Libri| Messapographia sive Historia Messapiae

La Società Storica di Terra d’Otranto sta continuando l’opera di pubblicazione delle fonti e dei documenti inediti, nella sua apposita collana, nella quale ha trovato spazio un inedito di Diego Ferdinando. L’edizione critica della Messapographia sive Historia Messapiae, ms. databile al 1655, è stata recentemente pubblicata da Domenico Urgesi, con la collaborazione di Francesco Scalera.

Mesagne

Si tratta di un volume in formato 31×22, di pagine 550 complessive. Questo il contenuto ovvero il piano dell’opera:

 

Un’opera fondamentale per la cultura storica di Mesagne

Mercoledì 9 settembre 2020 – Castello di Mesagne: si presenta un’opera fondamentale per la cultura storica mesagnese

 

L’inedito codice dal titolo Messapographia sive Historia Messapiae, scritto in latino da Diego Ferdinando attorno al 1655 (ora trascritto e tradotto da Francesco Scalera e Domenico Urgesi) rivela l’identità culturale in età barocca di una piccola città del Mezzogiorno, Mesagne-Messapia, sita nelle propaggini settentrionali del Salento, che allora si chiamava Terra d’Otranto.

Secondo l’Autore, due sono i pilastri fondamentali dell’identità morale e religiosa della piccola comunità: -la mitica fondazione della città da parte del leggendario eroe greco Messapo, primo Re dei Messapi, che avrebbe insediato la propria Reggia a Mesagne; -l’apporto della fede cristiana a Mesagne, da parte del Vescovo Eleuterio e della madre Anzia nel 121 d.C., ed il loro seguente martirio nella città messapica romanizzata.

Nelle 516 pagine del manoscritto rivivono i fasti della presunta capitale dei Messapi, a partire dalle mitiche vicende fondative che rinviano al ciclo Omerico, ai contrasti con i vicini amici Brundusini e i conflitti con i nemici Tarentini, nella resistenza ai Romani e nei rapporti con le imprese di Annibale, fino alle testimonianze epigrafiche di età romana imperiale.

Nella narrazione di Diego Ferdinando, la piccola città messapica risorge continuamente, dopo le devastazioni dei Goti in secolare conflitto con i Bizantini, le incursioni dei Saraceni, le razzie subite dai Francesi e dagli Spagnoli nelle guerre per la conquista del Regno di Napoli. Il regno di Carlo V, infine, determina la discesa di Mesagne dal dominio regale a quello baronale. Sembra spegnersi così, nella mente dell’Autore, l’antico fulgore ancora vivo nei privilegi, ricevuti dai sovrani angioini e aragonesi come premio per la fedeltà a loro riconosciuta dai mesagnesi, eppur rivendicati con orgoglio.

L’opera è stata trascritta con rigorosi criteri filologici, e poi tradotta nel rispetto più fedele possibile alla lettera e allo spirito dell’Autore, da Francesco Scalera e Domenico Urgesi, il quale l’ha corredata di dettagliate note introduttive.

Il volume, di complessive 560 pagine, si avvale delle prefazioni dei proff. Mario Lombardo e Rosario Jurlaro. La perizia grafica di Giuseppe Giordano (dott. in Tecniche Grafologiche) attesta l’autenticità autografa del manoscritto. Gli indici alfabetici delle fonti autoriali del Ferdinando, dei nomi e dei luoghi, completano il corposo volume di grande formato (cm 31x 22 circa).

La presentazione sarà conclusa da Giancarlo Vallone, Prof. Ordinario di “Storia delle istituzioni” – Università del Salento.

Il dipinto barocco dell’Addolorata nel Museo d’Arte Sacra di Mesagne

Mercoledì 10 aprile 2019, alle ore 18:30, presso la chiesa di San Leonardo in Via Santacesaria n. 8 a Mesagne, si terrà un incontro dal titolo “Il dipinto barocco dell’Addolorata nel Museo d’Arte Sacra di Mesagne“.

Introduce il parroco della chiesa matrice don Gianluca Carriero; relazioneranno, Katiuscia Di Rocco, direttore Biblioteca Pubblica Arcivescovile “Annibale De Leo“, Giovanna Bozzi, docente di storia dell’arte e segretaria nazionale “Anisa per l’educazione dell’arte” e Domenico Ble, dottore in storia dell’arte e autore dello studio sulla tela dell’Addolorata. Modera il giornalista Angelo Sconosciuto.
L’incontro è organizzato dal Museo d’Arte Sacra “Cavaliere-Argentiero” e patrocinato dalla Città di Mesagne e dal Sum “Sistema Urbano Museale Mesagne”.

Mattarella, la cagnetta di Mesagne, e l’arcivescovo di Brindisi

di Armando Polito

Può sembrare stravagante o poco serio dedicare un post ad un animale associato ad un alto prelato e qualcuno arriverà perfino a pensare ad una qualche velata allusione alla più alta carica dello Stato, ingannato da una superficiale considerazione della punteggiatura del titolo, in cui le due virgole che racchiudono la locuzione cagnetta di Mesagne attribuiscono alla stessa, in base alle regole grammaticali ancora, nonostante la Buona scuola …,  in vigore, una valenza inequivocabilmente appositiva. Va da sé che l’assenza di virgola dopo Mesagne avrebbe, al contrario, convalidato un’allusione che in altri tempi mi avrebbe forse procurato l’accusa di vilipendio …
La genesi di quanto sto per dire è assolutamente casuale, vale a dire legata occasionalmente ad uno studio, che sarà oggetto di un prossimo post, su Gianfrancesco Maia Materdona, un poeta mesagnese del XVII secolo.

L’unica sua biografia è quella lasciataci da Ortensio De Leo (1712-1791), datata 1770, custodita nella Biblioteca pubblica arcivescovile “Annibale De Leo” a Brindisi (ms. D/4).

Rimase inedita fino al 1974, quando venne pubblicata da Wanda De Nunzio-Schilardi in Annali della facoltà di Magistero dekk’Università di Bari, v. XIII. Qui riproduco, trascrivo e commento direttamente dal manoscritto originale la parte che ci interessa,

da carta 10r  

Si recò finalmente in Mesagne, e quivi nell’anno 1633 provò il dispiacere di essergli morta la sua Cagnolina Bolognese, tutta biancha,

 

carta 10v

biancha, e a lui molto cara, che fe sepelire entro il pariete di un suo giardino di delizie fuori le Mura, al presente detto dell’Impalata posseduto da quel Marchese con i seguenti versi fatti incidere in una bianca lapide, ma per la maggior parte corrosi dal tempo: CANA CANIS CANO. TEGOR HOC SUB MARMORE NOMEN/MATTARELLA MIHI. FELSINA ME GENUIT./LUSTRUM, ET DIMIDIUM VIXI FIDISSIMA CUSTOS./OBLONGO, ET CRISPO VELLERE DIVES ERAM./PARVULA BLANDA FUI. ITALIAM TRANSVECTA PER ORBEM./ET NUMQUA1 DOMINO DISSOCIATA MEO./HIC TUMULUM LACRIMIS DICAT. QUO, DEPRECOR, IBIS/FAC TANTI MEMORES, HOSPES, AMORIS OPUS./FRANCISCUS MAIA MATERDONA HERUS/POSUIT IDIB(US) IULII/MDCXXXIII  

         

Interrompo la trascrizione qui per tradurre l’epigrafe che è in distici elegiaci: Parlo (io) bianca cagnolina. Sono sepolta sotto questo marmo. mi chiamo Mattarella. Sono nata a Bologna. Ho vissuto fedelissima custode per cinque anni e mezzo. Ero dotata di un pelo lungo e riccio. Sono stata piccolina e affettuosa. Portata per l’Italia e per il mondo, mai mi sono separata dal mio padrone. Egli tra le lacrime mi dedica la tomba. Viandante, ti prego, Dovunque andrai, ti prego, fà che tu ricordi questa testimonianza di tanto amore. Il padrone Francesco Maia Materdona pose il 15 luglio 1633. Faccio notare, perché, cone vedremo fra pochissimo, costituisce la pietra dello scandalo, il gioco di parole, espediente privilegiato della letteratura barocca, CANA (aggettivo femminile singolare=bianca), CANO (prima persona singolare dell’indicativo presente di canere= io canto) e CANIS (sostantivo  maschile o femminile, qui femminile=cagnetta).

Riprendo la trascrizione.       

Ciò che poi circa la fine del medesimo secolo diede motivo di giusto sdegno allo zelantissimo Arcivescovo di Brindisi Francesco Ramirez Domenicano, il quale essendosi abbattuto nella suddetta iscrizione, ed avendone letto il primo verso domandò que’ suoi Diocesani, qual significato avesse; ed essendo stato informato, che era il sepolcro di un cane, esclamò in sua lingua spagnola: Cuerno, Cuerno, Cuerno, insultando con allusiva derisione il Cana canis cano. Ma simili trasporti di passione debbono esser condonati alla fantasia di un Poeta, giacché si legge, che il gran Petrarca ebbe ancora una gran

  

da carta 11r

 

gran passione verso di un suo Gatto, che indi morto fù fatto inbalzamare, e così tuttora esiste in una stanza in Arquà villa del Padovano, ove sono le memorie dell’istesso Poeta con i seguenti versi: Etruscus gemino vates exarsit amore./Maximus ignis ego, Laura secundus erat./Quid rides? Divinae illi si gratia formae,/me dignum  eximio fecit amore fides./Si numeros, geniumque sacris dedit illa libellis,/causa ego ne saevis muribus esca forent.

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Arcebam sacro vivens a limine mures,/ne Domini exitio scripta deserta darent./Incutio trepidis eadem defuncta pavorem/et viget exanimi in corpore prisca fides.
L’epigrafe per il gatto del Petrarca fu composta in distici elegiaci dal canonico Antonio Quarenghi (1547-1633) ma il testo trascritto nel manoscritto contiene alcuni errori, come mostra quello che ho trascritto dal monumento in basso riprodotto.

 

Etruscus gemino vates exarsit amore./Maximus ignis ego; Laura secundus erat./Quid rides? Divinae illam si gratia formae/me dignam eximio fecit amante fides./Si numeros geniumque sacris dedit illa libellis,/causa ego ne sævis muribus esca forent. 

