quelle che possono sembrare elucubrazioni da sociologo della domenica.

preparazione dei milaffanti

 

Milaffanti: se un giorno si scoprisse un’origine araba, non mi meraviglierei più di tanto, essendoci oltretutto, per motivi storici, dei precedenti, tra i quali il salentinissimo cìciri e tria2. Nel frattempo, non mi resta che soffermarmi sul nome in sé.

Comincio col dire che il Rohlfs al lemma millaffanti (varianti registrate: melinfante e mmilleffanti; mancano quella di Nardò, milaffanti e quella di Otranto, cettafanti, ma non è questo il problema) si limita a proporre un confronto col napoletano  millenfante= pastina fine, rinviando a ffanti, dove, dopo aver dato la definizione di specie di pappa di farina, rinvia al punto di partenza.

Prima di continuare, un minimo di onestà intellettuale mi impone di precisare che tutto quello che sto per argomentare sarebbe stato trattato infinitamente meglio se il maestro tedesco avesse avuto a disposizione gli strumenti formidabili, soprattutto digitali, di cui oggi chiunque può fruire, anche se il degrado della scuola e la latitante acribia lo espongono ad ogni passo al rischi di facili entusiasmi e mastodontici abbagli. E proseguo sperando, in questo senso, di cavarmela degnamente.

Così ho potuto rilevare, accanto al napoletano millenfante, i siciliani melifanti e milinfanti3 e il milanese mennafait4. Per quanto riguarda l’etimo, l’unico proposto è quello siciliano di cui do conto nella relativa nota. Esso, però, non mi convince per evidenti ragioni fonetiche, essendo arduo già spiegarsi  il oresunto passaggio da mano a mell/mili. Al di là dei vocabolari citati, in Giuseppe Gioeni, Saggi di etimologie siciliane, Tipografia dello statuto, Palermo, 1885, p. 180, si legge: “Milinfanti, semolino, forse dal greco mylìfatos o milèfatos (μυλήφατος), macinato, tritato, come in italiano chiamasi tritollo il cruschello, o altra cosa tritata”. Anche questa proposta non mi convince, perché è basata sul riferimento di un carattere comune (tutte le farine sono passate dal mulino) ad un prodotto particolare. Ad ogni modo non mi pare secondario il fatto che una indiscutibile affinità fonetica, almeno parziale, collega i nomi con cui lo stesso prodotto è chiamato in altre zone non salentine, quali prima la siciliana e la lombarda, e a Minervino Murge, Trani e Ruvo di Puglia (mbandaridde) e nel Barese mbilèmbande).

E allora?

Molte di queste voci dialettali potrebbero aver trovato una sorta di nobilitazione (ammesso, per assurdo, che il dialetto non possa vantare alto lignaggio) nella deformazione dell’italiano mille fanti, la cui più antica attestazione è in Bartolomeo Scappi (1500-1577), cuoco segreto di papa Pio V, come è ben evidenziato nel frontespizio, che di seguito riproduco insieme col ritratto che è all’interno, della sua opera uscita per i tipi di Tramezzino a Venezia nel 1570.

 

Le pagine (sono numerate come nei manoscritti) 55r-55v contengono i capitoli CLXXI dal titolo Per fare una minestra con fior di farina, e pan grattato, volgarmente detta mille fanti & e CLXXII dal titolo Per far mille fanti di fior di farina per conservarlo.

Trascrivo i due testi per rendere più agevole la lettura e il rlevamento di quelle differenze che molto spesso accompagnano ricette con lo stesso nome.

