Gaetano Salvemini e lo strappo dal meridionalismo moderato di Villari, Sonnino, Franchetti, Fortunato

di Michele Eugenio Di Carlo

 

Gaetano Salvemini, nato a Molfetta l’8 settembre 1873, è stato uno dei maggiori intellettuali italiani della prima metà del Novecento. Storico, giornalista, politico, attento studioso delle condizioni sociali ed economiche del Mezzogiorno, ha dato vita a una critica radicale al meridionalismo moderato interpretato dagli esponenti che facevano capo alla rivista fiorentina “Rassegna settimanale”, fondata nel 1878 dai giovani toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, autori de “La Sicilia del 1876” [i]. Rivista che aveva accolto tra le sue fila meridionalisti di spessore quali Pasquale Villari, autore delle “Lettere meridionali” [ii], e Giustino Fortunato, che già nel 1879 aveva scritto “La questione demaniale nell’Italia meridionale” [iii].

Gaetano Salvemini

 

I cosiddetti “rassegnati” [iv] avevano fatto emergere la questione meridionale. Partendo da Villari, avevano stimolato finalmente un dibattito serio sulle condizioni sociali ed economiche del Mezzogiorno, riservando alle politiche governative dei primi decenni una critica serrata, parte rilevante della storia del meridionalismo. Grazie ad essi la questione meridionale era diventata una questione nazionale, sempre e solo nell’ambito limitato di un contesto politico conservatore che, nel 1876, passava dalla Destra storica alla Sinistra. Molti dei rassegnati, nell’ambito del trasformismo inaugurato nel 1882 da Agostino De Pretis, avrebbero fatto carriera, rivestendo anche ruoli politici di prim’ordine.

Gli intellettuali della “Rassegna settimanale” avevano ingenuamente confidato nel riformismo sociale dello Stato e nel senso di responsabilità della potente classe della borghesia agraria latifondista, affinché si ponesse fine alla discriminazione che il Mezzogiorno e le sue masse popolari subivano in ragione di scelte politiche economiche e fiscali inique. Ma il divario Nord-Sud, a fine secolo, era notevolmente cresciuto, come rimarcava Francesco Saverio Nitti nel 1900 in “Nord e Sud” [v], opponendosi radicalmente a chi tentava di ridurre il mancato sviluppo del Mezzogiorno a condizionamenti di natura antropologica, trascurando totalmente studi, analisi, statistiche, bilanci statali, che attestavano distintamente che il divario era nient’altro che il risultato untuoso di scelte politiche economiche, finanziarie e fiscali.

Lo storico Massimo Luigi Salvadori, in un saggio su Salvemini[vi], in merito alla critica netta ai “rassegnati”, riporta le seguenti rivelanti parole dell’intellettuale pugliese: «Se sono stati studiati benissimo i rimedi, non è   stato ancora detto chi rimedierà. In generale gli studiosi del problema meridionale questa domanda o non se la mettono mai o rispondono subito con una parola bisillaba: lo Stato! […] E lo Stato fa il sordo. E poi studiosi continuano nelle loro concioni e eloquentissime. Lo Stato italiano non farà mai nulla, come non ha fatto finora mai nulla»[vii].

Gaetano Salvemini si laurea in Lettere a Firenze nel 1896, dove riceve le lezioni di storia di Pasquale Villari. Nell’ex capitale toscana frequenta i circoli socialisti ed entra in contatto con il materialismo storico, maturando una tendenza già innata a difendere i diritti degli ultimi. Già nel 1898, a soli venticinque anni, Salvemini pubblica il saggio “La questione meridionale”, in cui valuta il sottosviluppo del Mezzogiorno basandosi su ricerche storiche e individuando nell’accordo tra la borghesia industriale del Nord e quella agraria del Sud, – complice lo Stato sabaudo -, le ragioni reali e concrete dell’arretratezza. Un’arretratezza che si basa sulla conservazione voluta di una struttura economica nel Mezzogiorno semifeudale, dove i cittadini sono tenuti in condizioni di totale sottomissione al ceto dominante, con governi sempre pronti alla repressione violenta dei frequenti moti popolari o rivolte. Da qui la polemica salveminiana contro i governi liberali, la critica ai meridionalisti moderati, immobilizzati alla ricerca sterile di un solo immaginaile “mito del buongoverno”. Il tutto mentre cresce l’esigenza di costituire una forza politica e un blocco sociale che tutelino finalmente il Mezzogiorno, quando i suoi rappresentanti in Parlamento vengono accuratamente selezionati per tutelare gli interessi degli industriali del Nord e dei latifondisti del Sud.

Il radicalismo classista di Salvemini lo porta a fine secolo a immaginare la fine di una monarchia, che aveva tentato, nel 1894, con Francesco Crispi contro i fasci siciliani e, nel 1898, con Antonio Starabba di Rudinì a Milano e altrove, la repressione violenta dei moti e delle rivolte causate dal carovita e l’adozione permanente delle cosiddette leggi liberticide. Ma nonostante l’avvento al potere di Giuseppe Zanardelli nel 1901, che inaugura l’Età giolittiana, le aspettative democratiche e repubblicane di Salvemini andranno deluse: non saranno attuate quelle politiche antiprotezioniste tanto auspicate a garanzia delle masse contadine del Mezzogiorno con l’accordo delle rappresentanze operaie del Nord.

Salvemini, infatti, aveva pienamente aderito alla battaglia antiprotezionista che il corregionale Antonio De Viti De Marco aveva condotto per primo all’indomani della tariffa doganale del 1887 e che, secondo il salentino, determinava la caduta innaturale dei prezzi dei prodotti agricoli e l’aumento dei prezzi dei manufatti provenienti dalle industrie del Nord, entrambi fattori responsabili di una «depressione economica cronica dell’Italia meridionale»[viii].

Lo storico pugliese, nel mentre il nuovo secolo si presenta con migliori prospettive in termini di legislazione sociale e di peso dei partiti che difendono i diritti dei lavoratori (il radicale Mussi a Milano viene eletto sindaco nel 1899, i socialisti raddoppiano gli esponenti in Parlamento nel 1900), diventa titolare della cattedra di Storia all’università di Messina.

L’inizio del Novecento è anche il momento in cui Francesco Saverio Nitti esprime in “Nord e Sud” la sua radicale critica regionalista alle politiche governative dei primi quarant’anni del Regno d’Italia; un’ analisi che lo storico Salvatore Lupo riassume e sintetizza compiutamente con le seguenti espressioni: «Il Sud ha ricevuto dall’Unità grandi danni, perché le politiche del debito pubblico e del prelievo fiscale lo hanno espropriato dell’abbondante capitale circolante del periodo borbonico, perché le industrie allora fiorenti sono state rovinate dalle scelte libero-scambiste del nuovo Stato, perché i lavori pubblici sono andati al Nord, perché gli impiegati sono in maggioranza settentrionali». Una dura presa di posizione e una ferma scelta di campo che impegna a fondo Giustino Fortunato nel cercare di parare i contraccolpi, allarmato e consapevole che gli scritti del melfese stavano alimentando le già consistenti nostalgie borboniche e i lievitanti sentimenti antiunitari, che nel rionerese avevano sempre trovato un fiero e determinato oppositore, quale convinto allievo desanctisiano[ix].

Un atteggiamento, quello di Fortunato, che induce Antonio Gramsci a ritenerlo, insieme a Benedetto Croce, tra «i reazionari più operosi della penisola», sempre attento a che l’ «impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria»[x]. Un atteggiamento che non lascia indifferente lo stesso Nitti che nel 1903 scrive: «Quando pubblicai il mio libro Nord e Sud sentii dirmi d’ogni parte, soprattutto dai meridionali: – Voi aumentate la discordia». Per Nitti, invece, le sue analisi potevano produrre del bene, aumentare il controllo, diminuire gli abusi; occorreva al contrario temere «la rassegnazione torpida da una parte, la spoliazione sistematica dall’altra»[xi].

Salvemini rappresenterà pienamente le tendenze regionaliste e antigovernative, contro le politiche protezioniste di inizio Novecento e tenterà anche, tra le soluzioni possibili per uscire dall’asfissiante centralismo inaugurato con il processo unitario, la via del federalismo in relazione alle tesi di Carlo Cattaneo.

La travagliata esperienza con il Partito socialista si conclude nel 1911, quando Salvemini prende atto che la sua idea di legare i destini del mondo operaio del Nord con quello dei contadini meridionali, al fine di scalfire l’egemonia del blocco agrario latifondista del Mezzogiorno e quello industriale della borghesia settentrionale, non avrebbe avuto un futuro.

