La Brentesìa: dopo l’arrivo dei colonizzatori (II)

di Nazareno Valente       

Come già sappiamo, i Calabri scacciati da Taranto dai Parteni trovarono rifugio a Brindisi25; mentre nulla s’è detto dei nostri concittadini che si trovavano a sud-ovest di Taranto e che, a prima vista, non sembrerebbero aver lasciato traccia alcuna. Di certo dovettero cedere il passo agli Achei, che precedettero l’arrivo dei Parteni, stabilendosi nel tempo su entrambe le coste dell’attuale Calabria.

In linea teorica si può presupporre che, al pari di quanto fecero altri indigeni depredati dai colonizzatori, molti di loro si spostarono nell’entroterra cercando di riorganizzarsi. La gran parte, però, non volle lasciare del tutto libero il campo agli invasori e, sfruttando le politiche distensive e di coesistenza attuate dai coloni di Sibari nei riguardi dei nativi, riuscì a ritagliarsi un proprio spazio presumibilmente nella Siritide, mantenendo nel contempo un certo legame con la madrepatria. La loro presenza in quella zona la si può intravedere nel concreto nell’alleanza che Brindisi stipulò con i Turini e, soprattutto in un brano molto controverso di Strabone.

Prima di vedere quale, è utile però chiarire il significato che il geografo pontico assegnava agli etnici ed ai coronimi utilizzati. Dagli scritti emerge con chiarezza che per Strabone, Iapigia e Calabria erano di fatto sinonimi tra loro. Quindi, a differenza di tanti altri autori, per lui la Iapigia non era una più vasta regione che conteneva la Calabria, ma s’identificava con essa.  Per quanto riguarda gli etnici, invece, si nota che quando egli parlava degli Iapigi intendeva indistintamente gli abitanti (Calabri e Salentini) della Calabria. Quando la questione riguardava espressamente i Salentini, il geografo usava però lo specifico etnico Salentinoi (Σαλεντῖνοi), mentre, se erano coinvolti i soli Calabri, non si serviva del termine epicorio Kalabroì (Καλαβροὶ), che infatti non usa mai, ma di quello di matrice greca, vale a dire Messapi. Per cui, per Strabone unicamente i Calabri erano propriamente Messapi, mentre i Salentini non lo erano.

 

Ebbene mentre Strabone tratta della decadenza cui era soggetta Taranto, costretta per difendersi dai suoi nemici a ricorrere frequentemente a comandanti forestieri (ξενικοῖς26), Strabone inserisce un’informazione fuori contesto che ha tolto il sonno a parecchi specialisti. Appena finito di narrare i fatti avvenuti attorno al 330 a.C., in cui Alessandro il Molosso, venuto in soccorso di Taranto, era stato destinato all’insuccesso proprio a causa dell’ingratitudine dei Tarantini, introduce infatti all’improvviso un argomento del tutto diverso, affermando : «Essi [i Tarantini] si scontrarono  con i Messapi per il possesso di Eraclea, fruendo dell’aiuto del re dei Dauni e di quello dei Peucezi» («Πρὸς δὲ Μεσσαπίους ἐπολέμησαν περὶ Ἡρακλείας, ἔχοντες συνεργοὺς τόν τε τῶν Δαυνίων καὶ τὸν τῶν Πευκετίων βασιλέα»27).

Senza andare dietro ai diversi dubbi che tormentano gli storici, ci si soffermerà solo su quelli di possibile interesse.

La principale questione controversa è di carattere cronologico, cioè a dire non si è in grado di datare in maniera condivisa questa contesa accesasi tra Tarantini e Messapi per il possesso di Eraclea. Se la si pone al tempo di Alessandro il Molosso, vale a dire tra il 334 ed il 330 a.C., i Messapi (o per dire meglio, i Calabri) sembrano del tutto fuori posto come competitori, dal momento che, come già riferito, con il condottiero epirota avevano stipulato un trattato di pace. Era piuttosto con i Lucani che in quegli anni i Tarantini avevano frequenti attriti, avendo appunto loro strappato Eraclea, proprio grazie all’aiuto di Alessandro il Molosso.

Se invece lo scontro si riferisce ad una data precedente, allora non può che riguardare la fondazione di Eraclea, e quindi un secolo e più prima (444 o 443 a.C.), quando il conflitto sorse tra Taranto e Thurii. Nel tal caso, il coinvolgimento dei Messapi potrebbe essere pensato come di supporto ai Turini con i quali erano, come detto, alleati. Però questa ipotesi solleva un dubbio del tutto spontaneo. Constatato che erano i Turini i maggiori interessati alla questione, non si capisce come mai Strabone non li citasse neppure, mettendo invece in rilievo la partecipazione dei Messapi che, data la lontananza dei loro insediamenti con il teatro dello scontro, non potevano certo essere la forza più consistente in contrasto con i Tarantini.

Come questa, ogni altra possibile collocazione temporale avanzata ha finito per sollevare a sua volta problemi irrisolvibili, sicché i più hanno dovuto amaramente concludere che la notizia data da Strabone non sia del tutto corretta e che di conseguenza necessiti d’essere in parte emendata. Fatto sta che neppure sulle correzioni da apportare si è riusciti a trovare un accordo condiviso, anche perché a sparigliare le carte ed a creare il maggiore imbarazzo è proprio la presenza dei Messapi in una zona non di loro pertinenza. Quello che in definitiva risulta inspiegabile è perché mai i Messapi si fossero lasciati coinvolgere in un conflitto che si svolgeva in un territorio così lontano dal proprio.

Tutto potrebbe risultare più comprensibile se, in linea con l’ipotesi fatta, si accettasse che i Calabri di Brindisi si trovavano in quella zona perché vi dimoravano e che queste azioni belliche rientravano in un più ampio contesto di difesa degli ultimi lembi di terra rimasti in loro possesso, così come facevano in maniera indistinta tutti gli altri italici della zona. In questa ottica, l’episodio narrato da Strabone farebbe pertanto parte dei tentativi compiuti dai Brindisini di frenare l’avanzata tarantina verso Metaponto e  la Siritide e di conservare il territorio in cui erano stati relegati.

Se così è, potremmo ipotizzare che le enclave del passato dominio, o della Brentesìa per usare il vocabolo di Eustazio, si collocavano tra Thurii e Taranto, e questa supposizione, oltre a spiegare i motivi della contesa con i Tarantini per Eraclea, valorizzerebbe pure l’alleanza che i Brindisini avevano stipulato con Thurii che, allo stesso modo, aveva tutto l’interesse che Taranto non estendesse i suoi confini nella Siritide.

Come si può notare l’ipotesi che i Calabri di Brindisi possano essersi insediati ben oltre i confini del Salento prende sempre più corpo, e troverà ancor più avallo dall’esame di un episodio che rese i Calabri ed i Salentini tristemente noti ai colonizzatori greci.

L’aspetto strano è che, in questo caso, gli studiosi sono tutti d’accordo sull’interpretazione da dare alla vicenda, solo che non si sono preoccupati di valutare alcuni aspetti di contorno niente affatto banali.

Si è già avuto modo di narrare l’avvenimento in un’altra occasione dandogli il dovuto rilievo, in quanto, a detta di Erodoto, rappresentava la più grande strage di Greci («φόνος Ἑλληνικὸς μέγιστος») tra tutte quelle di cui si aveva al suo tempo conoscenza28. Lo si riassume di seguito per analizzare i punti di maggiore interesse per il tema trattato.

Racconta Diodoro che tra il 473 ed il 472 a.C. scoppiò in Italia una contesa tra i Tarantini e gli Iapigi, «venuti ad urto per contrasti sorti su zone ai loro confini» («περὶ γὰρ ὁμόρου χώρας ἀμφισβητούντων πρὸς ἀλλήλους»); contrasti che divennero scontri sempre più aspri, sino a sfociare in un aperto conflitto29.

Ora, dal momento che la disputa riguardava zone di confine, è naturale presumere che gli Iapigi maggiormente coinvolti in questo caso fossero i Calabri di Brindisi, il cui territorio confinava appunto con quello dei Tarantini. Ebbene, costretti dall’aggressività dei Parteni, i Brindisini reagirono con tale decisione che in breve tempo, coadiuvati dai Salentini, dai Pedicli e da altri popoli confinanti, approntarono un grande esercito composto da più di 20.000 uomini30 a cui Taranto si preparò ad opporsi alleandosi con i Reggini. La battaglia campale che ne seguì fu violenta e determinò molte vittime in entrambi i campi ma, alla fine, vide prevalere i Brindisini ed i suoi alleati. A questo punto, Diodoro così prosegue: «nella fuga gli sconfitti si separarono in due contingenti, dei quali il primo si ritirò a Taranto e l’altro fuggì verso Reggio. In maniera analoga si divisero anche gli Iapigi: quelli che inseguirono i Tarantini, essendo breve la distanza, fecero grande strage dei nemici; gli altri che s’erano posti all’inseguimento dei Reggini dimostrarono un tale ardore da far pensare che volessero piombare insieme ai fuggitivi a Reggio  per impadronirsi della città» («Τῶν δὲ ἡττηθέντων εἰς δύο μέρη σχισθέντων κατὰ τὴν φυγήν, καὶ τῶν μὲν εἰς Τάραντα τὴν ἀναχώρησιν ποιουμένων, τῶν δὲ εἰς τὸ Ῥήγιον φευγόντων, παραπλησίως τούτοις καὶ οἱ Ἰάπυγες ἐμερίσθησαν. Οἱ μὲν οὖν τοὺς Ταραντίνους διώξαντες ὀλίγου διαστήματος ὄντος πολλοὺς τῶν ἐναντίων ἀνεῖλον, οἱ δὲ τοὺς Ῥηγίνους διώκοντες ἐπὶ τοσοῦτον ἐφιλοτιμήθησαν ὥστε συνεισπεσεῖν τοῖς φεύγουσιν εἰς τὸ Ῥήγιον καὶ τῆς πόλεως κυριεῦσαι»31).

Alla fine Erodoto fa la conta dei morti32: tremila reggini ed ancor più i Tarantini, il cui numero fu talmente alto da non poter neppure essere calcolato.

La cosa qui più interessante da sottolineare è tuttavia un’altra: il racconto di Diodoro offre informazioni di dettaglio di notevole rilievo, meritevoli di un’attenta valutazione non fosse altro per comprendere dove questa battaglia, tanto famosa ma ugualmente rimasta senza nome, abbia potuto avere svolgimento. Va infatti sottolineato che le fonti non sono per nulla esplicite su dove questo epico scontro sia avvenuto, anche se la questione non ha turbato più di tanto gli specialisti, sicuri che la località in questione, seppure sconosciuta, non poteva che trovarsi tra Taranto e Brindisi, apparendo del tutto scontato che quella era l’unica zona di confine tra le due città.

Invece, proprio il resoconto dello storico siciliano, indica in maniera evidente che il terreno dello scontro non possa essere stato quello.

Lo si comprende  in maniera evidente da due aspetti.

Il primo riguarda il coinvolgimento dei Reggini. Sia pure in maniera vaga, il fatto che i Reggini si siano lasciati coinvolgere nella contesa dai Tarantini può già far pensare che le dispute di frontiera non riguardassero solo i confini ad est di Taranto, ma anche di quelli ad ovest ed a sud-ovest della città ionica. Vale a dire una zona che i Reggini avevano tutto l’interesse fosse controllata da una città alleata piuttosto che da una comunità nemica. Il secondo, ben più preciso, è che al momento della disfatta i Tarantini ed i Reggini si separarono, dandosi alla fuga per vie diverse.

Ebbene,tenuto presente che nelle battaglie oplitiche, come quella che si racconta, chi soccombeva aveva tutto l’interesse a mantenere i ranghi più compatti possibile, perché in caso contrario finiva per essere alla mercé di chi aveva preso il sopravvento, non si capisce come mai i Reggini ed i Tarantini si separarono, adottando la peggiore strategia possibile che risultava in realtà un vera e propria scelta suicida. Infatti, se la battaglia è avvenuta come comunemente si crede ad est di Taranto, non c’era motivo che i due contingenti si separassero, essendo l’unica via di fuga possibile proprio quella che avrebbe consentito loro di trovare riparo a Taranto, da dove i Reggini erano in aggiunta costretti a transitare, se volevano poi ritornare a Reggio. Tra le altre cose, in tal caso, non si capisce neppure come abbiano potuto i Brindisini inseguire i Reggini sino a Reggio, visto che per farlo avrebbero dovuto compiere un’impresa impossibile, vale a dire prima conquistare Taranto che si frapponeva al loro inseguimento.

 

Ora, salvo che Diodoro non si sia inventato ogni cosa, la risposta obbligata che si può dare è che lo scontro non avvenne ad est di Taranto ma dalla parte opposta a sud-ovest della città ionica, con ogni probabilità in una località tra Metaponto e Sibari. Questo diverso scenario renderebbe infatti plausibile perché mai i Reggini decisero di separarsi, preferendo fuggire verso la propria città, piuttosto che dirigersi verso Taranto che pure, come detto, si trovava più vicina. Di fatto i due gruppi si separarono perché, per raggiungere ciascuno di loro la propria città, dovevano necessariamente fuggire in direzioni opposte. E furono di conseguenza inseguiti dai Calabri di Brindisi sin sotto le mura delle loro città.

Altra inevitabile conclusione è che nel primo trentennio del V secolo a.C., quando si svolse questo epico scontro, i Brindisini erano ancora stanziati a sud-ovest di Taranto in una non meglio identificata zona della Siritide. In caso contrario, non sarebbero stati in grado di affrontare una battaglia campale di quella portata in luoghi così lontani dai propri insediamenti, privi come sarebbero stati dei necessari rifornimenti.

In conclusione, il racconto dettagliato di Diodoro sull’epilogo della mischia che portò alla più grande strage di Greci rende evidente che la Calabria, la quale ai tempi di Strabone coincideva più o meno con l’attuale Salento, in precedenza, prima dell’arrivo dei coloni greci, si estendeva a nord sino a quasi il fiume Ofanto ed a sud-ovest sino a Crotone. L’arrivo degli Achei ridimensionò questi confini facendoli arretrare sul versante ionico poco a sud di Eraclea; quello dei Parteni privò i possedimenti di Brindisi dapprima del territorio tarantino e  successivamente della Siritide. In questo contesto la fondazione di Eraclea, invano contesa ai Tarantini,  come testimoniato da Strabone, rappresenta l’epilogo della presenza brindisina al di fuori del Salento. Si può quindi datare al 434-433 a.C. la fine del dominio dei calabri di Brindisi nelle zone delle attuali Lucania e Calabria.

 

La fine del dominio brindisino in Siritide

Impossibile avere certezze su come si sviluppò la successiva storia delle popolazioni brindisine rimaste separate dalla madrepatria, non essendo rimasta nelle fonti narrative nessuna loro traccia.

Possono però farsi delle ipotesi.

Con ogni probabilità, dopo la perdita di Eraclea, furono relegati nelle zone più interne e più impervie, dove i coloni greci non riuscivano ad imporre la loro egemonia. Poi si raggrupparono con altre genti scacciate dai Greci oppure, in situazione magari di sudditanza con altre popolazioni indigene, attesero l’arrivo di tempi migliori.

Nel frattempo anche il mondo della Magna Grecia incominciava la sua parabola discendente e le genti italiche, in particolare i Lucani, comparsi sulla scena nel V secolo a.C., passarono all’inizio del secolo successivo al contrattacco. La loro predisposizione alle doti guerresche, esercitate ed educate con rigore simile a quello spartano sin dalla più tenera età, li rendeva particolarmente temibili ed idonei ad esercitare una forte egemonia sulle popolazioni italiche della zona.

Qualche decennio dopo si affacciò sul palcoscenico della storia un altro popolo agguerrito, di cui non si aveva mai avuto prima menzione, i Brettii, la cui genesi fornirà spunti utili per comprendere cosa ne fu dei Brindisini rimasti nel territorio magnogreco.

Tutte queste apparizioni, troppo improvvise per poter essere davvero tali, sono spiegabili solo alla luce di complesse dinamiche di trasformazione sociale e territoriale avvenute tra le popolazioni italiche lì dimoranti. In pratica i Lucani ed i Brettii possono considerarsi le nuove compagini che si sostituivano alle precedenti, dopo averle integrate e modificate sia a livello sociale, sia a livello di dislocazione territoriale. La stessa genesi dei Brettii — quella dei Lucani esula dagli interessi di questo intervento — fornisce l’esempio concreto delle trasformazioni in atto in un mondo sconvolto dalla colonizzazione greca. Per quanto le fonti narrative antiche ci forniscano notizie discordanti in merito, c’è un aspetto che le accomuna nell’indicare che i Brettii facevano inizialmente parte di una società, definibile Lucana, in quanto i Lucani vi esercitavano un evidente predominio.

Se da un punto di vista storiografico i Lucani sono documentati presenti nell’attuale Calabria dal V secolo a.C., quando accolgono i pitagorici scacciati dai Crotoniati, i Brettii lo sono solo dal decennio 360/350 a.C. A detta di Diodoro, che nella sua “Biblioteca” raccoglieva notizie provenienti da più fonti, durante il consolato di M. Popilio Lena e C. Manlio Imperioso (359 a.C.)  «si raccolse in Lucania una moltitudine di gente mista, venuta da ogni dove, la maggior parte servi fuggitivi. Questi all’inizio vissero come predoni, e per l’abitudine a dimorare all’aperto e alle incursioni acquisirono esperienza e pratica nelle attività militari. Perciò, essendo risultati superiori in battaglia ai propri vicini, divennero molto potenti. Dapprima assediarono e misero a sacco la città di Terina, poi, conquistate Ipponio, Thurii e molte altre città, costituirono un assetto politico comune (κοινὴν πολιτείαν). Furono chiamati Brettioi perché erano per lo più schiavi. Infatti gli schiavi fuggitivi erano appunto chiamati Brettioi nella lingua delle genti del luogo»33.

