La Brentesìa: una regione cancellata dal tempo (I)

di Nazareno Valente

 

Quando si nomina un’antica regione si fornisce il suo coronimo e, per rendere più chiaro l’argomento, anche una sua caratterizzazione geografica. Nozioni queste che necessariamente si riferiscono ad un momento specifico e non tengono conto delle possibili evoluzioni intervenute nel corso del tempo. Per questo, quando si parla di periodi il cui intervallo è quantificato in secoli, le indicazioni date rischiano di risultare fuorvianti, in quanto si offre una situazione statica, mentre essa è di fatto soggetta a dinamiche che comportano a volte frequenti modifiche di denominazione ed anche di collocazione geografica. Di conseguenza i termini della questione vanno meglio precisati, anche se questo modo di procedere potrebbe far correre il rischio, almeno inizialmente, d’ingarbugliare ancor più la matassa.

Riferendosi alla penisola salentina, gli autori antichi e tardoantichi utilizzavano nomi diversi: Iapigia, Messapia, Calabria, terra dei Sallentini. L’unico che in antichità non le fu mai attribuito è quello di Salento che, invece, è il coronimo che in tempi moderni ha preso piede, spodestando tutti gli altri. C’è in aggiunta da ricordare che Messapia era il nome imposto dai Greci, Calabria quello che i nostri antichi concittadini s’erano scelto e, infine, terra dei Sallentini quello spesso usato dal mondo latino. Sappiamo inoltre che gli abitanti della Calabria — si preferirà nel prosieguo questo termine originato da una libera scelta dei nostri conterranei, rispetto a quello in genere più usato di Messapia coniato ed imposto da chi desiderava colonizzarli — si ripartivano, a seconda della zona d’insediamento in Calabri e Sallentini.

 

Per quanto riguarda la regione abitata dai Calabri e dai Sallentini, si indica in genere la zona contenuta dall’istmo che unisce la provincia di Taranto a quella di  Brindisi, essendo questa di fatto la delimitazione all’incirca coincidente con quella attuale e con quella fatta da Erodoto nella più antica citazione a noi pervenuta1. Ed in effetti in epoca storica, salvo differenze di marginale entità, la Calabria s’è mantenuta sempre entro tali limiti, come rilevabile dalla maggior parte delle fonti narrative dell’epoca. Ciò non toglie che, in periodi antecedenti, la situazione era con ogni probabilità molto diversa, soprattutto per quanto riguarda gli insediamenti dei Calabri.

Purtroppo l’argomento non ha destato — né desta tuttora — grande curiosità tra gli storici più accreditati, per lo più scoraggiati dalla oggettiva difficoltà di affrontare un discorso del genere per la scarsezza delle fonti utilizzabili, sicché, come logica conseguenza, non si è mai indagato se i Calabri avessero avuto mire diverse dallo stare confinati entro i limiti territoriali già più volte definiti. Ed in effetti sulla questione si ha la disponibilità di pochi frammenti narrativi, in più di difficile interpretazione perché slegati in genere dal contesto, che non sembrano, quindi, a prima vista capaci di fornire un quadro in qualche modo definibile, nemmeno in maniera vaga ed imprecisa.

Ciò nonostante, per quanto limitate e di non univoca interpretazione, le tracce di cui si è in possesso lasciano in ogni caso intravedere realtà talmente interessanti da stimolare ad un loro ulteriore esame, magari con un approccio diverso dal solito e senza i soliti pregiudizi. Per questo si è deciso di affrontare un percorso mai intrapreso prima, se non in maniera embrionale, nell’intento di desumere quantomeno nuovi spunti e nuove informazioni, tutti utili a comprendere meglio l’evoluzione storica delle genti del Salento e, in particolare, dei nostri concittadini Calabri di Brindisi.

Va tenuto infine presente che gli autori latini e quelli greci non utilizzavano una terminologia comune: i primi privilegiavano i coronimi e gli etnici coniati dagli indigeni; i secondi preferivano quelli da loro stessi ideati. Per questo i Latini, riferendosi al Salento attuale, parlavano di Calabria, mentre i Greci di Messapia. In più alcuni autori, obbedendo un po’ alle mode e, soprattutto, alle specificità del proprio tempo, assegnavano agli stessi termini accezioni diverse da quelle canoniche. Ad esempio Livio e Plinio utilizzavano il termine Sallentini in maniera non troppo precisa e, il più delle volte, estesa anche ai Calabri. Per cui, ad esempio, i residenti di Brindisi e di Lupiae (l’attuale Lecce) venivano detti Sallentini, mentre più precisamente erano Calabri. La stessa cosa avveniva nell’uso dell’etnico Messapi, con cui i Greci non sempre identificavano tutti i residenti della nostra terra, ma, in certi casi in prevalenza i soli Calabri. Tali variazioni sul tema andranno sempre tenuti a mente e, se del caso, richiamati, se non si vorrà incorrere in inevitabili incomprensioni.

 

La Calabria prima della fondazione di Taranto

Alla fine del V secolo a.C. la Calabria combaciava a grandi linee con l’attuale Salento, però la sensazione netta è che prima avesse avuto un’estensione decisamente maggiore. Lo si è già potuto intravedere dai miti che prevedono Diomede come fondatore o come avversario di Brindisi. In essi si è infatti rilevato che l’influenza della nostra città arrivava sino a toccare i possedimenti dei Dauni ed addirittura quella degli Apuli, di cui, a dar credito a Trogo era di fatto la città più illustre2. Se si considera che gli Apuli si trovavano a nord dei Dauni, anche se con questi erano a volte confusi, e che, in ogni caso, occupavano le zone del foggiano, questo fa credere che la Calabria faceva allora un tutt’uno con la confinante Peucezia.  Ora, secondo i geografi d’epoca romana, il paese dei Peucezi, o dei Poediculi, a seconda che si segua la terminologia greca oppure epicoria,  si estendeva a nord del territorio di Brindisi, sino al fiume Aufidus (Ofanto)3, il che fa presupporre che l’influenza politica di Brindisi andava ben oltre il Salento, occupando anche l’attuale provincia di Bari, e che la Calabria si estendeva di conseguenza sino a quei luoghi.

Il fatto che in epoca remota la Calabria e la Peucezia fossero un’unica entità geografica, emerge non solo dal compendio dell’opera di Trogo — che, occorre sottolinearlo, insieme ad Asinio Pollione faceva parte della frangia di storici che dava una versione non allineata a quella imposta dal sistema augusteo e diffusa dall’opera di Tito Livio, e per questo più interessata alle tradizioni dei popoli soggiogati dai Romani — ma è per altro confermato da un passo di Dionisio di Alicarnasso troppo spesso trascurato. Narra infatti il retore cario che diciassette generazioni prima della spedizione contro Troia, Enotro abbandonò la Grecia4. Insieme con lui era il fratello Peucezio, il quale, «sbarcata la sua gente dalle parti del promontorio Iapigio, che fu il primo approdo da loro incontrato in Italia, vi si stabilì, ed è da lui che gli abitanti di quella regione sono chiamati Peucezi» («Πευκέτιος μὲν οὖν, ἔνθα τὸ πρῶτον ὡρμίσαντο τῆς Ἰταλίας, ὑπὲρ ἄκρας Ἰαπυγίας ἐκβιβάσας τὸν λεὼν αὐτοῦ καθιδρύεται, καὶ ἀπ’ αὐτοῦ οἱ περὶ ταῦτα τὰ χωρία οἰκοῦντες Πευκέτιοι ἐκλήθησαν»5).

Secondo questa versione, appare pertanto evidente che in epoca mitologica i Greci usavano il coronimo Peucezia per indicare la Puglia centro-meridionale comprendente quindi la Peucezia e la Calabria d’epoca classica. Va inoltre rilevato che in effetti questa testimonianza non è nemmeno unica, essendoci altri scritti, anch’essi trascurati perché ritenuti oscuri dalla critica storica, che propongono una stessa ipotesi. In particolare Liciniano, nell’epitome fatta da Solino, afferma che la Messapia, poi conosciuta come Calabria, aveva tratto origine dal Greco Messapo tuttavia, inizialmente, Peucezio, fratello di Enotro, l’aveva chiamata Peucezia («Liciniano placet a Messapo Graeco Messapiae datam originem, versam postmodum in nomen Calabriae, quam in exordio Oenotri frater Peucetius Peucetiam nominaverat»)6. E pure Plinio il Vecchio, parlando della Calabria, riferisce qualcosa di analogo: «I Greci la chiamarono Messapia da un condottiero e, prima ancora, Peucezia da Peucezio, fratello di Enotro, che si era stabilito nella terra dei Sallentini» («Graeci Messapiam a duce appellavere et ante Peucetiam a Peucetio Oenotri fratre in Sallentino agro»7).

Liciniano e Plinio il Vecchio dettagliano pertanto ancor più il discorso di Dionisio di Alicarnasso rendendo note le dinamiche che avevano interessato le terre dei nostri concittadini, ponendo però in chiaro che il primo nome usato dai Greci per identificarle era stato Peucezia e, solo in seguito, Messapia.