È questo l’anno in cui Salvemini fonda “L’Unità”, iniziando o proseguendo un’intensa collaborazione con gli intellettuali che si oppongono alle posizioni protezionistiche di Antonio Giolitti. Tra questi intellettuali è bene ricordare Luigi Einaudi, Edoardo Giretti, Gino Luzzatto, Giustino fortunato, Giovanni Carano Donvito, Umberto Zanotti Bianco, oltre a Piero Gobetti, Ernesto Rossi, Pietro Calamandrei. Un giornale che dal 1911 al 1920 affronta ed esamina tutti i temi caldi di una società che va incontro alla tragedia della guerra mondiale, e che già normalmente deve affrontare e risolvere mille problemi, dalle questioni tributarie e fiscali alle necessarie riforme elettorali, dagli esiti delle politiche protezioniste alla questione meridionale, dall’esodo migratorio alla riforma agraria.

Il Salvemini interventista entra poi in relazione, incoerentemente, con i nazionalisti e con la Destra fino a trovare nella monarchia elementi positivi, dimenticando che il peso maggiore della guerra lo avevano subito pesantemente proprio i suoi contadini del Sud. E nel dopo guerra, distante ormai dai socialisti che lo avevano deluso sul piano del liberismo economico e della questione meridionale, si ritrova in Parlamento grazie alla vicinanza con i gruppi combattenti, dai quali ben presto prende le distanze quando respinge le tentazioni autoritarie del nascente fascismo. Un fascismo che lo vede esule, dopo l’arresto del 1925; prima a Parigi, dove nel 1929 dà vita con altri intellettuali antifascisti (Tarchiani, Lussu, Cianca, Nitti, i fratelli Rosselli, Rossi, Parri, Ginzburg) al movimento Giustizia e Libertà, poi ad Harvard, dove insegna Storia della civiltà italiana.

Tornato in Italia nel 1949, Salvemini riprende a insegnare a Firenze. Lo storico piemontese Salvadori riassume le riflessioni degli ultimi anni di vita dell’intellettuale pugliese: aveva perso la fiducia nella capacità delle élite meridionali, non nutriva più grandi speranze nel suffragio universale che il «ministro della malavita» Giolitti aveva concesso nel 1912, si era ricreduto persino sul federalismo, quasi a permettere una «rivincita tardiva di Turati» che aveva profondamente osteggiato, quasi «un’implicita presa di posizione critica nei confronti della “rivoluzione meridionale” progettata da Dorso» e, persino, «guardando le forze in campo a favore del Sud, non ne vedeva altra se non i comunisti», di cui aveva aspramente combattuto non solo l’ideologia, ma in maniera decisa la linea politica[xii].

 

[i] L. FRANCHETTI – S. SONNINO, La Sicilia nel 1876, Firenze, Barbera, 1877.

[ii] P. VILLARI, Lettere meridionali al direttore dell’Opinione: marzo 1875, Torino, Tipografia l’Opinione, 1875.

[iii] G. FORTUNATO, La questione demaniale nell’Italia meridionale, «Rassegna settimanale», 2 novembre 1879.

[iv] Intellettuali della rivista «Rassegna settimanale».

[v] F.S. NITTI, Nord e Sud, Torino, Roux e Viarengo, 1900.

[vi] M.L. SALVADORI, Gaetano Salvemini riformista e meridionalista, in Lezioni sul meridionalismo (a cura di Sabino Cassese), Bologna, Società editrice il Mulino, 2016.

[vii] Ivi, p. 133.

[viii] A. DE VITI DE MARCO, Finanza e politica doganale, «Giornale degli economisti», gennaio 1891; ora in R. VILLARI (a cura di), Il sud nella storia d’Italia, vol. 1°, Bari, Laterza § Figli, 1966, p. 202.

[ix] S. LUPO, Storia del Mezzogiorno, questione meridionale, meridionalismo, «Meridiana», n. 32, a. 1998, p. 38.

[x] A. GRAMSCI, Alcuni temi della quistione meridionale, in Id., Scritti sulla questione meridionale (a cura di M. Rossi-Doria, vol. III, Bari, Laterza, 1978, pp. 14-15.

[xi] F.S. NITTI, Napoli e la questione meridionale, in Id., Scritti sulla questione meridionale (a cura di M. Rossi-Doria), vol. III, Bari, Laterza, 1978, pp.14-15.

[xii] M.L. SALVADORI, Gaetano Salvemini riformista e meridionalista, in Lezioni sul meridionalismo (a cura di Sabino Cassese), Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 140-141.

Il salentino Antonio De Viti De Marco e la battaglia antiprotezionista contro la tariffa doganale del 1887

di Michele Eugenio Di Carlo

 

Le tesi meridionaliste del salentino Antonio De Viti De Marco, nato a Lecce il 30 settembre 1858, possono essere ritenute, per alcuni versi, la via di passaggio da un meridionalismo moderato liberale, incarnato da Villari, Franchetti, Sonnino, Fortunato, a un meridionalismo popolare, democratico, rivoluzionario, che con Salvemini, Gramsci, Dorso segnerà lo strappo definitivo dalle pretese antipopolari e autoritarie della monarchica sabauda e dalla gestione illiberale dei governi conservatori dei primi quarant’anni unitari. Il transito quindi da un meridionalismo critico, ma piantato nell’alveo di governi fedeli alla monarchica sabauda dai labili e, spesso inapplicabili, principi di democrazia liberale, a un meridionalismo di rottura che prevedeva il netto superamento della monarchia e indicava la via di una nuova forma di gestione del paese, democratica, repubblicana, partecipata dalle masse popolari.

De Viti De Marco è sostanzialmente un liberaldemocratico, tanto che aderisce nel 1904, insieme a Francesco Saverio Nitti, al neonato Partito Radicale Italiano, l’ala più moderata e liberale della Sinistra non trasformista. Dal punto di vista economico è stato uno dei maggiori liberisti ed è in questa veste che sviluppa la sua polemica contro la tariffa doganale protezionista del 1887. Da questo punto di vista imposta il suo meridionalismo, portando avanti per primo la tesi che la protezione degli interessi industriali del Nord ha danneggiato irrimediabilmente l’economia e lo sviluppo del Mezzogiorno.

Antonio De Viti De Marco

 

De Viti De Marco, nonostante nella prima fase avesse visto nel fascismo una possibilità concreta di riforme e una barriera contro il pericolo socialista, diventa antifascista appena si rende conto che democrazia e libertà sono a rischio. Nel 1931 è uno dei diciotto docenti universitari che rifiuta, perdendo la cattedra, di prestare giuramento di fedeltà al regime fascista come previsto dal decreto regio n. 1227 del 28 agosto 1931.

Il salentino, nato in una famiglia di grandi proprietari terrieri di origini nobiliari, consegue la laurea in Giurisprudenza a Roma nel 1881 e, passando per le università di Camerino, Macerata e Pavia, giunge ad ottenere la cattedra di Scienze delle finanze nel 1887 proprio nella Capitale. Nel 1890, insieme ai fedeli amici economisti Maffeo Pantaleoni, conosciuto durante gli studi universitari, e Ugo Mazzola, acquisisce la maggioranza azionaria della nota rivista accademica “Giornale degli economisti”, diventandone condirettore.

De Viti De Marco non usa mezzi termini per contestare la tariffa doganale del 1887, posta a tutela degli interessi delle piccole e nascenti industrie del Nord, a discapito del mondo agricolo meridionale. Diventa sicuramente il capostipite della campagna antiprotezionista e del liberalismo economico, tanto che già nel 1891 pubblica sul “Giornale degli economisti” un articolo che precisa le sue posizioni denunciando un protezionismo che altera il corso dello sviluppo economico incentivando una politica che sacrifica il mondo agricolo più produttivo. Come rivela chiaramente lo storico Rosario Villari, riprendendo l’articolo dell’economista salentino, il protezionismo «devia i capitali e le energie dai settori più produttivi, instaura un rapporto privilegiato e parassitario tra produttori e consumatori nocivo alla vita economica e politica; aggrava e rende permanente, in particolare, lo squilibrio tra Nord e Sud»[i].

La tariffa protezionista del 1887, votata a larga maggioranza in Parlamento, aveva garantito con il dazio sul grano il silenzio e la complicità dei grandi proprietari latifondisti, ma aveva determinato un forte contrasto con gli altri comparti agricoli più intensivi e produttivi, innanzitutto con il settore della viticoltura, le cui esportazioni con la Francia erano entrate in una profonda e irrisolvibile in crisi.