Più stringata, ma anche più circostanziata, la versione fornita da Strabone il quale riferisce che i Brettii avevano ricevuto il nome dai Lucani che così chiamavano i ribelli (ἀποστάται); dapprima erano stati dediti alla pastorizia al servizio dei Lucani e successivamente s’erano resi liberi «quando Dione fece guerra a Dionisio sollevando tutti contro tutti [357-356 a.C.]»34. Il geografo indica poi che la loro metropoli era Cosentia (Cosenza) ed occupavano l’estrema penisola dell’attuale Calabria a sud dell’istmo tra Skylletion ed il golfo di Hipponion (all’incirca dalla costa poco a sud da Catanzaro a Vibo Valentia)35.

In epoca più tarda è da porsi la tradizione che si deve a Pompeo Trogo nell’epitome fatta da Giustino che, dopo aver messo in rilievo il loro coraggio, la loro ricchezza e l’aggressività che li aveva resi particolarmente temibili agli occhi dei popoli vicini, narra la loro origine causata da una banda di cinquanta giovani lucani i quali, ripudiato il rigorose regime militare di stampo spartano con cui erano educati, s’erano uniti per compiere saccheggi a danno dei propri vicini36. Dati i successi, la banda aveva visto gonfiare le proprie fila da una moltitudine di gente diversa finendo per divenire il terrore dell’intera regione, sinché Dionisio, il tiranno di Siracusa, sollecitato dai propri alleati, non aveva tentato di porvi rimedio inviando seicento mercenari africani37. Pure i mercenari però risultarono sconfitti e la loro cittadella conquistata dai rivoltosi, grazie all’aiuto di una donna chiamata Bruzia, dalla quale assunsero il nome di Bruttii. Proprio la cittadella strappata ai mercenari fu il loro primo insediamento ufficiale, divenuto presto asilo di tutti i pastori che vivevano nelle vicinanze38.

Oltre a sottolineare la loro originaria sudditanza dai Lucani, i resoconti mettono in evidenza come il loro peso militare e politico, emerso alla metà del IV secolo a.C., fosse comunque l’esito finale d’un processo iniziato molto tempo prima. Altro aspetto rilevante per i nostri scopi, è anche il rilievo dato all’eterogeneità dei Brettii, alla cui composizione contribuirono popoli diversi. In altre parole i Brettii si formarono a seguito di complesse dinamiche di trasformazione, tra le altre cose proprio nel mentre sparivano dalla scena storica popoli come gli Enotri, gli Ausoni, i Choni ed i rimasugli dei Calabri di Brindisi lì trapiantati.

Per cui non pare troppo azzardato ipotizzare che i Brettii avessero accolto tra le proprie fila la maggior parte di coloro che volevano rivalersi dei soprusi subiti a seguito delle successive ondate di colonizzazione.

C’è una vecchia teoria della illiricità etnica dei Brettii, presupposta dal presunto nome illirico da loro assunto e  da altre convergenze toponomastiche39, che non intendo certo riscoprire se non per evidenziare alcune analogie tra questo popolo e quello dei Brindisini spodestati dagli Achei e dai Tarantini. Il richiamo a tale ormai superata ipotesi è fatto perché l’interpretazione dell’etnico, Βρέττιοι (Brettioi), suggerisce accostamenti degni di nota con Brindisi.

Stefano Bizantino40 parla infatti di un’isola nell’Adriatico, «Βρεττία νῆσος» (l’isola Brettia), a cui i Greci davano un’altra denominazione, l’isola dei cervi («Ἐλαφοῦσσα»), e ribadisce che anche il nome di Brindisi («Βρεντέσιον πόλις») era dovuto alla somiglianza del suo porto con una testa di cervo («βρέντιον γὰρ παρὰ Μεσσαπίοις ἡ τῆς ἐλάφου κεφαλή»), aggiungendo un altro significativo accostamento: il termine Brindisi derivava da Brento, figlio di Eracle, al pari dei Brettii che discendevano da Bretto, anch’egli figlio di Eracle.

Un altro possibile collegamento tra Brindisi ed i Brettii è riscontrabile inoltre in Dionisio d’Alessandria il quale in un breve accenno dei Lucani e dei Brettii41 chiama questi ultimi Βρέντιοι (Brentioi), invece di Βρέττιοι (Brettioi), facendo intendere che l’etnico derivava da βρέντιον (Brention), vale a dire dallo stesso termine usato dai nostri antichi concittadini per indicare la testa di un cervo e da cui, come più volte riportato, originava il nome, Βρεντέσιον (Brentesion), dato dai Greci alla nostra città.

Ora questa preferenza data da Dionisio d’Alessandria alla forma Βρέντιοι, rispetto a Βρέττιοι di origine lucana, non pare del tutto casuale e sembra in aggiunta riferirsi ad una fonte ben più antica. Pertanto sembrerebbe avvalorare ancor più l’ipotesi che i termini Brentioi (Brettii) e Brentesion (Brindisi) abbiano avuto un’origine comune derivando entrambi da brention.

Se tutto ciò è naturalmente poco per sostenere una parentela etnica tra Brettii e Brindisini, è tuttavia non banale se considerata in un’altra ottica.

Si pensi, ad esempio ad altre possibili analogie.

Come i Brettii, la società Calabra della penisola salentina aveva una forte componente dedita alla pastorizia ed un etnico a cui la propaganda denigratoria tarantina assegnava simili connotazioni negative, accostandolo allo stesso modo agli schiavi. Tutti aspetti questi marginali, se la questione viene trattata da un punto di vista etnico, ma interessanti se valutati nel senso di tradizioni comuni.

Tradizioni che si può pensare i Brettii acquisirono nel corso del tempo, avendo accolto tra le proprie file i Brindisini, così come avevano fatto, a memoria di Diodoro e Giustino, con popolazioni di altra etnia. In definitiva non sembra tanto avventato supporre che una significativa componente della società Brettia fosse costituita dai Brindisini prima insediati tra Metaponto e Crotone.

Ed infatti in un passo, anch’esso del tutto trascurato dagli storici, ma del pari chiaro nella sua formulazione, Polibio, nell’elencare i popoli che abitano la costa ionica nel tratto che va da Taranto a Reggio, afferma che, oltre ai Lucani ed ai Brettii ci sono «tuttora dei Calabri» («ἔτι δὲ Καλαβροὶ»)42. Come dire che ancora all’epoca di Polibio, vale a dire nel II secolo a.C., c’erano ancora Brindisini che vivevano nei loro antichi possedimenti della Brentesìa. E la cosa viene comunicata in modo talmente spontaneo e senza darvi enfasi, da lasciar intendere che  fosse del tutto naturale che in quegli anni ci fossero Calabri stanziati lontano dai loro usuali insediamenti.

In definitiva,era una notizia così scontata per un lettore dell’epoca che non c’era neppure bisogno di darle rilievo.

Questa è anche l’ultima traccia lasciata dai Calabri di Brindisi che avevano dovuto subire l’avanzata e la supremazia  dei coloni Greci nel territorio tra Metaponto ed il Bruzio.

La fine dell’organizzazione politica dei Brettii fu repentina al pari della sua costituzione. Già al suo tempo, Strabone poteva affermare che dei Brettii «non sopravvive più nessuna organizzazione politica comune oppure usi comuni, e sono completamente scomparsi lingua, modo di armarsi, di abbigliarsi e ogni altra cosa di questo genere: in definitiva, considerati sia singolarmente, sia nel loro assieme, i loro insediamenti sono del tutto privi di ogni rilevanza»43.

Con i Brettii sparirono anche i Calabri di Brindisi della cui esistenza sarebbe il caso di prendere finalmente consapevolezza, viste le consistenti tracce da loro lasciate sin nel Bruzio.

(2 – fine)

 

Note

25 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, III 4, 11-12.

26 Strabone, Geografia, VI 3, 4.

27 Ibidem.

28 Erodoto, Storie, VII 170.

29  Diodoro siculo, Biblioteca storica, XI 52, 1-2.

30 Ibidem, XI 52, 3.

31 Ibidem, XI 52, 4.

32 Erodoto, Storie, VII 170.

33 Diodoro siculo, Biblioteca storica, XVI 15, 1-2.

34 Strabone, Geografia, VI 1, 4.

35 Ibidem, VI 1, 4-5.

36 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, XXXIII 1, 3/10.

37 Ibidem, XXXIII 1, 10-11.

38 Ibidem, XXXIII 1, 12.

39 H. Rix, Bruttii, Brundisium und das illyrische Wort für ‘Hirsch’, in Beiträge zur Namenforschung, vol. 5 (1954), pp. 115/129.

40 Stefano Bizantino, Ethnica, voci Brentesion, Brettia e Brettos.

41 Dionisio d’Alessandria (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Descriptio orbis, v. 362.

42 Polibio, Storie, X, fr. 1.

43 Strabone, Geografia, VI 1, 2.

 

Per la prima parte:

La Brentesìa: dopo l’arrivo dei colonizzatori (II) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

L’area archeologica dell’antica Vereto finalmente soggetta a salvaguardia e conservazione paesaggistica

Il Consiglio Comunale di Patù con Deliberazione n. 2 del 11.04.2023 ha disposto la TUTELA E VALORIZZAZIONE DELL’AREA ARCHEOLOGICA DI VERETO.

TUTELA E VALORIZZAZIONE DEL PAESAGGIO E DELL’AREA ARCHEOLOGICA DI VERETO

Si rende noto che il Consiglio Comunale di Patù ha approvato la Deliberazione n. 2 del 11.04.2023, pubblicata all’Albo Pretorio il 13.04.2023, avente ad oggetto “TUTELA E VALORIZZAZIONE DELL’AREA ARCHEOLOGICA DI VERETO. DETERMINAZIONI”, con la quale ha stabilito di attivare la procedura prevista dall’ articolo 104 delle Norme Tecniche di Attuazione del PPTR al fine di inserire la perimetrazione dell’area archeologica Abitato antico di Vereto nella cartografia del Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (PPTR) negli “Ulteriori contesti riguardanti le componenti culturali e insediative Testimonianze della Stratificazione Insediativa” attivando, così, la specifica normativa di salvaguardia e di conservazione paesaggistica del PPTR prevista per dette aree.

La delibera e i relativi allegati sono depositati presso l’Ufficio Tecnico Comunale e pubblicati sul sito istituzionale dell’Ente www.comune.patu.le.it.

 

Per tutti gli gli approfondimenti:

dal sito del Comune di Patù:

Erano Sallentini o Salentini?

di Nazareno Valente

 

Poi alla fine qualcuno di noi scoprirà che i suoi avi erano più precisamente Calabri, e che con i Sallentini o i Salentini — come dir si voglia — avevano solo comunanza di stirpe. Comunque sia intriga ugualmente il quesito posto dall’amico Armando Polito nel suo recente interessante intervento, “Salentini o Sallentini?”, su quale di questi due termini debba considerarsi corretto.

Premetto che, per me, la forma da preferirsi è Sallentini.

E cercherò di avvalorare questa mia scelta partendo, visto che si tratta di antichità, da lontano.

La prima volta che le fonti narrative antiche citano la nostra terra non ne menzionano la denominazione, ma unicamente la zona geografica dove essa era collocata. È infatti riportato che è quella parte della Iapigia («Ἰηπυγίης») che sta a sud dell’istmo che va dal porto di Brindisi a Taranto («ἐκ Βρεντεσίου λιμένος ἀποταμοίατο μέχρι Τάραντος»)1.

Erodoto — che, mi piace pensare, introdusse questo passo mentre in una serata estiva d’un anno vicino al 440 a.C. declamava le sue “Storie” ai concittadini Turini, tradizionali alleati dei Brindisini — non dà pertanto un nome al nostro popolo né alla nostra terra. Utilizza infatti un più generico toponimo, Iapigia, che caratterizzava una regione ben più vasta, pressappoco coincidente con l’attuale Puglia e quella parte della Lucania che si affaccia sul mare Ionio, e che comprendeva quindi anche la penisola che noi chiamiamo salentina.

Iapigia e Iapigi, risultano rispettivamente il più antico coronimo ed etnico utilizzati per definire la nostra terra ed i nostri antenati. E, cosa meno nota, erano termini utilizzati dalla gente del luogo per definire sé stessi, quando nel II millennio i Greci non avevano fatto ancora capolino in quelle contrade.

Quando i colonizzatori greci alfine arrivarono, causarono una piccola grande rivoluzione nella società iapigia che incominciò a differenziarsi e, nel corso del tempo, finì per formare al proprio interno gruppi etnici con differenti specificità.

Al riguardo la tradizione maggiormente accolta è quella di matrice greca che prevede la ripartizione degli Iapigi in Dauni, Peuceti e Messapi i quali ultimi occupavano la Messapia, i cui confini erano appunto all’incirca delimitati a nord dall’istmo che collega Brindisi a Taranto.

Tale percezione divenne sempre più esplicita in età ellenistica fino a trovare una sua compiuta definizione nella tradizione divulgata da Nicandro di Colofone2 il quale narra come Licaone, che ebbe per figli Iapige, Dauno e Peucezio, raccolto un grosso esercito in gran parte composto da Illiri guidati da Messapo, giunse sulla costa adriatica e scacciò gli Ausoni. Effettuata la conquista, divise l’esercito e il territorio in tre parti, denominati in base al nome di chi li comandava, Dauni, Peucezi e Messapi, e la regione che si protendeva nella parte estrema dell’Italia al di sotto di Taranto e Brindisi fu chiamata Messapia.

In definitiva la ripartizione canonica della regione Iapigia, vale a dire grosso modo dell’attuale Puglia, in Daunia, Peucezia e Messapia, accolta anche da storici del calibro di Polibio3 e da geografi tipo Strabone4, e che soggiace di fatto alla visione egocentrica con cui i Greci erano soliti vedere tutto ciò che era di là dai propri confini.

Era tipico della spocchia greca che le terre ed i popoli fossero ridefiniti con nuovi termini, del tutto diversi da quelli usati dagli indigeni. Così, ad esempio, gli Etruschi diventavano per loro i Tirreni. Allo stesso modo, i nostri progenitori divennero Messapi. Queste operazioni erano poco accettate dalle comunità locali, in genere molto legate alle proprie tradizioni e denominazioni, però prendevano piede e finivano per creare una specie di sudditanza al mondo ellenico, che era appunto l’obiettivo ultimo di chi si poneva di svolgere azione colonizzatrice.

In questo modo si sono perse memorie e termini antichi, dando luogo anche ad aspetti per certi versi ridicoli: mentre i nostri antenati sarebbero andati su tutte le furie a sentirsi definire con un etnico diverso da quello da loro scelto, noi ne andiamo quasi orgogliosi. I Toscani si guarderebbero bene dal dirsi discendenti dei Tirreni, mentre sono fieri d’essere stati Etruschi. Noi, invece, gonfiamo il petto a dirci Messapi e, magari, neppure sappiamo che non era l’etnico natio, avendo di fatto assorbito, senza averne cognizione, questa forma forzata di integrazione culturale che ha eclissato le nostre origini.

Probabilmente molti di noi neppure sanno quali erano i coronimi e gli etnici coniati dai nostri antenati.

Ebbene, chi volesse scoprirli, ricorra a Strabone che, per nostra fortuna, ce ne ha lasciato memoria. Il geografo pontico ci fa infatti sapere che la denominazione geografica di Messapia è di origine greca («Μεσσαπίαν καλοῦσιν οἱ Ἕλληνες»), mentre la gente del luogo («ἐπιχώριοι» epicórioi) ripartisce la Messapia nel territorio dei Salentini («Σαλεντῖνοi») e in quello dei Calabri («Καλαβροὶ»). Successivamente6 ci fa sapere che gli indigeni chiamano la propria terra Calabria («Καλαβρία»).

In definitiva, i nostri progenitori non usavano le denominazioni greche, Messapia e Messapi, ma quelle da loro ideate, vale a dire Calabria, per definire la terra che noi chiamiamo Salento, e Calabri e Salentini, per indicare le genti che la popolavano. Quindi, di fatto, un solo coronimo, Calabria, e due etnici, Calabri e Salentini.

In merito a questa ripartizione dei popoli che l’abitavano, lo stesso Strabone specifica, sia pure in modo generico, che la terra dei Salentinoi è attorno a Capo Iapigioτὸ περὶ τὴν ἄκραν τὴν Ἰαπυγίαν»7) — lasciandoci così intendere che gli insediamenti Salentinoi sono limitati attorno al Capo di Santa Maria di Leuca — e che il resto della regione è abitato dai Calabroì. Grazie all’apporto di altri geografi e storici dell’antichità si viene a conoscenza di altri particolari che consentono di definire con una qual certa precisione quali erano in epoca classica gli stanziamenti di questi popoli consanguinei8.

Senza dilungarci, riassumiamo le conclusioni cui si è pervenuti.

Località Calabre: Ostuni, Carovigno, Caelia (forse Ceglie Messapico), Brindisi, Scamnum (forse Mesagne), Oria, Manduria, Valesio, Lecce, Rudiae, Statio Miltopes (forse San Cataldo), Fratuentum, Portus Tarentinus, Otranto.