In pratica alla situazione canonica della Iapigia suddivisa in Daunia, Peucezia e Calabria (o Messapia per dirla come i Greci) se ne contrappone una, valida con ogni probabilità prima dell’inizio della colonizzazione greca, nella quale i Peucezi ed i Calabri sono un tutt’uno e, in più, in non buoni rapporti con i Dauni. Ora, considerato che secoli dopo, al tempo di Strabone, come lo stesso autore pone in rilievo8, i popoli dei Peucezi e dei Dauni vivevano in sintonia ormai accomunati in una stessa regione, chiamata Apulia, c’è da ritenere che tali dissidi fossero sorti in precedenza a causa della politica aggressiva dei Brindisini e dei loro tentativi di allargare il proprio raggio d’azione. E che così fosse, vale a dire che i contrasti con i Dauni riguardassero i Calabri e non già i Peucezi, è confermato da un’altra annotazione fatta da Strabone quando riferisce che i Peucezi ed i Dauni s’allearono ai Tarantini, scesi in guerra contro i Messapi9.

Con buoni margini di certezza, si può in definitiva ipotizzare che in un’epoca passata, per le mire brindisine, la Calabria occupava la gran parte della Puglia centro-meridionale e che Brindisi cercava di estendere i propri domini anche nel nord della Puglia.

Il che sarebbe già di per sé innovativo rispetto a quanto si dice comunemente sull’argomento.

Ancor più sorprendente è, tuttavia, ciò che può desumersi da altre fonti narrative sinora dimenticate, le quali lascerebbero in aggiunta intuire che in epoca remota Brindisi avesse esteso i propri domini anche su entrambe le coste della Calabria attuale e che successivamente, sia pure molto ridimensionata dal flusso coloniale acheo e lacedemone, fosse rimasta stanziata in alcune località della Siritide almeno sino all’inizio della seconda metà del V secolo a.C.

Già da altri scritti, che hanno avuto la fortuna di essere ampiamente esaminati, si sono potuti rilevare evidenti segnali che, prima dell’arrivo dei Parteni, la zona di Taranto era abitata da Brindisini. Lo fa sapere in maniera esplicita Strabone ricordando che Brindisi s’era vista  togliere gran parte del suo territorio dai Lacedemoni venuti con Falanto («Ὕστερον δὲ ἡ πόλις βασιλευομένη πολλὴν ἀπέβαλε τῆς χώρας ὑπὸ τῶν μετὰ Φαλάνθου Λακεδαιμονίων»10). Ma anche Trogo, per le parti conservate nel compendio di Giustino, dà una medesima informazione nel momento in cui annota che chi era stato depredato e scacciato dagli invasori tarantini aveva poi trovato riparo a Brindisi11.

Lo testimonia in aggiunta l’antichissima via istmica, utilizzata poi dai Romani per tracciare l’ultimo tratto della via Appia, che univa Taranto a Brindisi, la cui esistenza sarebbe risultata inspiegabile12, se a quel tempo i Brindisini non avessero esercitato una indiscussa egemonia nella zona. Allora non si facevano infatti molte vie, e quelle poche erano tracciate dalle città esclusivamente all’interno del proprio agglomerato, per lo più lontane dalle zone di confine: se Brindisi, prima dell’arrivo dei coloni, ne aveva costruita una sino a Taranto è un palese indice di come poteva disporre a suo piacimento di quelle terre. Per ovvi motivi di sicurezza, nessuna città costruiva di fatto vie in zone che non poteva controllare con certezza.

Ritornando al passo di Strabone c’è da rilevare come il geografo sottolinei che in quella occasione i Brindisini persero gran parte (πολλὴν) del loro territorio. Cosa che fa già pensare all’eventualità che Taranto non fosse l’unico possedimento a cui Brindisi dovette rinunciare a causa dell’arrivo dei coloni. Quali queste terre possano essere state, impossibile dirlo con precisione. Tuttavia una qualche ipotesi è possibile formularla, riesaminando i tanti passi ritenuti impenetrabili e, forse, troppo in fretta messi da parte e scarsamente valorizzati. Senza dubbio tali insediamenti arrivavano addirittura sino nel Bruzio, termine che sarà usato in maniera impropria per indicare la parte meridionale della Calabria attuale, al solo fine di non creare confusioni terminologiche con la Calabria antica. Va infatti ribadito che a quel tempo un simile termine non era stato ancora coniato, in quanto si usava la locuzione ager Bruttius per indicare la terra dei Brettii, solo in tempi successivi definita Bruzio.

 

Le fonti narrative dimenticate e La Brentesía

Sebbene la possibilità di uno sconfinamento degli Iapigi dalle proprie sedi storiche faccia parte degli avvenimenti presi in considerazione dagli storici, la questione è sempre stata presentata in maniera vaga, quasi si trattasse di eventi di scarso rilievo che, semmai accaduti, erano dovuti a circostanze del tutto occasionali o fortuite. Invece non sembra che così sia stato in realtà: lo certificano brani che, per quanto noti, hanno però il difetto di non avere un contesto definibile, neanche da un punto di vista cronologico. In pratica sono notizie che non si sa come collocare nel tempo e nello spazio.

C’è un passo di Strabone, più volte citato ma mai esaminato per quello che potrebbe implicare, che dà memoria dell’insediamento degli Iapigi ben oltre la prima fascia costiera del golfo ionico fino a lambire il Bruzio. Parlando della fondazione di Crotone, Strabone aggiunge appunto senza alcun preambolo: «A dire di Eforo, prima, a Crotone abitavano gli Iapigi» («ᾤκουν δὲ Ἰάπυγες τὸν Κρότωνα πρότερον, ὡς Ἔφορός φησι»13). Riporta quindi l’informazione en passant, ponendola in alternativa alla versione ufficiale, ampiamente accettata da tutti di Crotone colonia degli Achei, quasi che l’annotazione di Eforo fosse solo una lontana congettura. Di primo acchito sembra pertanto una semplice illazione o addirittura una invenzione che πρότερον (próteron), vale a dire prima o forse meglio anticamente,  rispetto all’arrivo degli Achei, Crotone fosse stata abitata dagli Iapigi. E forse proprio per questa sensazione, dovuta a come Strabone presenta la notizia, se l’indicazione data da Eforo è ritenuta  poco attendibile e meritevole d’essere accantonata senza eccessivi scrupoli.

Eppure per certi versi l’affermazione di Eforo trova una sia pure imprecisa conferma in altri autori.

In due frammenti di Ellanico, conservati rispettivamente in Stefano Bizantino14 e Dionisio di Alicarnasso15, viene infatti narrato che gli Ausoni, antichi abitanti della zona, furono costretti a lasciare le proprie terre scacciati dagli Iapigi ed a emigrare in Sicilia. Dal che si può evidentemente desumere che gli Iapigi s’impossessarono delle località abbandonate dagli Ausoni. Ellanico precisa pure quando il fatto avvenne «nella terza generazione prima della guerra di Troia, nel ventiseiesimo anno del sacerdozio di Alcione ad Argo» («τρίτῃ γενεᾷ πρότερον τῶν Τρωικῶν Ἀλκυόνης ἱερωμένης ἐν Ἄργει κατὰ τὸ ἕκτον καὶ εἰκοστὸν ἔτος»16), vale a dire presumibilmente nel  XIII secolo a.C.

In aggiunta lo stesso Strabone menziona, nelle vicinanze di Crotone e del Capo Lacinio17, oggi Capo Colonna, l’esistenza di tre promontori chiamati espressamente Iapigi («τῶν Ἰαπύγων ἄκραι τρεῖς») che non si capisce perché avessero conservato dopo secoli un tale nome, se gli Iapigi non avessero mai vissuto in quei paraggi.

Sebbene queste informazioni abbiano goduto d’una certa fortuna tra gli addetti ai lavori, esse non sono mai state utilizzate per indagare sulle dinamiche cui fu soggetta la società degli Iapigi. Né a maggior ragione lo sono state quelle che godono di poca considerazione perché facenti parte di brani incomprensibili e che la critica ha ritenuto meritevoli d’essere emendate, a causa di ipotetici errori di trascrizione da parte di un qualche amanuense distratto.

Iniziamo da quella che, pur contenendo una notizia di rilievo per la nostra indagine, non è stata neppure mai presa in considerazione.

Tra le tante questioni dibattute dagli storici c’è quella riguardante la Megale Hellas, vale a dire la Magna Grecia, che pone problemi geografici (quali zone essa comprendeva?), cronologici (quando il termine fu coniato?) e di altra svariata natura. Nell’ampia e vivace discussione che ha fatto seguito, viene a volte citato un passo della “Chrestomazie”, un’epitome comprendente molti brani dell’opera di Strabone18, per affermare che la sola area del Capo Lacinio — promontorio distante pochi chilometri da Crotone — sarebbe stata definita Magna Grecia dai discepoli di Pitagora, per il fatto che vi aveva lì soggiornato il loro maestro. E sin qui parrebbe che non ci sia nessun aggancio con il nostro argomento, in quanto si parla espressamente d’un soggiorno avvenuto press’a poco vicino al Capo Lacinio della Brettia, vale a dire del Bruzio («ἐπὶ τὸ Λακίνιον ἄκρον τῆς Βρεττίας»).

Però una noticina fa sapere che, in effetti, il testo originale non riportava «ἄκρον τῆς Βρεττίας» (promontorio della Brettia) ma «ἄκρον τῆς Βρεντεσίας» (promontorio di Brindisi) e poiché Brindisi non si trova vicino al promontorio citato, la lezione Βρεντεσίας (Brentesías) è stata ritenuta un errore del copista e, di conseguenza, emendata senza tante discussioni in Βρεττίας (Brettías).