 

Per De Viti De Marco, che considera e condivide quanto scrive il direttore del “Giornale degli economisti”, Ugo Mazzola, sul «connubio tra protezionisti industriali e agrari»[ii], il dazio sul grano è «il prezzo che i così detti ceti agrari, auspici gli on. Branca e Salandra» avevano ricevuto in cambio dell’appoggio ai «dazi industriali propugnati dagli on. Ellena e Luzzatti»[iii]. Ma i dazi sul grano e sul riso, secondo l’intellettuale pugliese, erano inefficaci, in quanto la produzione di grano e riso era quasi sempre sufficiente al consumo interno, mentre la chiusura del mercato francese causato dalla tariffa doganale aveva comportato la caduta innaturale dei prezzi di olio e vino. Inoltre, l’applicazione della tariffa aumentava i prezzi dei manufatti prodotti in regime protetto dalle industrie del Nord che andavano a gravare soprattutto sul Mezzogiorno, oltre che sulle entrate dello Stato; infatti, «i produttori di grano, di olio, di vino, di riso, di bestiame, ecc., videro a un tratto falcidiato il loro reddito non solo in ragione della caduta dei prezzi agricoli, ai quali vendevano i loro prodotti, ma ancora in ragione dei prezzi industriali, ai quali compravano!». Per De Viti De Marco queste erano le due cause della «depressione economica cronica dell’Italia meridionale. L’una dovuta al protezionismo francese, l’altra al protezionismo italiano». Per l’economista salentino non vi erano dubbi: i maggiori prezzi dei manufatti industriali nazionali erano dovuti ai costi di produzione non competitivi di un’industria nazionale che riteneva poco produttiva. Le tariffe doganali avevano deviato «il capitale e il lavoro dagl’investimenti più fruttiferi», diminuendo complessivamente «la produzione nazionale e quindi la ricchezza privata del paese», da cui derivavano le entrate pubbliche[iv].

L’Italia dei primi anni del Novecento – l’economista salentino veniva eletto in Parlamento nel 1901, rimanendoci quasi ininterrottamente fino all’avvento del fascismo – aveva appena superato il tragico ultimo decennio dell’Ottocento, tra conflitti sociali e risoluti tentativi repressivi e autoritari dello Stato. Le organizzazioni dei lavoratori si erano notevolmente rafforzate: nel 1891 nasceva a Milano la prima Camera del lavoro con funzioni di assistenza, tutela e rappresentanza, nel 1892 a Genova veniva fondato il Partito dei lavoratori italiani, dal 1895 Partito socialista. Francesco Crispi, l’ex garibaldino già capo del governo dal 1887 al 1891, oltre alla svolta protezionistica, si era decisamente orientato in direzione di prospettive politiche imperialistiche e colonialiste nell’intesa di rafforzare il blocco industriale-agrario dominante, concedendo il minimo possibile alle masse subalterne in termini di legislazione sociale. Tornato al governo nel 1893, dopo le brevi parentesi al governo del marchese Antonio Starabba di Rudinì (1891-1892) e di Antonio Giolitti (1892-1893), diversamente dalla moderazione di quest’ultimo nell’affrontare i conflitti sociali, Crispi si scagliava con violenza estrema contro il movimento dei fasci siciliani proclamando lo stato d’assedio in Sicilia, come in Lunigiana, e affidando la risoluzione del conflitto alla repressione militare e poliziesca. In perfetta continuità con la legge sulla pubblica sicurezza varata nel 1889, che prevedeva misure di limitazione della libertà quali la sorveglianza speciale e il domicilio coatto, oltre che restrizioni nell’ambito della possibilità di riunirsi e di esprimere opinioni, nel 1894, il governo Crispi emetteva provvedimenti contro le associazioni anarchiche e metteva in atto lo scioglimento del Partito dei lavoratori italiani e delle associazioni operaie. L’ex garibaldino era costretto alle dimissioni nel 1896, a seguito della sconfitta militare di Adua, orma indelebile del fallimento delle sue politiche imperialistiche. Tornava a capo del governo di Rudinì, il quale, scoppiati nel 1898 tumulti in tutta Italia generati dal malcontento popolare e dall’aumento del prezzo del pane, consegnava, in maggio a Milano, al generale Fiorenzo Bava Beccaris la facoltà di reprimere col sangue i tumulti, lasciando sul selciato centinaia di morti e feriti e portando davanti ai tribunali militari migliaia di contestatori. Niente affatto soddisfatti, prima di Rudinì, poi il suo successore Luigi Pelloux da fine 1898, tentavano di far approvare in maniera definitiva le cosiddette leggi liberticide, nonostante la forza delle proteste popolari e l’ostruzionismo dell’opposizione parlamentare dell’Estrema Sinistra (socialisti, repubblicani, radicali). Il tentativo reazionario della Destra si arrenava: a Milano alle amministrative del 1899 veniva eletto il radicale Mussi e alle politiche del 1900 il Partito socialista raddoppiava gli eletti in parlamento rispetto alle precedenti elezioni del 1897. Il 29 luglio a Monza re Umberto I°, che aveva decorato il generale Bava Beccaris per l’eccidio di Milano, veniva assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci. Con il governo Zanardelli del 1901 iniziava l’Età giolittiana, più disponibile a trattare i conflitti sociali con gli strumenti della politica e dell’economia[v].

In un noto articolo del 1898[vi], l’economista salentino spiegava le cause delle sommosse, represse con il sangue, con il disinteresse dello Stato verso i lavoratori e i ceti deboli, asfissiati dalle tasse e dal carovita, impoveriti dal protezionismo industriale, minacciati nelle libertà fondamentali, mai loro realmente riconosciute.

Nel 1904, De Viti De Marco incontrava nei banchi del Parlamento, eletto nel suo stesso partito, Francesco Saverio Nitti, il quale con “Nord e Sud” [vii] pubblicato nel 1900 aveva reso noto, studiati i bilanci dello stato dal 1862 al 1896-97, che la ripartizione della spesa pubblica in Italia era stata costantemente discriminante nei riguardi del Mezzogiorno e fondamentalmente tesa allo sviluppo industriale del Nord. Pur condividendo le cause che avevano portato nel giro del primo quarantennio unitario all’enorme divario economico tra le “due Italie”, i due economisti proponevano soluzioni diverse e confliggenti: Nitti, in stretti rapporti con Giolitti, suggeriva un forte impegno statale con leggi speciali volto all’industrializzazione del Mezzogiorno, De Viti De Marco, in sintonia con Fortunato, puntava tutto sull’eliminazione della tariffa doganale e su una riforma fiscale più favorevole all’agricoltura.

La fondazione a Milano, nel marzo del 1904, della Lega antiprotezionista, che metteva insieme socialisti, liberali, repubblicani, radicali e, persino, per poco tempo sindacalisti rivoluzionari, era l’occasione per ribadire posizioni pacifiste contrapposte a un protezionismo sempre più legato a tendenze nazionaliste e imperialiste, oltre che per iniziare una collaborazione con Gaetano Salvemini e Luigi Einaudi, che lo riterrà sempre il “Maestro”.

Lasciato nel 1911 il Partito socialista, Salvemini fondava “L’Unità”, un giornale che avrebbe avuto tra i propri collaboratori le migliori menti dell’epoca: Luigi Einaudi, Edoardo Giretti, Ettore Ciccotti, Gino Luzzatto, Benedetto Croce, Giustino Fortunato, Giovanni Carano Donvito, Umberto Zanotti Bianco, oltre ai giovani Piero Gobetti, Ernesto Rossi, Pietro Calamandrei. Il giornale avrebbe affrontato tutti i temi economici, sociali e politici del secondo decennio del Novecento, dalle questioni tributarie e fiscali alle riforme elettorali, dalla questione meridionale al protezionismo, dalla questione agraria all’emigrazione. De Viti De Marco vi giungeva nel 1912, dopo aver risolto i suoi rapporti con “Il Giornale degli economisti”.

L’attività di De Viti De Marco, culturale nel “Giornale degli economisti” e in numerose collaborazioni, poi politica da deputato, nel 1929, per volontà di Umberto Zanotti Bianco e di Ernesto Rossi, è stata raccolta nel testo “Un trentennio di lotte politiche 1894-1922” [viii].

[i] R. VILLARI (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, vol. 1°. Bari, Laterza § Figli, 1966, p. 199.

[ii] U. MAZZOLA, L’aumento del dazio sul grano, «Giornale degli economisti», a. II, febbraio 1891, pp. 190-198.

[iii] A. DE VITI DE MARCO, Finanza e politica doganale, «Giornale degli economisti», a. II, gennaio 1891.

[iv] Ibidem, ora in R. VILLARI (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, cit., pp. 202-203.

[v] Si veda G. C. JOCTEAU, La lotta politica e i conflitti sociali nell’Italia liberale, in La storia. L’età dell’imperialismo e la I guerra mondiale, vol. 12, Milano, Mondadori, 2007, pp. 304-321.

[vi] A. DE VITI DE MARCO, Le recenti sommosse in Italia. Cause e riforme, «Giornale degli economisti», a. IX, giugno 1998, pp. 517-546.

[vii] F. S. NITTI, Nord e Sud, Torino, Roux e Viarengo,1900.

[viii] A. DE VITI DE MARCO, Un trentennio di lotte politiche (1894-1922), Roma, Collezione di studi meridionali, 1930.

Il racconto degli ultimi giorni a Napoli di Francesco II, il re sulla via della beatificazione*

di Michele Eugenio Di Carlo

Su Francesco II, l’ultimo re di Napoli, si aprono le vie della beatificazione. É una notizia che non mi sorprende, avendo passato gli ultimi anni a studiare attentamente la storia della fine del Regno delle Due Sicilie e, naturalmente, le vite dei protagonisti centrali di questo periodo storico tra i quali spiccano inevitabilmente Ferdinando II e lo stesso Francesco II.