Località Salentine: Soleto, Vaste, Castrum Minervae (probabilmente Castro), Vereto, Capo di Santa Maria di Leuca, Ugento, Alezio, Gallipoli, Nardò, Senum.

 

Sin qui abbiamo consultato solo autori di lingua greca i quali ribadiscono quanto già è a nostra conoscenza, vale a dire che le fonti elleniche utilizzavano in maniera esclusiva il termine Salentini.

Le fonti latine incominciano ad interessarsi della nostra terra, solo quando essa entrò nell’orbita romana e, a differenza delle fonti letterarie greche – che, come visto, privilegiavano termini di propria ideazione – facevano in maniera quasi esclusiva uso della terminologia indigena.

Di fatto il mondo latino accantonò i termini di matrice greca per divulgare solo quelli d’origine autoctona.

Era questo un approccio del tutto diverso da quello attuato dai colonizzatori greci. Un approccio che aveva una chiara impronta politica: far comprendere ai popoli conquistati che non si volevano deprimere i loro usi, i loro costumi e le loro più antiche tradizioni che, anzi, s’intendevano valorizzare.

Era il modo usuale d’agire dei Romani che concedevano ampio spazio gestionale alle città sottomesse, lasciandole libere di fare al proprio interno ciò che ritenevano meglio. Di là dai confini cittadini, però, non avevano più alcun potere, nel senso che non potevano avere una propria politica estera. Anche il dissidio più banale tra comunità vicine doveva essere infatti composto da un’autorità romana. E lo stesso avveniva per qualsiasi attività contrattuale, salvo gentile concessione di Roma.

Non fu pertanto a caso che, l’apparato augusteo, nel delineare un possibile scenario geografico delle popolazioni italiche, utilizzò in maniera diffusa i vocaboli indigeni.

La nostra terra fu quindi conosciuta nel mondo antico con il nome di Calabria9, che era il coronimo di derivazione locale creato dai nostri antenati, ed i popoli che vi abitavano venivano chiamati Calabri10 e Sallentini, anch’esse voci di origine autoctona.

In effetti occorre ricordare che quest’ultimo termine era privilegiato dagli storici e dai letterati latini che l’usavano in prevalenza anche per definire chi in effetti era più propriamente Calabro11. Sicché i Brindisini venivano, a volte, detti Sallentini, sebbene fossero in realtà Calabri.

In definitiva il termine in origine era di matrice indigena. E, nella traslitterazione in lingua greca, era stato reso con una lambda — corrispondente alla “l” latina — (Σαλεντῖνοi, Salentinoi), mentre in quella latina con una doppia lettera “l” (Sallentini).

Pertanto, constatato che il vocabolo è autoctono, il quesito può essere posto in questi termini: quale di queste due trascrizioni è più corrispondente alla voce originaria?

Già per il fatto stesso che i Romani, a differenza dei Greci più propensi a filtrare ed a modificare ogni cosa secondo il proprio metro di giudizio e le proprie convinzioni, fossero in genere rispettosi delle tradizioni dei popoli con cui venivano a contatto, indurrebbe a credere che la forma più fedele al termine originario sia quella latina. E quindi con una doppia “l”.

Si aggiungono poi due ulteriori considerazioni che avvalorano ancor più questa ipotesi.

Tra i tanti autori latini che impiegano il termine Sallentini ci sono pure Marco Porcio Catone12 e Cicerone13. Il primo un tradizionalista per antonomasia; il secondo un attento divulgatore delle forme linguistiche in uso. Entrambi pertanto, sia pure per motivi diversi, poco disposti ad impiegare un termine in maniera palesemente scorretta.

Ma quel che più conta è che quando il vocabolo s’impose veniva veicolato per lo più in forma orale, non certo in forma scritta.

Ora la doppia consonante viene espressa con un suono che, pur essendo singolo, è reso in modo più continuato e più lungo. Tuttavia, per chi ascolta, fare l’analisi dei suoni in determinate circostanze non è un’operazione del tutto banale, e questo a maggior ragione avviene quando gli interlocutori si esprimono in linguaggi diversi e magari la parola che si ascolta presenta delle difficoltà. Una di queste è insita nel suono allungato che si deve riconoscere per comprendere che si ha a che fare con una consonante doppia. Si pensi ad esempio ai Veneti, portati nel loro dialetto a non usare quasi mai le doppie, e che hanno qualche difficoltà a percepirne l’utilizzo anche nella lingua italiana che adoperano usualmente.

Un qualcosa del genere avviene anche per i Greci moderni che pronunciano le doppie in modo un po’ più prolungato ma mai continuato come facciamo noi. Per cui le consonanti doppie — e tra queste anche la lettera lambda (λ), come già detto corrispondente alla lettera latina “l” — sono da loro espresse come se fossero singole. Di conseguenza, ad esempio, il termine Ελλάδα (Elláda) lo pronunciano Eláda.

Ora è vero che non sappiamo se questa abitudine dei greci moderni possa essere attribuita pari pari a quelli del tempo antico, tuttavia non pare insensato ipotizzare che il Sallentini, pronunciato dai nostri avi, sia stato riportato oralmente dai Greci senza far sentire la doppia e di conseguenza traslitterato in lingua greca con una sola lambda. In pratica il termine originario Sallentini – contenente una doppia “l” – divenne traslitterato in greco Σαλεντῖνοi (Salentinoi), con una sola lettera lambda.

Mi pare, in definitiva, che ci sia più d’un motivo per credere che la forma latina sia quella più corrispondente al termine originario. E che, quindi, “Sallentini” sia l’interprete più fedele dell’antica espressione coniata dai nostri avi.

 

Note

1 ERODOTO (V secolo a.C.), Storie, IV 99, 5.

2 NICANDRO DI COLOFONE (II secolo a.C.), conservato presso ANTONINO LIBERALE (…), Metamorfosi XXXI, fr. 47 Schneider.

3 POLIBIO (III secolo a.C. – II secolo A.C.), Le Storie, III 88, 3.

4 STRABONE (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 1.

5 Ibidem, VI 3, 1.

6 Ibidem, VI 3, 5.

7 Ibidem, VI 3, 1.

8 N. VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, in Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn. 6 – 7, Nardò 2018.

9 L’aspetto un po’ curioso è che molti cronisti brindisini – al pari dei redattori di Wikipedia – ritengono tuttora che Calabria è denominazione d’invenzione romana.

10 Altro aspetto curioso è che molti cronisti e storici brindisini affermano che i nostri progenitori erano Calabresi. Questo è l’etnico degli abitanti della Calabria attuale; gli abitanti della Calabria di epoca romana erano detti Calabri. Il termine Calabresi, infatti, neppure faceva parte del latino classico.

11 Per una più ampia analisi, si veda: VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, pp. 104 e 105. Consultabile al link https://www.academia.edu/35875669/La_penisola_salentina_nelle_fonti_narrative_antiche

12 CATONE (III secolo a.C. – II secolo a.C.), De Agricultura, VI 1.

13 CICERONE (II secolo a.C. – I secolo a.C.), Pro Sesto Roscio Amerino, 132.

Ritrovamenti messapici e greci a Sava

SAVA, 1889: I RITROVAMENTI MESSAPICI E GRECI, LA VISITA

DEL PROF. VIOLA E L’INDAGINE ARCHEOLOGICA OMESSA

 

di Gianfranco Mele

In un articolo apparso su “La Voce di Maruggio” ho parlato esaustivamente del manoscritto di Achille D’Elia “Sava e il suo feudo”, della storia antica di Sava raccontata dal D’Elia (ma anche dall’ Arditi e dal Coco), e della figura del D’Elia stesso fornendo una biografia dell’autore che mostrava la serietà e il peso culturale del personaggio.[1]

Con questo scritto intendo dimostrare come alcune annotazioni dello studioso circa l’archeologia e la storia savese siano assolutamente da rivalutare, sulla base di una serie di interconnessioni con le vicende che coinvolgono la ricerca storico-archeologica nel territorio in quegli anni ed i protagonisti di quella ricerca.

Dobbiamo prendere in considerazione due diversi aspetti dell’analisi fornita dal D’Elia in merito alla Sava antica: le certezze documentarie, e le congetture, senza accavallare e confondere tra loro questi suoi due distinti e distinguibili contributi.

Ora, il D’Elia fornisce, per ciò che concerne le certezze, una serie di dati fondamentali: 1) l’esistenza, in Sava, di quelli che egli chiama “Castelli Castrum Munitum Messapici”; 2) i rinvenimenti di “ monete della vecchia Orra, quelle di Metaponto ed altre molte primitive”; 3) l’esistenza, ancora all’epoca in cui scrive, delle “fondamenta d’epoca evidentemente ciclopica”; 4) il rinvenimento di una serie di reperti visionati anche nell’agosto del 1889 dal “chiarissimo Professore Viola del Reg. Museo di Taranto”; 5) l’esistenza di un sepolcreto messapico a 500 metri dal rione Castelli.

Vedremo più avanti, nei dettagli, per quale motivo le notizie suddette sono da considerarsi certezze. Per quanto riguarda le congetture, invece, il D’Elia finisce con l’identificare il territorio di Sava con la mitica “Sallentia urbs messapiorum”, e qui entriamo sicuramente nel campo dell’ indimostrabile, sebbene lo storico savese Gaetano Pichierri riprenda con slancio e passione nelle sue ricerche, arricchendole di ulteriori speculazioni, queste ipotesi affascinanti ma un po’ visionarie del D’Elia.[2]

A causa di queste conclusioni (che peraltro lo stesso D’Elia presenta come dato ipotetico, quasi fantasioso, e non come convinzione), sia il Coco che storici successivi non prendono troppo sul serio l’opera del D’Elia. Ma c’è di più: ciò che viene considerato veramente inspiegabile e perciò contribuisce a non dar troppo credito a tutto l’impianto del manoscritto è la notizia che il D’Elia fornisce circa le parole attribuite al professor Viola durante la sua visita a Sava: ciò che il Viola vede, lo dichiara, stando a quanto riportato dal D’Elia, “di origine remotissima qual solamente vide a Sparta e Messene“. Come mai, ci si è chiesto spesso, se Viola resta così stupefatto dei reperti rinvenuti in Sava, non ne raccoglie e diffonde documentazione, non li prende con sé esponendoli al Regio Museo, non pubblica un report, non cita e non pubblicizza la scoperta?

La risposta sta proprio nella figura del professore e nella sua biografia, costellate di imbarazzanti contenuti ed episodi. Nel corso di questa esposizione ci soffermeremo a lungo sulla storia del personaggio e su alcuni momenti-chiave del suo operato.

Andiamo ora per ordine, riportando 1) quanto esposto nel manoscritto del D’Elia, 2) i dati e le evidenze a supporto dei contenuti del manoscritto, 3) la questione della visita del Prof. Viola a Sava e della omissione della rendicontazione di quanto osservato.

Contrada Agliano, Sava: un ritrovamento dagli scavi condotti nel 2008 dalla Cooperativa Museion

 

La copertina del libro di Evans nel quale son citati i ritrovamenti numismatici avvenuti a Sava

 

Il manoscritto del D’Elia

La più esaustiva fonte descrittiva dell’ agglomerato antecendente l’attuale Sava e denominato Castieddi, sullle rovine del quale quale viene fondata Sava, consiste in un manoscritto del 1889 di Achille D’ Elia andato perduto ma del quale Primaldo Coco fornisce vari stralci nella sua opera “Cenni storici di Sava”. Il Manoscritto aveva per titolo Sava e il suo feudo, storia paesana”.

Prima del D’Elìa sarà l’Arditi a parlare, seppur fugacemente, dei “Castelli”, e successivamente, oltre al Coco, ne parleranno il Del Prete e il Pichierri che forniranno ulteriori descrizioni.

Riporto a seguire i più importanti passaggi dell’opera del D’Elia:

La storia di Sava non è gran che negli annali civili di questa provincia; essa è circoscritta alla più esigua cronaca militare di una rocca. Non potrebbe però convenevolmente parlarne chi trascurasse rifarsi e discutere dei Castelli Castrum Munitum Messapici, o Salentini ora distrutti e ridotti in un bel giardino ad Oriente della novella Sava […] Ch’essi Castelli fossero costruzione vetustissima – non ben accertato se messapica o salentina per mancanza d’ iscrizioni – lo attestano le monete della vecchia Orra quelle di Metaponto ed altre molte primitive ivi rinvenute miste con alcune della repubblica Tarentina e con quelle romane del basso impero; la irregolarità delle forme nei massi tufacei delle fondamenta ancora visibili – d’epoca evidentemente ciclopica e certi cocci di una tal terraglia pesante come ferro del color della ghisa è bastante che il chiarissimo Professore Viola del Reg. Museo di Taranto in una breve visita fattavi nell’ultimo agosto (1889) dichiarasse di origine remotissima qual solamente vide a Sparta e Messena.”[3]

Come si è visto, qui il D’Elia cita la visita in Sava del Prof. Viola, argomento sul quale torneremo nel seguito di questo scritto per chiarire cosa accadde dopo quella visita. Da notare che il manoscritto è redatto nello stesso anno della visita di Viola, presumibilmente pochi mesi dopo. Il D’Elia prosegue:

“Questi Castelli erano in comunicazione sotterranea con un piccolo fortino sito in contrada Specchiodda e forse anco con quello di Uggiano Montefusco, e di Manduria: ciò che prova che essi rappresentar dovessero un intero sistema di fortificazioni di confini dei due regni Messapico e Tarantino. […]Tale sarebbe la versione più modesta che potrebbe darsi alle dicerie corse sui nostri Castelli. Ci sarebbe dell’altro però. Dalla lunghezza della via sotterranea di forma poligonale, visibile anche oggi in casa Testa e nel giardino Melle, ci sarebbe da arguire che essa servisse alle comunicazioni segrete fra i vari forti.

Dai sepolcri messapici – con la facciata del cadavere sempre rivolto ad Oriente – trovati in gran numero a mezzo chilometro dai vecchi Castelli e ad un metro di profondità in quel tratto di terreno che va dal convento di S. Francesco sino alla via provinciale, ci sarebbe da inferirne che qui fosse un sepolcreto da quelli dipendente.”[4]

Sin qui, il resoconto obiettivo del D’Elia. Con poche righe successive e conclusive entra poi nel campo della congettura:

Ora ditemi: non potrebbe per un momento venire in mente all’erudito di vecchie cronache che qui davvero – sul confine dei tre regni Messapico, Salentino e Calabro – fosse stata edificata la città di Sallenzia Urbs Messapiorum ?” [5]

 

I dati a supporto delle tesi del D’Elia

Dell’antico casale Castelli fornisce per primo alcune notizie Giacomo Arditi:

Il territorio si appoggia sul sabbione e sul calcare di varia specie; nel predio Castelli, appo l’abitato, sogliono scavando rinvenirsi delle monete di tipo greco […] Qui d’appresso esisteva una volta il casale appellato Castelli, e ne fan fede il nome che ancora dura nella contrada, le due vecchie vie che esistono e che chiamano Vetere o Portoreale, e i ruderi e le monete accennate di sopra. Distrutto Castelli nel sec. XV, o per vecchiezza, o per incidenza delle guerre e dei conflitti allor combattuti tra Spagnuoli e Francesi, i suoi abitanti eressero vicin vicino quest’altro appellato Sava […] “ [6]

Copertina dell’opera di Arditi

 

Il Coco a sua volta riprende la maggior parte delle descrizioni dell’antica “Castelli” dal manoscritto del D’Elia, accettandone la ricostruzione dei fatti, ma rigettando l’ipotesi della identificazione di “Sava-Castelli” con la antica e leggendaria Sallenzia, però conclude :

Quanto poi riferisce l’autore circa la forma dei Castelli, la via sotterranea, i sepolcreti e le monete trovate, merita fede avendo io – le stesse cose – sentite narrare da altri testimoni oculari[7]

Del resto, sempre il Coco cita alcuni ritrovamenti avvenuti alla sua epoca:

“ Salvatore Schifone trovò in un suo podere non lungi da Sava una grande quantità di monete greche in bronzo.

Sotto l’abitazione del sig. Pietro Schifone furono rinvenuti alcuni antichi vasetti in un sepolcro scoperto a caso. Alcune tombe sono state scoperte nella contrada del paese detta “Castelli” mentre si cavavano le fondamenta di alcune case e vi si trovarono non poche monete di vaolre e oggetti preziosi. Quivi e nei dintorni della masseria di Pasano si osservano tuttora dei cunicoli e dei grandi recipienti scavati nel masso, che i proprietari adibiscono a depositi d’acqua”.

Ad Aliano poi, nel luogo ove sorgeva l’antico paese, oggi di proprietà del sig. Giovacchino Spagnolo, si osservano tuttora molti rottami di argilla, di vasi, di tegole, piccoli idoletti, amuleti, giocattoli per fanciulli, lucerne di creta di varie forme, monete, e altre cosette. Fino a poco tempo fa si osservavano anche avanzi di un antico edificio a ferro di cavallo dai grossi macigni, che divisi e suddivisi in 18 parti sono stati adibiti per nuove fabbriche.

Pare, da ciò che ne riferisce l’attuale proprietario, che dovesse essere un antico tempio pagano.

Altri avanzi di antichi edifici vi erano ai principi del secolo XVIII e furono abbattuti dal feudatario signor Giuseppe De Sinno, che, nella speranza di trovar tesori, intraprese degli scavi, che certo gli fruttarono qualche cosa.