Arcebam sacro vivens à limine mures,/ne domini exitio scripta diserta forent./Incutio trepidis eadem defuncta pavorem/et viget exanimi in corpore prisca fides. 

(Il poeta toscano arse di un duplice amore. Il fuoco più grande ero io, Laura il secondo. Che ridi? Se la grazia di una divina bellezza rese lei degna di un esimio amante, me la fedeltà. Se lei ispirò agli scritti ritmi e inventiva io fui il motivo per cui non diventassero cibo per i crudeli topi.

Da viva tenevo lontani i topi dalla sacra soglia perché gli scritti del padrone non fossero abbandonati alla rovina. Io stessa da morta incuto paura a loro ansiosi e l’antica fedeltà è viva nel corpo esanime).

 

Oggi sono proprio soddisfatto, perché son riuscito a rievocare due poeti in modo non convenzionale, cioè mettendo in campo non le loro poetiche o avventati confronti o, peggio ancora, improbabili classifiche, ma il comune amore per gli animali, che, poi, è anche il mio. L’amore per la verità, però, e ancor più la voglia di compensare certe crudeli ingiustizie del destino mi obbligano ad informare il lettore che il tumulo della gatta di Arquà in realtà è una realizzazione dovuta agli inizi del XVII secolo a Girolamo Gabrielli, nuovo proprietario dell’immobile, quando questo era già diventato una specie di museo meta di visitatori. Il Petrarca non ci ha lasciato nessun pensiero riguardante i gatti, ma tutto probabilmente è nato da un affresco di autore anonimo del XIV secolo (dunque coevo al grande poeta) visibile nella Sala dei Giganti della Reggia Carrarese a Padova, ove l’animale acciambellato a destra è stato identificato come un gatto, anche se a me sembra, col muso così allungato, più un cane (dettaglio ingrandito).

 

 E pure la poesia ebbe la sua parte di responsabilità nel consacrare quasi definitivamente quello che per me è un autentico equivoco ispirato da intenti, quelli del Gabrielli,  che con locuzione moderna non avrei difficoltà a definire pubblicità ingannevole. La sua parte di responsabilità, poi, ha Alessandro Tassoni ne La Secchia rapita (prima pubblicazione a Parigi nel 1622), VIII, 33, vv. 5-8: Dove giace colui, nelle cui carte/l’alma fronda del Sol lieta verdeggia;/e dove la sua Gatta in secca spoglia/guarda dai topi ancor la dotta soglia. Va detto, però che proprio un comtemporaneo del Tassoni fa riferimento al tema non senza irriverente ironia: Francesco Driuzzo in una canzone inserita in La casa ed il sepolcro del Petrarca in Arquà, Gattei, Venezia, 1827, p. 67 così poetava: S’ei cantò di un’alma bella/le fattezze e i pregi rari,/perché mai nemica stella/sol vi fa di Laura avari/e mostrate contraffatta/questa secca e sozza gatta?/Colei che dal Troian fu in Ilio tratta,/cambiossi in una vil secchia di legno,/e qui per Laura traformossi in gatta./Perché alcun non pensi male/io vo’ dir che questa gatta/fu quel ciuccio d’animale,/che la parte aveva fatta/di cambiarsi in bella donna:/ma vestita poi di gonna,/visto un topo, l’addentò,/ed in gatta ritornò. E a distanza di più di un secolo  Gaetano Rossi con un sonetto inserito in Lagrime in morte di un gatto, s. n., s. l., 1741, p. 92: Vago, e bello non men, che destro, e forte/gatto fra quanti mai formar Natura/seppe; già un tempo mio diletto, e cura,/or mio cordoglio, or vittima di morte./Poiché sì volle la mia cruda sorte,/gli occhi da quel pianeta, ov’hai sicura/sede, ov’hai premio de la tua bravura,/volgi al mio pianto, e a le ,ie guance smorte;/o a quella almeno di messer Petrarca/gatta, ch’ei pianse al Mondo unica e sola,/lieto t’accoppia, e manda in giù la razza./Morranno intanto in mezzo de la piazza/gli assassini appiccati per la gola,/e a te porrem grande Epitafio, ed Arca.

Il pericolo, però, che la favoletta della gatta di Petrarca continui a rinnovarsi è sempre in agguato, se si pensa che Detlef Bluhm autore tedesco nato nel 1954,  per così dire, monotematico2,  in Il gatto che arrestava i malviventi e altre storie, Corbaccio, Milano, 2015, si spinge ad inventare l’esistenza di una lettera scritta dal Petrarca al Boccaccio una settimana prima di morire, nella quale descrive con dovizia di particolari come la fantomatica gatta sia entrata nella sua vita e vi sia rimasta.

A questo punto il lettore si chiederà se a qualcuno non sarà venuto in mente di darle un nome. Eccolo servito. In Mario Scaffidi Abbate, La gatta. Anatomia di un amore, Meligrana, Tropea, 2014, si leggono a p. 9 questa battute: – E se la chiamassimo Sofonisba?-. -Sofonisba?!-. – Perché no? La gatta del Petrarca si chiamava così, l’abbiamo pure vista, non ti ricordi? -. – Sì, seicento anni fa! -. – Np, non più di dieci, o quindici, ad Arquà, nell’ultima casa del Poeta. Imbalsamata -.

Lucidamente ed amaramente, però, già nel 1846 Niccolò Tommaseo in Ricordi sui colli euganei, s. n. s. l., p. 15 scriveva: La tavola di Giotto che ornò la casa del Petrarca, è perita la signoria Carrarese: ma consoliamoci; la gatta del Petrarca non ha abbandonato il suo posto. E molti di coloro che visitano Arquà non per amore del dolce tuo canto, o Poeta, o dell’ameno soggiorno, ma lo visitano perch’altri l’ha visitato; guarderanno più attentamente alla gatta che ai colli, più alla gatta che ai due terzetti del- l’Alfieri, che sono de’ meglio temprati e più antichi versi ch’abbia la moderna poesia; più alla gatta che al nome di Giorgio Bjron, che senza titolo né altra parola sta confuso fra tanti, e dice più d’ogni lode.

Per fortuna, aggiungo io, restano, finché la Terra ruoterà e la nostra razza sopravviverà, pur nel rischio dell’oblio, le opere e, al di là delle invenzioni, le fonti.  E nel chiudere, ripromettendomi a breve, come ho anticipato, di parlare della cospicua produzione del letterato mesagnese, mi piace, consapevole di autoincludermi in un certo senso nel novero dei superficiali stigmatizzati dal Tommaseo, ricordare che qualcosa resta della tomba di Mattarella in quella che fu contrada Impalata a Mesagne, oggi via Maia Materdona, cioè proprio l’epigrafe, murata dopo il civico 32 all’incrocio con Via Solferino.

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Sarò grato a chiunque invierà un’immagine sostitutiva più leggibile di quella che son riuscito a trarre e ad adattare da Google Maps. Nel frattempo, rubando alla stessa epigrafe immagine e parole finali, invito il viandante che si trovi a passare  su quella via a captare con un po’ di fantasia il disappunto che ancora vi aleggia dell’arciprete Ramirez col suo Cuerno, cuerno, cuerno!, interiezione consona ad un prelato non per il significato letterale dello spagnolo cuerno, che corrisponde al nostro corno, quanto per quello traslato corrispondente al nostro diavolo. E per facilitargli il compito, dopo aver ricordato che  Francesco Ramirez (1648-1715) da Toledo fu arcivescovo di Brindisi dal 1689 al 1697 e di Agrigento dal 1697 fino alla morte e che nella città siciliana fondò il Collegio dei SS. Agostino e Tommaso, riproduco di seguito i due monumenti che ivi gli furono dedicati, uno lapideo, posto nell’ingresso, nel 1722 e uno ligneo, nell’aula di sacra teologia, nel 1726, opera del maestro agrigentino  Onofrio Vicari, recante in cima il suo ritratto ad olio.

 

D(EO)O(PTIMO) M(AXIMO)

iLLUSTR(ISSIM)US ET REVER(ENDISSIM)US D(OMI)NUS S(ACRAE) T(HEOLOGIAE) M(AGISTER) FRA D(OMINUS) FRANCISCUS RAMIREZ/EX ILLUS(TRISSI)MO PRAEDICATORUM ORDINE ARCHIEPISCOPUS BRUNDUSINUS/EPISCOPUS AGRIGENTINUS DOCTRINA ET ELOQUENTIA EXIMIUS INSIGNE HOC/COLLEGIUM SUB SS. AUGUSTINI ET THOMAE AUSPICIIS FUNDAVIT, EREXIT, DOTA/VIT IN EOQ(UE) PUBLICAS CATHEDRAS MATUTINAM SS. CANONUM ET VE/SPERTINAM THEOLOGIAE MORALIS INSTITUIT. ACERRIMUS IMMU/NITATIS ECCLESISTICAE PROPUGNATOR OBIIT ROMAE ANNO DOMINI/MDCCXV AETATIS SUAE 67. COLLEGIUM BENEFACTORI SUO/MONUMENTUM HOC POSUIT DEPUTATIS R(EGIIS) REVER(ENDISSIM)IS DD/ U(TRUSQUE) I(URIS) D(OCTORE) CAN(NONICO) D(OMINO) SALVATORE MARCHESE U(TRIUSQUE) I(URIS) D(OCTORE) ET S(ACRAE) T(HEOLOGIAE) P(ROFESSORE)/CAN(ONICO) D(OMINO) GASPARE SALERNO ET CAN(ONICO) D(OMINO) LAURENTIO/PITACCIOLO/ANNO D(OMI)NI 1722      

(A Dio Ottimo Massimo. L’illustrissimo e reverendissimo signore maestro di sacra teologia Fra Don Franceso Ramirez dell’illustrissimo ordine dei predicatori, arcivescovo di Brindisi, vescovo di Agrigento, esimio per dottrina ed eloquenza, fondò eresse e dotò questo insigne collegio sotto gli auspici dei santi Agostino e Tommaso ed in esso istituì pubbliche cattedre, la mattutina dei sacri canoni, la serale di teologia morale. Acerrimo difensore dell’immunità ecclesiastica, morì a Roma nell’anno del Signore 1715 all’età di 67 anni. Il collegio al suo benefattore pose questo monumento essendo deputati regii i reverendissimi Signori canonico Don Salvatore Marchese dottore in entrambi i diritti, canonico Don Gaspare Salerno dottore di entrambi i diritti e professore di sacra teologia e canonico Don Lorenzo Pitacciolo nell’anno del Signore 1722).