Ai fini del processo di beatificazione di Francesco II, sicuramente non risulterà irrilevante il modo in cui lasciò Napoli, cercando di affrancarla dalla guerra e dalla distruzione, lasciando nei forti migliaia di soldati non per difendere la dinastia dei Borbone, ma affinché il passaggio di consegna a Garibaldi avvenisse nella serenità più assoluta, senza scontri e senza vittime.

Eccovi il racconto degli ultimi giorni di Francesco a Napoli, tratto dal mio recente testo “Sud da Borbone a brigante”.

 

Nemmeno un anno dopo essere salito al trono, dopo infinite traversie, Francesco II vedeva il proprio Regno invaso militarmente a tradimento da Giuseppe Garibaldi con un’impresa sostenuta segretamente da inglesi e sabaudi, in palese violazione del diritto internazionale.

La mattina del 3 settembre del 1860, assolutamente cosciente di essere circondato da traditori a cui aveva concesso spazi enormi, Francesco II prese la sofferta decisione di lasciare Napoli e di arretrare la linea difensiva contro l’avanzata garibaldina tra le fortezze di Gaeta e di Capua, nell’area compresa tra il Volturno e il Garigliano.

Tomba di Maria Cristina di Savoia in Santa Chiara a Napoli (foto Di Carlo)

 

Secondo lo scrittore Raffaele De Cesare, il Re aveva seguito i consigli dell’Austria e del comandante dell’Esercito pontificio Louis Juchault de Lamorcière[1], ma erano in tanti ad aver sconsigliato Francesco II di mettersi al comando delle truppe lungo la linea difensiva tra Salerno ed Eboli.

Secondo altri Francesco II non avrebbe dovuto lasciare Napoli, ma combattere e magari morire. Non avrebbe dovuto dar conto alla stampa filo-unitaria a cui aveva concesso una libertà mal ripagata, né al vociare di esuli cavourriani e mazziniani a cui aveva concesso l’amnistia, né ai suoi ministri costituzionali al potere contro la sua stessa dinastia reale. Francesco II avrebbe invece dovuto alzare lo sguardo «nelle cose dei cittadini, nelle capanne de’ contadini, nelle tende de’ soldati», per ascoltare con commozione i «singhiozzi di milioni di sudditi, spaventati dalla imminente ruina infinita». Secondo questa tesi Francesco II avrebbe dovuto ripercorrere all’inverso i passi compiuti fino al 24 giugno: sospendere la Costituzione, proclamare lo stato d’assedio, bloccare la stampa cavourriana e mazziniana, espellere stranieri e esuli, mandare sotto processo i ministri infedeli, giudicare gli ufficiali dell’Esercito e della Marina che avevano provocato le sconfitte, eliminare i camorristi infiltrati dai suoi nemici nel corpo di Polizia, ripristinare le guardie urbane, riavvicinare i tanti fedeli sudditi allontanati dalle amministrazioni centrali e periferiche. Era questo l’unico metodo per respingere i nemici interni ed esterni e salvare con la dinastia il Sud dall’invasione in atto e dalla colonizzazione che ne sarebbe derivata.

Ma Francesco II era pur sempre il «figlio della Santa» (la madre, Maria Cristina, sarà beatificata nel 2014): più che il suo regno in terra, sperava in un piccolo e modesto posto in quello dei cieli.

Alle quattro di pomeriggio del 5 dicembre, Francesco II comunicava al Consiglio di Stato la sua decisione di lasciare Napoli per Gaeta, chiedendo al ministro degli Esteri Giacomo De Martino di preparare una lettera di protesta indirizzata alle Potenze europee.

 

L’ambasciatore inglese Henry Elliot, pur essendo un acerrimo nemico della dinastia dei Borbone, oltre che uomo di fiducia dei ministri John Russel e lord Henry John Temple di Palmerston che avevano avuto un ruolo determinante nella fine del Regno delle Due Sicilie, rimase colpito, al pari del collega francese Anatole Brenier e degli stessi ministri costituzionali del governo napoletano che stavano tradendo il loro mandato e la patria, della pacatezza, della compostezza, della risolutezza con la quale, «salvando la Corona» e Napoli dalla distruzione, Francesco II subiva le più gravi umiliazioni personali.

Tanto che quel giorno stesso la voce di Elliot sembrò levarsi a difesa di Francesco II e contro i traditori di Corte e gli stessi liberali: «È impossibile descrivere l’odiosa esibizione di piccineria, ingratitudine, vigliaccheria e d’ogni altra infima qualità che è stata fatta in questi ultimi giorni»[ii].


Castello S. Elmo a Napoli (foto Di Carlo)

 

Come scritto nel Proclama Reale, Francesco II lasciava in città parte delle forze militari, circa 6 mila uomini con il compito non di difendere la dinastia, ma di proteggere l’incolumità di Napoli.

Giovedì 6 settembre, una splendida giornata di fine estate, nelle prime ore del pomeriggio il Re riceveva il saluto dei ministri e dei direttori rivolgendosi loro in maniera cortese, come d’abitudine.

Francesco II al fianco della splendida Maria Sofia lasciava Napoli senza neppure prelevare i suoi beni personali che finirono nelle mani untuose della nuova autorità e che non gli verranno mai restituiti.

Anche gli ambasciatori stranieri si presentarono a salutare il Re in partenza, persino Brenier ed Elliot, non il piemontese Salvatore Pes di Villamarina. D’altronde, De Martino aveva poco prima inoltrato l’atto di protesta nel quale il Piemonte veniva ritenuto il principale responsabile dell’invasione del Regno; un atto che terminava con l’impegno di difendere il Regno fuori le mura della Capitale e con parole solenni: «forti sui nostri dritti fondati sulla storia, sui patti internazionali e sul diritto pubblico europeo», la protesta si estendeva «contro tutti gli atti finora consumati» e con la ferma volontà di conservarla alla storia «come un monumento di opporre sempre la ragione e il dritto alla violenza e all’usurpazione»[iii].

Tranne Brenier ed Elliot, e naturalmente Villamarina, gli ambasciatori ricevettero disposizioni di trasferire a Gaeta gli uffici diplomatici. La Spagna dispose affinché Francesco II fosse scortato con due navi spagnole.

Elliot non rinunciò a criticare apertamente il comportamento assunto da Vittorio Emanuele II e da Napoleone III, durante l’avanzata garibaldina sul suolo napoletano[iv]. Nelle frasi di Elliot apparve evidente l’ammissione che la stessa propaganda, servita ad infangare i Borbone, era stata del tutto strumentale al fine di isolare una dinastia reale che si era rifiutata di sottostare alla forza delle Potenze dominanti dell’epoca.

In perfetto orario, alle diciotto, il Messaggero, scortato da due navi spagnole, salpava dal porto di Napoli. Come profetizzato dal vecchio generale Raffaele Carrascosa, Francesco II non sarebbe mai più tornato a Napoli. La flotta napoletana, già abbondantemente compromessa con l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano e l’ambasciatore piemontese Villamarina, si rifiutava di seguire il proprio re, ad eccezione della Partenope che raggiungeva Gaeta.

Con l’uscita da Napoli di Francesco II finiva il Regno delle Due Sicilie; tra Capua e Gaeta iniziava una lunga e coraggiosa lotta che avrebbe restituito l’onore perduto in Sicilia e in Calabria all’Esercito Reale e alla dinastia borbonica.

Il processo di beatificazione di Francesco II finalmente toglierà il velo oscuro sulla vera storia del nostro processo di unificazione, che può essere declinato proprio con le parole dell’ultimo re delle Due Sicilie, aventi il significato profondo «… di opporre sempre la ragione e il dritto alla violenza e all’usurpazione».

 

*Tratto dal testo “Sud da Borbone a brigante” di Michele Eugenio Di Carlo

 

Note

[1] R. DE CESARE (Memor), La fine di un Regno: dal 1855 al 6 settembre 1860, cit., p. 460.

[ii] H. ACTON, Gli ultimi borboni di Napoli (1825-1861), cit., pp. 551-552.

[iii] Ivi, pp. 471-472.

[iv] Ivi, pp. 471- 472.

 

Libri| Sud da Borbone a Brigante

di Pino Aprile

 

Questo è un libro importante e molto ben fatto. Il suo valore consiste nella chiarezza dell’esposizione, nella puntualità (pignoleria, direi) del richiamo alle fonti e nell’intelligenza della scelta dei brani da confrontare e che riescono a riassumere molto. Insomma, sarebbe da segnalare e leggere solo perché un buon libro lo merita.

Invece, il maggior pregio di questo volume (senza nulla togliere all’autore) è in una domanda: perché un lavoro serio come questo non lo abbiamo da tempo immemorabile a cura di titolari di cattedra di storia? Perché il raffronto con quel che scrivevano autori “dalla parte dei vinti” è stato (salvo poche, tardive e lodevoli eccezioni) scartato a priori? Perché la versione degli sconfitti, da Giacinto de’ Sivo (“Storia delle Due Sicilie”), a Raffaele De Cesare (“La fine di un Regno”) è stata irrisa, ritenuta inattendibile per definizione, perché portatrice del presunto risentimento dei vinti che potrebbe deformare i fatti.