Tutto quanto però si è trovato nei detti casali e dintorni e quanto era rimasto dell’antico è andato soggetto a vandalica distruzione per ignoranza, oper ingordigia”. [8]

Il libro di Primaldo Coco

 

Riguardo alle vie sotterranee esiste poi un resoconto di Pasquale Del Prete[9] e altre testimonianze raccolte da Gaetano Pichierri, mentre rispetto a tombe, ritrovamenti e sepolcreto c’è un’ampia ricostruzione del Pichierri stesso corredata da testimonianze, e anche da foto di reperti trovati in una tomba.[10]

Della Sava messapica parla anche lo studioso francavillese Cesare Teofilato, laddove nel suo scritto su Allianum la descrive come caratterizzata da una cinta megalitica distrutta:

“Quell’ antico braccio della Via Traiana che partendo da Taranto costeggiava il Sinus Tarantinus prende tuttora, nel tratto che attraversa gli agri di Sava e Manduria, il nome tradizionale di Via Consolare. Quivi, lungo il suo percorso, toccava tre stazioni di vita messapica: Allianum, la cinta megalitica di Sava, barbaramente distrutta o seppellita, e la più celebre muraglia di Mandurium.”[11]

Sava, via S.Filomena: Skyphos a vernice nera del IV sec. a. C. rinvenuto in una tomba (foto G. Pichierri)

 

Fondamentali, rispetto alla documentazione sulle monete ritrovate, una serie di testimonianze di Attilio Stazio e altri ricercatori che riassumo a seguire. Abbiamo già citato l’opera del 1879 dell’Arditi, nella quale, a proposito di Sava, riferisce di ritrovamenti di antiche monete “di tipo greco” nel rione Castelli; dieci anni dopo, come abbiamo visto, il D’Elia sempre parlando dei Castelli riferisce i ritrovamenti di “monete della vecchia Orra, quelle di Metaponto ed altre molte primitive ivi rinvenute, miste con alcune della repubblica Tarentina e con quelle romane del basso impero”. E’ molto probabile che entrambi gli autori siano a conoscenza e si riferiscano – tra l’altro – ad una scoperta sensazionale avvenuta alcuni decenni prima dell’uscita dei loro scritti, che fece scalpore nel mondo della ricerca archeologica e numismatica dei tempi (sino ad essere citata ancora oggi nel Notiziario del Portale Numismatico dello Stato[12] ).

Difatti, in un testo editato nel 1863 Sambon riferisce con dettagliata descrizione in merito a ritrovamenti avvenuti in Sava pochi anni prima, nel 1856: monete incuse di Sibari, Crotone, Metaponto, Siris, Taranto.[13] Il ritrovamento, di grande importanza, viene citato successivamente da Evans nel suo “The Horsemen of Tarentum” edito nel 1889[14] . Riprende la citazione della scoperta Attilio Stazio, specificando:

“Quando, sul finire del sec. VI a.C., Taranto dette inizio alle sue emissioni monetali, nella tecnica “incusa” caratteristica della Magna Grecia e secondo il sistema ponderale in uso nell’area achea di Sibari, Crotone, Metaponto e Caulonia, nessun altro centro della regione Puglia coniava moneta. Tuttavia sin dall’inizio del secolo successivo in alcune zone della Puglia è documentata la presenza di monete della Magna Grecia, giuntevi evidentemente per il tramite di Taranto, la cui costante rivalità con le popolazioni indigene confinanti non impedì certamente rapporti di scambio, come non impedì – e in un certo senso, anzi, favorì – influssi culturali spesso profondi e determinanti sul piano linguistico, religioso, artistico, ecc. “[15]

A tutt’oggi le monete rinvenute a Sava sono tra le più antiche tra quelle ritrovate. Difatti lo Stazio così prosegue:

“E a questo proposito può essere significativo ricordare che i più antichi tesoretti monetali della regione sono stati rinvenuti a Sava e a Valesio, cioè lungo quella naturale via istmica di collegamento tra il mar Ionio e il mar Adriatico, che poi, in età romana, sarà la via Appia”.[16]

La pagina del testo di Sambon che fa riferimento alle monete ritrovate in Sava nel 1856

 

Non mi dilungo, in questo scritto, con le citazioni dei ritrovamenti ben più documentati e frequenti nella contrada savese di Agliano, distante pochi km dal centro abitato di Sava,[17] nonché nella vicina altra contrada di Pasano[18] (ne ho parlato in altri scritti e a quelli, qui inseriti nelle note, rimando), e sul monte Magalastro situato tra feudo di Sava e Torricella.[19] Rispetto ad Agliano, è interessante notare come il Teofilato la inserisca all’interno di una triade insediativa comprendente Manduria, Sava e la stessa “Allianum”; in occasione di una sua indagine sul campo, lo studioso vi scorge inoltre una iscrizione messapica segnalata al Prof. Ribezzo e “al dottor Ciro Drago del R. Museo di Taranto e all’ispettore onorario di Manduria dottor Michele Greco”. Il Ribezzo parlerà difatti di questa iscrizione nel Nuovo Corpus Inscriptionum Messapicorum, citando il Teofilato, ma senza aggiungere note di rilievo e interpretazioni in quanto non aveva visionato di persona l’opera.[20]

Teofilato scorge in Agliano anche i resti di un antico tempio citato anche dal Coco, e resti di costruzioni consistenti in “ enormi massi squadrati, come quelli delle mura di Manduria”.[21]

La cosa curiosa è che gli storici locali, ad eccezione del Teofilato, hanno tenuto separati gli studi e la storia di queste località dell’agro di Sava da quelli riguardanti Sava-Castelli, attribuendo a quest’ultima presenza messapica, e a quegli altri siti magno-greca. Si tratta in realtà di siti che distano pochissimi km dal centro abitato di Sava, e che sembrano parte di una storia antica comune e coerente non solo per questioni di datazioni dei ritrovamenti e per prossimità geografica, ma anche perchè, quand’anche il territorio di Sava fosse stato spaccato in due, in un dato momento storico, da una espansione della Chora tarantina sino a queste terre, prima della presunta espugnazione di parte del territorio ad opera dei tarantini, si sarebbe trattato comunque di una unica comunità messapica insediata, appunto, tra l’attuale centro storico di Sava, la sua periferia, e le vicinissime contrade di Agliano, Pasano, Magalastro, Tima,[22] ed altre. Devono aggiungersi a questi siti anche quelli di contrada Petrose[23] e contrada S. Giovanni, ancor più prossimi al centro del paese, e si deve tener presente che la distanza tra il cosiddetto sepolcreto messapico e la zona indicata come di insediamento magnogreco non supera i 2 km.

Corredo tombale in contrada Agliano, Sava (foto G. Pichierri)

 

Monte Magalastro, frammento di vaso a figure nere e terracotta figurata (foto P. Tarentini)

 

Luigi Viola e la ricerca non divulgata

Sebbene vi siano precedenti importanti e significativi, la ricerca archeologica sistematica e continuativa in area ionico-tarantina inizia nel 1880 con l’invio in Taranto, da parte ministeriale, del professor Luigi Viola, professore di greco ed esponente della Scuola Italiana di Archeologia.[24] Già nel 1881 Viola pubblica resoconti delle sue attività in quest’area nella prestigiosa rivista “Notizie degli scavi di Antichità” della Regia Accademia dei Lincei, e dal quel momento e per una serie di anni successivi continuerà a pubblicare dettagliate relazioni. Nel 1882 viene istituito un Ufficio speciale per le Antichità e nel 1884 il comune di Taranto stipula grazie a Viola una convenzione per l’istituzione di una collezione museale tarantina. In precedenza tutti i reperti ritrovati erano stati inviati, depositati ed esposti presso il Museo Nazionale di Napoli. Tuttavia l’invio di materiali a Napoli non cessò neanche negli anni successivi, poiché tra il 1891 e il 1898 la Direzione del Museo di Napoli annesse a sé la Direzione scientifica ed amministrativa del Museo di Taranto.[25]

Luigi Viola (1851-1921)

 

Il Viola è ricordato come personaggio competentissimo ma anche assai discusso, e vedremo perchè.

Intanto è bene ricordare che a quei tempi l’acquisizione museale dei reperti era condizionata da leggi non ancora adeguate alla situazione attuale. Tutto ciò che si ritrovava nei terreni di proprietà privata, era considerato di appartenenza del proprietario del suolo, che poteva liberamente vendere qualsiasi anticaglia rinvenutavi, previo un nulla osta dello Stato, la qual clausola però era, tra l’altro, facilmente e sistematicamente elusa.[26]

Si creò il fenomeno della caccia ai reperti e del loro traffico e vendita incontrollati.

Nel 1885 Luigi Viola sposa Caterina Cacace, figlia del latifondista Carlo Cacace, il quale si ritrovava nella stessa posizione di molti altri uomini del suo status: i ricchi latifondisti dell’epoca e della zona erano tacciati di speculare sui reperti ritrovati nei numerosi suoli che possedevano. Di più, il Viola inizia a collaborare con il suocero in questo genere di attività.[27]

Difatti, Luigi Viola iniziò a subire diverse critiche all’epoca, per i suddetti motivi e perchè improvvisamente dedito più alla politica che alla professione (nel 1889 divenne anche Sindaco), ma soprattutto, per quel che ci riguarda, perchè era accusato di disattenzioni nel suo operato di archeologo: testualmente, Fedele, Alessio e Del Monaco riportano che

gli veniva infatti rimproverato non solo di non dare più notizie al mondo scientifico delle notevoli scoperte di cui era fortunato spettatore, ma anche di non documentare in maniera sufficiente gli scavi fatti, dei quali non registrava l’ubicazione, non traeva disegni dei monumenti, non teneva separati i materiali”.[28]

Questo periodo particolare e discusso del Viola coincide con la sua visita a Sava, che, come riportato dal D’Elia, risale al 1889. E’ esattamente il periodo delle “distrazioni” del professionista e della sua elusione dalla rendicontazione di osservazioni e scoperte.

A seguito di questi motivi e delle critiche e accuse subite, pare, nel 1891 il Viola viene trasferito a Napoli, ma nel frattempo il rapporto con il Ministero si inasprisce sempre di più e nel 1895 rassegna le sue dimissioni. Da questo momento diviene un dichiarato e accanito antagonista del Museo, e addirittura si dedica apertamente e ancor più intensamente, a quanto riportato, al commercio di reperti archeologici per conto del suocero e di altri privati:

Da quel momento Viola divenne un accanito antagonista del Museo, collaborando con il suocero in attività poco chiare di reperimento e di commercio di oggetti archeologici e svolgendo inoltre il ruolo di consulente di privati in contrattazioni di vendita con il Museo, nell’interesse dei quali, e per proprio tornaconto, giocava sempre al rialzo delle valutazioni”.[29]

A questo punto è chiaro il motivo per il quale pur avendo dichiarato Il Viola nella sua visita a Sava insieme al D’Elia di aver visto cose interessanti “ di origine remotissima qual solamente vide a Sparta e Messene”, non vi fu un seguito a livello di trasparenza, documentazione e ricerca archeologica ufficiale in merito a quanto osservato. E forse, a seguito di ciò si spiega anche il motivo per il quale il manoscritto del D’Elia non fu mai dato alle stampe. Il D’Elia era un autore particolarmente prolifico e proprio in quel 1889 edita difatti ben due opere per i tipi della Parodi di Taranto e Lazzaretti di Lecce, e a distanza di soli 2 anni ne edita altre tre sempre per Parodi.[30] Qualcosa o qualcuno dunque dovette indurre l’erudito a desistere dal completare e pubblicare “Sava e il suo feudo”: l’impossibilità di provare gran parte dei contenuti dello scritto, o una qualche pressione a non divulgare più di tanto?

Sta di fatto che di sicuro il Viola non compie disinteressatamente la sua visita a Sava, proprio negli anni del suo maggiore invischiamento in operazioni di ricerca non istituzionale, e sta di fatto che della visita e delle scoperte fatte in Sava da parte del Viola non viene fatta menzione alcuna in articoli, riviste, documenti. Questo riserbo certamente non è da imputare al caso, quanto alla coerenza con quell’atteggiamento di commerciante di oggetti archeologici e di consulente di privati.

Nel 1895 il Museo di Taranto è diretto dal prestigioso archeologo Paolo Orsi, il quale in una relazione dell’anno successivo pubblicata in “Notizie degli Scavi di Antichità” lancia un feroce j’accuse al Viola scrivendo:

“…E’ stata una vera jattura per l’archeologia in genere, e specialmente per la topografia tarentina, che delle frequentissime scoperte dell’ultimo ventennio non siasi tenuto un diario minuzioso ed esatto…”[31]

 

Note

[1]
Gianfranco Mele, “Sava e il suo feudo”: il contributo di Achille D’Elia alla storia antica locale, La Voce di Maruggio, sito web, febbraio 2019 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-e-il-suo-feudo-il-contributo-di-achille-delia-alla-storia-antica-locale.html

[2]    Gaetano Pichierri, I confini orientali della taranto greco-romana, in: Omaggio a Sava, raccolta postuma di saggi a cura di Vincenza Musardo talò, Edizioni Del Grifo, 1994, pp. 251-256; si veda anche: Gianfranco Mele, Sulle tracce dell’antica Sallenzia: le ipotesi di Achille D’Elia e Gaetano pichierri concernenti l’agro di Sava, La Voce di Maruggio, sito web, marzo 2019, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-e-il-suo-feudo-il-contributo-di-achille-delia-alla-storia-antica-locale.html

[3]    Achille D’Elia, Sava e il suo feudo, Storia paesana, Mss. di f.3, 1889, citato e trascritto da Primaldo Coco in Cenni Storici di Sava, Stab. Tip. Giurdignano, LE, 1915 ( ristampa a cura di G.C.S., Marzo Editore, 1984), nota (1) pp. 58-60

[4]    Ibidem

[5]    Ibidem

[6]    Giacomo Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’ Otranto, 1879, pp. 548-549

[7]    Primaldo Coco, Cenni storici di Sava, Stab. Tipografico Giurdignano, Le, 1915 – ried. Marzo Editore, Manduria, 1984, nota a pag. 60

[8]
Primaldo Coco, op. cit., nota 1 a pag. 16. Laddove riferisce di “Aliano”, trattasi di contrada savese altrimenti detta Agliano, a pochi chilometi dal centro di Sava. Agliano fu anche fattoria romana e casale medievale.
[9]
Pasquale Del Prete, Il Castello federiciano di Uggiano Montefusco, Archivio Storico Pugliese,Bari, Società di Storia Patria per la Puglia a. XXVI, 1973, I-II, pp. 41-42; vedi anche Gianfranco Mele, Sava: “Li Castieddi” e i camminamenti sotterranei, La Voce di Maruggio, sito web, novembre 2018, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-li-castieddi-e-i-camminamenti-sotterranei.html

[10]
Per un riepilogo dei vari e numerosi scritti di Gaetano Pichierri in merito ai camminamenti sotterranei savesi e ai ritrovamenti effettuati nell’area, si veda: Gianfranco Mele, Sava-Castelli, la città sotterranea e la necropoli. Documenti, tracce e testimonianze di un antico centro abitato precedente la Sava del XV secolo, Terre del Mesochorum, Storia, Archeologia e Tradizioni nell’ area ionico tarantina, sito web, luglio 2015, https://terredelmesochorum.wordpress.com/2015/07/19/sava-castelli-la-citta-sotterranea-e-la-necropoli-documenti-tracce-e-testimonianze-di-un-antico-centro-abitato-precedente-la-sava-del-xv-secolo/

[11]  Cesare Teofilato, Segnalazioni archeologiche pugliesi. Allianum, in Il Gazzettino – Eco di Foggia e della Provincia – Anno (24) 7- n. 38 , sabato, 21 settembre 1935 Anno XIII, pag. 2

[12]
Notiziario del portale Numismatico dello Stato – Ministero per i Beni e le Attività Culturali: “Contributi/Vetrine e Itinerari/Dossier n. 1, 2013, pag. 36: “… Sambon aveva potuto dare notizie di un ritrovamento di monete della Magna Grecia avvenuto a Sava nel 1856, fornendo l’elenco delle monete scoperte e disperse solo sulla base di una notizia ricevuta “par un tèmoin oculaire” ed entrando peraltro solo in possesso di pezzi scelti”.
[13]
Arthur Sambon, Recherches sur les anciennes monnaies de l’ Italie meridionale, Neaples, Cataneo, 1863, pag. 11

[14]
Arthur Evans , The Horsemen of Tarentum – a contribution towards the numismatic history of Great Greece, London, 1889, pag. 2, nota 4

[15]
Attilio Stazio, Per una storia della monetazione dell’antica Puglia, in Archivio Storico Pugliese, 28, 1972, pag. 42

[16]
Ibidem

[17]
Per brevità qui riporto due miei articoli, nei quali sono citati tutti gli altri studi compiuti sul sito di Agliano: Gianfranco Mele, Agliano al confine tra Magna Grecia e Messapia. Un sito ancora da indagare, in: Cultura Salentina, Rivista di pensiero e cultura meridionale, sito web, ottobre 2014, https://culturasalentina.wordpress.com/2014/10/15/agliano-al-confine-tra-magna-grecia-e-messapia-un-sito-ancora-da-indagare/ ; Gianfranco Mele, Allianum cittadella messapica, avamposto di Sava e Manduria, Fondazione Terra D’Otranto, sito web, settembre 2016, https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/30/allianum-cittadella-messapica-avamposto-sava-manduria/

[18]  Gianfranco Mele, Pasano e dintorni: aspetti storico-archeologici, La Voce di Maruggio, sito web, marzo 2019 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/pasano-e-dintorni-aspetti-storico-archeologici.html ;

Gianfranco Mele, Sava: tombe e rinvenimenti in Pasano e contrade limitrofe, La Voce di maruggio, sito web, maggio 2020, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-tombe-e-rinvenimenti-in-pasano-e-contrade-limitrofe-camarda-grava-ecc.html

[19]  Paride Tarentini, Torricella. Itinerari storico-archeologici a sud-est di taranto, Museo Civico di Lizzano,Quattrocolori studio grafico, luglio 2018, pp. 14-28

[20]  Francesco Ribezzo, Nuove Ricerche per il Corpus Inscriptionum Messapicarum, Roma, 1944, pag. 105

[21]  Cesare Teofilato, op. cit.