I Veneti a questo punto potrebbero per certi versi dire che xe pèso el tacòn del buso, letteralmente, è peggio il rammendo del buco, come dire che, nella fattispecie, la correzione appare forse ancor più scorretta dell’errore. Infatti il termine inserito non pare coerente al periodo, vale a dire il VI secolo a.C., in cui si svolgono gli avvenimenti narrati, per il semplice motivo che se Brindisi, seppur collocata in tutt’altra zona, almeno esisteva,  i Brettii non avevano ancora fatto la loro comparsa nella storia e, di conseguenza, non esisteva ancora una regione chiamata Brettia.

Di là, però, dalla correzione magari inappropriata, appare in effetti strano questo accostamento del Capo Lacinio con Brindisi, anche se andrebbe osservato che il termine emendato, Brentesías, sembrerebbe piuttosto un coronimo, e quindi riferirsi ad una regione più che ad una città. Come se l’autore avesse voluto dire, non tanto un promontorio della città di Brindisi, ma piuttosto della regione brindisina o del brindisino. In ogni caso, Brentesías è un toponimo di cui non si hanno precedenti riscontri e che non è dato di sapere se sia stato coniato al momento dallo sconosciuto compilatore dell’epitome oppure se da lui ripreso da un autore più antico.

Tuttavia, andando a valutare altri riscontri letterari oscuri ci si può imbattere negli “Scoli all’Alessandra di Licofrone” contenenti sviste dello stesso tipo. Vero che si tratta di evidenze letterarie tarde, attribuite come sono ai fratelli Tzetze, grammatici bizantini del XII secolo, tuttavia presenti in commentari di epoca precedente — a volte anche imperiale — per cui sono informazioni antiche o tardo-antiche Ad esempio in uno è affermato «e consacrerà ad Atena Iapigia ovvero Calabra, dea del bottino e della guerra, un cratere bronzeo da Temesa, città della Calabria»19 e come si può notare il vocabolo Iapigia è usato come sinonimo di Calabria, e quindi nell’accezione tipica del periodo antico. In un altro si afferma espressamente che Temesa è città della Iapigia ovvero della Calabria e quindi, in definitiva situata nel Salento.

Sappiamo però che Temesa non si è mai trovata nel Salento, essendo ormai assodato che essa era una città degli Ausoni sul litorale tirrenico della Calabria attuale, proprio nel versante opposto a quello in cui si trovano Capo Colonna ed i tre promontori Iapigi. Se non bastasse, lo stesso errore è contenuto in un altro scolio, dove ancora una volta Temesa è presentata come città dell’antica Calabria20, e non del Bruzio.

L’aspetto curioso è che questa strana dislocazione di Temesa non compare solo negli “Scoli all’Alessandra di Licofrone”, ricorre pure nei commentari all’opera di Omero fatta da Eustazio, arcivescovo di Tessalonica e pubblico professore di eloquenza. Infatti, parlando della Temesa citata appunto da Omero nell’Odissea, il retore ci fa sapere che si tratta della Temesa italica: «Come ora alcuni dicono Brindisi» («Τὸ νῦν ὥς τινές φασι Βρεντέσιον»21). E, poco oltre, utilizza anch’egli il termine usato nelle  “Chrestomazie”, vale a dire «ἡ Βρεντεσία»22 (la Brentesìa), lasciando chiaramente intendere che si riferisce ad una regione; non ad una città.

C’è da sottolineare che ad un lettore moderno Temesa potrebbe risultare del tutto sconosciuta. Così non era invece in antichità. Il fatto stesso che ne avesse addirittura parlato Omero, indicandola meta ambita dai Greci per l’approvvigionamento del rame, l’aveva resa leggendaria, soprattutto tra i letterati, i quali ne facevano motivo di approfondite discussioni. Il dibattito era in particolare incentrato sulla sua collocazione geografica, lasciata vaga da Omero: c’era così chi la considerava una città cipriota e chi la riteneva italica. Detto che alla fine la ricerca storico-archeologica è stata concorde nel riconoscere che l’antica Temesa fosse in Italia, e precisamente tra i fiumi Oliva e Savuto, nella parte centrale della costa tirrenica dell’attuale Calabria, resta il fatto, a prima vista sconcertante, che c’era chi, prevedendola italica, l’accostasse come detto a Brindisi che si trovava in una regione completamente diversa.

Ora a tutti può capitare di sbagliare ma che inciampassero nello stesso banale errore rinomati intellettuali del periodo imperiale, i fratelli Tzetze, ignoti epitomatori e, in aggiunta, celebri retori pare qualcosa di poco credibile. Anche perché, a ben guardare, i più non affermavano che Temesa si trovava in Calabria, nelle vicinanze di Brindisi, ma che essa era, al pari di Brindisi, città Calabra. In definitiva non sembra parlassero del suo posizionamento geografico, che con ogni probabilità davano per scontato fosse il Bruzio, né desideravano identificare l’antica Temesa con la Brindisi del loro tempo ma, con ogni probabilità, solo sottolineare un qualche altro aspetto che collegava le due località.

Quale fosse questo legame, è tutto da stabilire; tuttavia tra le tante risposte possibili una sembra la più plausibile: si considerava Temesa città Calabra perché in tempi remoti essa dipendeva politicamente dai Calabri provenienti da Brindisi. In altre parole, si può ipotizzare che, prima dell’avvento dei coloni achei e lacedemoni, Brindisi avesse esteso i suoi domini sino a Crotone — come per altro ricordato da  Eforo che, nello specifico, aveva parlato più genericamente di una occupazione iapigia della città — e che nel suo territorio era compresa anche la città di Temesa. In definitiva il collegamento tra Temesa e Brindisi era dovuto al fatto che la prima si trovava nella Brentesìa, vale a dire nella zona in cui i Calabri di Brindisi erano egemoni.

Messe così le cose, risulterebbe più comprensibile pure il passo di Strabone, quando menziona i tre promontori Iapigi23 collocati in territorio crotoniate, e quindi Iapigio; si darebbe valore pure ai frammenti di Ellanico, quando narra di una offensiva  verso sud degli Iapigi che avrebbe costretto gli Ausoni a migrare in Sicilia e a lasciare quindi l’uso del loro territorio agli invasori. Consentirebbe infine di ripristinare la lezione Βρεντεσίας, emendata come visto in Βρεττίας. nel passo delle “Chrestomazie” che dichiarava il Capo Lacinio facente parte del territorio brindisino, oltre a chiarire il perché dell’uso di un coronimo per indicare un’entità, Brindisi, a cui non ci si rivolgeva mai considerandola una regione.

Più in generale l’ipotesi formulata — opinabile quanto si vuole ma, viste le premesse, del tutto coerente con esse — non appare per nulla priva di consistenza, anzi è supportata da testimonianze talmente concrete da renderla più che verosimile.

Il riesame dei vari brani rende in definitiva evidente come i Calabri di Brindisi esercitassero una qual certa supremazia all’interno dei gruppi iapigi e, sia pure in modo sfumato, delinea il quadro delle loro eventuali conquiste. Chiarisce inoltre che gli interessi di Brindisi s’erano rivolti non solo a nord dell’istmo che l’univa a Taranto, come si può evincere dai miti di fondazione relativi a Diomede, ma anche oltre la fascia costiera tarantina e la Siritide, sino a toccare i litorali della costa nord del Bruzio, come i passi rivalutati sul Capo Lacinio e su Temesa lascerebbero intuire.

Infine, potrebbe essere letto in questo senso anche il famoso frammento di Varrone, reso noto dalla Pseudo-Probo sulla genesi della nazione salentina, che si riporta per intero perché in parte talmente indefinito che può dare luogo a diverse interpretazioni. «Nel terzo libro delle Antichità umane [Varrone] così riferisce: “Si dice che la nazione Salentina si sia formata a partire da tre luoghi, Creta, l’Illirico, l’Italia. Idomeneo, cacciato in esilio dalla città di Blanda per una sedizione durante la guerra contro i Magnensi, giunse con un folto esercito nell’Illirico presso il re Divitio. Ricevuto da lui un altro esercito, e unitosi in mare, per la analogia delle loro condizioni e dei progetti, con un folto gruppo di profughi locresi, strinse con essi patti di amicizia e si portò a Locri. Essendo stata la città evacuata, per timore di lui, egli la occupò e fondò diverse località tra le quali Uria e la famosissima Castrum Minervae. Divise l’esercito in tre parti e in dodici popoli. Furono chiamati Salentini, perché avevano fatto amicizia in mare» («[Varro] in tertio Rerum Humanarum refert Gentis Salentinae nomen tribus e locis fertur coaluisse, e Creta, Illyrico, Italia. Idomeneus e Creta oppido Blanda pulsus per seditionem bello Magnensium cum grandi manu ad regem Divitium venit ad Illyricum; ab eo item accepta manu cum Locrensibus plerisque profugis in mari coniunctus per similem causam amicitiaque sociatis, Locros appulit. Vacuata eo metu urbe, ibique possedit aliquot oppida et condidit:  in queis Uria et Castrum Mineruae nobilissimum. In tres partes divisa copia in populos duodecim Salentini dicti, quod in salo amicitiam fecerint»24).

Per quanto in maniera vaga anche Varrone offre un quadro diverso da quello usuale, collocando i nostri antichi concittadini fin nella Locride, dove occuparono appunto Locri, questo perché c’era stata comunanza d’intenti anche con un gruppo di profughi Locresi.