 

In data 28/2/2018 il sig. Emilio Distratis, concretizzando la mia speranza, mi ha fatto pervenire le due foto che seguono (per l’agevole lettura dei dettagli basterà cliccare di sinistro una prima volta e, quando il cursore avrà assunto l’aspetto di una lente, una seconda). Nella prima foto è possibile leggere ciò che resta dell’iscrizione. Il lettore noterà che essa è racchiusa in una cornice che stilisticamente si ripete sulla parete a poca distanza (dettaglio ingrandito nella seconda foto) a delimitare ciò che io credo fosse la parte del monumento alla cagnetta contenente le sue ceneri (quel tempietto centrale ancora leggibileconferisce al tutto l’aspetto e il significato, pur traslato al mondo animale, del classico larario; e qui il possibile riferimento (quasi una “citazione”) a  quanto si è detto a proposito del Petrarca, diventa suggestivo (vedi a seguire la terza immagine comparativa).

 

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1 Errore per numquam.

2 Basta considerare gli altri titoli pubblicati in traduzione italiana sempre da Corbaccio: Impronte di gatto, Corbaccio (2004); La gatta che amava le acciughe, Corbaccio (2007); Tutto quello che vorreste sapere sui gatti (2014); Gatti di lungo corso (2017); I gatti e le loro donne (2017).

Mesagne e la sua Accademia degli Affumicati (5/5)

di Armando Polito

Prima di chiudere con l’Appendice contenente le schede con il nome degli Affumicati e con le informazioni che sono riuscito a reperire,  intendo ringraziare pubblicamente il signor Mimmo Stella per avermi consentito di risolvere un dubbio sorto all’inizio di questo lavoro. La foto di testa, tratta ed adattata da Google Maps mostra la parte iniziale (considerando la numerazione civica) di via Accademia degli Affumicati. Sempre sfruttando la stessa fonte, avevo notato che la parte finale  della stessa via mostrava una colonna con in cima un’immagine, una sorta di medaglione.

Com’è possibile notare, la limitata definizione non consentiva di individuare  senza rischio di equivoci ciò che il medaglione rappresentavam, lasciando in vita il sospetto che, data l’ubicazione, il soggetto potesse essere  proprio lo stemma dell’Accademia, che ho riprodotto nella prima parte di questo lavoro e che qui replico per facilitare al lettore l’esame comparativo.

 

La foto in alta definizione, richiesta tramite un comune amico al sig. Stella e da lui prontamente inviatami con squisita cortesia e di seguito riprodotta, ha detto la parola fine,alla questione.

 

                                           

                                                                      APPENDICE

BISCIOSI

Nell’elenco degli Affumicati compare senza il nome ma con il titolo di baccelliere.

 

BISCIOSI DONATANTONIO

Registrato anche come BISCOSI in alcuni repertori, fu il curatore di Rami di cipresso, overo compositioni funebri in morte della Signora Caterina Ferdinanda. Raccolte dal canonico Donatantonio Bisciosi, e dedicate all’eccellenza del Signor Prencipe di Mesagne, Micheli, Lecce, 1659. Il lettore non si lasci fuorviare da Ferdinanda, che è l’adattamento al femminile del cognome Ferdinando. Caterina, infatti, era figlia del medico mesagnese Diego Ferdinando, figlio, a sua volta,  del più celebre Epifanio. In particolare uno de componimenti è in lode di un pittore, un certo Martucci, esecutore di un ritratto di Caterina qualche mese dopo la sua morte. Del Bisciosi, poi, sono i componimenti  alle pagine 32, 36 e 44. Giacomo Arditi ne La corografia fisica e storica della Probincia di Terra d’Otranto, Stabilimento Tipografico Scipione Ammirato, Lecce, p.  353 ci informa che lasciò inedite le sue prediche quaresimali, molte rime, la versione del Miserere, e un Poema intitolato Concilio Reale contro Messina scritto nel 1676. A proposito di quest’ultima opera aggiungo che il manoscritto autografo è conservato presso la Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi (ms. F/8). Di seguito la carta (1r) con il  frontespizio.

A Mesagne una via è intitolata a Ferdinando Biscosi.

 

BISCIOSI FRANCESCO

        

CARAGLIA  TOMMASO

Arciprete della chiesa collegiata di Mesagne ((Luigi Greco, op. cit., p. 28).

 

FERDINANDO EPIFANIO IUNIOR

Visse dal 1640 al 1717.  Era figlio del medico  Diego e nipote del più famoso  Epifanio senior Di lui resta, manoscritta, l’opera genealogica Delle famiglie meagnesi in quattro volumi, proprietà della famiglia Cavaliere di Mesagne.

 

FERDINANDO GIACOMANTONIO

Fu  cantore della chiesa collegiata di Mesagne (Luigi Greco, Storia di Mesagne in età barocca, v. 3, Schena, Fasano, 2002, p. 28).

 

FERDINANDO GIOVANNI MATTEO

A carta 452v del catasto onciario di Mesagne del 1628 custodito nella Biblioteca Pubblica Arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi  compare un Giovanni Matteo Ferdinando thesoriero.

 

GEOFILO GIUSEPPE

Prima della nascita dell’Accademia degli Affumicati aveva fatto parte di quella dei Confusi. Con questo nome si conoscono due accademie: la prima fondata a Bologna nel 1570, la seconda a Ferrara nel 1623. Per evidenti ragioni cronologiche il nostro dovette far parte di quest’ultima, come si deduce da un riferimento presente nel titolo dell’opera del 1662 tra quelle di seguito elencate, per ciascuna delle quali l’OPAC registra l’esistenza di  due soli esemplari, uno  custodito nella Biblioteca provinciale S. Teresa dei Maschi – De Gemmis a Bari e l’altro nella Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi.   

Discorso overo sillogismo astrologico dell’anno 1661 fabricato sotto il meridiano della fedelissima citta di Lecce. Intorno la mutazione de’ tempi, pioggie, venti, nevi, grandini, e simili, Micheli, Lecce, 1661.

Breve discorso, overo Entimema astrologico dell’eclisse del sole non creduta visibile nell’Europa formato al meridiano della fedelissima citta di Lecce. Nel quale si discorre del moto teorico de’ luminari, e della stella crinita novamente vista nel cielo, Micheli, Lecce, 1661.

Discorso, overo sillogismo astrologico dell’anno 1662 formato sotto il meridiano della fedelissima citta di Napoli. Intorno la mutazione de’ tempi, pioggie, venti, nevi, grandini, e simili, secondo le naturali, e metereologiche qualità, Micheli, Lecce, 1662.

Astrologico sillogismo dell’anno 1663 formato sotto il meridiano della fedelissima citta di Lecce. Intorno la mutazione de’ tempi, pioggie, venti, nevi, grandini, e simili, secondo le naturali, e metereologiche qualita, Micheli, Lecce, 1663. Nel frontespizio compare il titolo di medico e filosofo.

Discursus mathematicus, sive obseruationes astronomicae de nova stella barbata, et caudata visa in coelo in hydruntino horizonte, Micheli, Lecce, 1665. Nel frontespizio compare il titolo di philosophus ac  medicus messapiensis, mathematicae facultatis professor.

Un suo componimento in onore  di Giuseppe Battista è in Epicedi eroici, poesie di Giuseppe Battista, Eredi di Domenico Barbieri, Bologna, 1669, p. 390. Per Giuseppe Battista (Grottaglie 1610- Napoli 1675 ( vedi Armando Polito,  L’eruzione del Vesuvio del 1631 nella poesia di un salentino e di un napoletano, con una sorpresa finale … in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/12/leruzione-del-vesuvio-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano-con-una-sorpresa-finale/.

Nella Vita di Gianfrancesco Maia Materdona di Mesagne, scritta da Ortensio De Leo, manoscritto custodito nella Biblioteca pubblica arcivescovile “Annibale De Leo” di Briondisi a c. 1 v. si legge: Medici ancor, e Filosofi di molto grido furono Daniele, e Giuseppe Geofilo …“.  

 

GEOFILO TOMMASO STEFANO

Una generica via Geofilo è intitolata alla famiglia.

 

NOJA GIOVANNI MARIA

 

PALMITELLA GAETANO

In Luigi Greco, op. cit., p. 298 si legge: Di più sotto l’altare del suffragio si conserva il corpo di S Ottavio martire ridotto in fragmenti e stratto dal cemetero della B. Elena dall’eccellentissimo cardinal Carpegna dato in dono al reverendo d. Giuseppe de Torrettis e da questo al reverendo canonico d. Gaetano Palmitella …

Le carte 6r-6v del bollario custodito nella Biblioteca Pubblica “Annibale De Leo” di Brindisi riportano un atto datato 26 narzi 1728 indirizzato da Andrea Maddalena, arcivescovo della sede apostolica di Brindisi, a Domenico di Ruggiero, diacono della terra di Mesagne, ed avente per oggetto la concessione di canonicato con relativa prebenda presso la chiesa collegiata di Mesagne, posseduto dal sacerdote Gaetano Palmitella, per il quale riceve un posto nel coro e voce in capitolo.

 

RESTA FRANCESCO

 

RESTA LUCANTONIO

Per motivi cronologici non può essere l’omonimo (del quale mi sono occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/08/mesagne-luca-antonio-resta-vescovo-laffumicato/) , prima arciprete di Mesagne e poi, dal 1565, vescovo di Castro, dal 1578 di Nicotera e dal 1582 fino alla morte, avvenuta nel 1597, di Andria. Fu autore di Directorium visitatorum, ac visitandorum cum praxi, et formula generalis visitationis omnium, & quaruncumque ecclesiarum monasteriorum, regularium, monialium, piorum locorum, & personarum, Facciotti, Roma, 1593 (ristampato presso lo stesso editore nel 1599). A lui, dunque, e non all’omonimo degli Affumicati è stata intitolata via Luca Antonio Resta.