[22]  Gianfranco Mele, Per una ricostruzione della storia della masseria Tima in agro di Sava e luoghi circostanti, La Voce di Maruggio, sito web, maggio 2020, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/per-una-ricostruzione-della-storia-della-masseria-tima-in-agro-di-sava-e-luoghi-circostanti.html

[23]  Gianfranco Mele, Antichi insediamenti in contrada Petrose, in agro di Sava, La Voce di Maruggio, sito web, febbraio 2019, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/antichi-insediamenti-in-contrada-petrose-in-agro-di-sava-di-gianfranco-mele.html

[24]  Biagio Fedele, Arcangelo Alessio, Orazio Del Monaco, Archeologia, civiltà e culture nell’area ionico-tarantina, Banca Popolare Jonica, Grottaglie, 1992, pag. 307 e nota (2) a pag. 326

[25]  Biagio Fedele, Arcangelo Alessio, Orazio Del Monaco, op. cit., pp. 307-308

[26]  Biagio Fedele, Arcangelo Alessio, Orazio Del Monaco, op. cit.,pp.309-310

[27]  Ibidem (pag. 310)

[28]  Ibidem

[29]  Ibidem

[30]  Gianfranco Mele, “Sava e il suo feudo”: il contributo di Achille D’Elia alla storia antica locale, op. cit.

[31]  Paolo Orsi, Relazione sopra alcune recenti scoperte nel Borgo Nuovo, Notizie degli Scavi di Antichità, 1896, pag. 107.

L’obelisco di Porta Napoli a Lecce (2/5)

di Marcello Gaballo e Armando Polito

DISTRETTO DI LECCE

1bis

 

Ecco i dettagli citati nell’opuscolo: “1) Minerva progrediente col motto Lycii Japygum ultima colonia1; 2) Il dio Pane, ed il Lupo, col motto Lycii Japygo-Messapii2; 3) L’Aquila, che nasconde la testa tra le nuvole, col motto allusivo Lycii Cretenses et Salentini3″4.

Procederemo ora ad esaminarli uno per uno partendo dal basso e aggiungeremo anche la descrizione di quei dettagli che nell’opuscolo non sono citati.  Faremo così anche con le altre tre facce dedicate agli altri distretti.

“L’Autore vuole ancora, che il pubblico abbia la conoscenza di una sua latina iscrizione, da lui fatta per l’Aguglia medesima, nella quale essa non vedesi scolpita per causa della di lui assenza da Lecce. Egli ben si lusinga di meritarne alcun favorevole suffragio, che vale sempre più di quello, che gli verrebbe dall’opera dello scalpello.

FERDIN. I Siciliarum Regum omnium optumo

  1. F. invicto Augusto

                  Viam hanc Praetoriam,

                                Quod,

Ubi eam fieri concessit, suum etiam sacrum

               nomen commendaverit,

Moxque, ut abs Tarento Neapolim usque

                          sterni jusserat,

Ipsum quoque ad quatuor Salenti regiones

                extendendam permiserit,

Ad perpetuum istius beneficii memoriam servandam,

Qua harum viarum caput occurrit, pyramide

                         a solo excitata,

Cunti5 hujus, populique

Concordibus, gratisque animis consecrarunt.

  1. AE. Chr. MDCCCXXII6

 

Eccone la traduzione linea per linea, nei limiti del possibile:

A Ferdinando I il migliore di tutti i re delle Sicilie,

pio felice invitto Augusto.

Questa via pretoria,

poichè

quando concesse che fosse costruita, anche il suo sacro

nome (le) diede,

e ora, come da Taranto fino a Napoli

aveva disposto che fosse spianata,

che essa pure alle quattro regioni del Salento

venisse estesa permise,

per conservare il perpetuo ricordo di questo beneficio,

dove è posto l’inizio di queste vie, una piramide

essendo stata elevata dal suolo,

tutte le istituzioni e i popoli di questa provincia

consacrarono con animo concorde e grato.

Nell’anno 1822 dell’era di Cristo.

 

Sul monumento, invece, venne incisa quella che all’inizio abbiamo riprodotto e che qui replichiamo.

Traduzione: A Ferdinando I di Borbone molto provvido re del Regno delle Due Sicilie, restauratore della pubblica felicità, poiché diede ordine che la via rotabile da tutti i principi prima intentata, opportunissima per il commercio della provincia otrantina e delle confinanti, fosse spianata e che all’eternità del nome di Augusto fosse consacrata. I cittadini di ogni ordine, gli abitanti del posto ed i vicini, formulati voti augurali per la prosperità del principe e la saldezza della casa augusta, devotissimi alla sua potenza e maestà.

Poiché il Cepolla lamenta che l’iscrizione che aveva preparato non vedesi scolpita, che quella che oggi leggiamo presenta non solo discordanze testuali notevoli ma, soprattutto l’assenza di un dettaglio presente in ogni epigrafe che si rispetti, cioè  la data, bisogna concludere che la stessa fu apposta successivamente all’uscita dell’opuscolo cioè durante o dopo il 1827, a cinque o più anni dalla visita del sovrano (1822), a tre o più dalla sua morte (1 gennaio 1825).  Tutto ciò giustificherebbe l’assenza della data, anche se lo spazio libero del margine inferiore poteva benissimo contenere non una ma due linee, il che non esclude che almeno un rigo sia stato abraso (per vandalismo politico? e quando?), anche perché il dettaglio nella prima immagine anteriore al recente restauro, mostrerebbe, rispetto al secondo successivo al restauro qualche residuo di incisione.

Continuando l’esame della facciata dell’obelisco dedicata al distretto di Lecce incontriamo un’iscrizione non citata nel progetto del Cepolla. È un augurio di buon viaggio per chi è diretto ad Otranto. Alla stessa altezza nelle facce dedicate agli altri distretti leggeremo messaggi analoghi, anche loro, come questo, non citati dal progettista.

 

 

Per questa origine di Lecce dai Lici il Cepolla ha seguito Erodoto (V secolo a. C.) per il quale (Storie, VII, 170): Ὡς δὲ κατὰ Ἰηπυγίην γενέσθαι πλέοντας, ὑπολαβόντα σφέας χειμῶνα μέγαν ἐκβαλεῖν ἐς τὴν γῆν: συναραχθέντων δὲ τῶν πλοίων, οὐδεμίαν γάρ σφι ἔτι κομιδὴν ἐς Κρήτην φαίνεσθαι, ἐνθαῦτα Ὑρίην πόλιν κτίσαντας καταμεῖναί τε καὶ μεταβαλόντας ἀντὶ μὲν Κρητῶν γενέσθαι Ἰήπυγας Μεσσαπίους, ἀντὶ δὲ εἶναι νησιώτας ἠπειρώτας [(Si racconta) che come (i Cretesi) navigando giunsero presso la Iapigia una grande tempesta dopo averli sorpresi li scaraventò a terra; essendosi fracassate le navi non c’era nessuna possibilità per loro di tornare a Creta. Allora, dopo aver fondato la città di Hyrie, restarono passando ad essere, invece di Cretesi, Iapigi Messapi, continentali invece di isolani)].

Per completare il quadro di questa commistione va detto che per Erodoto i Lici provenivano da Creta; op. cit., VII, 92: Λύκιοι δὲ Τερμίλαι ἐκαλέοντο ἐκ Κρήτης γεγονότες, ἐπὶ δὲ Λύκου τοῦ Πανδίονος ἀνδρὸς Ἀθηναίου ἔσχον τὴν ἐπωνυμίην (i Lici originari di Creta si chiamavano Termili ma presero il nome da Lico figlio dell’ateniese Pandione).

Anche se il Cepolla non lo dice espressamente, per lui Lecce è, pure etimologicamente parlando, da Lici). Sull’origine cretese dei Salentini ecco come si esprime Strabone (I secolo a. C.-I d. C.), Geographia, VI, 3: Τοὺς δὲ Σαλεντίνους Κρητῶν ἀποίκους φασίν (Dicono che i Salentini sono coloni dei Cretesi).

Questo dettaglio, insieme col successivo, si ripete, come abbiamo già detto, tal quale sulle altre tre facce. Si è pure detto che nell’opuscolo si parla solo di “uva intrecciata con frondi di ulivo”: le spighe di grano, che nel monumento hanno una rilevanza figurativa pari, come si può agevolmente notare, al ramo d’ulivo e al tralcio d’uva, non compaiono.

Anche questo dettaglio, insieme col precedente, si ripete tal quale sulle altre tre facce, riferendosi ad elementi perfettamente comuni ai quattro distretti.

 

Questo lavoro è stato pubblicato integralmente nel periodico della Fondazione  Terra d’Otranto Il delfino e la mezzaluna, anno III, n. 1 (ottobre 2014), pp. 171-189.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/20/lobelisco-porta-napoli-lecce-1-4/  

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/25/lobelisco-porta-napoli-lecce-35/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/31/lobelisco-porta-napoli-lecce-45/

Per la quinta parte: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/04/lobelisco-porta-napoli-lecce-55/            

_______________

1 Lycii Japygum ultima colonia= I Lici ultima colonia degli Iapigi. “I discendenti di Giapeto rappresentati generalmente da tutti questi popoli [Siri-Egizi, Babilonesi ed Assiri] devono certamente considerarsi come gli autori dell’origine del loro nome collettivo di Giapigi nella prima epoca della civilizzazione dei nostri aborigeni…restò in fine riconosciuta per ultima colonia de’ cosiddetti Giapigi la Città di Lecce…chiara, ed evidente pruova nell’istessa significazione del primo di lei nome, che fu quello di Sybaris, dappoiché secondo il linguaggio Caldeo significa Figli della divinità del Sole. Quindi è ben agevole comprendere la ragione dell’assunto di loro emblema della Dea Minerva progrediente, poiché in siffatta guisa restò abbastanza definito il carattere della loro origine Achea, essendo stata Minerva la prima condottiera delle principali colonie di tali Genti”. (L. Cepolla, op. cit., pagg. 7-8).

2 Lycii Japygo-Messapii=I Lici Iapigo-Messapi. “Il secondo periodo dell’antica storia di questa Città si rinviene facilmente nella politica, e religiosa riunione dei primitivi Giapigi co’ popoli Messapi, ossia cogli altri nostri primi coloni  Arabo-Egizi, giacchè tanto per l’appunto suona letteralmente il nome Messapus. Imperciocché non vi è dubbio, che il culto del Sole fu proprio dei Babilonesi, e degli Assiri, non che degli Arabo-Fenici, e degli Egizi, i quali adorarono la natura sotto tutt’i rapporti della fisica rappresentazione di tutti i di lei effetti; e da ciò avvenne, che fu da loro immaginato il Dio Pane, il quale colla sua figura rappresentava tutto l’ordine della natura” (L. Cepolla, op. cit., pag. 8).

3 Lycii Cretenses et Salentini=I Lici Cretesi Salentini. “L’ultimo periodo dell’antica storia di questa Città…può bene attribuirsi intieramente al glorioso avvenimento del governo della Dinastia Cretese sopra tutta questa Provincia. Licio Idomeneo, tanto per effetto delle sue armi, che per mezzo del matrimonio che contrasse con Evippa figlia di Malennio Re dei Messapi, fondò il suo trono sopra tutti i popoli di questa Penisola…Meritò quindi a buon diritto codesto sì grande avvenimento di esser consacrato all’immortalità coll’emblema di un’Aquila, che innalza la sua testa sopra le nuvole. Si sa, che l’Aquila è sacra a Giove, il quale nacque in Creta sul Monte Ida, onde i Cretesi assunsero per emblema nazionale il divino Augello. Qui ella figura, che vola, e nasconde la testa nelle nuvole per indicar la sublimità dell’origine del prototipo di siffatto emblema, qual fu Giove, padre degli uomini, e degli Dei” (L. Cepolla, op. cit., pag. 8).

4 L. Cepolla, op. cit., pag. 3.

5 Per Cuncti.

6 L. Cepolla, op. cit., pag. 16.

 

Messapi, Romani e aspetti dell’identità di Brindisi

Società di Storia Patria per la Puglia

Sezione di Brindisi

Brigata Amatori Storia e Arte

Novembre, venerdì 27, h. 17.00

XL Colloquio di studi e ricerca storica

Brindisi. Palazzo Granafei-Nervegna (g.c.)

Messapi, Romani e aspetti dell’identità di Brindisi

 

 

Il successivo territorio della Iapigia è, contro ogni aspettativa, molto confortevole. Infatti sebbene appaia aspro in superficie, dove è possibile arare, si scopre che il terreno è alquanto profondo e fertile, e quantunque sia povero d’acqua, nondimeno è abbondante di ridenti pascoli e appare ricco di foreste. Un tempo tutta questa regione era anche densamente abitata e contava tredici città. Ora invece, ad eccezione di Taranto e di Brindisi, le altre non sono che piccoli borghi, essendo giunto a tal punto il degrado. Si tramanda che i Salentini siano dei coloni venuti da Creta”.

Strabone, Geografia

 

L’identità di una città è nell’insieme complesso di eventi presenti e trascorsi, necessari e compresenti, invisibili eppure concreti; da qui si generano il senso di appartenenza dei suoi cittadini, la fascinazione urbana, la cultura della memoria collettiva. Questo sistema di valori si declina nella conservazione degli spazi e dei ritmi, dei colori e degli afrori, di  tutto ciò che costruisce il volto della città. Sopravvive in tal modo una civiltà urbana di generazione in generazione, così come sopravvive una fiaba continuamente narrata, di sera in sera; ciò non significa definire un’identità sulla base della categoria della conservazione quanto del continuo avvicendarsi delle generazioni. Le riflessioni di Italo Calvino in Le città invisibili, andrebbero in tal senso riprese: “La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche che dall’ultimo modello d’apparecchio. Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti di Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio”.  Il risultato è che più una città “espelle roba più ne accumula; le squame del suo passato si saldano in una corazza che non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d’ieri che s’ammucchiano sulle spazzature dell’altroieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri”.  Montaigne rilevò la radice dell’identità nel continuo fluire delle persone e delle cose: “Tutto cambia intorno a noi, tutto si muove; si muovono perfino le piramidi d’Egitto, le montagne e la terra; perciò l’uomo è anche lui in continuo mutare e non è mai eguale a quello che era un attimo prima”. L’identità psico-sociologica è un insieme di criteri di definizione di un soggetto e un sentimento interno articolato sugli altri di unità,  coerenza,  appartenenza,  valore,  autonomia e fiducia organizzati intorno a una volontà. Chiedersi qual è l’identità “reale” di un soggetto sociale non ha senso. Un’identità è un’identità per qualcuno. Essa varia in funzione degli attori interessati: il soggetto attore e gli altri soggetti attori.

Entrano in gioco qui le idee della psicologia sociale sulle identità sociali in quanto insieme di identità attribuite da uno o più soggetti-attori a un altro attore. L’identità è la risposta data alla questione: che è questo soggetto, questo gruppo, questa cultura; ora, in un panorama nel quale i soggetti urbani sono disseminati in comunità diverse per lingua, storia e cultura, l’esigenza della comunicazione si manifesta necessariamente negli spazi pubblici che, in certa misura, sono quelli in cui si sovrappongono le città costruite e decostruite nel luogo che chiamiamo Brindisi.

L’interpretazione di questi luoghi e, più in generale, dell’urbanistica messapica e romana ha avuto attraverso le indagine archeologiche sviluppatesi nell’area di Brindisi, nuovi e interessanti apporti; meglio ora può intendersi   la struttura di una città importante nel mondo antico e che, ancora oggi, come molte città europee e del bacino del Mediterraneo, mostra il retaggio dello schema urbanistico romano nel suo nucleo più remoto.

Come già Strabone rilevò, i Romani “pensarono soprattutto a quello che i Greci avevano trascurato: il pavimentare le strade, l’incanalare le acque, il costruire fogne che potessero evacuare tutti i rifiuti della città”. (Strabone, Geografia, V, 3,8.).

Accanto alla città reale, nella sua materialità, è quella la cui immagine è trasmessa dalla letteratura; i possibili riferimenti virgiliani alimentano un dibattito fra i cui primi protagonisti è il Galateo il quale, a proposito del primo approdo di Enea in Italia rilevò nel De Situ Japigiae:  “io non saprei dire se Virgilio si riferisse a Otranto, oppure a Brindisi”.

Questi temi saranno sviluppati, nel corso del XL Colloquio di studi e ricerca storica da archeologi, studiosi della letteratura latina, dirigenti museali in un programma articolato e complesso, che si invia in allegato, sviluppato con Ar.Tur – Luoghi d’Arte e d’Accoglienza nell’ambito del progetto GRANAfertART.