Ne consegue che non è azzardato ipotizzare che Brindisi, prima dell’arrivo dei colonizzatori achei e lacedemoni, fosse una delle principali potenze della zona che divenne poi in buona parte greca.

(1 – continua)

 

Note

1 Erodoto, Storie, IV 99, 5.

2 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, XII 2, 7; n. valente, Brindisi arcaica: i miti di fondazione e le origini ateniesi, https://www.academia.edu/103297158/Brindisi_arcaica_i_miti_di_fondazione_e_le_origini_ateniesi

3 Tolomeo, Geografia, III 1, 13.

4 Dionisio di Alicarnasso, Antichità Romane, I 11, 2-3.

5 Ibidem, I 11, 4.

6 Granio Liciniano (II secolo d.C. -…), Reliquiae, edidit N. Criniti, Leibzig 1981, apud solino, Collectanea rerum memorabilium, II 12.

7 Plinio il vecchio, Storia Naturale, III 11, 99.

8 Strabone, Geografia, VI 3, 8.

9 Ibidem, VI 3, 4.

10 Ibidem, VI 3, 6.

11 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, III 4, 11-12.

12 M. Lombardo, La via istmica Taranto-Brindisi in età arcaica e classica: problemi storici, in Atti: Salento porta d’Italia, Lecce 1989, pp. 167/192.

13 Eforo, fr. 140 Jacoby, apud strabone, Geografia, VI 1, 12.

14 Ellanico (V secolo a.C.), fr. 79a Jacoby, apud stefano bizantino (VI secolo d.C. – …), Ethnica, voce Sikelìa.

15 Ellanico, fr. 79b Jacoby, apud dionisio di alicarnasso, Antichità Romane, I 22, 3.

16 Ibidem.

17 Strabone, Geografia, VI 1, 11.

18 Chrestomazie, VI 281, 6.

19 Tzetze, Scholia in Lycophronis Alexandram, v. 853.

20 Ibidem, 854.

21 Eustazio di Tessalonica (XII secolo d.C.), Commento ad Omero – Odissea, I 185.

22 Ibidem, I 184.

23 Capi Le Castella, Rizzuto e Cimiti.

24 Varrone, Antiquitates rerum humanarum, III fr.VI Mirsch, Apud PS –PROBO,  in Vergilii Bucolica, VI 31.

 

Messapia: chi coniò questo termine e perché

di Nazareno Valente

 

Per dare una risposta credibile al quesito che ci siamo posti, vale a dire come mai i Greci scelsero il nome di Messapia da sovrapporre a quello già in uso di Calabria, è opportuno analizzare dapprima il contesto in cui l’evento si realizzò, così da inserire le informazioni nel loro ambito più proprio.

All’inizio dell’ultimo millennio prima dell’era cristiana, la Puglia si chiamava Iapigia ed era abitata dagli Iapigi, popolazione la cui genesi era avvenuta in un’epoca collocabile tra l’età del bronzo e quella del ferro e che gli studiosi concordano nel credere d’origine illirica. Più nel dettaglio si reputa che, su una cultura locale preesistente, si siano inseriti apporti esterni in misura significativa di provenienza illirica.

Anche alcuni storici antichi propendevano per una simile ipotesi, però, come era loro abitudine, facevano risalire l’avvenimento ad un ben determinato episodio collocato in epoca mitica. Nello specifico ricorsero ad una figura alquanto controversa, Licaone, leggendario re degli Arcadi, al quale la saga attribuiva la paternità di cinquanta e più figli, ai quali qualcuno, per l’occasione, aggiunse pure Iapige, Dauno e Peucezio.

Sorta in età ellenistica, la tradizione trovò infine definizione negli scritti del poeta Nicandro28 il quale narrò che  Licaone, dopo aver raccolto un consistente esercito in gran parte composto da Illiri guidati da Messapo, giunse sulla costa adriatica e scacciò gli Ausoni che possedevano quelle terre. Effettuata la conquista, Licaone divise l’esercito e il territorio in tre parti, denominando le popolazioni così costituite in base ai nomi dei comandanti, Dauni, Peucezi e Messapi. Questi ultimi presero possesso della regione che si protendeva nella parte estrema dell’Italia al di sotto di Taranto e Brindisi, chiamata per l’appunto Messapia.

Di là dal mito, la ricostruzione storica riconosce che gli Iapigi estesero il loro dominio sulla Puglia e su alcune zone della Lucania e dell’attuale Calabria fino a Crotone29. Dai riferimenti archeologici è possibile ricavare che la popolazione Iapigia mantenne una qual certa unitarietà sino alla fine del IX secolo, quando questa compattezza socioculturale incominciò a sfilacciarsi. I Calabri erano infatti venuti  in contatto con il flusso precoloniale di quel periodo e subivano i primi influssi della cultura ellenica; circostanza questa che li portò da principio a differenziarsi dai Dauni e, successivamente, pure dai Peucezi. In età storica si pervenne così alla costituzione delle tre distinte culture dei Dauni, dei Peucezi e dei Messapi.

È qui il punto di cesura indotto dall’arrivo dei Greci, che fece diventare, con il concorso dei Cretesi, Iapigi-Messapi gli originali Iapigi, così come raccontato da Erodoto.

Come i riscontri archeologici danno motivo di pensare, furono gli Eubei, soprattutto di Calcide, ad avviare un fattivo commercio nelle non facili rotte adriatiche, senza però riuscire ad imporre «apoichie» (colonie), come invece avvenne nelle zone del versante tirrenico (Pithecusa, Cuma) o ionico (Zancle, Rhegion). Con ogni probabilità gli Eubei ridimensionarono le loro mire iniziali perché dissuasi da popolazioni parecchio agguerrite, quali i Calabri di Brindisi e di Otranto, i Piceni e gli Etruschi. In ogni caso, tra la fine del IX e l’inizio dell’VIII secolo a.C. si sono evidenti segni della loro presenza sulle coste dell’allora Calabria, dovuti sia a contatti di livello commerciale, sia a scambi culturali.

D’altra parte, in quel periodo, le navi di Calcide arrivavano un po’ dappertutto alla ricerca dei metalli, tra cui  la preziosa ambra, senza tuttavia disdegnare i traffici meno nobili, quali quello degli schiavi, di vasellami e – se convenienti – di vino e di olio. Alla loro guida si ponevano aristocratici che rinverdivano le migliori tradizioni omeriche: pur di correre l’avventura ed il guadagno, non si preoccupavano di abbandonare gli agi delle proprie ricche case e di affrontare i disagi di lunghi e pericolosi viaggi. Le rotte dell’Adriatico divennero una specie di loro seconda casa.

Tutto questo fa supporre che furono proprio i Calcidesi gli artefici del cambiamento che portò la popolazione del Salento a differenziarsi dagli altri iapigi e, a mio giudizio, i più verosimili ideatori del termine Messapia.

Non nascondo, tuttavia, che questa mia ipotesi, di cui sono per altro il primo ed unico sostenitore, rappresenti un azzardo, essendoci fondati motivi per ritenerla, per chi s’accontenta delle apparenze, tirata in po’per i capelli.

Come infatti già visto, tutte le fonti letterarie disponibili collegano  il toponimo Messapia ad un eroe leggendario (Messapo) ed a luoghi (il monte Messapio) che fanno parte del folclore beotico e  non certo euboico. In aggiunta, i Beoti non amavano navigare e, se lo facevano, non erano mai nelle vesti di protagonisti.

Parrebbe pertanto a tutta prima inusuale che gli Eubei, nel coniare un termine, abbiano dovuto far ricorso ad elementi estranei alle loro tradizioni. Eppure, se non ci si ferma alla superficie e si valutano le informazioni non a sé stanti ma inserite nel giusto contesto, ogni particolare avvalora questa mia supposizione.

Guardando una qualsiasi cartina geografica salta subito agli occhi la contiguità tra le due regioni: l’Eubea è separata  dalla Beozia da uno stretto tratto di mare (l’Euripe) che, proprio all’altezza di Calcide, raggiunge un’ampiezza che supera appena qualche decina di metri. E, solo una quindicina di chilometri più in là, si trova il più volte richiamato monte Messapio.

 

Già la vicinanza potrebbe di per sé far desumere possibili comunanze di saghe e di eroi. Ma non c’è neppure bisogno d’un così generico appiglio, perché è sufficiente scavare appena nelle tradizioni delle due regioni per scoprire le tracce d’un legame indissolubile.

Se ne individua una prima avvisaglia in un frammento di Teopompo30 che dà menzione di una guerra combattuta dai Calcidesi contro la città di Calia ed i suoi alleati beoti, orcomeni e tebani. L’esatta posizione di Calia non è conosciuta, ciò nonostante, grazie ad un altro frammento di Teopompo31, si ha notizia che era nelle vicinanze di Aulide, città della Beozia posta proprio di fronte a Calcide, quindi anch’essa sua dirimpettaia. L’esito dei combattimenti è all’opposto certo: fu favorevole ai Calcidesi che, come ci riferisce Teopompo, occuparono la zona continentale della Beozia loro antistante («ἤπειρον ἔχουσι»).

Presumibilmente nella stessa epoca in cui commerciavano con gli antichi Calabri, i Calcidesi presero quindi possesso della prospiciente fascia costiera della Beozia, che andava con ogni probabilità da Aulide a poco oltre Antedone, sino al lago Yliki, e conteneva quindi anche le città di Calia, Hyrie ed il massiccio del Messapio.