 

RINI FRANCESCO PAOLO

 

RINI NICOLA ORONZO

 

RINI ROMANO

 

RINI VALENTINO

Tesoriere della chiesa collegiata di Mesagne (Luigi Greco, op. cit., p. 32). Aggiungo che potrebbe essere il Dottor Fisico Francesco Valentino Rini ricordato da Serafino Montorio, Zodiaco di Maria, Severini, Napoli, 1715, p. 479, ove, nel parlare della chiesa di Santa Maria in Bettelemme, ovvero della Sanità e dell’annesso convento dei Celestini, si riporta la notizia che abitavano quelli Religiosissimi Padri anticamente in un cantone di detta Terra [Mesagne], ed in quel luogo appunto, che era attaccato alle mura di quella, ove oggi sono le Case del Dottor Fisico  Francesco Valentino Rini. 

Va ricordato che Epifanio Ferdinando senior era nato il 2 novembre 1569 da Matteo e da Camilla Rini.

 

THERIO ORAZIO

Therio sembrerebbe un cognome di origine greca (da θηρίον=belva).

 

VERARDI ORONZO

Un Matteo Oronzo Verardi fu vice-sindaco di Mesagne dal 1716 al 1717 (Luigi Greco, op. cit., v. I, p. 157).

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/24/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-15/ 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/27/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-25/ 

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Storia di Mesagne [frammenti] – 1596 circa, di Cataldantonio Mannarino

E’ stato presentato ieri sera il volume, come da programma allegato

 

a cura di Domenico Urgesi

Cataldo Antonio Mannarino

nacque a Taranto nel 1568, da un’importante famiglia, la quale, secondo il contemporaneo medico-filosofo Epifanio Ferdinando (il vecchio), si trasferì a Mesagne negli anni della sua infanzia. Trascorse la giovinezza in questa città, poi si trasferì a Napoli e si laureò in medicina. A Napoli fu introdotto nell’Accademia degli Oziosi dal poeta e amico mesagnese Gianfrancesco Maia Materdona.

Nel 1592, ventiquattrenne, si sposò con la nobile Porfida De Rossi, in Mesagne, territorio la cui feudalità era stata comprata (nel 1591) da Giannantonio Albricci I, nobile commerciante di antica schiatta lombarda.

Nel settembre del 1594 avvenne l’attacco dei turchi a Taranto; Mannarino partecipò alla difesa della sua città natale ed alle trattative di pace; in quell’occasione ebbe confidenza con vari feudatari accorsi a difesa della città, tra cui Alberto I Acquaviva d’Aragona, don Carlo d’Avalos, gli Albricci, Michele Imperiale e molti altri piccoli signorotti e cavalieri (tra cui Pietro Resta di Mesagne).

L’evento gli ispirò l’opera Glorie di guerrieri, e d’amanti in nuova impresa nella città di Taranto succedute, che nel 1596 pubblicò a Napoli. Nella stessa occasione conobbe Giovanni Lorenzo Albricci (figlio di Giannantonio) e lo ammirò per il suo coraggio.

Nel 1596 scrisse buona parte dell’inedito manoscritto, tramandato come “Storia di Mesagne”, che ora viene pubblicato integralmente per la prima volta.

Il manoscritto, dedicato in gran parte proprio al capostipite Albricci I, rimase inedito, forse per la morte dell’Albricci (avvenuta nel 1596); una parte di esso è conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli; ed è quella contenuta in questo volume.

Il Mannarino era già noto ai suoi tempi, per opere letterarie e teatrali che ebbero ampia circolazione:

-Glorie di guerrieri e d’amanti… (Napoli, 1596); esso costituisce una preziosa testimonianza della precoce diffusione del culto di Torquato Tasso in area meridionale.

-Il pastor costante (Bari, 1606), dramma pastorale ambientato nei territori dell’antica città di Taranto. Poiché il libro conteneva molti errori e imprecisioni, l’Autore ripubblicò l’opera nel 1610 a Venezia col nuovo titolo Erminia.

La Susanna, tragedia sacra (Venezia, 1610), incentrata sulla figura della vergine martirizzata sotto Diocleziano. La tragedia fu effettivamente rappresentata nella cittadina di Torre Santa Susanna ed ebbe un’altra rappresentazione a Ruvo di Puglia.

-Le Rime (Napoli, 1617), un compatto canzoniere, organizzato secondo lo stile delle sillogi tardocinquecentesche e del primo Seicento, con interessanti riferimenti a fatti e persone reali.

-La Prefatio alle Centum historiae seu Observationes et casus medici (Venezia, 1621) di Epifanio Ferdinando.

Negli anni successivi alla morte della moglie, avvenuta nel 1614, prese i voti ecclesiastici e fu suddiacono della Collegiata di Mesagne; continuò ad esercitare la professione medica. Si spense nel 1621.

Mannarino_ programma

Mesagne e la sua Accademia degli Affumicati (4/5)

di Armando Polito

 

carta 329v

ben anche nell’Europa tutta tanto dilatata, ed estesa. Il metodico regolamento che vien’osservato, ed il grande vantaggio ed utile che tutto dì dalle Nazioni tutte vien ricavato nelle reciproche conferenze tenute. Inutile ben anche e superfluo dell’introduzzione dell’Accademie seguite ne’ tempi di mezzo, e specialmente di quella57 in tempo dell’imperadore Carlo Magno … 

 

carta 331v

… L’altra che chiamata fà degl’Oscuri, coll’impresa del Sole, che nascosto tròà le nubi vedeasi col motto Et latet, et lucet58, e colle altre che si tralasciano. Quei Accademici Messapi nell’erezzione dell’Accademia da essi fissata, vollero farsi in qualche maniera imitare nel titolo che doveano darli, quello di sopra rapportato degl’Oscuri, assumendo esui quello degl’Affumicati; e per l’impresa, espressero un’acceso fuoco, sopra di cui vedonsi alcule legna di Quercia, dalle quali tramandato ne viene il fumo, col motto Explorat Robora. Virgil. Georg. et P.o Aeneid. Riflettendosi da me sopra59l’enunciato simbolo, e motto, s’hà pensato, che quei dotti Accademici avessero voluto significare che non poco delle di loro forze fidavansi, facendone di quelle la prova, e che forsi60 avessero anche avuto presente, e di mira l’altro verso dello stesso Virgilio nella Georgica 175 lib. I, cioè Suspensis focis explorat robora fumus           

 

carta 332r

sopra di cui da un interprete61 dotto fu ivi notato62 che “Probet an sint optima quod ex eo noscitur, si fumo siccata, rimas non contrahant63“. Dalisto Narsete Pastore Arcade, che scrisse la Vita del Chiarissimo Benedetto Buommattei, che trovasi inserita nella sua nota opera della Lingua Toscana64, nel principio di quella và rapportando li vari onori datili, e trà quei, quello d’essere stato ascritto in varie Accademie, e trà queste in65 quella di Firenze, detta degl’Instancabili, ove il Gran Duca era solito intervenire, nella quale dice il citato Autoreche il Buommattei66 che volle prendere il nome di AFFUMICATO, di cui67 spiegar volendosene spiegare il simbolo disse che dal Fumo nascea il suo operare, riferendo il Fumo alla Gloria che ne ritraea, accoppiata questa ad una lodevole ambizione, che in se stesso concepito avea. Dal nome, dunque68, d’AFFUMICATO dal Buommattei assunto, dedurre io ne voglio, che avendo quei dotti Accademici Messapici nell’erezzione della di loro Accademia avendo anch’essi assunto il titolo degl’Affumicati, collo stesso vollero parimenti dar ad intendere69, il Fumo alla Gloria riferendo, che anche70 per ciò alla stessa gloria drizzati aveano li li loro desideri, e che à quella spiravano; ma qualunque ne fosse stato mai l’oggetto, stimo intanto proprio esporre alla veduta del Lettore l’impronrta della testé descritta Accademia, coi nomi, simboli e motti, che quei Accademici che la componeano assunsero, ricavati dagl’originali atti, che, come di sopra hò detto, sono in mio potere, per esserne nella maggiore intelligenza.      

 

carta 333v

Mi convien’inperò71  premettere, che avendosi da me data alla descritta Impresa dell’Accademia di Mesagne quella dilucidazione, che più m’è sembrata propria72 al di lei simbolo, e convenendomi parimente73 dilucidare le Imprese, simboli, e motti assunti da quei Accademici, che la componeano, che anche saranno qui dietro rapportati, e non essendo stati74 alcuni di quelli,75 espressati con quella chiarezza propria,per ciò76 alla cieca  così si và più tosto77 à far da indovino, che da interprete; per cui giustamente il di sopra citato Scrittore Mons. de Francheville nella detta sua opera Le Siecle de Louis XIV tom. 2 CAP. XXIV parlando di un tal punto degl’Emblemi scrisse, che quando queste non rappresentano e non indicano ciocché la leggenda, ò sia il motto voglia significare, e questo non abbia un senso molto chiaro, e determinato, potendosi in più maniere spiegare, che in tal caso non merita d’essere dilucidato, e spiegato in modo alcuno; eccone le parole: Quand le corps ne78 represente pas ce que la légende signifie, et cette légende n’a pas un sens assez clair, et  assez déterminé, ce qu’on peut expliquer de plusieurs maniéres, ne merite d’ȇtre expliqué d’aucune …79, ed indi soggiunse: Les devises sont par rapport aux inscription, ce que sont des mascarades en comparaison des cérémonies augustes80, indi qualora il Lettore non resterà sodisfatto da quelle dilucidazioni, che le darò, in tal caso ne farà la mia difesa il testé citato scrittore Francese.  

 

 

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57 di quella aggiunto nell’interrigo.

58 E si nasconde e risplende.

59 sopra aggiunto nell’interrigo.

60 Sic.

61 interprete aggiunto nell’interrigo.

62 ivi notato aggiunto nell’interrigo in sostituzione di scritto cancellato.

63 Proverebbe se [i pezzi di legno] sono ottimi, poiché lo si sa da cio, se seccati dal fumo non presentano fenditure.  Non è dato sapere chi sia questo dotto, anche se la frase compare tra le esplicative del lemma explorare nelle edizioni settecentesche del Calepino.