CAPITOLO CLXXI

Piglinosi oncie dieci di fior di farina, et oncie otto di pan grattato, passato per un foratoro, et mescolinosi insieme con la farina, et con un quarto di pepe pesto, et habbianosi quattro rossi d’uove fresche, battute con un bicchiero di acqua fredda, tinta di zafferano, e stendasi essa farina su la tavola, e sbruffasi con l’uove sbattute, mescolandola leggiermente con li coltelli, overo con una paletta di legno, in modo che tal farina venga in ballottine picciole, et le dette ballottine passinosi in una tortiera per un foratoro, overo crivello leggiermente senza porre la mano nel foratoro, et quelle che da se saranno passate nella tortiera, si poneranno su la cenere calda nel modo che si pongono le torte con il coperchio caldo sopra, et lascinosi stare fibche si asciughino, et non havendo coperchio pongonosi nel forno non troppo caldo, et perche tal compositione sempre sarà humida, aspettisi che siano asciutte però non arse, et dapoi cavinosi dalla tortiera, et mettanosi sopra una tavola, percioche come i detti grani saranno all’aere verranno sodi, et rimettanosi in un foratoro ben netto, o in un setaccio chiaro, et setaccisi fuora il farinaccio, et habbiasi apparecchiato brodo grasso che bolla, et pomganovisi dentro essi mille fanti, ogni libra de quali vuole xsei libre di brodo, et quando saranno cotti, servanosi con casciograttato, et cannella sopra. In questo medesimo modo si potrebbeno cuicere con il latte di capra, o con il butiro, o acqua. Si possomo ancho conservar tre o quattro mesi dapoi che son fatti nella tortiera, ma volendo farne quantità, la parte chè rimasta nel foratoro, o nel crivello riponasi su la tavola, e spolverizzisi di farina, et battasi leggiermente con li coltelli, rivoltandola sotto sopra piu volte fib’a tanto che si vedrà, che sia ben battuta, et dapoi nel passarle per lo foratoro, et nel seccarle tengasi il medesimo ordine che si è detto di sopra.     

CAPITOLO CLXXI

Piglisi fior di farina macinata sotto la luna di Agosto, perche è piu durabile, et la quantità sua secondo se ne vorrà fare, stendasi sopra una tavola grande, et larga, habbiasi acqua tepida, mescolata con sale, et con una scopettina di mellica sbruffisi la farina di tale acqua, rivolgendola con la paletta al modo che s’è fatto de gli altri fin a tanto, che tutta sia convertita in granelli grossi come miglio, et dapoi passinosi essi granelli con il crivello sopra un’altra tavola, et faccianosi seccare al sole, facendosi cosi fin’a tanto che sia consumata tutta la farina, et quando saranno asciutti, si crivelleranno per un foratoro minuto, o setaccio chiaro, accioche se n’esca fuora il farinaccio, et si riporranno su la tavola, et si lascieranno stare per un altro dì nel Sole, et dapoi si conserveranno in sacchetti, o in vasi di legno,per tutto l’anno. E volendone fare minestra, con brodo di carne, et con latte tengasi l’ordine delli soprascritti.

Il mille fanti dello Scappi sembrerebbe non lasciare dubbi: si tratterebbe di una similitudine di natura militare, in cui i minuscoli pezzetti di pasta apparirebbero come tanti  (mille in milaffanti, cento nella variante otrantina cettafanti). Ho usato ben due condizionali perché la sfumatura, per così dire, bellica non mi trova d’accordo. A volte, come nelle persone basta un gesto impercettibile per rivelare un sentimento profondo, per le parole è sufficiente un fonema. Credo che nel nostro caso protagonista sia la consonante f. Nelle varianti salentine riportate compare due volte la sequenza consonantica –ff– (millaffanti, milaffanti e mmileffanti) e una volta –nf– (melinfante), ricorrente anche nella voce napoletana (millenfante); la variante otrantina col suo –f- in questo quadro si mostra come un apax.

Rimane il dilemma: –ff– è frutto di quel raddoppiamento espressivo che, particolarmente nella consonante iniziale (e non è questo il nostro caso) del dialetto salentino, geminazione nella fattispecie dovuta al nome composto, come negli italiani soprattutto, soprammobile, sopraggiungere etc. etc.?; e –nf– è frutto della dissimilazione di un originario –ff-? Siccome non riesco a trovare un solo esempio di questa presunta dissimilazione, sono indotto a pensare che, invece, sia –ff– frutto di assimilazione di un originario –nf– e che i protagonisti della metafora non siano i fanti, ma gli infanti. Queste due voci hanno lo stesso etimo e, in particolare, fante deriva per aferesi da infante, che è dal latino infante(m)=muto, puerile, giovane, composto da in privativo e dal participio presente di fari=parlare. Il fante, soldato a piedi, era in origine al servizio del cavaliere (ma il diminutivo fantino rappresenta una sorta di compromesso tra l’uso del caballo 4e la necessità di non affaticarlo col proprio peso, ragion per cui chi lo cavalca di regola è di bassa statura ), concetto di subalternità presente anche in fantesca, mentre quello di giovane sussiste in fantolino e fanciullo (il prmo diminutivo di diminutivo: fante>fàntolo>fantolino; il secondo, con sostituzione di suffisso, da fancello, a sua volta per sincope da fanticello), oltre che nello spagnolo infante e infanta (titolo spettante agli eredi al trono non diretti e nel francese enfant. Per completare il tutto va detto che pure fantoccio in origine era sinonimo di giovane ragazzo e che in seguito ha assunto la valenza dispregiativa prima parziale a designare il burattino, poi totale quando la metafora ha coinvolto il singolo  adulto e perfino lo stato e il governo.