Così, la “buona storia” è la versione dei vincitori, che narra come necessaria per un alto fine una invasione senza dichiarazione di guerra, tace di paesi rasi al suolo, di rappresaglie con migliaia di morti, centinaia di migliaia di incarcerati e deportati senza accusa, processo e condanna. Quando chi compie queste cose non vince, ma perde, si parla di crimini di guerra. I fatti e i modi sono sempre quelli nel percorso dell’umanità, cambia il modo di raccontarli: un passo avanti verso una più alta civiltà, nella versione dei vincitori, un delitto in quella dei vinti.

Così, la storia ufficiale finisce per giustificare le cose come sono andate, perché così “dovevano” andare e il racconto attribuisce ai protagonisti un disegno chiaro a loro e, a posteriori, a tutti (salvo botte di sincerità quale quella di Oliver Cromwell, che quando gli chiesero come avesse costruito le basi della potenza britannica, rispose, più o meno, che nessuno va così lontano come chi non sa dove sta andando). Mentre il racconto dei vinti avviene attraverso l’arte: la letteratura (“I viceré” di Federico De Roberto, “La conquista del Sud” di Carlo Alianello, “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa…), la musica (basterebbe “Brigante se more” di Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò), la pittura (si pensi a Goya, a Picasso con Guernica…).

Di Carlo riprende la voce inascoltata dei vinti (e molti ce ne sarebbero da aggiungere, dal duca di Maddaloni, unitarista deluso, costretto a scrivere sotto lo pseudonimo di Ausonio Vero, all’anonimo autore dell’imperdibile “Pro domo mea”, che io stesso scoprii essere Vincenzo degli Uberti, grande intellettuale e ingegnere unitarista ferito e ridotto al silenzio) e analizza le cose che raccontano. Lo fa affiancando alle loro opere quelle degli storici ufficiali, come detto. Con il risultato, senza alcuna forzatura, che i vinti dissero la verità. Si può discutere del dettaglio, come sempre, ma meritavano ascolto e considerazione.

Per più di qualcuno non è una sorpresa. Basterebbe ricordare quanto pubblicato, con dovizia di documentazione e indubitabile adesione ai principi risorgimentali, dal professor Umberto Levra (docente di storia risorgimentale all’Università di Torino; presidente dell’associazione degli storici risorgimentali; presidente del Museo del Risorgimento italiano) sul fine della Società di Storia Patria voluta dai Savoia nel 1830 e governata in modo ferreo, almeno sino al 1920, da due-tre famiglie: riscrivere di volta in volta la storia per adeguarla alle politiche sabaude; distruggere i documenti compromettenti, rendere inaccessibili altri. E ancor oggi, stando a quanto affermato da Alessandro Barbero sul dovere degli storici (e non solo), i sabaudisti (questo il nome in cui si riconoscono quei custodi dei fatti nostri) devono mirare a formare uno spirito nazionale più che dirci cosa accadde davvero. Tanto che sia Levra che il colonnello Cesare Cesari, direttore degli Archivi militari, autore di una importante storia del Brigantaggio pubblicata un secolo fa, scrivono che i documenti così “patriotticamente” distrutti sono talmente tanti, che non si potrà mai più ricostruire come andarono veramente le cose. Cesari specifica che il danno maggiore è proprio la sparizione di testimonianze e carte parlanti dei vinti.

Eppure, quello che fu prodotto e divulgato in quegli anni bui, da contemporanei (pur fra tante difficoltà: persecuzioni, processi, esilio, sparizione di opere pronte alla stampa, distruzione di tipografie), è stato accantonato.

E non lo meritava.

Alcuni storici di professione, da Roberto Martucci (“L’invenzione dell’unità d’Italia”) a Eugenio Di Rienzo (“Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee”, pur con un successivo rifacimento al ribasso, poco comprensibile), a John A. Davis (“Napoli e Napoleone. L’Italia meridionale nelle rivoluzioni europee 1780-1860”) ne avevano già dato atto; e tracce possono trovarsi in tanti altri, storici e no, da Paolo Mieli a Carlo Azeglio Ciampi. Ma l’opera di Michele Eugenio Di Carlo è sistematica, onestamente distaccata, senza timori di “sembrare” squilibrata, quindi preconcetta, in un senso o nell’altro.

Un lavoro che sarà di aiuto a quanti, senza pregiudizi, o persino avendone, vorranno guardare con la distanza del tempo quegli avvenimenti. Sarebbe ora, perché fu allora, mentre si fingeva di unificarlo, che il Paese venne diviso fra un Nord acchiappatutto e un Sud ridotto a colonia, con la nascita, a mano armata, della Questione meridionale.

Se lo si volesse unire, bisognerebbe ripartire da dove il filo, anche della verità, fu spezzato.

Il libro di Di Carlo è molto utile.

 

P.S.: il testo è immediatamente disponibile sia in formato cartaceo che e-book al seguente link:

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Ischitella e i suoi ulivi

uliveti

Lo scienziato Michelangelo Manicone polemico con l’abate Giovanni Longano sui boschi di Ischitella

di Michele Eugenio Di Carlo

Sull’agricoltura di Ischitella l’abate Giovanni Longano, molisano di Ripalimosani, si era tenuto sul vago, menzionandone gli uliveti, mentre l’altro grande molisano, Giuseppe Maria Galanti di Santa Croce di Morcone, l’anno seguente, il 1791, vi aveva inserito la coltivazione di carrube.

Longano aveva peraltro sostenuto che le «furiose» cesinazioni eseguite dopo il 1764, pur avendo esteso la produzione cerealicola, avevano provocato persino la mancanza di legna da ardere a disposizione della popolazione[1]. E queste affermazioni non potevano che diventare l’ennesimo pretesto per un’ ulteriore critica all’abate, poiché per il frate di Vico, Michelangelo Manicone, si trattava di un errore imperdonabile: erano i limitrofi vichesi a non avere più legna da ardere. Ad Ischitella, invece, l’autorità pubblica si era opposta vigorosamente a tutti i tentativi di disboscare, in particolare, i preziosi boschi di «Ischio», da cui prendeva persino il nome la cittadina.

Forse risale a questa circostanza del Settecento il fatto che risalendo all’attualità possiamo considerare che Carpino e Ischitella hanno saputo proteggere i loro splendidi faggi e lecci con una riserva naturale biogenetica statale di 300 ettari, attraversata dal torrente Romondato, distesa in direzione del lago di Varano, ricca di una fauna prevalente di caprioli,  gatti selvatici, ghiri, faine, tassi, volpi, lepri, cinghiali.

Secondo l’opinione del frate, intesa a sminuire il valore delle relazioni dell’abate mettendo in dubbio la sua presenza fisica e, quindi, la sua conoscenza diretta del territorio, il «visitatore» Longano era stato «mal servito da’ suoi corrispondenti». Infine, con pungenti e, persino untuose modulazioni dialettiche, tra l’ironico e il sarcastico, aggiungeva:

«Ma pur troppo ciascuno è soggetto a scrivere delle cose poco esatte: ed io credo di rendere un vero servigio a Longano non meno che a’ Leggitori di lui, avvertendolo di quando in quando d’alcuni errori di fatto. Così vi fosse chi lo correggesse anche nel suo Viaggio per lo Contado di Molise! I viaggi di lui allora diverebbon utili»[2].

Non siamo forse già alla stroncatura mirata delle relazioni dell’abate Longano?

Relazioni che avevano l’intento dichiarato di informare i potenti e ben noti componenti del «Supremo Consiglio d’Azienda» – nel 1790, quando viene presentata la relazione sulla Capitanata, erano i Segretari di Stato Carlo De Marco e Giovanni Acton, il Direttore Ferdinando Corradini, i consiglieri Michele Loffredo (principe di Migliano), Filippo Mazzocchi, Giuseppe Palmieri e il cavaliere Cotronchi – delle condizioni sociali ed economiche della provincia a cui il re borbone Ferdinando IV sembrava tenere particolarmente.

Sulla Capitanata, era stato lo stesso abate, nel presentare la sua nota relazione a Napoli il 6 ottobre 1790, a chiarire che si trattava «non già un quadro finito della Provincia, ma si bene un bozzo di quella», dal quale, in ogni caso, sarebbe stato possibile considerare «quanto la natura abbia favorito questa Provincia, e quanto sia grande lo sforzo di chi l’abita nel mettere in valore le sue feracissime terre. Che anzi io porto parere, che praticati alcuni pochi regolamenti, in brievissimo tempo, atteso il vostro glorioso zelo, potrà la Capitanata divenire una delle più prospere Provincie del Regno»[3].