64 Benedetto Buommattei visse dal 1581 al 1647. Scrisse Modi di consecrar le vergini, Pinelli, Venezia, 1622 e della lingua toscana, Pignoni, Firenze, 1643.. L’edizione di quest’ultima opera cui si riferisce il manoscritto è quella uscita per i tipi della Società tipografica de’ classici italiani a Milano nel 1807, dove la vita del Buommatei scritta da Dalisto Narsete occupa le pp. 1-92 del volume I. Il pezzo citato è a p. 54 e suona così: E perché dal fumo nasce il mio operare, meritatamente mi pare di potere aver gloria da questo nome AFFUMICATO. Quanto a Dalisto Narsete dall’edizione della vita del Buommattei uscita per i tipi di Guiducci e Franchi a Firenze nel 1741 a p. XXXXXXII (sic!) si legge: Dalisto Narseate, pseudonimo dell’abate Giovanni Battista Casotti.

65 e trà queste aggiunto nell’interrigo in sostituzione di parole cancellate.

66 Segue un che cancellato.

67 Segue parola cancellata.

68 dunque aggiunto nell’interrigo.

69 parimenti dar ad intendere sovrascitto a parole cancellate.

70 anche seguito da parola cancellata.

71 in barrato.

72 Segue essere cancellato.

73 Segue dei cancellato.

74 stati aggiunto nell’interrigo.

75 Segue parola cancellata.

76 Segue parola cancellata.

77 tosto aggiunto nell’interrigo.

78 Segue parola cancellata.

79 Questa citazione risulta replicata nella nota (A) di carta 348r.

80 I motti sono in rapporto alle iscrizioni ciò che sono le buffonate delle auguste cerimonie. 

Mesagne e la sua Accademia degli Affumicati (3/5)

di Armando Polito

 

carta 342r

stimò proprio di far dire all’istesso Temistocle quasi le medesime espressioni, tendenti alla di lui vita, ed al termine di quella, perché dovranno improprie ed inverisimili riputarsi nella bocca del divisato Accademico, facendo egli stesso elogi alle sue proprie virtù?

XVI Il vagabondo, col motto Qua ducitur32, assunse per il suo Emblema una nube. Dal citato Capaccio vien rapportata la Nube nel numero XXXVI de’ suoi Apologi, ma tutt’altro volle egli colla stessa simbolizzare, che ciocché si ebbe in mira dall’Accademico, che volle intitolarsi Il vagabondo, il quale coll’esposto motto Qua ducitur, altro forse non volle dar ad intendere, ch’egli correa à seconda de’ venti, come la Nube ivi figurata; Qual mai però ne fosse stato il senso figurato, ò sia metaforico, ci vorrebbe un Edipo per indovinarlo.

XVII L’ozioso col motto Nil boni.33 Equivale il contenuto all’Emblema, ed al simbolo esposto nel numero e nella figura XII, colla varietà però che in quella vien’espressato un pezzo di legno inservibile, e soltanto atto per il fuoco; in questa un’animale, di cui non n’apparisce la specie, per essere stato nel suo originale malamente ed informemente designato; mù di qualunque genere, ò specie fosse, certo è però che l’accademico detto L’ozioso, che per suo emblema il volle assumere, altro non volle collo stesso significare, che la mancanza delle proprie sue forze, per poter colle stesse contribuire all’utile, e vantaggio di quella Accademia, di cui egli n’era membro.

XVIII Il tempestoso, col motto Spumat dum premitur.34 Assunse quell’Accademico per sua Impresa due navi in mezzo ad un tempestoso mare, che vengono agitate, e spinte, or quà, or là dai flutti di quello. Il lodato Andrea Alciati nell’emblema quarantatrè, rapporta una nave agitata da una gran tempesta, da cui ne spera la prossima calma, alludendo collo stesso alla pace, e quiete ch’egli sperava dover avvenire alla Repubblica di Milano, sua padria,

 

carta 343v

colla concordia che dovea seguire trà l’Imperadore Carlo V e Francesco I Rè di Francia; onde all’anzidetto Emblema unì il motto Spes proxima35, dicendo ne’ susseguenti versi: 

Innumeris agitur Respublica nostra procellis,

et spes venturae sola salutis adest,

non secus ac Navis medio circum equore venti,

quam rapiunt, salsis iamque satiscit36 aquis.

Quod si Helenae adveniunt lucentia sidera fratres,

amissos animos spes bona restituit.37 

Ogn’un conosce, che se bene [segue parola cancellata] lìemblema dell’Accademico, detto Il tempestoso, quasi corrisponda à quello dell’Alciati, pure diverso ne viene ad essere il di lui chiarimento, anche attenta la diversità dei motti. Di questo se n’è di sopra rapportato il senso letterale, ed allegorico, di quello solamente il letterale; onde incerto rendendosi il metaforico, altro non potrebbe dirsi, di aver voluto quell’Accademico manifestare colli divisati emblema, e motto, la sua natura, colla simiglianza di quella nave in un mar tempestoso, le di cui onde dalla medesima premute, caggionano la schiuma.

XIX Il languido, col motto Halitu reviviscam.38 Per lo scioglimento di un tal’emblema, veramente v’è di bisogno di un Edipo per più raggioni. Vien ivi rappresentato un’animalucio, di cui non n’apparisce la minima chiarezza, per potersene conoscere il genere, e la specie; onde venendo à mancare il senso letterale, viene in conseguenza anche à mancare il metaforico, ed allegorico. La mancanza proviene dall’originale, in cui malamente, e senza l’arte fù quella specie di animale designata, onde confesso ingenuamente di non saperne dello stesso il significato, e dirò con S. Agostino, citato da S. Tomaso: Non est  rubescendum homini confiteri se nescire, quod nescit, ne dum se scire mentitur, nunquam scire mereatur.39 Una tal confessione intendo ripetere per gli altri emblemi, de’ quali al lettore non sembrarà

 

carta 344r

propria la dilucidazione, come sopra data40 [seguono sei righe cancellate]. L’assunto, che quasi senza d’esaminar pria le mie debolissime forze, hò voluto intraprendere, è provenuto [queste due ultime parole nell’interrigo] dall’occasione dell’Accademia in questa mia Padria di Mesagne eretta. Mi si potrebbe addurre [queste quattro parole sovrascritte nell’interrigo e oltre il margine destro del foglio in sostituzione di due parole cancellata, la cui agevole lettura è con quel-)] la nobile dottrina di Seneca,la quale dovrebbe essere impressa nella mente, e memoria d’ogni Scrittore, e cioè Quid stultius quam quae non didiceris, nolle etiam à malis addiscere?41 Mà il difetto sarà supplito dal compatimento del Savio Lettore42…                 

Il testo prosegue con l’esaltazione della funzione educativa per la gioventù assolta dalle accademie.

 

carta 348r (è collocata subito prima della carta 337r, della quale replica in gran parte il contenuto). Perciò trascrivo solo la parte iniziale, poiché la nota (B) serve solo ad aggiungere a margine il n. III (tal quale quello di carta 337r) che qui risulta saltato nel testo principale.

 

Nell’AGGIUNTA da me fatta sopra il CAP. XXI e nella fine della medesima a carta 271 feci parola dell’Accademia che si43 trovava formata in Mesagne, di Regio Assenso munita nell’anno 1671, detta GLI AFFUMIGATI, del di cui titolo44 ne fù fatta quella dilucidazione, che à me parve la più propria, e confacente riguardo all’Emblema, e simbolo ivi rapportati, de’ quali mi riserverò in questo luogo portarne l’Impronta, con quella degli Accademici, che in quel tempo la componevano, con li di loro rispettivi motti, come qui dietro è stato adempito, solo restandomi da darvi quella interpretazione, che à me sembrerà più adattabile a quei di loro simboli, e motti. Ad alcuni45 di quelli, per altro [segue parola cancellata], perché non bene pressati, non mi è riuscito la medesima in mdo alcuno dare, per non ingannarmi. (A) Eccone intanto ciocche m’è sembrato di dire giusta l’ordine de’ numeri in quelli segnato.

(A) (A) Un chiaro scrittore francese (Mons. de Francheville46 nella sua erudita opera Le siecle de Louis XIV tomo 2 cap. XXIV47) parlando degli emblemi così a tal proposito ne scrisse: Quand le corps ne represente pas ce que la légende signifie, et cette légende n’a pas un sens assez clair, et  assez déterminé, ce qu’on peut expliquer de plusieurs maniéres, ne merite d’ȇtre expliqué d’aucune.48   

Riporto di seguito l’aggiunta al cap. XXI.

 

carta 326r

 

DELL’ACCADEMIA DEGL’AFFUMIGATI

Pria dell’anno 1670 v’era in Mesagne, fuor d’ogni dubbio, un’Assemblea, ò sia un’unione di Uomini Letterati,che trà essi loro conferendo sopra quelle materie letterarie, e che in quei tempi conosceansi sufficienti per istruzzzione della gioventù, ne faceano indi delle stesse la raccolta; assocoando in quella di loro Assemblea Letteraria anche Soggetti forastieri. Ad una tal unione, impropeiamente venne dato il titolo di Accademia.