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Etruschi e Messapi. La stessa origine?

di Maurizio Miglietta

Si può notare una certa relazione tra l’origine del nome Maremma e l’origine del nome Salento. Entrambi i nomi derivano dalle caratteristiche morfologiche del territorio. I territori della Maremma e del Salento sono caratterizzati dalla massiccia presenza di paludi e di acquitrini. I due luoghi hanno poi avuto nel corso dei secoli lo stesso destino, la storia è stata matrigna con le popolazioni autoctone residenti nelle due aree in questione. Comunque è sempre il mare, che ha caratterizzato profondamente le due realtà storico-geografiche. Un’altra cosa, che lega insieme le origini dei due luoghi geografici, è la provenienza delle etnie che popolarono per la prima volta le due zone d’Italia, entrambe le etnie provenivano dal mare. Il Vocabolario Etimologico della Lingua Italia­na di Ottorino Pianigiani fa risalire il nome maremma all’antico francese maremme, l’origine del nome sarebbe però latina, ma­rit’ma, sincope di marìtima, ad indicare una terra sulla riva del mare. Infatti, salta subito all’occhio una certa somiglianza, che può essere colta più dettagliatamente nel brano seguente tratto dal sito http://it.wikipedia.org/wiki/Salento: ” Il toponimo Salento ha origini incerte. Secondo un leggenda deriva dal nome del Re Sale, un mitico re dei Messapi. Il nipote del Re Sale poi, il re messapico Malennio – figlio di Dasumno, avrebbe fondato Syrbar (primo nome della località costiera Roca, che significa Città del Sole), nonché Lyppiae (l’attuale Lecce) e Rudiae.
Uno studio di Mario Cosmai lo farebbe derivare da “salum”, inteso come “terra circondata dal mare”: i Romani, infatti, indicavano con Sallentini gli abitanti delle paludi acquitrinose che si addensavano intorno al Golfo di Taranto[1]. Esattamente dal libro citato: <<Salento in messapico significa “mare” : ce lo conferma Plinio che dice “Salentinos a salo dicto” (cfr. il greco hals,halòs e il latino salum, mare)>>Secondo Strabone, il toponimo deriverebbe dal nome dei coloni cretesi che qui si stabilirono, chiamati Salenti in quanto originari dalla città di Salenzia[2]. L’ipotesi di Marco Terenzio Varrone, invece, è quella di un’alleanza stipulata “in salo”, ovvero in mare, fra i tre gruppi etnici che popolarono il territorio: Cretesi, Illiri e Locresi[3].”

Si può notare una certa relazione tra l’origine del nome Maremma e l’origine del nome Salento. Entrambi i nomi derivano dalle caratteristiche morfologiche del territorio. I territori della Maremma e del Salento sono caratterizzati dalla massiccia presenza di paludi e di acquitrini. I due luoghi hanno poi avuto nel corso dei secoli lo stesso destino, la storia è stata matrigna con le popolazioni autoctone residenti nelle due aree in questione. Comunque è sempre il mare, che ha caratterizzato profondamente le due realtà storico-geografiche. Un’altra cosa, che lega insieme le origini dei due luoghi geografici, è la provenienza delle etnie che popolarono per la prima volta le due zone d’Italia, entrambe le etnie provenivano dal mare.

Si potrebbe pensare a un origine comune dei popoli etrusco e messapico, tanto per incominciare si potrebbe facilmente notare una certa comunanza delle origini, data dalla loro provenienza. Questi due popoli provenivano dal mare, il punto di partenza dal quale si erano imbarcati non si è mai conosciuto con certezza. Questo può essere considerato un punto in comune che mette in relazione i due popoli, e che potrebbe far pensare che magari avrebbero potuto avere le stesse origini. Un altro punto in comune è la mitologia che presenta quasi la stessa origine di alcune divinità dei due popoli. La religione e riti cultuali sono sicuramente un altro punto di contatto, e si può aggiungere a questa serie di analogie anche il culto dei morti, uguale in entrambe le etnie. Ma c’è di più una altra cosa in comune è l’alfabeto, che risulta essere quasi del tutto uguale per i due popoli del mare. Riportiamo qui di seguito un brano tratto dal sito web: http://www.belpaeseweb.it/articolo.asp?di=I+Messapi%2C+Etruschi+di+Terra+d+Otranto%3F&rubrica=Cultura&sezione=Rubriche&id_sezione=5&id_rub=58&id=3892“Le similitudini tra questi due popoli appaiono fin troppo evidenti, non solo nel pantheon, che vede nella coppia sacra messapica una corrispondenza nell’etrusca Aite-Persipnai (sebbene vi fossero anche Mantus e Mania), ma anche nella concezione della morte, della necropoli come vera e propria “città dei morti” distinta da quella dei viventi alla quale era però contigua e nel Mundus etrusco che ripropone la grotta messapica come luogo di passaggio soprannaturale. Anche gli Etruschi veneravano un dio del fulmine, Apulu (l’assonanza con “Apulia” è purtroppo solo suggestiva) ed due dei della superstizione, Tagete e Vetis che avevano caratteristiche simili a quelle di Bes. Anche gli etruschi veneravano infine Artume con le stesse caratteristiche della Thana messapica. Vi è perfino una leggenda che unisce questi due popoli, quella della ninfa Themis, patrona dell’aruspicina, la quale, provenendo dalla Città arcade Pallanzio, ritrovò nella terra dei Messapi il proprio alfabeto, iscritto sulla tavoletta bronzea conservata presso il Tempio di Minerva, e da qui le portò nel Lazio dove formò l’alfabeto latino. Senza addentrasi tuttavia nel campo proprio della linguistica si può notare, suffragati dalla sola mitografia, la sorprendente somiglianza tra l’alfabeto messapico e quello etrusco, dal quale il latino trasse origine e che sarebbe un ulteriore tassello nella conferma della comune origine del celebre popolo che colonizzò la toscana e di quello messapico, accomunati da queste veteres graecas litteras.

Un altro punto di contatto fra le due etnie era l’organizzazione politico-sociale delle loro comunità, riportiamo un’altra citazione tratta sempre dal sio web più sopra riportato: “La più sorprendente similitudine tra questi Messapi ed Etruschi si trova nella loro organizzazione sociale e politica. Come gli Etruschi i Messapi erano infatti organizzati secondo un criterio gerarchico al vertice del quale si situava un’aristocrazia sacra presieduta da un Re, traccia evidente della comune radice indoeuropea. L’unità politica di entrambi i popoli era la città, organizzata urbanisticamente secondo criteri ben precisi, con templi e città di pianta circolare, in perfetta continuità con quelle pre-italiche. Ogni città costituiva un istituzione a sé, indipendente in tutto e con una propria divinità tutelare, alla quale era dedicato un fuoco sacro pubblico, che tutta la popolazione era chiamata ad alimentare, come il fuoco era simbolo dell’unione domestica, il nucleo originario e fondante della società indoeuropea, ossia il clan familiare, fondato sulla natura.

Nel V secolo a.C. i Messapi si unirono in una lega sacra, modellata secondo una struttura tipicamente etrusca, ossia la dodecapoli, nella quale il numero sacro 12 era la cifra della compiutezza (la riduzione di 12 è infatti 1+2=3, numero della perfezione e 3 *4 – numero della terra – è uguale nuovamente a 12) della ricomposizione della totalità originaria, la discesa in terra di un modello cosmico di pienezza e di armonia. La Lega, fondata su un solenne giuramento di fedeltà, fratellanza e reciproco aiuto, non solo mise fine ai dissidi che vi erano stati tra le varie comunità, ma costituì il germe dell’unità politica ed ideale del Salento come entità politica, insomma, il cuore stesso della nostra Identità.”.

A questo punto sarebbe opportuno ipotizzare un’origine comune per le due etnie.

 

Il suono segreto del Megalitismo

ph Luigi Panico

 

di Stefano Delle Rose

L’archeologia accademica tende a relegare il fenomeno del megalitismo in un periodo che va da IV al II millennio a. C. ; in realtà, grazie alle scoperte di ricercatori indipendenti e appassionati, questa datazione si può arretrare fino al 10-15000 a. C.

Un dubbio però ancora non chiarito è come sia stato possibile che in tutto il mondo, culture diverse tra loro e senza contatti reciproci, abbiano utilizzato la stessa tecnica costruttiva, ossia l’uso di enormi blocchi in pietra, il cui peso spesso superava le 100 tonnellate; gli esempi di costruzioni megalitiche sono numerosi: dalla Bolivia, con la perduta città di Tiahuanaco che un tempo sorgeva sulle sponde del Lago Titicaca, alle Piramidi in Egitto; e ancora, i templi maya e le città fenice di Tebe, Delfi, Micene, Tirinto. A noi più familiare risultano la civiltà nuragica in Sardegna, quella Etrusca e nel Salento i popoli pre-Messapico e Messapico.

Che si tratti di templi, mura, piramidi, menhir, tutti questi popoli sono accomunati dall’uso di enormi pietre, megaliti appunto, nelle rispettive costruzioni.

La prima reazione di fronte a queste costruzioni è quella di chiedersi perchè siano stati utilizzati enormi e pesanti blocchi e non tagli più piccoli e maneggevoli e come siano stati spostati, le teorie sono molte e diverse tra loro; ad esempio si teorizza l’intervento di civiltà aliene dotate di tecnologie avanzatissime superiori alle conoscenze e ai mezzi utilizzati dall’uomo di quel periodo. Personalmente ritengo un errore continuare a teorizzare usando come parametri le conoscenze e le tecnologie oggi a noi note, sarebbe molto più utile e produttivo riuscire a ragionare in base a ciò che l’uomo dei megaliti aveva sicuramente a disposizione e cioè la natura e la sua energia.

I nostri antenati erano perfettamente in grado di sentire le diverse energie di cui era circondato come fossero informazioni ed era capace di gestirle e utilizzarle, essendo l’unico modo di sopravvivere. Oggi abbiamo perso tali capacità, avendole affidate alla tecnologia; calendari, orologi, telefoni, antenne sono le nostre energie informanti.

La fisica moderna ha ampiamente dimostrato il carattere vibratorio dell’energia, in qualsiasi forma essa si presenti. In un’ottica vibrazionale, il pensiero è facilmente rivolto al suono quale più facile e immediato strumento per creare energia e dal suono prendiamo a prestito un altro concetto che è quello della risonanza. Nell’Universo tutto risponde al principio della risonanza, ogni forma di energia è in grado di rispondere ad una frequenza simile alla propria.

Possiamo quindi affermare Energia=Vibrazione=Risonanza sulla quale si basa non solo la musica ma ogni forma di energia attorno a noi e in qualsiasi stato: solido, liquido, gassoso, quindi anche pensieri, colori, odori e naturalmente, suoni.

Numerose sono le terapie basate sull’uso di determinati suoni o musiche, sia antiche che moderne. In tutte le più antiche culture e tradizioni, a tutte le latitudini, troviamo riferimenti al suono come al mezzo di avvicinamento a Dio o all’Universo, si pensi ai mantra, al canto gregoriano, al suono di una campana.

Facciamo un passo indietro e mettiamoci nei panni di un costruttore di megaliti. Abbiamo già evidenziato come egli fosse in grado di interagire con le frequenze della natura e quindi risulta logico ipotizzare che fosse anche in grado di riprodurre tramite un suono l’esatta frequenza di risonanza della pietra con cui lavorava. Nel momento in cui la pietra riceve la giusta frequenza, inizia a vibrare liberando energia, risultando facilmente trasportabile o manovrabile.

Un aspetto poco noto e poco studiato del megalitismo è il suo rapporto con questa determinata forma di energia che è il suono, interpretando quest’ultimo come la primordiale forma di espressione energetica esprimibile dall’uomo.
Ma quale sarà la frequenza segreta del megalitismo?

Il primo approccio è legato al materiale, che nel caso del Salento è il calcare con il quale furono eretti menhir, dolmen e mura e nel quale furono scavate grotte, ipogei, chiese rupestri , attraverso lo studio delle caratteristiche chimico-fisiche dei minerali che lo compongono. Ma altrettanto importanti sono anche la forma e le dimensioni del manufatto oggetto di studio. Per quanto riguarda il suono, si sta procedendo sia con suoni espressi a voce, in particolare con il canto armonico, che attraverso suoni prodotti da tecnici specializzati nel campo della musica. Come si può capire è fondamentale un approccio multidisciplinare in cui fisica, chimica, musica e tecniche energetiche antiche, operano con l’unico obiettivo di entrare in risonanza con il megalitismo salentino.

Ugento. Da Ozan messapica a Uxentum romana: la città odierna sopra quella antica

di Stefano Todisco


Attestata sull’area dell’antica città messapica chiamata Ozan, l’odierna Ugento è uno dei centri culturali più brillanti della provincia di Lecce. Sul suo territorio trova posto un museo archeologico, dedicato all’artista Salvatore Zecca nel 1968, restaurato per la riapertura del 2009-2010 in occasione della quale è ritornato il famoso Zeus di Ugento (vedi voce sotto).

tomba dell'atleta nel museo di Ugento
Tomba dell’atleta nel museo di Ugento

I reperti ivi conservati fanno comprendere l’intenso scambio di idee tra il popolo messapico, simbolo del Salento antico, e quello greco. Questa simbiosi è presente sullo stemma della città: il dio greco Eracle, con la clava, e la scritta del nome preromano del luogo (Ozan).

Un altro museo, nel Palazzo Colosso, ospita l’omonima collezione archeologica con testimonianze ugentine dal VI secolo a.C. all’altomedioevo.

Ma l’archeologia ugentina non è stipata solo nei luoghi della fruibilità visiva: nella zona a nord del centro abitato, prospiciente la campagna, si ergono gli orgogliosi resti delle possenti mura messapiche. Erano queste un circuito difensivo di 9 km di lunghezza, spesso 8 metri, e realizzato con grandi massi squadrati, nel IV secolo a.C. (1)

Mura di Ugento
Mura di Ugento

Il muraglione, munito di circa 90 torri, testimonia il clima turbolento che si era creato in Puglia tra V e III secolo a.C. in seguito all’arrivo di invasori stranieri (guerre contro Taranto, spedizione di Alessandro il Molosso, spedizione di Pirro d’Epiro ed espansionismo romano dopo la guerra annibalica).

In piazza Italia e all’angolo tra via Acquarelli e via Trieste è possibile vedere ciò che resta di questa opera difensiva antica.

Ozan fu uno dei baluardi della “dodecapoli messapica” (2), potente federazione che con la presenza di città-fortezze, a breve distanza l’una dall’altra, impedì ai coloni greci di penetrare nel territorio salentino per fondare nuovi insediamenti. (3)

ricostruzione di una porta di una città messapica
Ricostruzione di una porta di una città messapica

Il municipio romano di Uxentum è testimoniato sulla Tabula Peutingeriana col toponimo di Uzintum, equidistante dieci kilometri sia da Alezio (Baletium) sia da Patù-Vereto (Veretum).

Ugento indicata come Uzintum sulla tabula Peutingeriana
Ugento indicata come Uzintum sulla tabula Peutingeriana

Ugento segnata come OZAN sulla mappa di Soleto
Ugento segnata come OZAN sulla mappa di Soleto, V secolo a.C.

L’antico porto: Torre San Giovanni

L’antico porto di Ugento era Torre San Giovanni (IV-III secolo a.C.), luogo in cui sono state ritrovate tracce dell’emporio di epoca romana ed alcune tombe di guerrieri cartaginesi della flotta di Annibale che anche qui sbarcò durante gli anni della guerra contro Roma.

A poche centinaia di metri da Torre San Giovanni si trovano delle isolette, dette Le Pazze, davanti alle cui coste è stato trovato un insediamento dell’età del Ferro.

Una leggenda narra del naufragio delle navi di Pirro presso le secche di Ugento, un tratto di mare insidioso in cui, nei giorni di bassa marea, emerge uno scoglio roccioso a due kilometri dalla costa di Torre Mozza-Marina di Ugento. (4)

 

Lo Zeus di Ugento

Scoperta fortuitamente, nel 1961, sull’acropoli messapica, la statuetta bronzea di Zeus testimonia gli antichi scambi tra cultura greca e cultura indigena. L’artista, dal chiaro manierismo greco arcaico, suggerì un’iconografia ellenistica della divinità messapica: nudo, nell’atto di scagliare col braccio destro una saetta (andata perduta), regge con la mano sinistra un oggetto, purtroppo non pervenuto, plausibilmente un volatile.

La semplicità artistica del nudo è nascosta dalla torsione del corpo (conquista artistica della tarda scultura arcaica greca) e soprattutto dalle fattezze decorative del capo: l’eccellenza dell’artista è dimostrata dalla barba e dai baffi a rilievo, dalla fila di riccioli sulla fronte, dalle trecce corpose e zigrinate che ricadono sul petto e sulla schiena (tipiche dei kouroi greci di VI secolo a.C.). Una corona di foglie d’alloro, poggiante su una benda con fiori, rimanda alla decorazione del capitello dorico della colonna su cui si ergeva la statua. (5)

La statuetta è alta 74 cm, compresa la base. Stilisticamente viene datata al periodo tra 520 e 500 a.C.

Fino a pochi mesi fa è stato esposto al museo archeologico nazionale di Taranto; di recente è ritornato a far parte dei mirabilia ugentini.