 

Il frammento di Teopompo assume maggior valore, se si considera che ci viene riferito da Stefano, il geografo bizantino che, come già riportato, parlando del monte Messapio, lo diceva collocato in Eubea. Con ogni probabilità, Stefano nel consultare l’opera di Teopompo – della quale sono giunti a noi solo alcuni frammenti – deduceva che la fascia costiera beotica era un possesso stabile di Calcide, e di conseguenza comunemente considerata a tutti gli effetti facente parte dell’Eubea. E la situazione rimase tale per tutto il periodo di massimo splendore di Calcide, cioè a dire dal IX sino a quasi tutto il VII secolo a.C. come confermano in parte altre tradizioni.

La prima, molto diffusa in Beozia, narrava la sconfitta subita dal leggendario Calcodonte – qui nella versione di re degli Eubei – per mano di Anfitrione, padre legale di Ercole, con cui si poneva fine all’occupazione euboica e ai tributi che essi imponevano. La seconda, in cui è lo stesso Eracle a sconfiggere Pyrachme, re degli Euboici, a simboleggiare anch’essa la fine dell’occupazione dei territori costieri da parte di Caicide32. Dal momento che la saga delle avventure di Eracle in Beozia non è antecedente al VII secolo a.C.33 si può ritenere che Calcide attuò la sua supremazia almeno sino a quel secolo.

L’influenza di Calcide e di altri centri dell’Eubea è comunque riconoscibile anche da altri indizi.

La toponomastica ci racconta che l’antica Oropo, allora posta dirimpetto ad Eretria, altra famosa città dell’Eubea, si trovava nel distretto detto «Πειραική» (Peiraiché), termine che di per sé denotava uno stato di relazione, spesso subordinato, di una città costiera con un’isola poco lontana. Già in antichità si usava, infatti, la voce «περαία» (peraía) per indicare il controllo effettuato da un’isola su un’area costiera continentale. Sicché il termine “peréa” è diventato sinonimo tra gli studiosi, non solo di un legame geografico tra un territorio continentale e l’isola ad esso vicina, ma di un vero e proprio rapporto di dipendenza. Rapporto di subordinazione in antichità spesso frequente tra un’isola e la terraferma prospiciente. Gli isolani, la cui intraprendenza era rinomata, rappresentavano la componente progressista della società greca e, proprio per questa loro indole spregiudicata, quasi sempre destinati ad avere la meglio sulla componente conservatrice, di cui i continentali erano gli esponenti più paradigmatici. Gli isolani erano poi in genere naviganti, senza paure e scrupoli, che s’arricchivano con il commercio e, di conseguenza, avevano la possibilità economica di esercitare un qual certo potere sugli altri; i continentali erano invece pescatori, agricoltori, allevatori di bestiame, poco propensi ad affrontare l’alea dell’avventura e, di fatto, stanziali, legati a filo doppio con la terra da cui traevano sostentamento.

Oltre alle tradizioni ed alla diversa predisposizione mentale, l’ascendente di Calcide è più banalmente individuabile anche dalla situazione amministrativa dei nostri giorni: le zone di Antedone e Aulide, corrispondenti alla fascia costiera della Beozia che avevano subito l’influenza di Calcide antica, fanno appunto parte del comune di Calcide attuale. Come dire che si riconosce tuttora a tali territori una tradizione e una consonanza culturale che li pone più in relazione con la regione euboica che con il restante entroterra beotico.

Se non bastasse, anche in periodi precedenti al IX secolo a.C. è possibile riconoscere una precoce esperienza espansionistica dei Calcidesi in Beozia. Ne troviamo un riverbero nei versi omerici riguardanti “Il Catalogo delle Navi”34 dove vengono appunto elencati i vari contingenti giunti a Troia. Tra questi spiccano gli arditi Abanti ai quali gli studiosi riconoscono una posizione egemonica nelle cosiddette zone abantiche, di cui faceva parte pure la Beozia. Ebbene gli Abanti non sono altri che Eubei, guidati da Elefenore, figlio di Calcodonte, personaggio mitico già più volte messo in relazione con Calcide.

Alla luce di queste considerazioni, appare pertanto legittimo ipotizzare che la matrice del coronimo Messapia possa ritenersi euboica. E questa mia ipotesi sembra valorizzata pure da altri segnali che, presi di per sé appaiono delle semplici coincidenze ma, al contrario, valutati nel loro complesso inducono a buon diritto a credere che ci fosse un coinvolgimento per niente casuale degli Eubei, ed in particolare di Calcide, nella fissazione della toponomastica  locale della penisola salentina.

Elenchiamo questi indizi per sommi capi.

Abbiamo già riferito come  Erodoto parli di una Ὑρία (Hyrie) fondata dai Cretesi divenuti Messapi; Teopompo racconta, a sua volta, di una città con lo stesso nome di Ὑρία (Hyrie) collocata in Aulide nella fascia continentale controllata dagli Eubei. Erodoto ci narra poi di Cretesi adattatisi a vivere nell’entroterra calabro antico; Pausania ci riferisce che a Teumesso (località non meglio identificata della Beozia) c’è un tempio senza immagine dedicato ad Atena Telchinia35 e che i Telchini, da cui trae l’epiteto, sono venuti da Cipro, ma di fatto anch’essi isolani d’origine cretese, adattatisi poi a vivere sulla terraferma.

Stefano36 dà a sua volta notizia di due città della Messapia di non risolta collocazione: Amazones e Chalkitis.

La prima collegata alle Amazzoni, e che, guarda caso, trovava un suo corrispettivo nei  santuari a loro dedicati sia in Beozia, sia a Calcide. Quest’ultimo particolarmente famoso e significativo, perché vi trovavano sepoltura molte amazzoni cadute nel mitico combattimento ingaggiato contro Teseo per il rapimento della loro regina Antiope37. La seconda città, Chalkitis, riecheggia addirittura il nome di Calcide38 e ci fa sapere l’esistenza d’un centro della penisola salentina avente una stessa vocazione per la lavorazione e per il commercio dei metalli.

Ho tenuto per ultima una coincidenza toponomastica davvero speciale, già messa in evidenza da un autore tedesco più di cent’anni fa39. Riguarda le isole Petagne, poste all’imboccatura del porto esterno di Brindisi, il cui toponimo richiama quello di dieci piccole isole che si trovano al largo della  costa sud-occidentale dell’Eubea nel golfo di Petali, chiamate appunto con un nome avente la stessa radice: Πεταλιοί (Petalioi), i Petalii.

In definitiva troppe occorrenze, per derubricarle a casuali omonimie o somiglianze, che pongono in rilievo la matrice euboica di svariati  termini di località dell’antica Calabria. Non pare pertanto campata in area l’ipotesi che pure il coronimo Messapia sia dovuto ai naviganti di Calcide, frequentatori assidui delle coste dell’allora golfo Ionico. Il quale, per inciso, deve anch’esso il proprio nome agli Eubei. Almeno a dar credito ad alcuni autori.

Io, l’eroina dalla quale il mare aveva tratto la denominazione, secondo molte leggende aveva infatti stretti legami con l’Eubea: vi aveva concepito Èpafo, frutto dell’amore di Zeus; una volta tramutata in giovenca, vi avrebbe pascolato ed infine dalla giovenca stessa sarebbe derivato il nome di Abanti, con cui venivano identificati gli Eubei in tempi omerici.

In pratica ce n’è d’avanzo anche per credere che Messapo che, come abbiamo visto, molti autori antichi ritenevano il condottiero eponimo della Messapia, fosse originario dell’Eubea e che si trovasse in Beozia da conquistatore.

Il che farebbe cadere i dubbi sul coinvolgimento di un Beota nell’assegnazione d’un toponimo in terre che i suoi corregionali frequentavano al più da comprimari, non avendo nessuna tradizione marinara. Sicché si potrebbe a questo punto rivalutare la versione degli autori antichi e concludere che fu davvero Messapo, trasferitosi in Iapigia, a dare alla contrada il nome di Messapia.

Pur tuttavia non sarebbe una conclusione soddisfacente, se si pensa che in antichità era abitudine diffusa quella di far risalire le designazioni geografiche ad un personaggio leggendario, spesso forzando gli avvenimenti per raggiungere un simile scopo.

Propenderei piuttosto per un’ipotesi del tutto originale basata su un’informazione, poco sfruttata, fornita ancora una volta da Stefano40. Il geografo bizantino annota difatti, tra i coronimi assegnati in tempi arcaici alla Beozia, quello di Messapia.

In pratica, nel periodo in cui la zona continentale antistante Calcide era un possesso euboico, la Beozia era con ogni probabilità conosciuta con il nome di Messapia, vale a dire lo stesso termine poi scelto per designare la Calabria arcaica. Questa circostanza rende credibile un qualche collegamento tra Beozia e penisola salentina. Collegamento che potrebbe dare finalmente una risposta compiuta al nostro quesito.

Ebbene torniamo al passo in cui Erodoto narra dei Cretesi costretti, a causa del disastroso naufragio, a stabilirsi in Iapigia. Egli testualmente afferma: «dopo aver fondato in quel luogo la città di Hyrie, vi rimasero e cambiando sé stessi divennero Iapigi Messapi invece di Cretesi e continentali da isolani che erano» («ἐνθαῦτα Ὑρίην πόλιν κτίσαντας καταμεῖναί τε καὶ μεταβαλόντας ἀντὶ μὲν Κρητῶν γενέσθαι Ἰήπυγας Μεσσαπίους, ἀντὶ δὲ εἶναι νησιώτας ἠπειρώτας»).