 

carta 327r

Che una tale impropria Accademia ci fosse stata si rileva chiaramente da talune dotte composizioni date alla stampa nell’anno 1659, col titolo RAMI DI CIPRESSO, colle quali vollero attestare il di loro grato animo à Diego Ferdinandi per la morte seguita di Caterina di lui figlia. E volendosi dal Ferdinandi dimostrare quanto le di loro composizioni tendenti49 alla fortezza dell’animo, confortato l’aveano50 con una dotta ode che compose51, Agli Signori Accademici di Mesagne drizzò, fingendo nella stessa d’esserli una Diva apparsa, che nella Fortezza conformar lo volea, la quale trà gli altri esempi che l’addusse, per poterli imitare, dicea52” Di Pericle la fama (sono le parole che sieguono dall’originale trascritte)/D’Anassagora ancor odi le voci/ l’emulo di Platone/il più vecchio Catone/la gran Madre de’ Gracchi ecco ti chiama./Di questi Eroi alta Fortezza ammira,/a tal virtude aspira/tu che à più salda, e più verace fede/dell’Immortalità sei vero erede/” cet. Pensando indi quei Letterati Cittadini, che quelle Unioni, ed Assemblee, più tosto Combricole riputar poteansi, e che impropriamente il nome d’Accademia dato se li foss; per ciò con somma avvedutezza ne diedero le di loro suppliche nel Supremo Consiglio del Collaterale, per la di lei53 erezzione, domandando per l’effetto suddetto il Real Beneplacito, ed assenso, nella maniera seguente.  “Eccellentissimo Signore, molti Gentiluomini Dottori, di Legge Civile, Canonica, di Medicina, Professori di Filosofia, di Teologia, e di altre Scienze supplicando dicono à Vostra Eccellenza come desiderano eriggere un’Accademia in Mesagne, loro Padria, provincia di Lecce54, con tutte le sollennità che in quella si ricercano, nella quale professaranno la Rettorica, con fondament0 di belle lettere, e specialmente il modo in verso in quattro                  

 

carta 328r

quattro idiomi, cioè Greco, Latino, Italiano, e Spagnolo, acciò esercitandosi in essi, e spinti dalla virtuosa emulazione, siano di sollievo a giovani futuri, e di profitto agli presenti in quella saranno. Però supplicano Vostra Eccellenza degnarsi concederli il suo Beneplacito per detta Accademia erigendasotto il titolo degl’ AFFUMICATI55, che lo riceveranno a grazia ut Deus”. La providenza data nel dì 16 Aprile dell’anno 1671 dai Reggenti di quel Collaterale fù di Liceat. Ed essendosi in seguito devenuto alla formazione delle Regole.furono queste in dodici Capi divise, e distinte; fù prefisso il numero degli Uffiziali, che quella nuova Accademia contener dovea,distinti coi titoli di Principe56, di Censori, di Segretario, Ricevitori, Bidelli, cet.  Nel dì 21 Giugno del sopradetto anno 1671, dall’Arciprete dell’Insigne Collegiata di Mesagne don Angelo Spoti ne fù fatta entro della stessa la sollenne apertura della divisata Accademia, ed essendosi indi proceduto all’elezzione degl’Uffiziali della medesima, restarono detti per il Principe il dottor Gian Matteo Ferdinandi, Tesoriere della detta Collegiata; per Censore della Lingua Latina il Canonico don Francesco Roma, e della volgare il nominato Arciprete Spoti; per Segretario il dottor Giuseppe Giofilo, come dagl’atti della detta elezzione e dag’atti in seguito formati per le susseguenti adunanze tenute, hò io rilevato, e che in mio potere sono. Inutile e superfluo sarebbe, se io ridir volessi, e ripetere ciocché da molti Autori, pur troppo chiari per la di loro vasta erudizione è stato scritto toccante la propria, ed antichissima origine dell’Accademia, la sua etimologia, li progressi, ed aumenti avuti, e come sin’à tempi nostri stessi abbia non solo nella nostra Italia, mà

 

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32 Per dove viene condotto.

33 Nulla di buono.

34 Spumeggia mentre è pressato.

35 La speranza è vicinissima.

36 Errore per fatiscit.

37 Il nostro stato è agitato da innumerevoli tempeste e c’è la sola speranza di una futura salvezza, non diversamente da una nave che i venti assalgono da tutte le parti in mezzo al mare e già è in difficoltà nelle acque salate. Perché se sopraggiungono i lucenti astri fratelli di Elena [nome di una stella presEnte in Plinio, Naturalis historia, II, 101], la buona speranza rincuora gli animi smarriti.

38 Con un soffio rivivrò.

39 Non dev’essere per l’uomo motivo di vergogna il confessare di non sapere ciò che non sa, affinché,non meriti di non sapere mai mentre mentendo dice di sapere.

40 Seguono alcune righe cancellate,

41 Che c’è di più stolto del non aver appreso,  del non volere anche apprendere dalle venture?

42 -to del Savio lettore aggiunto nell’interrigo.

43 Aggiunto nell’interrigo.

44 di e titolo aggiunti nell’interrigo.

45 Ad alcuni aggiunto nell’interrigo.

46 Joseph Du Fresne de Francheville (1704-1781). In realtà l’autore dell’opera subito dopo ricordata è Voltaire e Joseph Du Fresne de Francheville, che era consigliere del re e membro dell’Accademia reale di scienze e belle lettere di Prussia, ne curò la pubblicazione per i tipi di C. F. Henning a Berlino nel 1751.

47 In realtà il capitolo è il XXV.

48 Quando l’oggetto non rappresenta quello che il motto significa e questo motto non ha un senso assai chiaro e assai determinato, ma che può essere spiegato in vari modi, non merita di essere spiegato da qualcuno.

49 tendenti aggiunto nell’interrigo.

50 l’aveano aggiunto nell’interrigo.

51 compose aggiunto nell’interrigo.

52 dicea aggiunto nell’interrigo in sostituzione di un dire che si legge nel rigo sottostante con la sillaba finale cancellata.

53 di lei aggiunto nell’interrigo.

54 La provincia di Brindisi, alla quale Mesagne attualmente appartiene, fu istituita nel 1927.

55 Altrove sempre AFFUMIGATI.

56 Non ci sono precisazioni sulle sue funzioni, ma è agevole immaginare che corrispondessero a quelle che nell’Arcadia saranno esercitate dal custode, che, eletto a scrutinio segreto, per quattro anni  presiedeva le assemblee, nominava un colleggio di  dodici vicecustodi (la metà di loro veniva sostituita ogni anno), due sottocustodi con funzioni di cancellieri e un vicario o protocustode col compito di sostituirlo in sua assenza.

 

 

Mesagne e la sua Accademia degli Affumicati (2/5)

di Armando Polito

Alla carta 336v bianca segue la 337r, dove inizia il commento ai dati delle carte precedenti.

I L’offuscato,col motto Post nubila Phoebus11. Volle forse quel dotto Accademico colle Nuvole, che dileguate vengono dal Sole, ivi espressate, alludere all’utile e vantaggio di quella Accademia, la12 quale  faceva dileguare l’ignoranza, che in quel tempo eravi.

II L’oscuro, col motto Prope micabit.13 Contiene l’emblema una lucerna ardente; coll’espressato motto si volle alludere come da quell’Accademia, ed assemblea di quell’illuminati soggetti, che la componeano, ne ricevea maggior luce, ed utile chi l’era vicino, e più d’appresso. (B)14         

III L’oppresso, col motto Latior dum premor15. Non se li può à quel simbolo da me dare veruna interpretazione dà che dello stesso non se ne distingue il contenuto.

IV L’imperfetto, col motto Labore perfectio.16 Si volle nella figura ivi espressata d’una Ruota attinente all’arte di un Vasaio, sopra di cui vedesi unvaso di creta alludere [parola aggiunta nell’interrigo] come colla fatiga, e collo studio si puoi pervenire all’intelligenza di quelle scienze che imperfettamente si sanno, alludendosi [segue una parola cancellata] anche all’utile, e vantaggio, che ne deriva dalla frequenza delle assemblee accademiche.

V Il volubile, col motto Motus est vita viventi.17 Che colla Banderuola posta sopra di una torre,s’abbia voluto simbolizzare il moto e la volubilità, si capisce benissimo, non che il motto espressato, che viene ad essere uniforma à quanto fù scritto dal Romano Oratore I.Tusc. Cap. 23: Quod animatum est, id motu cietur interiori; mà qual mai ne fosse stato l’oggetto, ed à qual cosa quelle parole, debbansi riferire, ingenuamente confesso di non capirlo.     

 

carta 338r

VI L’irresoluto, col motto Non nisi igne18. La figura che ivi si vede sembra un lambicco, da cui colla forza del fuoco vien tratto lo spirito del liquore contenuto in quel vaso. Si volle nello stesso simbolizzare che in quelle Accademiche assemblee tutto ciòcche diceasi, e proponeasi, veniva con ogni esattezza, e scrutinio esaminato, e discusso, adattandosi al noto proverbio Passar per lambicco.

VII L’indeterminato col motto Quo me vertam nescio.19 La figura ivi espressata di un’uomo in piedi sopra una strada; vedonsi li quattro principali venti che dai quattro lati della medesima gahliardamente soffiano. Con quell’emblema chi non vede, che s’abbia voluto alludere alla forza delle raggioni, che da quei Accademici adduceansi sopra dei problemi, che da quel Principe venivano loro proposti per lo scioglimento? Le quali essendo tutte egualmente forti, e convincenti per ciò indeterminato trovavasi a quali di quelle dovea appigliarsi? (A) 

VIII Il variabile col motto Alieno vultu.20 Vedesi in questa impresa uno specchio. Alcuni dotti scrittori, che sopra l’Imprese anno parlato, sono stati di sentimento, che le medesime esser debbono non troppo chiare, ne troppo oscure, essendo stato il fine, per cui introdotte furono, di significare con diletto, e vivamente di una cosa: onde l’oscurità  quando è poco, può con faciltà aiutare l’intelletto; così all’incontro quando è molta, lo stanca, e caggiona più tosto noia, ed essendo così dovrebbe dirsi più tosto Enimma, che altro non significa,che parlar oscuro, come dottamente ne scrisse Monsignor Paolo Aresi vescovo di Tortona, nella sua Opera dell’Imprese sacre l. 121, e rapportando quanto fù scritto dal Bargagli, sopra l’Impresa continente certi mazzi di carte, poste nelle fiamme, attorno alle quali leggevasi il motto ARDORIS ROGUS22, e che per potersene esprimere il proprio significato disse il citato Bargagli, che bisognava di scrivere sopra quelle

(A) il Ch. And[rea] Alciati nell’Emblema V[III]23 volendo additarsi la natur[a] di coloro che, irresoluti eD indeterminati quasi sempre sono a qual partito appigliarsi, quell’Emblema egli l’esprimè alla figura del trivio di mercurio sopra di cui il dotto Claudio Averroe spiegando e dilucidando la parola “In trivio” dice: Ii dicuntur versati in trivio, qui in deliberando de re aliqua, sunt suspensi et anxii.24 Onde più uniforme sarebbesi da quell’Accademico il divisato Emblema, sempre che con quell’espresso altro non s’avesse voluto indicare.      