Zeus di Ugento

Zeus di Ugento sul capitello

ricostruzione della collocazione della statua di Zeus
Ricostruzione della collocazione della statua di Zeus

Al momento della scoperta era collocato in una cavità roccioso e coperto dal suo capitello. Non si conoscono le ragioni di tale occultamento, è possibile che si trattasse di un episodio anti-ellenistico che investì le comunità di Messapi, Peuceti e Dauni (i 3 popoli della Puglia antica, detta Japigia).

Infatti nel 473 a.C. ci fu una battaglia tra greci di Taranto (aiutati dai greci di Reggio) e Japigi (6): la sconfitta tarantina fu una delle peggiori per una città greca, tanto che lo storico Erodoto parla di phònos Hellenikòs mèghisto, enorme strage di greci. (7)

 

La cripta del crocifisso e della Madonna di Costantinopoli

Percorrendo la strada che da Ugento porta a Casarano, all’altezza del bivio per Melissano si incontra un piccolo edificio, di nuovo allestimento, che porta all’ipogea cripta del Crocifisso. Questo luogo sotterraneo, ricavato dall’estrazione della roccia, è un posto carico di misticismo: scendendo una scalinata si accede alla sala principale, ricca di affreschi parietali che mostrano scene sacre (annunciazione, crocifissione, Cristo Pantocratore, San Nicola) e profane come animali stilizzati (leone, toro) o immaginari (Idra, Grifone), stelle e scudi templari e teutonici sul soffitto.

Cripta del Crocifisso
Cripta del Crocifisso

Cripta del Crocifisso. Annunciazione
Cripta del Crocifisso. Annunciazione

Cripta del Crocifisso. Crocifissione
Cripta del Crocifisso. Crocifissione

Cripta del Crocifisso. Scudi dipinti sul soffitto
Cripta del Crocifisso. Scudi dipinti sulla volta

Il perimetro dell’ipogeo era interessato dalla collocazione di 8 sepolture. La cripta si ritiene una realizzazione di VIII secolo d.C., ascrivibile ad ambiente bizantino ed utilizzato poi, come dimostrano gli scudi degli ordini cavallereschi, fino al periodo delle crociate. L’attuale entrata è ben successiva, di XVII secolo.

 

Note

  • (1) M. BERNO, Salento : luoghi da scoprire, arte, storia, tradizioni, società e cultura, curiosità, p. 153.
  • (2) STRABONE, Geografia, VI, 3.
  • (3) S. TREVISANI, Viaggio nella Puglia archeologica, p. 62.
  • (4) M. BERNO, op. cit.
  • (5) F. D’ANDRIA, I nostri antenati, viaggio nel tempo dei Messapi, p. 41.
  • (6) ARISTOTELE, Politica V, 3, 7; DIODORO SICULO, Biblioteca Storica XI, 52, 1-4.
  • (7) ERODOTO, Storie VII, 169-172.

Bibliografia

Info

Collezione A. Colosso
via Messapica 28
Tel. 0833554843
orario: mar-dom h. 10-12 e 18-20

Museo civico archeologico Salvatore Zecca
via della Zecca 1
Tel. 0833555819
email museo@comune.ugento.le.it
orario: mar-dom h. 10-12 e 18-20

Nota dell’autore

Chi scrive ha visitato Ugento tra 2004 e 2008. Le foto della cripta sono state scattate dallo stesso, le ricostruzioni e gli altri scatti sono tratti dai siti internet citati in bibliografia.

Un pomeriggio a Poggiardo, anzi no, a Vaste!

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Da tempo mi ero ripromesso per qualche ragione che non rammento più di andare a visitare Poggiardo e quel meriggio assolato, che non volevo occupare con impegni ed incombenze varie per nulla allettanti, mi sembrò ideale per mettere in atto il mio proposito e fuggire così da ogni altra occupazione. Lasciai dunque, portandomi appresso la mia indolenza, il mio paese, Copertino, alla volta della mia destinazione con tra le labbra un toscano ammezzato (il mio inseparabile compagno di viaggio) ed in bocca ancora il gusto di un robusto caffé rigorosamente made in Salento preso al mio solito bar prima della partenza.

Dopo più di mezz’ora in auto sulla sempre deserta SS 664 (di questa solitaria strada che corre in mezzo al nulla al centro della nostra penisola dovremo tornarne a parlare prima o poi, io la trovo fantastica e devo confessare che ogni volta che la percorro mi sento come un novello Jack Kerouac maledettamente on the road!) confluii sulla Maglie-Leuca e presi lo svincolo per Poggiardo. Non ricordo più quanta strada feci una volta uscito dallo scorrimento veloce, so per certo invece che appena entrato a Poggiardo decisi di non fermarmi subito nel paese ma proseguire per iniziare la mia visita dalle frazioni. Era mia intenzione infatti fare le cose per bene, ossia con ordinato rigore logistico e completezza, onorando dunque con una visita prima le appendici di questa cittadina per poi potermi dedicare lungamente al cuore di essa.

Ebbene, vi anticipo sin da ora che le cose non andarono affatto come previsto tant’è che ancora oggi, a distanza di due anni o forse tre dal pomeriggio di cui vi parlo, devo ammettere di non aver mai visitato Poggiardo, nonostante che la determinazione con cui avevo messo in atto il mio proposito quel pomeriggio possa avervi condotto a credere il contrario.

Si sa, la vita è bella perché tocca con l’imprevisto, disordina i nostri progetti contaminandoli col l’imprevedibile e ci conduce così a vie che non avremmo altrimenti mai immaginato di percorrere, a strade che non avremmo mai conosciuto, a incontri che non avremmo mai fatto, mai ricordato, mai potuto narrare. Bisogna accogliere gli imprevisti che il caos degli eventi accidentali, erompendo con la sintassi indecifrabile dell’imponderabile e dell’indeterminato nei nostri intenti, ci dona. Il mistico san Giovanni della Croce era solito dire in proposito «per raggiungere il punto che non conosci, devi prendere la strada che non conosci»; è proprio il caos che regala gli accessi alle vie sconosciute che altrimenti secondo le nostre intenzioni non percorreremmo, così è proprio la contingenza casuale degli accadimenti che mi ha regalato gli eventi e le piccole esperienze di cui vi parlerò.

Attraversata dunque per una via esterna la tanto ambita Poggiardo, alla quale potei offrire solo qualche frettoloso sguardo sugli squarci che tra le abitazioni si aprivano verso il centro vero e proprio della cittadina, proseguii per alcuni chilometri, dopo i quali ritrovai un cartello che mi invitava a svoltare a destra, aVaste, la prima delle varie frazioni che nei miei piani avrei dovuto visitare.

reperti messapici nel museo di Vaste

Dopo duecento metri ero già a destinazione. Mi fermai subito perché sulla mia destra vi era un giardinetto pubblico con al centro un baretto ed accanto a questo un pannello informativo che non avrei sperato di trovare, uno di quelli che riportano le mappe del luogo. Parcheggiai e andai prima a prendere un caffé nel bar, dove, oltre al barista, vi erano due signori. Nella completa indifferenza di questi individui nei miei confronti bevvi frettolosamente l’amata bevanda e uscii, appostandomi accanto al cartellone informativo per dare un’occhiata ed orientarmi velocemente.

il “tesoretto” di Vaste

Non c’era da smarrirsi per la verità, ero praticamente quasi già al centro di Vaste, avrei solo dovuto percorrere i duecento o trecento metri di strada che mi separavano dal punto in cui ero per giungere fino ad una piazza che potevo da lì già intravedere e che costituiva tutto il centro vero e proprio. Realizzai che stando così le cose ci avrei impiegato molto poco a visitare quel luogo e avrei così risparmiato tempo per la visita al pezzo forte. Ma questi miei calcoli si rivelarono, come vi ho già anticipato, del tutto errati.

Fu mentre meditavo su queste cose accanto a quel cartellone che, trascinandosi chissà da dove con una pachidermica lentezza, era giunto lì anche un uomo vecchissimo che mi si avvicinò, magro, vestito con panni troppo pesanti per quella calda giornata di primavera e troppo larghi, munito persino di un cappello. Lo salutai, come si usa sempre fare in luoghi così poco affollati, ed egli mi rispose con un lungo quanto criptico monologo fatto di stanche parole biascicate e per me, soprattutto a quel primo impatto, del tutto incomprensibili. Fu così che conobbi Geremia – scoprii molto più tardi il suo nome. Dopo che quello ebbe terminato il suo monologo – nel corso del quale io ero intento solo a commiserare me stesso per l’impiccio di quell’incontro da cui non sapevo come svincolarmi senza essere brusco o maleducato –  fece una pausa di cui stavo per approfittare per congedarmi salutandolo, quando quello mi chiese, stavolta in modo sufficientemente comprensibile per instaurare un dialogo, da dove venissi. Gli risposi e quando egli udì il nome del mio paese sorrise e ricominciò a vomitare la sua tiritera di parole che non riuscivo nuovamente a cogliere. Ne avevo avuto abbastanza, così risalutai e stavolta con fermezza mi portai all’auto, in cui mi precipitai risoluto a spostarmi da lì, senza più prestare ascolto a quel vecchio. Percorsi alla guida quei pochi metri che mi conducevano alla Piazza e potei finalmente dare inizio alla mia visita di Vaste, completamente deserta ed immersa nel sole giallo di quel caldo pomeriggio.

Su un lato della piazza si affacciava un grazioso castello, le cui antiche mura correvano fino a una chiesetta costruita all’angolo che delimitava il centro. I restanti lati della piazza erano costituiti invece dal prospetto di vecchie case che lì si affacciavano con le loro corti antiche, immerse in una quiete silenziosa, talmente silenziosa che mi sentii obbligato a chiudere con garbo il portellone dell’auto cercando di non far troppo sacrilego rumore. Sulla piazza, leggermente rialzata rispetto alla strada che la attraversava e sulla quale avevo parcheggiato la mia rumorosa e sfatta carretta, vi erano nuovamente diversi cartelloni informativi che non mi sarei ancora una volta aspettato di trovare, disposti a costituire un cerchio. Raccontavano la storia di quel luogo, informavano del passato di quella piazza – oggi dedicata a Dante – che un tempo aveva rappresentato il centro cultuale di un insediamento dei Messapi. Sempre lì trovai informazioni sul castello che avevo di fronte, detto palazzo baronale, le cui sale del piano terra erano adibite a museo di archeologia. Capii inoltre, leggendo il contenuto stampato sui pannelli, che la mia visita non sarebbe più stata così breve come avevo creduto perché avrei dovuto riprendere l’auto e spostarmi verso la periferia di Vaste, nelle circostanti campagne, dove avrei trovato secondo quanto era scritto il cosiddetto Parco dei Guerrieri, ossia il parco archeologico che ospitava la ricostruzione delle antiche mura difensive messapiche di quello che fu uno dei centri più attivi e popolosi di questo antico popolo che dell’estremo lembo d’Italia – e nello specifico di Vaste – aveva fatto la sua terra millenni prima di noi. Dalle parti del Parco dei Guerrieri avrei avuto modo di visitare anche i resti di una necropoli paleocristiana costituito da tombe ricavate nella roccia, disseminate intorno ai resti delle strutture delle fondamenta di quattro chiese sovrapposte e oramai distrutte, la più antica delle quali risaliva al V secolo d.C.

Riordinai mentalmente il materiale di tante scoperte che non mi attendevo – in precedenza avevo infatti solo distrattamente visitato il sito internet di Poggiardo e non avevo colto l’importanza e la ricchezza di siti di Vaste – e decisi di cominciare la mia visita dalla chiesetta posta all’angolo della piazza, in attesa che il museo aprisse dato che, leggendo un biglietto apposto sulla porta, avevo dedotto che ero in anticipo e che avrei dovuto attendere ancora un quarto d’ora per potervi entrare.

Misi dunque in atto quanto deciso, non ricordo nulla di quanto vidi nella piccola chiesa fortunatamente aperta e fruibile, evidentemente non mi colpì particolarmente. Quando fui fuori la sorpresa però mi colse: il vecchio Geremia mi si stava avvicinando nuovamente con il suo lentissimo passo, pensate che aveva impiegato tutto quel tempo a percorre le poche centinaia di metri che mi separavano dal punto in cui lo avevo lasciato mezz’ora prima. Capii che non mi sarei liberato tanto facilmente di lui e gli diedi ancora modo di parlare con me: del resto meritava un po’ di considerazione visto che aveva fatto con le sue stanche membra tutto quello sforzo per venirmi appresso. Devo dire che stavolta non fu al principio molto originale, mi chiese infatti nuovamente da dove venissi, ed io educatamente con pazienza gli nominai ancora Copertino.

Pensai che quel minuto vecchietto dovesse essere affetto da morbo di Alzheimer visto che la stessa domanda me l’aveva posta prima, ma è possibile che mi sbagliassi. Probabilmente la verità era che Geremia non disponeva che di quell’unica strategia comunicativa per attaccare bottone con uno sconosciuto ed esprimere così il suo bisogno di contatto con l’altro: purtroppo siamo spesso portati da un pregiudizio contagiante a considerare quasi sempre la vecchiaia di per sé come una fonte di malattia e i vecchi come delle incubatrici di strani disturbi senili, nonostante la lezione di Cicerone col suo De Senectute o i tanti consigli di un Seneca che da secoli – molto prima dell’attuale medicina e dell’odierna psicologia – ci insegnano coi loro saggi che la vecchiaia è solo un processo naturale della vita, con le sue proprie virtù ed i suoi propri limiti, dunque esattamente il contrario di ciò che per definizione è una malattia, la quale è piuttosto un arresto del naturale scorrere dei processi della vita che viene deviata verso ciò che propriamente può dirsi patologico.

la cripta dei SS. Stefano a Vaste

Fui io poi a porgergli una domanda, gli chiesi quanti anni avesse. Geremia iniziò allora uno dei suoi monologhi a cui oramai mi stavo abituando, dal quale però stavolta qualcosa qua e là riuscii a cogliere. Capii che stava lodando la giovinezza che in lui era trascorsa e che ravvedeva in me, mi invitava a suo modo a godere pienamente dei miei anni; cominciò poi a biascicare una specie di filastrocca in rima di cui riuscii a cogliere solo le parole finali, benché egli la ripetesse a manetta: «…correte, venite da Geremia, solo cose buone e tanta cortesia». Intuii in quel modo che Geremia doveva essere il suo nome e quella rima una sorta di slogan pubblicitario ante-litteram che egli aveva in passato usato per decantare chissà quale mercanzia per i mercati del sud. Gli chiesi allora che lavoro avesse fatto nella vita e da un elenco di nomi di frutti con cui mi rispose capii che Geremia doveva essere stato un venditore ambulante di ciò che elencava. Pensai che quello era stato lo stesso mestiere del mio nonno paterno morto prima che io nascessi e fui tentato di chiedergli se lo avesse per caso conosciuto o incontrato per le vie dei mercatini salentini di un tempo. Ma ciò sarebbe valso a pretendere troppo dal mio vecchio compagno, benché stavolta si fosse riusciti a capire qualcosa l’uno dell’altro. Mi accorsi a quel punto che il museo era stato finalmente aperto, mi congedai così con una pacca affettuosa dal mio fortuito Cicerone di un pomeriggio assolato e percorsi i pochi metri che mi separavano dall’ingresso del museo, giunto al quale vi entrai senza ulteriori indugi.

Appena dentro incontrai un giovane seduto dietro una scrivania, evidentemente il guardiano del museo. Ricordo che appena mi scorse questo si diede cura di fingere una professionale indifferenza e un recitato distacco mentre doveva in realtà essere non poco colpito dalla mia presenza: sarò stato l’unico visitatore per quel giorno, o addirittura per quella settimana – ci scommetterei i pochi spiccioli che ho. Quando salutai, al mio accenno di procedere oltre verso le stanze del museo, egli mi chiese con un leggero accenno di disagio e qualche tentennamento nella voce due euro per poter accedere alla visita e dopo che ebbi pagato mi consegnò diligentemente, con un fare da ragioniere meticoloso, un piccolo biglietto di ingresso come ricevuta.

«Bene – pensai – a quanto pare i Messapi sono di casa qui». I Messapi, su questi si sa complessivamente tanto poco che io colmavo queste lacune archeologiche e storiografiche con dei miei personalissimi ricordi: i Messapi allora mi facevano pensare solo a certe sudate bestiali fatte un anno prima con Tamara, una mia amica, artista padovana di origine armena da trent’anni residente nel Salento, tanto cara quanto instancabile (benché ultrasessantenne), con la quale in un pomeriggio d’agosto – ella presa forse dalle prime avvisaglie di un rimbambimento senile ed io, allora ventisettenne, da un rincoglionimento congenito – avevamo traversato come novelli ricercatori per due ore i siti archeologici dell’insediamento messapico di Roca Vecchia sotto una calura che sfidava i quaranta gradi, rischiando una insolazione ed un ulteriore aggravamento delle condizioni già fragili delle nostre strambe menti. Roca Vecchia, che posto meraviglioso però!