Quindi Erodoto mette in relazione il cambio di nome (da Cretesi  a Messapi) con un mutamento di condizione sociale (da isolani a continentali), quasi fosse una conseguenza del tutto scontata. Così non fosse, non si comprenderebbe bene perché l’autore abbia avuto bisogno di mettere talmente in rilievo la connessione tra modifica di etnico e  mutamento di abitudini di vita. Se lo ha ritenuto necessario, è perché allora era abituale che così avvenisse: un popolo che non navigava più, e s’adattava a vivere sulla terraferma non poteva più considerarsi a tutti gli effetti Cretese, o isolano in senso lato, e doveva pertanto essere identificato con un etnico che richiamasse questa sua nuova condizione.

In altre parole, così come l’essere Cretesi richiamava la condizione di “isolani”, e quindi la predisposizione a navigare e a commerciare; l’essere Messapi evocava quella di “continentali”, quindi presupponeva la scelta di legarsi alla terra ed alla pastorizia. In altre parole, le condizioni sociali e le abitudini di vita degli abitanti della Calabria, sembrarono agli occhi dei Calcidesi molto simili a quelli di chi viveva in Beozia: continentali tipici, dediti alla pesca, all’agricoltura ed alla pastorizia, definibili in maniera adeguata con lo stesso termine usato per identificare i loro tradizionali dirimpettai. Per l’appunto, Messapi.

Anche se di più facile comprensione, un qualcosa di analogo avvenne sulla sponda opposta dell’’Adriatico, quando gli Eubei denominarono quella contrada Epiro (attuale Albania). Il nome scelto in quell’occasione faceva certo un più puntale riferimento con la terraferma: «Ἤπειρος» (Ḗpeiros), significa proprio “continente”  ma obbediva alla stessa logica di contrapposizione tra isola e terraferma adiacente.

Furono in definitiva le abitudini di vita e la collocazione geografica degli abitanti della penisola salentina a condizionare i Calcidesi nella scelta.

Nacquero in tal modo i termini di Messapia e di Messapi.

Tutti gli indizi lo fanno credere.

(2 – fine)

 

Note

28 NICANDRO DI COLOFONE (II secolo a.C.), apud antonino liberale (…),  Metamorfosi XXXI, fr. 47 Schneider.

29 EFORO (IV secolo a.C.), apud STRABONE, Cit., VI 1, 12.

30 TEOPOMPO (IV secolo a.C. ),  Apud STEFANO BIZANTINO, Cit, voce “Χαλία”.

31 TEOPOMPO, fr. 211 Jacoby.

32 PLUTARCO, Paralleli minori, 7.

33 Y. BEQUIGNON, La vallée du Spercheios des origines au IVe siècle, Paris 1937, pp. 210 – 231.

34 OMERO, Iliade, II 536 – 545.

35 PAUSANIA, Cit., IX 19, 1

36 STEFANO BIZANTINO, Cit., voci “Ἀμαζόνες”, “Ἀμαζόνειον”, “Χαλκίς”.

37 PLUTARCO, Vite parallele, Teseo 27.

38 Si ritiene comunemente che Calcide (Χαλκίς, Chalkís) derivi il proprio nome da χαλκός (Chalkόs), vale a dire rame o bronzo, a denotare la vocazione della città per la metallurgia.

39 M. MAYER, Apulien vor und während der Hellenisirung mit besonderer Berücksichtigung der Keramik, Berlino 1914, p. 387.

40 STEFANO BIZANTINO, Cit., voce “Βοιωτία”.

 

Per la prima parte clicca qui:

Messapia: era davvero una terra tra due mari? – Fondazione Terra D’Otranto

 

Messapia: era davvero una terra tra due mari?

di Nazareno Valente

 

A quei tempi – V secolo a.C. – il termine βιβλιοθήκη (bibliotheche) non indicava ancora il luogo per la conservazione e la consultazione dei libri, ma semplicemente la cassa (θήκη) per la custodia dei rotoli di papiri (βιβλίων). Però c’erano già i banchi (βιβλιοθῆκαι, bibliotekai) dei venditori di libri (βιβλιοπώλης, bibliopoles) che fungevano da librerie e assicuravano il commercio dei rotoli e dei codici1, ed anche a commercializzare gli inediti degli autori più alla moda2.

C’era quindi già un mercato librario attivo.

 

Tuttavia il modo migliore per gli scrittori di diffondere i propri scritti – e procurarsi al tempo stesso di che vivere – non era di vederli “stampati”3 quanto piuttosto quello di declamarli pubblicamente. A livelli prosaici, questo consentiva di farsi un nome e di trovare impiego negli staff dei politici del tempo, alla stregua degli attuali scrittori ombra, o, per dirla all’anglosassone, dei ghostwriter. Con la sostanziale differenza che le relative spese erano a carico del politico che li assoldava, e non del contribuente. A livelli più spirituali, invece, voleva dire guadagnarsi un pezzo di eternità e garantire alla propria opera d’essere riconosciuta anche quando sarebbe stata recitata da altri.

Qualunque fosse il fine ultimo, un po’ tutti vi indulgevano, pure scrittori di spessore, come ad esempio lo storico Erodoto, nella cui opera sono con facilità riconoscibili gli intermezzi da lui usati per interloquire con chi l’ascoltava, allo scopo di integrare o spiegare meglio l’argomento in quel momento trattato. Intermezzi talmente tipici e rinomati che quando si parla di παρενθήκη (parenthéche), vale a dire digressioni, il pensiero corre in maniera automatica a lui.

Ed è appunto in un paio di queste digressioni che la terra salentina ed i suoi abitanti fanno per la prima volta capolino sul grande scenario della storiografia.

Nel primo passo, Erodoto si limita a caratterizzare l’area geografica della penisola salentina, indicando che essa è la parte estrema della Iapigia («Ἰηπυγίης») limitata dall’istmo che va dal porto di Brindisi a Taranto («ἐκ Βρεντεσίου λιμένος ἀποταμοίατο μέχρι Τάραντος»)4. Nel secondo fornisce una genesi della popolazione che vi risiede.

Racconta infatti che i cretesi, per vendicare la morte del loro re Minosse, avevano fatto una spedizione in Sicilia senza però ottenere alcun risultato concreto. Al ritorno, sorpresi da una tempesta mentre si trovavano presso la costa Iapigia, erano stati scagliati sulla terraferma dove, essendosi spezzate le navi e vista svanita la possibilità di ritornare in patria, si videro costretti a rimanere. Qui fondarono «Ὑρία» (Hyrie probabilmente l’attuale Oria) e vi si stabilirono, subendo una grande trasformazione. Infatti non solo cambiarono nome – tramutandosi da Cretesi in Iapigi Messapi –  ma anche d’habitat, divenendo continentali da isolani che erano5.

Il passo, denso di messaggi  impliciti, e per certi versi oscuri per i non contemporanei, meriterebbe un’analisi ben più specifica di quella che sarà fatta in questa sede. Per l’occasione ci soffermeremo infatti ai soli spunti d’interesse per il tema trattato. In particolare sulla “nascita” di questo nuovo gruppo etnico (i Messapi) che raccoglie sì l’eredità cretese ma che, al tempo stesso, si differenzia del tutto dalle sue originarie condizioni sociali.

Emerge dalle parole di Erodoto la cosiddetta tradizione ionica, e in specie ateniese, desiderosa di valorizzare il mondo calabro (ricordo che Calabria era la denominazione geografica che gli autoctoni davano all’attuale penisola salentina) in funzione antitarantina, assegnandole origini cretesi. Infatti i Calabri si opponevano alle mire espansionistiche di Taranto, colonia lacedemone e quindi emanazione di Sparta, acerrima rivale di Atene. Lo storico fa proprio questo mito perché ateniese di residenza e, in aggiunta, turino d’adozione6, sia pure con cautela premettendo alle sue argomentazioni un allusivo “si dice” («λέγεται» léghetai).

Se si aggiunge che Thurii, la città di cui Erodoto aveva acquisito la cittadinanza, e nella cui agorà si era con ogni probabilità lasciato andare a quella divagazione, era legata da saldi patti con Brindisi, anch’essa nemica di Taranto, si comprende come mai lo storico non avrebbe potuto che sostenere una simile causa, anche nel  dubbio. Dubbi che a tale proposito non hanno gli studiosi moderni, quasi compatti a relegare il racconto tra le leggende, dando per certa l’origine illirica della popolazione messapica.

Detto che non mi sentirei di precludere che, in un periodo arcaico, il mondo egeo abbia potuto anch’esso contribuire alla genesi dei Messapi, il racconto testimonia comunque un aspetto di particolare rilievo. Agli occhi dei Greci, per lo meno quelli d’estrazione ionica, gli Iapigi Messapi godevano d’una posizione di evidente privilegio: rispetto ai tanti barbari con cui i coloni elleni si relazionavano, essi potevano vantare antiche (e civili) origini in quanto discendenti dei Cretesi di Minosse. Privilegio questo non certo di poco conto, se si considera che solo i celebrati Etruschi – anch’essi accreditati di origini egee orientali (Lidia) – ne potevano ostentare uno simile. In altre parole, al tempo di Erodoto, i Messapi erano una delle poche popolazioni non greche fornite dai Greci stessi d’una qualche patente di nobiltà.