 

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carte gettate al fuoco la nota, cioé Lettere di Amore, per poterle distinguere da altre carte, e scritture, che altre cose contener poteano. Quanto di sopra hò notato, potrebbe adattarsi all’impresa, poco prima addotta, dello specchio, col motto alieno vultu, che l’Accademico volle nominarsi il Variabile; si capisce benissimo che abbia voluto addattarsi allo specchio, il quale se bene on se stesso non sia egli variabile, varia però à noi trasmette l’imagine dgli oggetti che se li presentano successivamente, avendone voluto dedurre la sua incostanza, e varietà nella scelta delle raggioni, che in quell’Accademia venivano proposte sopra dei problemi. Ma per le parole Alieno vultu? Potrebbe più giustamente quel motto riferirsi ad una maschera, che al divisato specchio.

IX L’immaturo col motto Omnia cum tempore.25 Vien’in quella impronta simbolizzato un pomo acerbo. Si sà che ohni frutto immaturo, rendesi col tempo maturo. Si volle collo stesso alludere à alcuni Neofiti, li quali ammessi in quell’Accademia, aveano l’audacia di entrare nelle discussioni, ed arringhi, che nella medesima teneansi.  Si potrebbe parimenti quel motto riferire à quelle questioni problematiche, le quali non ben digerite, ed immature, indi col tempo dilucidate venivano. 

X L’inaridito col motto Combusta reviviscunt.26 Vedesi l’albero della Palma, in parte abbrugiato, ed in parte verdeggiante. Si vollero simbolizzare con l’esposto motto, e colla Impresa della Palma le scienze, che un tempo in Mesagne fiorirono, le quali bene indi poste nell’oblio, e quasi seppellite, pure ritornate alla luce, ed ad una nuova vita, mercè dell’Accademia introdotta, essendo l’albero della Palma caratteristico di Mesagne, facendone la propria Impresa, come nell’esposta MESSAPOGRAPHIA è stato dimostrato; potrebbesi per ciò anche quel simbolo riferire alle di lei vicende passate, cioè alle sofferte destruzioni, ed al risorgimento indi avutone. 

XI Il ventoso col motto Repercussus extollor.27 Un pallone

 

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mandato in alto. Il citato Monsignor Aresi nel lib. 2 nelli capitoli X e XIII fece parola del pallone mandato in alto colli rispettivi motti: Per te surgo Concussus surg, che equivagliono à quello di sopra esposto, soggiunguendo il citato scrittore à questo, che fosse stata l’impresa dell’Almirante di Chabod significante Per lo ridire delle azzioni, che si veggono fare alle loro figure, come relevasi dalla pag. 52 loc. cit. 

XII L’inabile col motto Ad fabrilia ineptus.28 Viene nell’emblema espressato un pezzo di legno, posto ak fuoco, volendosi collo stesso significare essere quello inservibile all’Artefice. L’Accademico, che volle dirsi L’inabile, volle per effetto di sua umilt far presente all’assemblea,ed à quei dotti Accademici che la componeano, che sebbene in quella fosse stato annoverato, pure inabile egli riputavasi à poter produrre colle sue forze cosa di buono.

XIII Il simulato col motto Non fidas.29 Espressata vedesi in quella impresa una nave immezzo al mare, che stà in calma. Il di sopra citato Monsignor Aresi nella divisata sua opera, appoggiato sull’autorità del Bargagli, di Giovio, del Ruscelli, e di altri scrittori dice, che due sensi devonsi ritrovare nella dilucidazione delle Imprese, uno letterale, lìaltro metaforico ò allegorico, adducendo l’esempio dell’Impresa del Sole, col motto Non mutuata luce, di cui portandone la dilucidazione dice che il senso letterale sia, che il Sole hà luce da se, e che non la prenda da altri, come la Luna e le Stelle; il metaforico sia, che quel Principe, oer cui quell’Impresa fù fatta, hà la sapienza, e ricchezze da se, e non da altri. Ciò premesso, per lo spiegamento dell’esposto motto, Non fidas, facile rendesi lo scioglimento del senso letterale, giacché ugn’uno sà, non devesi all’incostante mare fidare, non ostante che in una perfettissima forma; mà il senso metaforico ove mai s’asconde? Il nome di quell’Accademico assunto di Simulato, se bene nel senso letterales si riferisca al

 

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mare, quando dimostra essere in calma, pure nel senso metaforico, mal si adatta allo stesso Accademico, non dovendosi presumere, che abbia voluto manifestare col medesimo l’interno suo carattere, di essere nell’apparenza quieto, e pacifico, e nel di dentro maligno, onde giustamente potrà dirsi un Enimma.

XIV Segue Il tormentato, col motto Purgatur, non comburitur.30 Ciocchè nel di lui Emblema si vede, abbenché non sia con chiarezza espressato, potrebbe riferirsi all’oro, ò qualche altro metallo simile, che nel crogiuolo, si purifica, ma non s’abbrugia  

XV Il cadente, col motto Lucet et luget.31 Ci rappresenta l’impresa un candeliere colla candela acces. Una simile ne viene rapportata dal Capaccio ne’ suoi Apologi, che viene ad essere la sessanta [segue parola cancellata], volendo con la stessa alludere che Non il morire, il morir male è vergogna, facendovi li seguenti versi:

 

Era già per morir al verde giunta

la candela e morendo

raddoppiava la luce à maggior possa

e fugli detto perché ciò facesse?

Perché (diss’ella) l’onorata morte

ai celesti splendor fà più spedita

e onora al doppio la passata vita.

 

L’immortal Metastasio nella sua drammatica opera del Temistocle, seguendo quanto dal di sopra citato Autore fù scritto, anch’egli fà dire allo stesso Sia luminoso il fine del viver mio,qual moribonda face scintillando s’estingua, cet. Per la dilucidezza intanto del motto Lucet, et luget, credo che possa adattarsi quanto dal sudetto Capaccio fù scritto riguardo all’emblema della candela accesa, che dà luce maggiore [sovrascritto nell’interrigo in sostituzione di parola cancellata] nell’atto di spegnersi [seguono alcune parole cancellate]. Il senso letterale non hà bisogno di altra maggior chiarezza; non così però il metaforico, mentre volendosi questo riferire al medesimo Accademico, che si denominò Il cadente, sembra inverisimile, ch’egli stando già per finir li suoi giorni, avesse voluto far intendere, che più luminoso sarebbe il suo fine. Mà qualunque stata mai fosse la di lui mira, io dico, che se il lodato Metastasio 

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/24/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-15/

Per la terza a parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/01/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-35/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/06/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-45/           

Per la quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/13/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-55/  

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11 Dopo le nubi il sole.

12  la aggiunto nell’interrigo.

13 Brillerà vicino.

14 A differenza di (A) non è una nota ma corrisponde al n. III che è stato collocato, dopo che chi copiava si è accorti di averlo saltato, nel margine sinistro del foglio.

15 Più ampio mentre sono premuto.

16 Con la fatica la perfezione.

17 Il moto è vita per chi vive.

18 Non se non col fuoco.

19 Non so dove io mi diriga.

20 Con volto estraneo.

21 Opera (titolo Emblemata) uscita per i tipi dell’erede di Pacifico Pontio e Battista Viccaglia a Milano nel 1625.

22 Rogo dell’ardore.

23 Anfrea Alciati (1452-1550) fu uno dei maggiori eruditi del secolo XVI; oltre ad Emblemata pubblicò Digestorum libri XII (1527), De formula romani Imperii libri duo (1559) e De plautinorum carminum ratione libellus (1568).

24 Si dice che si trovano in un trivio coloro che nel dover prendere una decisione su qualche cosa sono indecisi e ansiosi.

25 Ogni cosa a suo tempo.

26 Le cose bruciate riverdeggiano.

27 Abbattuto mi risollevo.

28 Inadatto ai lavori manuali.

29 Non fidarti.

30 Si purifica, non si brucia.

31 Risplende e piange.

Mesagne e la sua Accademia degli Affumicati (1/5)

di Armando Polito

C’è da meravigliarsi se la superficialità (indotta dalla velocità, non sempre giustificata, cui i tempi attuali quasi obbligano ognuno di noi) connessa con la scarsa considerazione in cui il passato è tenuto da una società totalmente immersa nel presente, indurrà qualcuno, neppure tanto giovane,  imbattutosi nelle indicazione viaria sottostante (immagine tratta ed adattata da GoogleMaps) a manifestare la sua meraviglia esclamando, magari in versi: – Strano, ho percorso tutta questa via, ma non c’è ombra di salumeria! -.

Non m’illudo certo che queste note elimineranno per sempre il rischio e sarebbe già tanto se, veicolate dalla rete, lo riducessero sensibilmente.

Preliminarmente giova ricordare che accademia è dal greco Ἀκαδήμεια  (leggi Acadèmeia), che, secondo Teognide1 e Plutarco2deriverebbe dal nome dell’eroe eponimo Ἀκάδημος (leggi Acàdemos). Originariamente era il nome proprio della scuola filosofica fondata da Platone, poi fu il nome comune indicante un’associazione di studiosi creata per promuovere le lettere, le arti o le scienze oppure una scuola superiore (di indirizzo artistico o militare). L’aggettivo derivato, accademico, indica genericamente un docente universitario ma anche, con accezione negativa, un’esibizione virtuosistica fine a se stessa,

Superfluo far notare il carattere elitario di tale istituzione nelle manifestazioni appena ricordate, per cui, soprattutto in passato, gli adepti erano persone di elevata cultura, provenienti di solito da famiglia di ceto altrettanto elevato, molto spesso nobiliare.