Messa da parte la polemica, resta la constatazione che per una lettura compiuta e minuziosa dello stato dell’agricoltura di Ischitella occorra necessariamente riandare agli scritti di Manicone, poiché non solo tratteggiano in maniera pertinente le attività che vi si svolgevano, ma ne analizzano razionalmente i punti deboli non mancando di individuare, con un atteggiamento efficace, le più ragionevoli soluzioni:

«Lungi da Ischitella un miglio a Nord-Ovest evvi un piano, largo miglia 4 circa e lungo circa sei miglia. Siffatto piano è diviso in tre parti. La più grande è quella che è popolata di alberi di ulivi; la meno grande della prima è destinata alle semine del frumento, delle biade, dei legumi, e del limone; e la parte più piccola è coperta di vigne».

Nella parte terminale di quell’orizzonte incantevole, descritto in maniera tanto mirabile da rendere ancora possibile immaginare nei dettagli quel paesaggio agreste di fine Settecento, e confrontarlo con quello odierno, vi era il «piano di Varano», posto ai limiti del lago omonimo. Gli ischitellani vi coltivavano del grano non sufficiente all’autoconsumo, tanto da essere costretti ad importarlo da Carpino e dal Tavoliere, mentre sarebbe stato auspicabile mettere a coltura i numerosi terreni incolti di quell’area, invece di dedicarsi alla pesca e al gioco[4].

I vigneti di Ischitella non erano tali da soddisfare il fabbisogno di una popolazione di circa 3000 anime, tanto che era Vico a rifornire di vino la cittadina. Le colline situate a nord-ovest dell’abitato, esposte a sud e ricoperte di cespugli e arbusti infruttiferi, presentavano le condizioni pedo-climatiche ottimali per impiantare vigne, invece i vigneti di Ischitella erano situati in vallecole umide e ombrose e producevano un vino «snervatello», poco apprezzato e scarsamente alcolico.

La maggior rendita di Ischitella proveniva dalla produzione di olio che, come gli agrumi, veniva esportato anche all’estero grazie alla marineria di Rodi. Nonostante Manicone lamentasse l’incuria in cui versavano gli ulivi, folti, alti, pieni di rami non fruttiferi rivestiti di licheni e muschi che, impedendo la penetrazione della luce e la circolazione dell’aria, generavano una scarsa fioritura. Mentre sarebbe stato necessario eliminare costantemente polloni e succhioni, tagliare i rami secchi, eliminare con la «slupatura» le carie che si propagavano attraverso le vie linfatiche anche grazie all’umidità e alla scarsa luce.

E lo scienziato, sempre pronto alla battuta, conscio che i suoi enormi meriti non sarebbero stati apprezzati, ribadiva puntigliosamente:

«Tali sono i georgici miei documenti relativamente agli ulivi di qua. So che alcuni de’ proprietarj Ischitellani gli leggeranno, e gli osserveranno; so che molti gli leggeranno senza osservargli; e mi duole assaissimo, che il numero maggiore né gli leggerà, né gli osserverà»[5].

 

[1] LONGANO Francesco, Viaggio dell’abate Longano per la Capitanata, Napoli, presso Domenico Sangiacomo, 1790.

  1. 52

[2] M. MANICONE, La Fisica Daunica, a cura di L. Lunetta e I. Damiani, parte II Gargano, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2005, p. 94.

[3] F. LONGANO, Viaggio dell’abate Longano per la Capitanata, presentazione, cit.

[4] M. MANICONE, La Fisica Daunica, a cura di L. Lunetta e I. Damiani, parte II Gargano, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2005, pp. 99-100.

[5] Ivi, p. 103.

Il nuovo film di Giovanni Brancale, «Terre rosse», sul brigantaggio lucano

Le-Terre-Rosse

di Michele Eugenio Di Carlo*

È del tutto evidente agli specialisti che il cinema muto degli inizi del Novecento abbia avuto una inclinazione unicamente celebrativa dell’Italia liberale al potere sin dall’unificazione.

La prova più evidente di questa tendenza quasi pedagogica è il film «La presa di Roma» di Filoteo Alberini, che nel 1905 celebra Crispi e la monarchia sabauda con una rievocazione agiografica che sconfina nel fantastico e nel mitologico. È l’epoca in cui la letteratura risorgimentale si evolve nella sua trascrizione cinematografica.

Su questo periodo, in cui la Destra liberale torna al potere prima con Zanardelli poi con Giolitti, Roberto Balzani, docente di Storia contemporanea dell’Università di Bologna, chiarisce che l’uso propagandistico e celebrativo dell’iconografia risorgimentale ha l’effetto di addomesticare il risorgimento in una visione priva di asperità e polemiche.

Fulvio Orsitto, senza mezzi termini, considera la seconda fase della cinematografia, quella definita «fascista», un periodo storico in cui «la ricostruzione della storia patria si svolge in modo funzionale agli interessi di un regime che intende essere considerato la logica conclusione del processo risorgimentale».

È un risorgimento manipolato strumentalmente al fine di nazionalizzare le masse, dato che non sfugge all’intellettualità fascista come il cinema sia un potente mezzo di comunicazione, piegabile ad uso propagandistico, e che il potere può efficacemente utilizzare per indottrinare e ideologizzare le masse.

Emblematica di questa maniera romantica e fantastica di rappresentare il Risorgimento è il film «1860», diretto da Alessandro Blasetti nel 1934.

Il pericolo concreto e in atto, avvertito dal filosofo tedesco Walter Benjamin, era che la storia e le tradizioni potessero diventare lo strumento della classe dominante, mentre compito dello storico era proprio quello di sottrarre la storia a questo tipo di manipolazione. Un ammonimento che sembra oggi più che mai attuale.

La vera svolta nella cinematografia italiana sull’unificazione d’Italia avviene agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso, quando ancora reggeva una visione istituzionalizzata e acritica del processo unitario italiano, suggerita dalle tendenze culturali e ideologiche dei governi democristiani al potere nel Secondo dopoguerra.

Nel 1952 il regista Pietro Germi con il film «Il brigante di Tacca del Lupo» esce dalla retorica a sfondo celebrativo e parla apertamente di un processo unitario nato da una conquista militare dai mille interessi e dai pochi ideali, concretizzatasi dopo una lunga e violenta guerra civile combattuta da militari ritenuti stranieri in un territorio ostile.

Secondo Simone Castaldi, docente di Letteratura moderna e contemporanea e Cinema alla Hofstra University, nonostante la pressante censura democristiana dei primi anni ’50, Germi ha «il coraggio di presentare la lotta contro i briganti non come un’operazione di polizia, ma come una vera e propria guerra civile favorita sia dall’opportunismo dei notabili locali che dalla prepotenza del potere militare sabaudo. Sul fatto che alle radici di questo conflitto risieda non un processo di unificazione ma uno di annessione Germi non lascia dubbi».

Il film di Giovanni Brancale, «Le terre rosse», prodotto dalla Estravagofilm, girato nell’area del Vulture in Basilicata, tra Monticchio, Rionero e Sant’Arcangelo, si inserisce nel filone revisionistico iniziato da Germi nel 1952. È il racconto di una terra umiliata e offesa, che il lucano Rocco Scotellaro con «Contadini del Sud[1]» del 1954, aveva raccontato con una profonda indagine sociologica sul mondo contadino, seguito dal rionerese Vincenzo Buccino con «La mala sorte[2]» del 1963, narrazione di oppressioni, sopraffazioni e violenze nella società di Rionero in Vulture, immutata nonostante l’unità d’Italia.

Il film è tratto dal romanzo «Il rinnegato» scritto dal padre dello regista lucano, lo scrittore Giuseppe Brancale (1925-1979), e ne riproduce fedelmente la realtà storica descritta con l’attenzione rivolta ai vinti, quei briganti che nessuno volle considerare come uomini e donne umiliati e oppressi che cercarono di far sopravvivere le proprie famiglie. Il romanzo si snoda in un percorso temporale che inizia nel 1860 e termina nel 1887 in un piccolo centro della Valle dell’Agri, Migalli, dove un giovane garibaldino fa i conti con la dura realtà sociale ed economica, rimuginando sul fallimento dei suoi ideali risorgimentali.

È il dipinto di una Basilicata dove possiamo ritrovare le sorgenti di un’ identità culturale che nessun velo, per quanto spesso, potrà cancellare.

 

* Socio ordinario della Società di Storia patria per la Puglia

 

[1] R. SCOTELLARO, Contadini del Sud, Bari, Laterza, 1954. Rocco Scotellaro (Tricarico, 1923 – Portici, 1953), poeta, profondo conoscitore delle drammatiche condizioni contadine, sindaco di Tricarico a 23 anni, arrestato per motivi politici e assolto nel 1950, lascia la politica per dedicarsi all’attività letteraria. Contadini del Sud è un’indagine sociologica attraverso la quale diversi protagonisti raccontano la propria storia di appartenenza al mondo contadino lucano: L’autore vi ripropone le dinamiche sociali tipiche di una cultura in trasformazione. Furono Carlo Levi e Manlio Rossi-Doria ad interessarsi alla pubblicazione delle opere di Scotellaro che, poco dopo la scomparsa, vinse il Premio Campiello e il Premio San Pellegrino.