Altro aspetto rimarchevole è che l’etnico Messapi («Messapioi»), assegnato da Erodoto al consistente gruppo cretese che s’era integrato con gli Iapigi7, è di matrice greca. Ne è prova la constatazione che il termine è utilizzato in maniera quasi esclusiva dalle fonti greche e che quelle latine l’adoperano molto raramente8. E trova conforto  pure nel fatto che la denominazione geografica corrispondente, Messapia («Messapίa»), sia dichiarata in maniera esplicita di origine greca da parte di Strabone («Gli Elleni la chiamano Messapίa»9). In aggiunta, come meglio vedremo, i due termini («Messapioi» e «Messapίa») avevano ampia diffusione negli etnici e nei toponimi del mondo greco. Il sovrapporre nomi di propria fattura a quelli preesistenti dei nativi rientrava nelle strategie cui i Greci ricorrevano per sminuire i loro interlocutori e condizionarli al loro metro di giudizio.

Al contrario gli indigeni chiamavano la penisola Calabria e sé stessi Calabri o Salentini, a seconda delle zone in cui risiedevano10 e – pare proprio – che non gradissero neppure un po’ le denominazioni d’origine greca. Non a caso, i Romani, sempre molto attenti a non turbare la suscettibilità delle popolazioni a loro soggette, misero al bando coronimi ed etnici coniati dagli Elleni e ripristinarono quelli originari. Sicché, nelle fonti latine, già poco propense all’uso della terminologia greca, dalla seconda meta del III secolo a.C. scompaiano del tutto le denominazioni Messapia e Messapi, a beneficio delle voci locali (Calabria, Calabri, Sallentini)

La domanda che ci si pone spesso è come mai i Greci scelsero proprio quei termini per caratterizzare l’attuale penisola salentina ed i suoi abitanti. Un quesito, questo, che incuriosiva anche gli autori antichi.

Di certo erano nomi abbastanza noti al mondo greco, essendo già ampiamente diffusi nelle loro regioni d’origine.

Senza farne un elenco completo, menzioniamo quelli più ricorrenti e significativi.

In Beozia esisteva una piccola catena montuosa chiamata Messapio, di cui ci dà nota Pausania ponendola a sinistra dell’Euripo – che è lo stretto tratto di mare Egeo che separa la Beozia dall’isola di Eubea – ai cui piedi c’era la città di Antedone11 distante una decina di chilometri da Calcide posta sull’altra sponda dell’Eubea.

Strabone ce ne dà menzione riferendo che, nel territorio di Antedone, si trova il monte Messapio aggiungendo l’importante notizia che esso «trae nome da Messapo che, passato in Iapigia, dette a questa contrada il nome di Messapia»12.

Pure Stefano Bizantino13 e Fozio14 – che di fatto lo copia – parlando dello stesso monte, lo collocano in apparenza in maniera errata in Eubea, confermando che aveva preso nome da Messapo «quello che si trasferì in Italia».

C’è quindi una certa sostanziale concordanza tra le fonti, sia pure, come vedremo meglio in seguito, con qualche variante di dettaglio. Parrebbe pertanto che sulla questione non ci fossero forti dubbi, tanto è vero che anche l’autorità di Plinio il Vecchio sostiene una simile ipotesi, riportando che «i Greci la chiamarono Messapia dal nome d’un condottiero» («Graeci Messapiam a duce appellavere»)15. In definitiva tutti d’accordo che Messapia traeva nome da un condottiero, in genere ritenuto proveniente dalla Beozia dove risultava già eponimo d’una piccola catena montuosa.

Pur tuttavia questa tesi non soddisfa gli studiosi, e vedremo poi perché.

Acquisisce così in alternativa spazio una proposta moderna la quale  prevede «che i Greci intendessero il nome Messápioi, per etimologia popolare, come ‘quelli tra i due mari’»16 e per Messapía «quella che sta in mezzo (tra due mari)»17. Il fascino della nuova ipotesi è tale che, sebbene ritenuta dagli studiosi non dimostrabile, visto che non si conosce l’etimologia della parola, essa prende sempre più piede nella cronachistica. A tal punto che si dà ormai per scontato che Messapia  significhi «terra tra i due mari», ed in tale veste fa bella mostra nella pubblicistica locale.

Ma la potenza delle suggestioni non modifica l’attendibilità delle affermazioni: più che non dimostrabile, una simile teoria è  improbabile, se non proprio impossibile.

E vediamo perché.

Abbiamo già appurato che il termine Messapi appare per la prima volta nelle fonti letterarie del V secolo a.C.  per mano di Erodoto, ma è verosimile che esso fosse di tradizione più antica, collegabile al periodo precoloniale di fine IX secolo a.C. oppure coloniale del secolo immediatamente successivo. Nel primo caso, furono con ogni probabilità gli Eubei a coniarlo, quando ancora, come racconta Plutarco18, potevano disporre dell’isola di «Kérkyra» (l’attuale Corfù) controllando le rotte per l’occidente; nel secondo all’arrivo dei Lacedemoni con la fondazione di Taranto. In entrambi i casi in un periodo in cui non ci si è ancora emancipati da una visione della terra a forma d’un disco, come lo scudo di Achille descritto da Omero, costruito appunto ad immagine del disco terrestre.

Nell’epica greca arcaica la Terra è concepita priva di profondità e circondata da Oceano, da dove sorgono e dove tramontano il sole e gli altri pianeti. In pratica si dovette attendere  Anassimandro, e quindi il VI secolo a.C., per avere una Terra che, senza il sostegno di Atlante, potesse galleggiare autonoma nello spazio ed essere rappresentata graficamente, in maniera per quel che si sa molto approssimativa. Questo per ricordare che, a differenza nostra, cui basta consultare una cartina per distinguere un mare da un altro o vedere la configurazione d’una costa, a quei tempi non si poteva ricorrere ad aiuti del genere. Tutto ciò comporta una difformità di prospettiva tra un qualsiasi lettore moderno ed un viaggiatore di epoca antica. Punti di vista e percezioni la cui lontananza è difficile da colmare e da comprendere, perché basati su configurazioni geografiche del tutto differenti e, quindi, su un diverso modo d’intendere i luoghi.

I navigatori del IX secolo a.C. non avevano strumenti di navigazione e neppure portolani e peripli che codificavano le rotte e le distanze. Il loro bagaglio conoscitivo aveva una chiara impronta pratica – alimentato dalle esperienze fatte di persona o trasmesse dalla tradizione marinara – che però presupponeva sensibilità e doti innate, oltre a conoscenze astronomiche legate alla posizioni delle stelle. Chi prendeva il mare si trovava così ad affrontare molto spesso situazioni inconsuete ed impreviste, risolvibili solo grazie alla perizia affinata con l’esercizio ripetuto ed alla capacità di sapersi orientare guardando il cielo, unica mappa disponibile, e di sapere prevedere come poteva volgere il vento. Sopperivano alla manualistica assente con doti sviluppate con il tempo e con notizie raccolte sugli itinerari da percorrere, tipo: distanza tra un promontorio e l’altro o tra due approdi;  gioco delle correnti; eventuale pericolosità dei fondali costieri. La navigazione avveniva infatti in genere lungo le coste (cabotaggio) e, solo se non si poteva fare altrimenti, si affrontava il mare aperto.

Certo, quando gli Eubei  si inoltrarono lungo le coste tirreniche ed adriatiche, facendo quindi rotta verso l’occidente, questo non era «ζόφος» (zófos, oscuro) come ai tempi di Ulisse19 ma, ugualmente,  pieno di incognite e di pericoli. Pure i riferimenti erano diversi da quelli attuali e l’Adriatico stesso, oltre ad avere un differente idronimo, era percepito in maniera particolare.

 

Intanto l’Adriatico non era vissuto come un mare vero e proprio (thálassa). Al massimo lo si considerava un mare di passaggio tra due terre («πόντος», pόntos) ma, molto più spesso, era ritenuto un golfo («kόlpos»). Inoltre i Greci, stentavano a crederlo un bacino unico e pensavano fosse composto da due distinti golfi che occupavano rispettivamente la parte più remota – il nostro Alto Adriatico – e quella più prossima alle loro coste – il Medio e Basso Adriatico.

In epoca arcaica il tratto settentrionale dell’Adriatico era chiamato dai Greci golfo di Crono20, perché il dio Crono rappresentava in sé uno spazio remoto collocato ad occidente oppure nelle estreme contrade a nord. Quindi Crono, in quanto collegabile ad una distesa marina occidentale e settentrionale rispetto al mare Ionio che solcava le coste greche. In seguito divenne golfo di Rea che, essendo moglie di Crono, richiamava probabilmente lo stesso concetto. Infine assunse la denominazione di «Adrías», Adriatico.

Come fosse chiamato il tratto di mare che bagnava le coste della penisola salentina, ci viene svelato da Eschilo21 che, narrando la storia di Io, la donna amata da Zeus e tramutata da Era in giovenca, lo denomina «Iónios kolpos» (golfo Ionio). Quest’ultimo nome serviva anche ad identificare genericamente tutto l’attuale Adriatico ma in maniera specifica e più spesso indicava solo l’Adriatico centro-meridionale.

In definitiva la parte settentrionale aveva una doppia nomenclatura – golfo Ionio o Adriatico – mentre quella centro-meridionale golfo Ionio. Quindi ai tempi in cui gli Eubei commerciavano nell’Adriatico, oppure quando fu fondata la colonia di Taranto, il mare che bagnava la costa orientale della Iapigia era chiamato Ionio; non Adriatico.