Il precedente dilemma di natura fonetica si complica ora con risvolti storici non di poco conto in un nodo pressoché inestricabile. Se –nf_ e non –ff– è il nesso consonantico originario, per milaffabti va messo in campo il fante, l’infante o l’enfant,  per cui la similitudine sarebbe guerrafondaia (!) o pacifista (?) pacifista, a seconda che l’immagine evocata sia quella dei soldatini oppure quella dei bambini. In un caso o nell’altro c’è il ricorso al concetto del piccolo, presente anche nel nome di due piatti dolci di questo periodo: purciddhuzzi5 e cartiddhate6.

L’interrogativo, poi, presente fin dal titolo ed evocato dalle due immagini di testa [(milaffanti fatti da mia moglie il 24/12/2023 )/Armata di terracotta (III secolo a. c.)] non è stato sciolto, ma l’angoscia del dubbio sia lenita, almeno parzialmente, da quella di coda (fine fatta dai milaffanti della prima il giorno successivo)!

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1 Sul sito dell’Accademi della Crusca (https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/pani-di-natale/1387) si legge: … oggi la lessicografia sincronica è concorde nel considerare il termine declinabile: dunque, pandoro al singolare, pandori al plurale. Un po’ di pazienza: basta che per motivi commerciali da  faccia di bronzo nasca (così come per l’originario pan d’oro) un facciadibronzi perché la materia viva il miracolo della sua moltiplicazione nel complemento che da lei prende il nome). E poi, per violentare pure la creatività, quella vera, di De Andrè, prendiamo Bocca di rosa, trasformiamolo in Boccadirosa e lanciamo con questo nome un profumo; non trascorrerà nemmeno una settimana e nasceranno locuzioni del tipi: ho comprato cinque Boccadirose e nel corso dello stesso anno  la lessicografia registrerà con servile acquiescenza Boccadoro al singolare e Boccadori al plurale …

E io, che pensavo di mettendo a Ferr…agni e fuoco i pandori, sto ancora a Baloccarmi (a questo punto l’iniziale maiuscola è d’obbligo).

2 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/18/un-antichissimo-piatto-salentino-ciciri-e-ttria/

3 Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, 1789: “Vedi Cuscusu. P. MS. dice: Insubres menafatti appellant farinae inspersione densam granorum congeriem, quasi manu facta sive coacta” (Gli Insubri chiamano menafatti un insieme di grani di farina denso con lo sparpagliamento, quasi fatto o compresso con la mano).

4 Francsco Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Dalla regia stamperia, Milano, 1841: “La nostra è voce antica che leggesi negli Statuti degli offellatori milanesi, a p. 16″. Offellatori è da offella, diminutivo del latino offa=focaccia, boccone. L’indicazione p. 16 indurrebbe a supporre che si tratti di un testo a stampa (purtroppo finora irreperibile in rete) , abche se è più probabile che si tratti di manoscritto, di reperibilità ancora più difficile.

5 Trascrizione di un inusitato italiano porcellucci, plurale diminutivo del diminutivo di porco (porco>porcello>porcelluccio). Non è necessaria molta fantasia per comprendere la similitudine, anche questa, come la maggioranza, tratta dal mondo animale.

6 Trascrizione di un inusitato italiano cartellate. Qui c’è lo zampino della dominazione spagnola che ci ha lasciato, oltre la pessima abitudine di esagerare nell’esibizione di titoli e di iniziali maiuscole, anche il retaggio di molte parole, tra cui cartiglio, a sua volta da cartiglia, che è dallo spagnolo cartilla, diminutivo del latino carta.