[2] V. BUCCINO, La mala sorte, Padova, Rebellato Editore, 1963. Del romanzo di Vincenzo Buccino (Rionero in Vulture, 1929 – Forlì, 2005), dall’ampia valenza storica, politica e sociologica, ambientato nel paese natale dell’autore, Rionero in vulture, il celebre meridionalista Tommaso Fiore ha scritto: «Il romanzo La mala sorte è una vigorosa pittura delle tristi condizioni sociali della sua terra, tradizionalmente arretrata […] Però, quel che più impressiona, è la pittura, parte a parte, della decadenza sociale, dell’oppressione a mezzo dell’imbroglio di legulei, delle sopraffazioni scolastiche e, insomma, della tradizionale violenza di chi, in un modo o nell’altro, domina a ragione e a torto…».

La Giornata della Memoria delle vittime meridionali del Risorgimento interroga la storia del processo unitario

briganti

di Michele Eugenio Di Carlo

Pasquale Soccio, grande letterato garganico del Novecento, scriveva che il Daunus pauper acquae di Orazio e «i briganti dell’arsa Puglia» di Carducci, irrompevano « nel mondo della nuova storia, divenendone per un lustro attori e protagonisti di primo piano».
Ora non è più ammissibile ritenere che i briganti del Sud siano stati sic et sempliciter ladri e assassini. Essi si mossero alla rivolta spinti da condizioni di vergognosa e ignobile ingiustizia sociale, relegati all’ultimo stadio della società civile.
Usare il termine «civile» per indicare le condizioni di vita del ceto subalterno, costituito in gran parte da braccianti, da contadini, da artigiani pressati e compressi da strutture ancora feudali, notevolmente aggravate con l’avvento dei Savoia e mantenute in essere da una classe privilegiata di galantuomini senza scrupoli alleata con il nuovo potere, è solo un eufemismo spregiudicato.
Meglio usare il termine «barbaro» per rappresentare lo status di vita di piccoli contadini e braccianti senza terra, che subito dopo l’occupazione dei Savoia si rivoltarono contro un consolidato e secolare sistema di prevaricazione e di prepotenze che i Borbone si erano, perlomeno, preoccupati di controllare e indebolire.
Le rivolte delle masse contadine, iniziate già nell’estate 1860, furono dettate da secolari motivi di contrasto con la nobiltà e con la subentrata borghesia agraria a causa delle questioni demaniali, inerenti principalmente l’uso e la proprietà dei terreni demaniali usurpati e la reintegra negli usi civici negati. E, comunque, queste prime rivendicazioni sociali furono inizialmente prive di indirizzo politico clericale e borbonico e per lo più furono isolate, incerte, occasionali, frammentate e, quindi, facilmente reprimibili dalle truppe garibaldine e dalla Guardia Nazionale dei galantuomini.
Franco Molfese, nella Storia del brigantaggio dopo l’Unità, fatta una rassegna dei moti avvenuti durante l’estate nel Beneventano, nell’Irpinia, nel Matese, nel Vastese, nel Molise, dopo accurati studi ha concluso che «furono sommosse sporadiche, provocate perlopiù da contrasti municipali e da motivi di malcontento locali. Da questa sommaria rassegna risulta pertanto abbastanza evidente il carattere spontaneo ed ancora circoscritto dei moti dei contadini, prodottisi nelle provincie continentali liberate, fino al momento della controffensiva militare borbonica. Non è dato rintracciarvi organizzazione e direttive comuni, azioni concordate, né tanto meno obbiettivi insurrezionali; anche il colore antiunitario e filo borbonico veniva generalmente impresso ai movimenti soltanto dalla sobillazione operata dai notabili borbonici e da elementi del clero locale. Cionondimeno questi torbidi indicavano già abbastanza chiaramente qual era lo stato d’animo delle masse contadine, e quali gruppi locali riuscissero più facilmente a guidarle».
Tommaso Pedìo, rimpianto docente dell’Università di Bari, indicava sin dal 1941 come «briganti e galantuomini» fossero due classi sociali i cui contrasti avevano già caratterizzato, non solo a metà dell’Ottocento, la vita nelle province napoletane. Accusato di populismo da Giovanni Masi, ripeteva nel 1948 nel testo Brigantaggio meridionale che i briganti non erano altro che una «classe subalterna costretta a subire un sistema economico, sociale e politico che non ammette parità di diritti e di doveri tra i vari ceti sociali, i briganti si ribellano al sistema che ha sempre caratterizzato la società meridionale prima e dopo la caduta dei Borboni. Classe dirigente, egoisticamente unita nella difesa dei propri interessi, i galantuomini, difendono e mantengono, anche nel nuovo regime, la posizione preminente che, prima del 1860, avevano nella vita e nell’economia del proprio paese».
Enzo Di Brango e Valentino Romano, intellettuali di rango, nel nuovo testo Brigantaggio e rivolta di classe, riproponendo la corretta tesi di un’invasione piemontese tesa alla colonizzazione del Sud, mettono in primo piano la violenta reazione dei contadini e delle masse subalterne, qualificandola come lotta di classe.
Infatti, nella costituzione del nuovo Stato Italiano furono i proprietari terrieri della nuova borghesia agraria, eredi della tradizione feudo-nobiliare, a ricevere enormi vantaggi nella conservazione dei terreni demaniali usurpati e nell’acquisizione di nuovi. Un abuso perpetrato a discapito delle previste e legittime «quotizzazioni» dei demani, che dovevano necessariamente favorire e sviluppare la piccola proprietà contadina.
Questo atteggiamento prevaricatorio e classista irritò le già amareggiate masse rurali, spingendole sempre più alla rivolta in un tentativo illusorio di raggiungere e conquistare il riconoscimento di diritti sempre più negati, con l’intima e utopica aspirazione di diventare finalmente cittadini a tutti gli effetti, non più sfruttati dai detentori della ricchezza e del potere politico.
Atteggiamenti classisti e prevaricatori che determinarono nei decenni successivi nel Sud la manifesta sfiducia nelle principali istituzioni dello Stato, nell’amministrazione della giustizia, negli organi di controllo del fisco, negli organi di polizia, nelle istituzioni bancarie, segnalati già alcuni decenni fa da Aldo de Jaco, che nei suoi studi sul brigantaggio meridionale, pubblicati dagli Editori Riuniti nel 1969, vedeva nel Risorgimento propagandistico e agiografico dei vincitori «una pagina di storia che non si può saltare se non si vuol perdere il senso dei problemi successivi ed anche, per tanta parte, dei problemi dell’oggi del nostro paese».
Un paese in cui ancora oggi un’intera classe politica, utilizzando strumentalmente e impropriamente la forma costituzionale del partito, concorre a fondare un sistema di impunità diffuse, appropriandosi di denaro pubblico, elevando a regola fissa la difesa degli interessi privati su quelli pubblici, erigendo a sistema le clientele, affondando la meritocrazia. Un paese che, alimentando nuove ingiustizie sociali e determinando nuovi problemi economici, scarica ancora sul Sud i costi di una lunga e prolungata crisi, causata da evidente incapacità politica e da manifesta inefficienza amministrativa. Ultimo esempio lo scandalo dei concorsi universitari.
Il tentativo prolungato e ripetuto in questi ultimi 156 anni di relegare il fenomeno del brigantaggio a semplice cronaca criminale, senza indagare sulle cause che lo provocarono e senza approfondire gli effetti che ha prodotto nella società italiana, col semplice e chiaro scopo di coprire gli interessi untuosi della classe liberal-massonica elitaria al potere, è la conseguenza di una mentalità limitata, oscurantistica e negazionista, che ancora oggi produce i suoi nocivi esiti sulla vita delle attuali depauperate popolazioni del Meridione e sui corretti rapporti tra il Nord e il Sud del paese.
Rapporti e condizioni imposte con la forza che rischiano di saltare ora che le regioni Puglia e Basilica hanno promosso una Giornata della Memoria delle vittime meridionali del Risorgimento, scatenando una reazione ancora, come sempre, oscurantistica e negazionista, motivata da pseudo e false motivazioni che vedono apparire all’orizzonte un nuovo regno dei Borbone o la preoccupante organizzazione di un leghismo di matrice sudista. Semplici visioni oniriche di chi ha interesse a non affrontare seriamente la revisione storica del nostro Risorgimento.
Bisognerebbe chiedere ai docenti del Disum (dipartimento di studi umanistici) dell’Università di Bari e a quelli che hanno promosso una petizione contro la Giornata della Memoria, agli intellettuali e ai politici meridionali da sempre al servizio di interessi contrari alla loro terra, cos’altro serve raccontare perché si possano finalmente onorare le nostre ingiustamente malfamate vittime del Risorgimento.
Serve inevitabilmente una seria revisione storica del nostro processo unitario, che tolga il velo posto sui massacri perpetrati, sulle violenze subite anche da donne e bambini, sui paesi rasi al suolo, sugli incarcerati senza accusa, sui fucilati senza processo, sulla legge Pica, sulle infauste leggi fiscali e doganali che condannarono l’economia, sui milioni di emigrati condannati al destino infame di chi è costretto a lasciare la propria terra.