E tale termine fu adoperata sino a tutto il V secolo a.C., vale a dire pure ai tempi in cui scriveva Erodoto che, come visto, fu il primo a fare menzione della Messapia. Infatti, parlando di Apollonia22, lo storico precisa che è una città appunto situata sul golfo Ionio, perché quel tratto di mare non aveva ancora assunto il nome di Adriatico.

Solo nel secolo successivo, e molto lentamente, il nome che aveva contraddistinto solo la parte settentrionale del mare – «Adrías» –  prese ad identificare anche la restante parte di golfo, e “nacque” così l’Adriatico che tutti conosciamo. Non a caso nel Periplo dello Pseudo-Scilace23 – databile al IV secolo a.C. – l’autore,  dopo aver parlato indifferentemente di Ionio e di Adriatico, per timore di confondere il lettore, precisa che, quando parla di Ionio («Iónios») o di Adriatico («Adrías»), sta discorrendo dello stesso mare. Ed il geografo Strabone, ancora secoli dopo continuava ad affermare che il golfo Ionio e l’Adriatico hanno la stessa imboccatura (il canale d’Otranto), solo che il nome Ionio viene attribuito alla prima parte del mare e quello di Adriatico per la parte interna fino al più lontano recesso. Per poi concludere che, al suo tempo, quest’ultimo, a differenza del passato, era ormai il nome dell’intero mare24.

Morale della favola, quando tra il IX ed il V secolo a.C. fu coniato il termine Messapia, la penisola salentina non era considerata dai Greci bagnata da due mari distinti ma da un unico mare. E questo mare quand’era considerato nel suo complesso, compresi  quindi entrambi gli attuali bacini adriatico e ionico e quello al di sotto del Bruzio (la moderna Calabria), veniva chiamato dagli scoliasti mar Ionio d’Italia («Iónios pélagos tes Italías25»), per non confonderlo con il mar Ionio greco. Di conseguenza, Messapia non poteva voler dire “terra che si trova tra due mari” per il semplice motivo che, allora, si riteneva che entrambe le coste della penisola salentina fossero bagnate da un solo mare, appunto lo Ionio.

Occorre rilevare che non era una mera questione formale, derivante dai diversi idronimi utilizzati; all’opposto riguardava un aspetto sostanziale. Alla base c’era un’errata valutazione dell’estensione della penisola salentina e, in particolare, del suo orientamento che la faceva credere disposta in modo tale da non creare due distinti bacini. Da questa rappresentazione falsata derivava la convinzione che fosse contornata da un unico mare.

 

Lo lascia intendere Polibio, uno degli storici più attenti e stimati, che ancora nel II secolo a.C.  dichiarava che l’Italia aveva  una configurazione triangolare («τριγωνοειδοῦς») con base le Alpi e per vertice il capo Cocinto26, attuale punta Stilo. Tale schematizzazione faceva quindi prevedere che tutte le terre ad oriente di Cocinto, e quindi anche la Messapia, fossero necessariamente solcate da un solo mare, e questo a prescindere dalle denominazioni geografiche in uso. E successivamente pure Strabone, sebbene conscio che l’Italia non fosse assimilabile ad un triangolo, in quanto – come evidenziava – la parte centro-meridionale  «termina con due punte che s’inoltrano l’uno verso lo stretto di Sicilia e l’altro al capo Iapigio», la percepiva tuttavia «racchiusa dall’Adriatico da una parte; dal mar Tirreno dall’altra»27. Come dire che, mentre prima le coste salentine erano pensate bagnate dal solo Ionio, successivamente furono considerate solcate dal solo Adriatico.

La sostanza rimaneva in ogni caso sempre la stessa. Agli occhi degli antichi il Salento non si trovava tra due mari.

Di conseguenza, la fascinosa soluzione di “terra  tra due mari” non è neppure proponibile, essendo essa del tutto anacronistica, basata, com’è, su convenzioni e convincimenti posteriori a quando il termine fu coniato.

Scartata così un’ipotesi, perché di fatto irrealistica, occorre verificare se è possibile confezionarne una quantomeno plausibile.

È quanto si cercherà di fare nel prossimo incontro.

(1 – continua)

 

Note

[1] C’erano due formati di libro: il rotolo ed il codice. Il rotolo era costituito da fogli incollati l’uno all’altro in successione; il codice (utilizzato nelle sue prime apparizioni  per memorizzare leggi e decreti e non opere letterarie) aveva una struttura a pagine sfogliabili da destra a sinistra e, in alcuni casi, dal basso verso l’alto.

2 Anassagora fu il primo autore ad essere commercializzato.

3 Chiaro che Gutemberg era di là da venire e c’era necessità d’uno scriba, un copista tra l’altro dotato di conoscenze specifiche, il βιβλιαγράφος (bibliagráfos), il quale – pare –  era pagato profumatamente.

4 ERODOTO (V secolo a.C.), Storie, IV 99.

5 ERODOTO, cit., VII 170.

6 Erodoto partecipò alla fondazione di  Thurii, colonia di ispirazione ateniese, nel precedente sito di Sybaris in Magna Grecia, acquisendone quindi la cittadinanza. In precedenza aveva soggiornato per anni ad Atene.

7 Nella gran parte dei testi ricorre la raffigurazione dei Messapi come suddivisione degli Iapigi: la tradizione maggiormente accolta prevede la ripartizione degli Iapigi in Dauni, Peuceti e Messapi.

8 Per quello che ho potuto appurare, nelle fonti latine fanno eccezione  i Fasti e LIVIO (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, VIII 24, 4.

9 STRABONE (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 1.

10 N. VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, in “Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto”, anno V, n. 6-7, Nardò 2018,  p. 104.

11 PAUSANIA (II secolo d.C.), Pariegesi della Grecia, IX 22, 5.

12 STRABONE, IX 2, 13

13 STEFANO BIZANTINO (VI secolo d.C. –…), Ethnica, voce “Messápion”.

14 FOZIO (IX secolo d.C.), Bibliotheke, voce “Messápion”.

15 PLINIO IL VECCHIO (I secolo d.C.),  Storia Naturale, III 11, 99.

16 Cfr. C. DE SIMONE, Gli studi recenti sulla lingua messapica, in AA.VV., Italia Omnium Terrarum Parens, Milano 1989, p. 651.

17 G. NENCI, Per una definizione della Ίαπυγία, ASNP, S. Ill, VIII, 1978, p. 47.

18 PLUTARCO (I secolo d,C. – II secolo d.C.), Questioni Greche, 11.

19 OMERO, Odissea, IX 26.

20 APOLLONIO RODIO (III secolo a.C.), Le Argoutiche, IV 327.

21 ESCHILO (VI secolo a.C. – V secolo a.C.), Prometeo incatenato, 837-840.

22 ERODOTO, Cit., IX 92, 3.

23 PSEUDO-SCILACE (forse IV secolo a.c.), par. 27.

24 STRABONE, Cit., VII 5, 8-9.

25 Scolii ad APOLLONIO RODIO, Cit., Frg. 4, 308. Si noti che nel suo complesso lo Ionio diventa pélagos, vale a dire “mare aperto”.

26 POLIBIO (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Storie, II 14, 4 – 5.

27 STRABONE, Cit., V 1, 3.

La penisola salentina nelle fonti narrative antiche

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la mezzaluna

Terra d'Otranto, Salento

Nazareno Valente, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 99-108.

 

 

ITALIANO

 

Le fonti antiche greche e latine vengono riesaminate per cogliere le evidenze letterarie riguardanti le denominazioni etniche e geografiche utilizzate per la penisola salentina. Emerge cosi che, almeno sino alla fine del periodo ellenistico, gli autori greci privilegino in maniera esclusiva l’uso di termini di propria matrice e colgano una sostanziale unita etnico-geografica della nostra terra.

Gli autori latini, che si accostano pero al nostro mondo con sostanziale ritardo, evidenziano invece, già a partire da Varrone, di preferire le denominazioni coniate dalla gente del luogo e, pur adoperando una denominazione geografica unica per la penisola, la rappresentano abitata da due diverse etnie.

Il risultato per certi versi inatteso e che proprio la denominazione geografica ora in uso risulta non trovare riscontro alcuno nell’antichità. Nell’ambito delle differenze etniche evidenziate dagli autori latini, si e poi cercato di definire i luoghi d’insediamento dei due diversi gruppi e, anche in questo caso, le conclusioni cui si e pervenuti potrebbero apparire sorprendenti, soprattutto considerate le credenze popolari prevalenti sull’argomento.

 

ENGLISH

The ancient Greek and Latin sources are re-examined to catch the literary facts about the ethnic and geographic names used for the Salentina peninsula. It emerges, at least till the Hellenistic period end, that Greek authors prefer in an exclusive way the use of words by their own origin and catch a substantial ethnic-geographic unity of our land. The Latin authors, who approach our world very late, on the contrary reveal, starting from Varrone, to prefer the names coined by local people and also using a geographic unique name for the peninsula, they represent it as populated by two different ethnic groups.

The result, in a certain sense unexpected is the geographic name now used hasn’t any confirmation in the past. In the field of the ethnic differences revealed by Latin authors, we have tried to define the two different group’s settlements and also in this case we have come at same conclusions that could be astonishing mostly considering the prevalent popular beliefs about this subject.

 

Keyword

 

Nazareno Valente, Penisola Salentina, Sallentini-Calabri, Messapia

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