Millefanti sul desco pasquale

Un piatto tipicamente pasquale che si consuma a Nardò (e probabilmente in altri comuni del Salento) è quello dei milaffanti, una pasta miniaturizzata, altamente calorica e ricca dal punto di vista nutrizionale.

sfregamento dell’impasto per ottenere i milaffanti

Maria Antonietta Mea come Nicola Cacudi?

 

Qualche settimana fa il destino ha voluto che mi occupassi di Nicola Cacudi e a chi volesse saperne di più segnalo il link https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/29/nicola-e-maria-cacudi-ovvero-una-memoria-sonora-salentina-di-100-anni-fa-fissata-e-custodita-in-francia/.

Mi preme, però, aggiungere che la scorsa settimana il signor Marcello Olive di San Pietro in Lama mi ha voluto onorare della sua visita portandomi in dono, come mi aveva telefonicamente comunicato che avrebbe fatto dopo la lettura del post al link appena citato, un libro di Nicola Cacudi che per me ha un triplice valore. Anzitutto sentimentale, come facilmente si può immaginare, poi bibliografico trattandosi di un’edizione, la terza, del 1924 (la prima era uscita presso lo stesso editore nel 1922, la seconda a Parigi senza indicazione del nome dell’editore nel 1923) e, classica ciliegina sulla torta, il fatto che esso non compare nel catalogo dell’OPAC, il che lo rende, direi, raro e ancor più prezioso, almeno per chi sa apprezzare questo tipo di unicità …

Lo stesso imprevedibile destino mi ha fatto casualmente scoprire sul web l’immagine di testa che ritrae un lavoro di Maria Antonietta Mea. E, se la comune salentinità mi ha obbligato a divulgare quel che ho scoperto su Nicola Cacudi, una comunanza ancora più stretta (la chiamiamo neretinità?) mi stimola a occuparmi di questo testo.

E lo farò in modo insolito, cioè senza averlo letto, anche perché i panni del critico letterario (almeno quelli consueti) non mi si addicono. A dire il vero qualche cosa ho letto, cioè quelle poche pagine (ed è giusto che sia così finché durano i diritti d’autore) che l’opzione libri di Google consente.

Così, come non si prova quantomeno interesse nel leggere i brani in cui compare, pure accompagnata dal suo bravo articolo, la parola cuenzu?

A pagina 8:

“- Lu cuenzu– c’est le nom salentin d’une ligne de pêche dont elle n’avait jamais réussi à retenir la désignation italienne -s’est encore emmêlé?-”

(- Lu cuenzu- è il nome di una lenza da pesca della quale essa non era mai riuscita a ricordare il nome italiano – si è ancora imbrogliata?-)

Lu cuenzu consistait en une ligne mère d’environ 150 mètres terminée par una petite voile et un baton au centre duquel se croisaient deux tiges servant de flotteur. De la ligne maîtresse pendaient, à intervalles réguliers sur environ deux mètres, des avançons supportant des hameçons appâtés au moyen d’ablettes que son père achetait fraîches à la marina et que sa mère aurait plus volontiers fait frire à la poêle.”

(Lu cuenzu consisteva in una lenza madre di circa 150 metri terminante con una piccola vela ed un bastone al centro del quale s’incrociavano due gambi che fungevano da galleggianti. Dalla lenza madre pendevano, a intervalli regolari di circa due metri, degli inviti recanti ami che recavano come esca al centro pesciolini bianchi che suo padre comprava alla marina e che sua madre avrebbe più volentieri fritto in padella).

Alle pagine 10-11:

“À chaque fois, après les retours bredouilles ou triomphants, s’ensuivait una opération inevitable: ranger et laver lu cuenzu, et le faire sans plus attendre, avant qu’il fût envahi par les fourmis et que le traits de maman Linda ne s’assombrissent pendant des heures. La meilleure métodhe consistait à disposer, en cercle dans un grand panier, la ligne maitresse et ses avançons, puis à piquer au fur et à mesure les hameçons sur le large bord en paille rembourré de liège. Très souvent il arrivait que les lignes et les hameçons s’entremêlassent, ce qui faisait perdre patience à papa après quelques tentatives. C’est alors qu’il se remettait à sa fille. Agata considérait cette tâche comme un défi. Elle regardait le noeud de fils de nylon et de petits crochets avec attention: sans y toucher, elle s’efforçait de comprendre quel était l’hameçon qui, una fois liberé, lui permettrait de dénouer tous les autres plus facilement. L’un après l’autre, avec des geste précis afin de ne pas se piquer, tirant légèrment un fil pour en découvrir l’origine, elle libérait et piquait chaque petit crochet au bord du panier. Son père suivait l’opération en souriant, satisfait de constater que sa fille se montrait si douée pour démêler les hameçons.”