Giuseppe Palmieri sull’agricoltura e la pastorizia del Tavoliere del Settecento

di Michele Eugenio Di Carlo*

Il salentino Giuseppe Palmieri (Martignano, 5 maggio 1721 – Napoli, 30 gennaio 1793), illustre membro della nobiltà del Regno, è chiamato nel 1787 da Acton a far parte del Supremo Consiglio delle Finanze, dove ha modo di proporre incisivamente le sue idee a supporto di un’agricoltura libera da «ostacoli e intralci alla produzione e alla distribuzione dei beni», mediante leggi riformatrici che «eliminino monopoli e abusi, migliorino l’istruzione dei proprietari stessi»[1].

Saverio Russo spiega chiaramente i passaggi attraverso i quali Palmieri giunge a concludere che l’arretratezza agricola del Tavoliere sia da attribuire al sistema della Regia Dogana, estraendo dai Pensieri economici, pubblicati nel 1789, il seguente passo: «L’agricoltura non può migliorare del suo stato durante il sistema del Tavoliere. Non può eseguire la coltivazione al tempo che conviene […] ma deve aspettare il termine prescritto»[2], e dal testo Della ricchezza nazionale, pubblicato più tardi nel 1792, la seguente locuzione che, ponendo fine a riflessioni ed incertezze, non ammette più ripensamenti:

«… è fuor di ogni dubbio, che la pastorizia Pugliese offendi l’agricoltura; anche se non si vuole rinunciare all’uso della ragione, ed all’aumento della ricchezza nazionale, bisogna sbandire questa barbara pratica intieramente dal Regno[3]».

Le drastiche conclusioni a cui giunge Palmieri sono abbondantemente spiegate nel capo III del testo citato, dedicato al tema della ricchezza derivante dalla pastorizia. Per l’economista la pastorizia transumante del Tavoliere è una «pastorizia barbara», praticata da «popoli rozzi», che ha reso un «delitto il coltivar la terra», che ha «dichiarato la guerra all’agricoltura», che può esistere solo dove vi siano vaste aree desertiche o laddove «non si vogliono né uomini, né agricoltura, e si desidera convertire in un deserto il paese».

E tale è il Tavoliere sul finire del Settecento: un deserto privo di alberi con corsi d’acqua non regolamentati che finiscono per produrre paludi e stagni, cagione di malattie malariche che deprimono una già scarsa popolazione.

Per avvalorare le proprie tesi Palmieri ricorre ad esempi di «nazioni culte» in cui pastorizia e agricoltura non sono in antinomia, l’una contrapposta all’altra. Solo per rimanere nella penisola italica, l’autore cita le lane prodotte a Padova – nettamente superiori per qualità e prezzo a quelle pugliesi, prodotte da pecore che vivono in maniera stanziale in campi coltivati –, a dimostrazione che «dove non si cerca, che l’utile, il privare un terreno delle ricche produzioni dell’agricoltura per ottenere le più scarse della pastorizia, rappresenta una condotta strana, in cui non si ravvisa segno alcuno di ragione».

Se si vuole che la pastorizia diventi nel regno di Napoli un settore economico vitale occorre «distruggere Tavoliere, Doganelle e Stucchi», liberandola da vincoli, divieti, impedimenti: «Sia libero a chiunque il vivere da Tartaro: non s’impedisca, non si vieti; ma non si ajuti, non s’inviti, non si comandi».

Tra l’altro, anche in Puglia, nella provincia di Bari e in Terra d’ Otranto, le pecore vivono all’occorrenza al coperto in ricoveri. A Palmieri sembra inutile continuare a sprecare tempo ed energie per dimostrare una verità così evidente: «la pastorizia barbara non può recare che danno, e minorare la ricchezza di una nazione culta»[4].

Per Di Cicco «il profilo della Dogana e del Tavoliere», che balza fuori dalle pagine della sua meritatamente famosa Memoria[5], è icasticamente conforme al vero. Lo stesso Di Cicco, ne Il problema della Dogana delle pecore nella seconda metà del XVIII secolo, sintetizzerà perfettamente le riflessioni e i quesiti posti da Palmieri:

«Perché difendere la pastorizia del Tavoliere, quando essa, conti alla mano, rende meno di quella esercitata altrove? Perché ritenere aprioristicamente che nel Tavoliere niente altro che il gregge possa trovare mezzi di sussistenza, quando tutto il sistema della Dogana congiura contro ogni tentativo innovatore? Perché, infine, allo scopo di giustificare il favore concesso alla transumanza sul demanio armentizio, chiamare in causa la pretesa necessità di provvedere ai bisogni degli abruzzesi, quando è noto che questi, se fossero liberi di poter scegliere, dirigerebbero i loro animali ad altri pascoli, e scendono nel Tavoliere solo perché costretti dalla legge?»[6].

  • Socio ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia

 

1 F. DIAZ, Politici e ideologi, in Letteratura italiana, cit., pp. 300-301.

2 G. PALMIERI, Pensieri economici relativi al Regno di Napoli, Napoli, 1789, p. 108; cit. tratta da S. RUSSO, Abruzzesi e pugliesi: la ragion pastorale e la ragione agricola, in «Mélange de l’école française de Rome, Moyen age – Temps modernes», tome 100, 1988, n. 2, p. 932.

3 G. PALMIERI, Della ricchezza nazionale, Napoli, 1792, p. 107; cit. tratta da S. RUSSO, ibidem.

4 Cfr. G. PALMIERI, Della ricchezza nazionale, cit., pp. 101-107.

5 G. PALMIERI, Memoria sul Tavoliere di Puglia, in Raccolta di memorie e di ragionamenti sul Tavoliere di Puglia, Napoli 1831, pp. 89-119.

[6] P. DI CICCO, Il problema della Dogana delle pecore nella seconda metà del XVIII secolo, cit., pp. 67-68.

Il silenzio che la cultura del Salento non può permettersi

ph Roberto Filograna

di Michele Eugenio Di Carlo

LETTERA AL DIRETTORE CLAUDIO SCAMARDELLA
Il silenzio che la cultura del Salento non può permettere

 

Vieste, 7 settembre 2011

Gentilissimo Direttore,
ho talmente apprezzato sul Nuovo Giornale di Puglia il Suo
editoriale, “Il Salento e i silenzi della cultura”(http://www.quotidianodipuglia.it/articolo.php?id=161067), da esserLe grato.
Il Suo editoriale mi fornisce l’occasione gradita di perseverare nel
non tacere e di ribadire ancora una volta i motivi per cui la cultura
del Salento non può più permettere, e permettersi, il silenzio.
    Nel mese di luglio la Prof.ssa Maria Rita D’Orsogna, professore
associato di Matematica Applicata presso l’Università di Los Angeles,
fornendoci il suo prezioso supporto tecnico-scientifico, ci comunicava
che la società Northern Petroleum intendeva avviare l’iter burocratico
per trivellare le coste del medio e basso Adriatico con le seguenti
località interessate: Bari, Monopoli, Polignano a mare, Brindisi,
Fasano, Cisternino, Ostuni, Carovigno, Meledugno, Otranto, Giurdignano,
Uggiano La Chiesa, Torre Guaceto, Macchia San Giovanni, Punta della
Contessa, Foce Canale Giancola, Rauccio, Aquatina Frigole, Torre
Veneri, Le Cesine, Torre dell’Orso, Palude dei Tamari, Laghi Alimini,
Santa Maria di Leuca, Posidonieto, Capo San Gregorio, Punta Ristola.
    Era necessario che cittadini e associazioni producessero
osservazioni al Ministero dell’Ambiente contro le concessioni d149 DR-

ADESIONE MORALE ALLA BATTAGLIA CIVILE DI BENIAMINO PIEMONTESE

ph Mino Presicce (ripr. vietata)

 

Vieste, 1° agosto 2011

     Il Signor Beniamino Piemontese, socio fondatore dell’Associazione
Ideale “Osservatorio Torre di Belloluogo”, nonché autore del sito
Messapi.info, ha comunicato al Presidente della Provincia di Lecce, Dott. Antonio Maria Gabellone e al Sindaco di Lecce, Dott. Paolo
Perrone, che nella mattinata del 2 agosto effettuerà un sit-in davanti
al Municipio di Lecce e davanti la sede della Provincia di Lecce per
sollecitare un intervento istituzionale del Comune e della Provincia di
Lecce contro le concessioni d149 e d71 del Ministero dell’Ambiente alla società inglese Northern Petroleum

     Con le concessioni d149 e d71 la società Northern Petroleum
avvierebbe l’iter burocratico per trivellare le coste del medio e basso Adriatico pugliese mediante indagini esplorative con la tecnica dell’airgun e l’installazione di pozzi estrattivi a una ventina di chilometri dalla riva, in aree dall’alta valenza turistica con ben nove aree naturalistiche protette e rilascio di sostanze inquinanti

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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