Alle abbandonate riserve delle rovine archeologiche, circondate da una lunga e grigia rete di ferro bucata qua e là su cui compaiono ancora ogni tanto dei cartelli affissi chissà quanti anni prima dalla scuola archeologica dell’Università di Lecce, fanno da contorno le scogliere ricche di ripari, grotte e degli anfratti di mar Adriatico più strabilianti che conosca, al di là dei quali all’orizzonte si intravede nelle giornate limpide il profilo delle alture dell’Albania. E non è un caso che proprio a Roca, a coronarne lo splendore, vi sia la cosiddetta Grotta della Poesia, una conca di acqua azzurra che si apre tra gli scogli, in comunicazione col mare tramite gallerie lunghe diverse decine di metri scavate con permanente pazienza dai secoli nella roccia. Ricordo che un mio amico pittore abbastanza anziano e bizzarro anch’egli, si vantava con me di aver dato in gioventù con alcuni amici il nome a questo posto che secondo lui non ne aveva uno e che egli considerò talmente bello da meritarsi proprio quello. Non so se ciò fosse vero o fosse una delle tante panzane del mio pallonaro amabile amico, né so se sulle guide turistiche si accennerà mai a questo suo battesimo, a me però va bene credere che sia andata proprio così, del resto la Grotta della Poesia meriterebbe davvero l’appellativo che la connota proprio per la sua bellezza.

necropoli di VasteRicordo inoltre che ogni volta che mi recavo alla Grotta, durante un’estate trascorsa a lavorare nell’amena località di Torre dell’Orso posta a pochi chilometri da lì, dato l’isolamento e la relativa difficoltà a raggiungere il posto, era facile trovare i lisci massi della scogliera che circondano il luogo affollati di punkabbestia e soprattutto di giovani donne rigorosamente in topless. Non so come mai in quelle occasioni, forse lo splendore del posto, forse la chiarezza cristallina dell’acqua o l’ilarità che sempre circondava il luogo, mi hanno sempre fatto trasmutare fantasticamente le donne dai seni nudi che lì incontravo in delle ninfe che si rinfrescavano lungo i torrenti dell’Arcadia, ed in quei momenti io credevo d’essere davvero un satiro gaudente che si stava ritemprando dopo aver preso parte ad un orgiastico corteo di baccanti.

Abbandoniamo qui la frescura estiva della Grotta della Poesia e le mie fantasie ellenico-classicheggianti di quei giorni al mare ormai andati, dovute forse all’aere intonsa dei fumi di marijuana dei molti punkabbestia presenti in quel luogo più che alla sua poetica bellezza, per tornare al museo di Vaste di cui dicevamo.

Con quella mia lunga e attenta visita alle varie stanze di quella meravigliosa collezione di ritrovamenti messapici – ma anche di epoca romana e medievale – le mie curiosità sui Messapi furono ampiamente ricompensate, i miei interessi per questi nostri avi ne uscirono rinnovati, arricchiti, rigenerati. Questi, da quel giorno, non sono più stati per me il popolo sulle cui ataviche tracce avevo rischiato l’insolazione ed una morte prematura insieme all’amica Tamara, non più soltanto gli uomini che avevano popolato le bellezze delle nostre coste adriatiche dove avevano edificato i primi porti e i primi insediamenti e su cui poi si erano assestati prepotentemente i Romani: quel giorno, in quelle sale illuminate per me soltanto, potei cogliere lo splendore della loro arte, dei loro manufatti e tutta la ricchezza della loro civiltà nei segni e nei lasciti che nei millenni si erano fortunatamente preservati per giungere fino a noi.

Quando uscii dal museo, rinnovando i miei saluti al custode che era rimasto per tutto quel tempo lì dove lo avevo lasciato, mi resi conto che perduto in quell’incanto vi avevo trascorso quasi due ore.

Tutto quel lasso di tempo non aveva però ancora sopraffatto il mansueto Geremia, il quale era lì in paziente attesa, non avendo evidentemente di meglio con cui occupare la sua semplice giornata che attendere me.

Ne fui tuttavia persino lieto, rabbonito e rasserenato come ero da tutto quello splendore appena goduto che mi aveva messo di buon umore e mi ridisponeva di gran lena al contatto con il mondo, così fui io stavolta ad andargli incontro.

Mentre Geremia farfugliava qualcosa, quando gli fui accanto, cominciò a dirigersi lentamente verso un arco ricavato dalle mura del Palazzo Baronale che conduceva alla parte posteriore dell’edificio da cui ero uscito. Mi invitò in tal modo – senza inutili parole – a seguirlo ed io, che iniziavo ormai ad accettare l’idea di dover rinunciare alla visita di Poggiardo, mi avviai con quel vecchio per le vie sconosciute del suo paese. Attraversato l’arco giungemmo in un piccolo ma grazioso giardino molto curato e incastonato tra le alte mura degli edifici baronali. Chiesi a Geremia se quello fosse stato in passato il cortile interno del Palazzo ma egli si limitò a sollevare le spalle e ad aggiungere, fissandomi negli occhi, “Giardino!”. Capii quanto fosse stupido da parte mia cercare di ottenere informazioni di quel tipo da Geremia, il quale con quel suo fare bonario mi aveva fatto sentire come quegli scienziati che mettono sotto i riflettori delle proprie indagini qualcuno e quel qualcuno, lungi e avulso dagli stessi interessi scientifici che animano i primi, non può che considerarli un po’ svitati, e talvolta a ragione, almeno in quel mio caso.

Ci lasciammo il giardino alle spalle e svoltammo a destra in una viuzza tondeggiante sulla quale a un certo punto il mio compagno si fermò e si mise a chiamare a gran voce su un uscio. Pensai che dovesse essere quella la sua abitazione e stavo per andarmene quando da lì uscirono due giovani donne ed una graziosa vecchietta fortemente ricurva su se stessa ed accompagnata da un bastone.

Dalla reazione di quelle compresi che non eravamo a casa di Geremia ma stavamo facendo una visita alla vecchia. Una delle donne, che quando si rivolgeva a Geremia lo faceva in dialetto, si rivolse a me in italiano (come si usa fare talvolta nel Salento con gli sconosciuti, coi quali non si adopera la confidenziale lingua materna) chiedendomi se fossi un volontario! Beh certo, la domanda era pertinente, cosa ci faceva un ragazzo mai visto prima in quel luogo desolato in pieno pomeriggio in compagnia di un vecchio signore un po’ strambo che non era suo parente? Non poteva che essere un volontario di qualche istituto per opere pie o in servizio civile. Risposi il vero, ossia che ero lì solo per visitare il museo ed esplorare un po’ il posto.

Geremia mi sorprese molto per la lucidità che mostrò in quell’occasione. Con quella vecchietta sorridente egli parlava e si esprimeva in modo molto più chiaro e comprensibile di quanto non avesse prima fatto con me, ad un certo punto le mise persino scherzosamente e con evidente tenerezza il suo cappello in testa, ridendo e provocando il riso di tutti. Seppi dalle ragazze che stavo assistendo alla visita che una volta al mese, da tempo immemorabile, Geremia faceva a questa vecchietta, moglie di un suo defunto amico. Pensai che quella sua strabiliante trasformazione era forse dovuta alla forza di un amore impossibile e non consumato che mi piaceva immaginare nel passato tra i due, o magari, chissà, quei vecchi condividevano semplicemente un mondo di ricordi dentro cui a noi altri spettatori era precluso l’ingresso.

A quel punto però dovetti salutare perché ero deciso a proseguire nella scoperta di quei luoghi, fu quella l’ultima volta che vidi Geremia e non credo che lo rivedrò mai più. Percorsi tutto il viale su cui abitava la sua vecchia amica, svoltai a destra due volte e sbucai nuovamente nella piazza del castello, dove avevo lasciato l’auto. La mia destinazione non poteva essere più Poggiardo, benché stesse iniziando a imbrunire dovevo andare a visitare invece, a tutti i costi, quello che nei brani scritti sui pannelli era chiamato il Parco dei Guerrieri e i dintorni di cui vi ho detto: i miei progetti iniziali si erano definitivamente infranti, sgretolandosi contro gli inattesi splendori che mi stava rivelando quella che avevo creduto una frazione cui dedicare al massimo pochi minuti e che mi trattenne invece fino alle ultime luci del giorno.

Quando da lontano scorsi delle grandi figure in bronzo raffiguranti dei guerrieri, posti sui cumuli delle cinte murarie qualche anno prima, per tutto simili nelle forme a quelli dipinti sulle antiche ceramiche che avevo veduto nel museo, capii di essere giunto nel Parco dei Guerrieri.

profili giganteschi di questi antichi difensori della nostra terra, stagliandosi su un orizzonte che andava tingendosi dell’arancio di un malinconico tramonto, mi riempirono di una strana nostalgia in cui riecheggiavano le grida di battaglia delle genti che prima di noi furono, della guerra che da sempre accompagna la storia dell’umanità, i miei pensieri si tingevano del sangue che ha macchiato per molti secoli una terra martoriata ed esposta alle incursioni, si colmavano delle urla disperate di madri e dei pianti dei loro bambini.

Mi crogiolai non so per quanto in questi pensieri fino a quando ripartii per raggiungere un punto del parco posto in altura e accuratamente recintato, dove avrei potuto visitare le restanti meraviglie di quei luoghi.

Il guardiano del parco mi venne incontro prima ancora che avessi fermato l’auto e mi chiese subito se fossi venuto per conto dell’Università che evidentemente inviava lì ogni tanto qualche ricercatore, ero tentato di dirgli di sì per non dirgli la più banale verità, cioè che ero uno sfaticato pirla qualunque venuto per godersi un po’ di sole da quelle parti a me ignote. Ma me ne trattenei, mi limitai a dire che ero lì per interesse personale, e quando egli mi offrì un via di salvataggio chiedendomi nuovamente, sebbene con un po’ di delusione in viso “Ah ho capito, sei insomma uno studente di beni culturali?”- cosa che evidentemente dava ai suoi occhi un senso alla mia visita – mi ancorai a quella scialuppa e dissi «E certo, beni culturali – e incautamente aggiunsi avendoci preso gusto a mentire- indirizzo paesaggistico! Per quello sono qua» e ciò dicendo tiravo fuori la migliore espressione da studente secchione che potessi fare.

Quest’uomo risultò molto dotto e capace di appagare ogni mia curiosità su quel luogo incantevole. Lì vi avevano abitato in primis le tribù messapiche degli Iapigi e a testimoniarne ancora il loro passato vi era una capanna ricostruita recentemente con rigore scientifico dai ricercatori dell’Università di Lecce, ricalcando le tecniche di costruzione di quell’epoca così remota.

Dopo aver visto da vicino la capanna mi feci accompagnare alla cripta basiliana dei Santi Stefani, una delle tante bellissime opere di quei monaci in fuga da Bisanzio, giunti in seguito alle persecuzioni dovute alle lotte iconoclastiche a trovare un approdo nel Salento, la terra che questi antenati bizantini costellarono di tesori ipogei, spesso nascosti, inattesi, sotterranei, scavati a fatica nella roccia che come un ventre materno ha protetto per secoli le loro silenziose preghiere greche.

Le parole del mio dotto accompagnatore, mentre mi erudiva sui dettagli della meravigliosa cripta, interamente scavata nel tufo e adornata di bellissimi affreschi, mi sembravano vagamente familiari; capii il giorno dopo, riguardando il sito ufficiale del comune di Poggiardo, il perché di quella familiarità: molte delle frasi che avevo udito in quell’umido antro erano riportate nello stesso identico modo sul sito. Non che ciò inficiasse ai miei occhi la dedita professionalità di quell’uomo, doveva pur averle estrapolate da qualche fonte quelle nozioni, solo la cosa mi fece sorridere perché egli aveva cercato in tutti i modi di sembrare naturale nella sua esposizione del giorno prima, senza dare per nulla a vedere che stesse ripetendo un copione a memoria; ciò mi fa ricordare quell’uomo anche con maggiore simpatia di quanto non mi avesse ispirato a primo acchito ed in fondo questa mia scoperta successiva lo metteva solo alla pari permettendogli di saldare i conti con me, il finto studente di beni culturali a indirizzo paesaggistico!

Vi sembrerà incredibile ma sappiate che in ogni luogo del Salento in cui la coscienza del valore del nostro passato si è risvegliata e ci si è adoperati per la sua salvaguardia ho sempre trovato dei logorroici ma amabili guardiani o custodi del posto pronti a erudirvi su ogni dettaglio che concerne il tesoro cui siete giunti. È questo certamente un segno del calore del nostro popolo, un calore che a volte vi impedirà di godere in solitudine e silenzio di certi splendori ma vi ripagherà lautamente con una buona e cordiale compagnia; tutto ciò, però, ho il triste sospetto che sia anche il segno della solitudine di questi personaggi tanto desiderosi di parlarvi, di questi uomini il cui compito è custodire un passato che troppo poco gli stessi salentini si recano ad onorare, ad osservare, ad ascoltare.

Mi recai da solo infine a compiere la mia ultima visita di quel giorno, dedicata alla necropoli paleocristiana e alle piccole fosse dei nostri avi che lì avevano trovato sepoltura, tornando con la morte ad una terra che appartiene tanto a loro quanto a noi che ancora oggi la calpestiamo.

Me ne stavo lì placido mentre mi giungeva il profumo di ulivi misto a quello del mare, segno che in linea d’aria le coste di Porto Badisco e Santa Cesarea non erano poi lontane: sentivo chiaramente nell’aria espandersi le essenze marine dei flutti che si stagliavano sulle rive che un tempo Enea aveva calpestato.

In silenzio passeggiai meditabondo ancora un po’ tra quelle antiche pietre cui ero alla fine di quella giornata giunto, pietre su cui copiose lacrime in passato erano cadute. Cadeva intanto anche il sole al di là dell’orizzonte e annunciava il tempo del mio ritorno a casa.

Mi rimisi in auto per l’ultima volta, riaccesi quel che rimaneva del mio compagno di viaggio – il toscano che non avevo potuto terminare venendo – ed aprii il finestrino per permettere al denso fumo che emanava di fuoriuscire.

Da quella fessura la fresca brezza della sera ormai giunta osava ogni tanto affacciarsi e sembrava portare delle note di una musica udibile appena, una melodia ritmata, forse soltanto immaginata, cadenzata da un ritornello che mi pare facesse così : «…venite, correte da Geremia, solo cose buone e tanta cortesia…».

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°3

I misteri dei Messapi rivivono in un libro di Lory Larva

 

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di Stefano Donno

Interessante il volume “Messapia. Terra tra due Mari”, a cura dell’archeologa e giornalista Lory Larva, edito da Paolo Pagliaro Editore.

La casa editrice salentina, “fresca di stampa”, esce con tale pubblicazione proprio mentre serpeggia a queste latitudini un sentimento di necessità per un’idea di autonomia locale, volta alla creazione di una Regione Salento. Ma non è politico l’obiettivo del volume … forse!?

Ad ogni modo si tratta di un lavoro piuttosto corposo, circa 366 pagine, ricco di numerose fotografie a colori, che nell’intenzione dell’autrice vuole essere un esaustivo compendio sull’antica civiltà dei Messapi, popolo misterioso che abitò quello che oggi è il Salento tra il IX e la metà del III secolo a.C.

Ma chi erano veramente i Messapi? Lory Larva scandaglia in profondità le innumerevoli fonti storiche sui Messapi pervenuteci ad oggi, non trascurando analisi concernenti il sistema insediativo messapico, il sistema cultuale rappresentato prodromicamente dal “culto aniconico del pilastro-stele”, e in seguito da cippi iscritti associati a depositi votivi, il sistema della produzione e di quello commerciale tra la Messapia e il mondo greco,

Japigi e Messapi. Quei lontanissimi nostri avi

di Danny Vitale (Gruppo Archeologico Brindisino)

Quanti di noi guardando film come “300”, “Braveheart”, “Il gladiatore”, sin sono lasciati trasportare dalle emozioni parteggiando ed esultando per i protagonisti che per difendere la libertà hanno sacrificato il bene più grande che ogni uomo possiede: la vita.

Un re spartano che con soli 300 uomini (anche se in realtà furono molti di più) riuscì a rallentare l’avanzata dei Persiani così permettendo agli altri “Greci” di prepararsi a respingere l’attacco! Sembrano storie leggendarie frutto della fantasia di un poeta, ma sono fatti realmente accaduti, anche se sono stati sicuramente gonfiati, arricchiti di particolari da storiografi prima, e registi e scenografi ed effetti speciali poi.
Ci sembrano gesta di popoli lontani, roba che si legge su i libri di storia ma in realtà non bisogna andare così lontano, basta guardarci attorno: la nostra terra è intrisa del sangue dei nostri antichi avi cha al pari di Leonida hanno combattuto ed hanno donato la propria vita per difendere l’indipendenza di un etnia e la libertà di ogni singolo uomo.

Vi siete mai chiesti come mai Brindisi, Lecce, Otranto, il territorio barese, pur essendo in linea d’aria a pochi chilometri di distanza dalla Grecia non custodiscano templi e rovine del mondo greco classico?

E’ proprio grazie alla tenacia dei nostri antenati che il Salento e quasi tutta la Puglia hanno mantenuto un’ indipendenza fino alla colonizzazione Romana nel 272 a.c.
Questi uomini coraggiosi venivano chiamati Iapigi, un’ etnia costituita da Messapi (Puglia del sud), Peucezi (Puglia del centro), e Dauni (Puglia del Nord).

I Messapi furono dediti all’agricoltura ed alla pastorizia ma furono soprattutto abili domatori di cavalli, tenaci combattenti a cavallo, arcieri, e persino le legioni romane li vollero al proprio fianco come alleati nella guerra contro i Sanniti (antica popolazione campana).

Purtroppo a causa della scarsità delle fonti storiche sappiamo ben poco sulle origini dei Messapi e degli Iapigi in generale. La prima fonte documentata fu scritta da Esiodo (poeta greco vissuto a cavallo fra l’VIII e il VII secolo a.c.), naturalmente più che di notizie storiche, si tratta di tentativi di legittimare le origini degli Iapigi. Infatti il poeta identifica la derivazione del nome Iapigi

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