(Ogni volta, dopo il ritorno borbottante o trionfante, seguiva un’operazione inevitabile: riordinare e lavare il cuenzu1 e farlo senza perdere tempo, prima che fosse invaso dalle formiche e che il volto di mamma Linda non si oscurasse per ore. Il miglior metodo consisteva nel disporre in cerchio in un grande paniere la lenza madre e i suoi inviti, poi appuntare a intervalli regolari gli ami sul largo bordo  in paglia rivestito di sughero. Spesso succedeva che le lenze e gli ami si imbrogliassero, cosa che faceva perdere la pazienza a papà dopo qualche tentativo. Era il momento in cui ricorreva all’aiuto di sua figlia. Agata considerava questo lavoro come una sfida. Guardava  il nodo di fili di nilon e di piccoli ganci con attenzione: senza mettervi mano si sforzava di capire qual era l’amo che una volta liberato le avrebbe permesso di liberare tutti gli altri più facilmente. L’uno dopo l’altro, con gesti precisi per non pungersi, tirando leggermente un filo per scoprirne l’origine, liberava e fissava ciascun piccolo gancio al bordo del paniere. Suo padre seguiva l’operazione sorridendo, soddisfatto di constatare che sua figlia si mostrava così brava a liberare gli ami)

E l’elemento descrittivo non perde l’occasione di riportare alla memoria (ahimé solo in chi ha i miei anni o più …) locuzioni antiche. È il caso dell’acqua ‘ssale.

A pag. 27:

“Une fois par semaine, dans la maison en ville, on préparait le pain. Lorsque, après trois ou quatre jours, il commençait à durcir, on le traitait de manière à ce que meme les grands-paretnts, qui avaient des dents peu fiables, pussent le consommer. On en trempait de gros morceaux dans du lait ou dans <<l’acqua ‘ssale>> – de l’eau additionnée d’huile, de sel, de tomates, de câpres et d’olives noires – ou on l’humidifiait tout simplement. On disait aux plus jeunes que le pain dur donnait les cheveux bouclés. Si de la moisissure s’y était installée, pas de souci, elle aussi jouait son role: elle faisait venir des dents en or.”

(Una volta alla settimana, nella casa in città, si preparava il pane. Quando, dopo tre o quattro giorni, cominciava ad indurire, lo si trattava in maniera che anche i nonni, che avevano denti poco affidabili, potessero consumarlo. Se ne inzuppavano grossi pezzi nel latte o nell’acqua ‘ssale2, acqua con aggiunta di olio, sale, pomodori, capperi e olive nere, o lo si bagnava semplicemente. Si diceva ai più giovani che il pane duro rendeva i denti saldi. Se vi si era formata della muffa, niente paura, pure essa giocava il suo ruolo: faceva nascere dei denti in oro).

Per restare, ancora,  alla gastronomia, non potevano mancare i milaffanti.

A pag. 146:

“Il y avait un menu traditionnel pour Noël et pour Pâques. À ces deux fêtes trônaient deux antiques soupières de porcelain blanche, avec leur covercle pour conserver au chaud la poule au pot. Pas de tortellini, probablement encore inconnus dans le Sud, mais des farfalline aux oeufs à Noël et des milaffanti43 à Pâques.”

(C’era un menu tradizionale per Natale e Pasqua. In occasione di queste due feste troneggiavano antiche zuppiere di porcellana bianca, con il loro coperchio per conservare al caldo la gallina in pentola. Niente tortellini, probabilmente ancora sconosciuti nel Sud, ma farfalline all’uovo a Natale e milaffanti a Pasqua).

E in nota 43 l’annotazione filologica: “Milaffanti: nom d’origine incertaine, peut-être dérivé de <<mille fanti>>, mille fantassins. Préparation de grossières bouchées de farine de semoule mêlée d’oeufs, de fromage, de persil et de sel, à cuire dans la soupe.”

(Milaffanti: nome di origine incerta, forse derivato da mille fanti, mille soldati di fanteria. Preparazione di grossolani bucatini di farina di semola impastati con uova, formaggio, prezzemolo e sale, da cuocere nel brodo)3

Insomma, la salentinità che trova espressione in un testo di una neretina in francese (non so se scritto direttamente in francese o tradotto dall’italiano e da chi),  pubblicato in Francia. Auguro, per concludere, ogni successo alla mia concittadina ricordando al femminile il nemo propheta in patria già usato per Nicola Cacudi: nemo fatidica in patria …

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1 Per cuenzu: https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/21/11025/

2 Per acqua ‘ssalehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/19/acqua-e-sale-un-fresco-piatto-salentino/

3 Ad Otranto millaffanti, a Melendugno mmilleffanti, a Mesagne millinfanti. Ad integrazione di quanto si legge nel post dell’amico Marcello Gaballo (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/31/millefanti-sul-desco-pasquale-2/) riporto in coda il frontespizio del saggio di Paolo Zacchia e il dettaglio della pagina 99 in cui compare (l’ho sottolineato in rosso) millefanti. Aggiungo che la voce potrebbe essere deformazione di millefranti, presente in rete ma non ne ho trovato attestazione letteraria, per cui temo che sia una delle tante italianizzazioni arbitrarie; se così non fosse il riferimento non sarebbe alla somiglianza a mille soldatini (addirittura fante potrebbe qui essere stato usato nel significato di bambino presente già, per fare solo un esempio, nel Boccaccio, per cui la variante di Mesagne non nascerebbe da dissimilazione del raddoppiamento, espressivo?,  ipotizzabile in prima battuta nelle varianti di Nardò, Otranto e Melendugno) ma alla dimensione dei singoli pezzi derivanti dalla frantumazione dell’impasto.

4

Millefanti sul desco pasquale

Un piatto tipicamente pasquale che si consuma a Nardò (e probabilmente in altri comuni del Salento) è quello dei milaffanti, una pasta miniaturizzata, altamente calorica e ricca dal punto di vista nutrizionale.

sfregamento dell’impasto per ottenere i milaffanti

Millefanti sul desco pasquale

Un piatto tipicamente pasquale che si consuma a Nardò (e probabilmente in altri comuni del Salento) è quello dei milaffanti, una pasta miniaturizzata, altamente calorica e ricca dal punto di vista nutrizionale.

sfregamento dell’impasto per ottenere i milaffanti

 

 

La si ottiene mescolando semola di grano duro con uova e formaggio pecorino stagionato, fino ad ottenere un impasto friabile, che verrà ridotto in piccoli frammenti ottenuti dallo sfregamento tra le dita delle mani. Aspersi con semola asciutta per tenerli separati, vengono lasciati per un paio d’ore su di un telo perché asciughino, vengono cotti per circa quindici minuti in brodo di carne (di gallina un tempo, di vitello oggi). Un mestolo per piatto, con abbondante brodo e ulteriore spolverata di formaggio grattugiato.

Questi gli ingredienti per sei persone: 1 Kg di semola, 6 uova fresche, 200 g. di formaggio pecorino, una manciata di prezzemolo tritato, sale q.b., brodo di carne.
Il tradizionale piatto, notoriamente rapido nella preparazione, è tramandato da generazioni, senza poter risalire a chi lo abbia introdotto tra la popolazione. Massimo Montanari su Repubblica del 10 gennaio 2010 (p. 37) scrive delle “minestre di pasta” elencate da Paolo Zacchia, l’archiatra di Papa Innocenzo X, inserendo tra i cibi per il “vitto quaresimale” (1636) le pastine “piccole e tonde, come quelle che chiamano millefanti”. Il sospetto che il nostro piatto sia il medesimo è troppo forte, magari importato da uno dei monaci dei tanti conventi cittadini o da qualche alto prelato che abbia condotto i suoi studi nell’Urbe. Volendo andare ancor più indietro è inevitabile il richiamo al più noto ed antichissimo cuscus.

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