Tra le più famose accademie di cui il lettore conoscerà almeno il nome vanno citate la Crusca (sorta a Firenze nel secolo XVI) e l’Arcadia (sorta a Roma nel 1690). Quest’ultima in particolare ebbe numerosissime diramazioni locali, dette colonie. Quella chiamata Sebezia (dal fiume Sebeto) comprendeva i letterati meridionali, non pochi salentini, e tra questi il neretino Antonio Caraccio.3 Ogni pastore (così si chiamavano i membri dell’Arcadia) assumeva uno pseudonimo, di regola di origine greca; così quello del Caraccio era Lacone Cromizio. Tuttavia già nei secoli precedenti erano sorte accademie locali: per esempio, per Nardò il Tafuric’informa che il duca Belisario Acquaviva provvide a rinnovare l’estinta Accademia del Lauro e che dopo la morte del duca il vescovo Cesare Bovio dette nel 1571 l’incarico di rinnovarla a Scipione Puzzovivo, il quale mutò il nome Accademia del Lauro in Accademia degli Infimi. In questo dettaglio onomastico c’è già la tendenza a quella che potrebbe definirsi dichiarazione di umiltà attraverso l’ironia, quasi un omaggio al ben noto principio socratico. E così, per restare a Nardò,  dal Lauro agli Infimi e da questi, nel 1724, agli Infimi rinnovati. Così era stato per l’Accademia degli Intronati nata a Siena tra il 1525 e il 1527, per quella degli Insensati nata a Perugia nel 1561, per quella degli Oscuri nata a Lucca nel 1585, per quella dei Sepolti a Volterra nel 1597, per quella degli Erranti a Brescia nel 1619 e, ancora a Siena, per quella dei Rozzi nel 1665 (già Congrega dal 1531). Curiosamente …  contraddittoria sembra l’Accademia degli Infecondi, dal momento che fu il nome di due accademie distinte, una fondata a Roma nel 1613, l’altra a Prato nel 1715.

Sull’omonimia, poi, emblematico è il caso dei Trasformati, nome sotto il quale si registrano ben 5 accademie diverse: a Milano intorno al 1550, a Lecce intorno al 1558, a Firenze nel 1578, a Noto intorno al 1672, a Milano nel 1743, sulle fondamenta dell’omonima Accademia milanese del Cinquecento.

Non fa eccezione a Mesagne l’Accademia degli Affumicati riconosciuta ufficialmente nel 1671 ma nata prima di tale data.5 Non sempre delle accademie si hanno notizie dettagliate e la stessa produzione degli associati raramente è stata oggetto di pubblicazione e molto spesso qualche contributo di qualcuno di loro si trova inglobato in raccolte varie, il che non rende agevole, a parte la loro non facile reperibiltà, una ricerca mirata.

Tra l’altro, nonostante la fantasia mostrata dai fondatori nel dare il nome alla loro creatura, era tutt’altro che improbabile che il nome non fosse stato già usato da altri e non sempre, essendo incerta la data di nascita di certe accademie, è possibile stabilirne la priorità d’assunzione e d’uso.

Così è pure per l’Accademia degli Affumicati. Intanto va detto che, a quanto pare, non fu l’unica con quel nome, visto che in Rime degli Ereini di Palermo, Bernabò, Roma, 1734, tomo I, a p. X si legge: In Modica v’ha memoria, che vi fu l’Accademia degli Affumicati fondata intorno al 1673, ch’elesse per impresa un Sciame d’api affumicati presso l’Alveare. L’informazione è ribadita da Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Bologna, Pisarri, 1739, p. 81, mentre a p. 93 dello stesso volume si legge: Fiorivano in questo luogo [Policastro] fin dal secolo scorso gli Affumicati; dell’accademia di Policastro, però aveva già dato notizia  Elia De Amato in Pantopologia calabra, Mosca Napoli, 1725, p. 319: Ex Urbis Accademia, degli Affumigati, vulgò dicta, multi exiere viri …6  Inoltre in Biblioteca Picena, tomo I, Quercetti, Osimo, 1790, a p. 17, a proposito di Francesco Abondanzieri (1708-1763) di Rocca Contrada7 si legge: Ritornato in Padria, promosse ivi gli studi ameni, riassumendo gli esercizi dell’Accademia degli Affumigati, già da molti anni intermessi; insomma, un’accademia marchigiana si aggiunge, con lo stesso nome, alla siciliana ed alla calabrese prima citate.

Degli Affumicati di Mesagne, poi, ben poco sapremmo senza le notizie lasciateci da Antonio Mavaro (1725-1812), giurista e storico locale mesagnese, in un manoscritto (ms. M/4) custodIto nella Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi8. Ho ritenuto opportuno, perciò, riprodurre e trascrivere le parti testuali riguardanti l’accademia, nonché i disegni,  e di commentare le une e gli altri con note in calce atte a far comprendere anche al lettore comune la vivacità culturale di quell’epoca.

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Il motto (Explorat robora) è tratto del verso 175 delle Georgiche di Virgilio (Virg. Georg.), laddove si parla della costruzione dei pezzi dell’aratro. Riporto, per risparmiarmi la descrizione dell’immagine centrale,  i vv. 173-175: Caeditur et tilia ante iugo levis altaque fagus/stivaque, quae currus a tergo torqueat imos,/et suspensa focis explorat robora fumus (Prima vengono tagliati per il giogo il leggero tiglio e l’alto faggio e il manico che da dietro guidi i profondi solchi; e il fumo saggia la solidità dei pezzi sospesi sul focolare).

Per quanto riguarda et I.° Aeneid. (e [libro] I dell’Eneide)va detto intanto che la locuzione explorat robora non è presente nell’Eneide. Tuttavia il verbo explorare ricorre due volte nel libro I dell’Eneide, cioè al v. 779 e al v. 30710 e, dunque, il riferimento è, metaforicamente concettuale, ai due passi relativi.

 

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La tabella che segue sintetizza i dati presenti nella carta precedente. Il lettore troverà notizie sui personaggi di questa tabella e della successiva nell’Appendice che costituirà l’ultima parte di questo lavoro, dove il loro nome comparirà in ordine alfabetico. Sarò grato a chiunque fornirà, a pubblicazione integralmente avvenuta, integrazioni, precisazioni o correzioni.

 


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Eccone la trascrizione in tabella.

6

 

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/27/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-25/

Per la terzaa parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/01/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-35/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/06/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-45/       

Per la quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/13/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-55/     

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1 992.

2 Theseus, XXXXII, 5.

3 Armando Polito, Antonio Caraccio, l’Arcade di Nardò, in Nardò e i suoi.Studi in onore di Totò Bonuso, a cura di Francesco Gaballo, Fondazione Terra d’Otranto, Nardò, 2015, pp. 41-66.

4 Giovanni Bernardino Tafuri nel capitolo VIII del libro I della sua opera Dell’origine, sito, ed antichità della città di Nardò, in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, e Giovanni Bernardino di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1848, v. I, p.p. 468-469. I primi sei capitoli del libro I erano usciti in Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, a cura di Angelo Calogerà, tomo XI, Zane,Venezia, 1735. Il curatore lì alla fine avverte che La continuazione di questo Primo Libro si darà nel Tomo seguente. Il che non avvenne.

5 In Pietro Marti, Movimento intellettuale nel Salento, nel secolo XVII, in Fede: rivista quindicinale d’Arte e di Cultura, anno III, n. 5 (15 marzo 1925) in nota a p. 69 si legge che sorse il 1638, per opera di Giovan Matteo Epifanio, che ne fu più volte Principe.

6 Dall’accademia della città [Policastro], detta volgarmente degli Affumicati, uscirono molti uomini …

7 Oggi Arcevia, in provincia di Ancona.

8 Integralmente leggibile all’indirizzo http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?teca=&id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACNMD0000209601

9  Vv. 77-78: Aeolus haec contra: – Tuus, o regina, quid optes/explorare labor; mihi iussa capessere fas est – (Eolo in risposta: – O regina, è tua fatica cercare di scoprire ciò che vuoi, mia adempiere gli ordini).

10  Vv. 305-309: At pius Aeneas per noctem plurima volvens,/ut primum lux alma data est, exire locosque/explorare novos, quas vento accesserit oras,/qui teneant (nam inculta videt), hominesne feraene,/quaerere constituit sociisque exacta referre (Ma il pio Enea rimuginando per tutta la notte molti pensieri, non appena fece alba decise di uscire, di esplorare quei luoghi sconosciuti, dove sia approdato spinto dal vento, chi abiti il luogo, infatti lo vede incolto, o uomini o bestie, e di riferire tutto ai compagni).

 

 

 

 

Mesagne: Luca Antonio Resta, il vescovo e l’Affumicato

di Armando Polito

Una delle via più lunghe ed importanti di Mesagne è intitolata a Luca Antonio Resta. L’omonimia è sempre in agguato e il trascorrere inesorabile del tempo rende sempre più complicato evitare equivoci, soprattutto quando sono coinvolti personaggi del passato sì, ma cronologicamente non così distanti l’uno dall’altro. E la situazione si complica ulteriormente se si pensa al vezzo, molto diffuso, direi comunemente usuale e quasi obbligato, in passato di dare al neonato  lo stesso nome del nonno o, addirittura, del padre. Intanto, però, una prima possibilità di equivoco va eliminata per chi non abbia notato l’iniziale maiuscola di Affumicato, il che esclude qualsiasi amore o, perché no?, odio del vescovo per un particolare tipo di salame o di formaggio. …

Probabilmente a Mesagne i Luca Antonio Resta succedutisi nel tempo sono stati una miriade, ma due di loro si distinsero a tal punto che la memoria del loro nome non rimase nascosta  tra le pieghe di atti notarili o di registri di nascita e di morte. Sotto questo punto di vista, poi, Mesagne appare più favorita rispetto ad altre realtà territoriali. perché un suo figlio illustre, Epifanio Ferdinando junior1,  scrisse l’opera genealogica Delle famiglie mesagnesi in quattro volumi. Il manoscritto, di proprietà della famiglia Cavaliere di Mesagne, costituisce un’autentica miniera per gli studiosi di storia locale. Non ho avuto il privilegio di averne tra le mani neppure una, sia pur parziale, riproduzione digitale e, quindi , non posso andare al di là dell’affermazione generica che sicuramente i due Luca Antonio erano parenti.

Posso, invece, sfruttando altre fonti, collocarli cronologicamente. Comincio dal più anziano, prima arciprete della Collegiata di Mesagne e poi, dal 1565, vescovo di Castro, dal 1578 di Nicotera e dal 1582 fino alla morte, avvenuta nel 1597, di Andria. Al periodo andriese risalgono le opere che di lui ci restano. La prima è Constitutiones editae in diocesana synodo andriensi, Desa, Copertino, 1584

Da notare nel frontespizio lo stemma vescovile del quale dirò tra poco.

Fu autore inoltre di Directorium visitatorum, ac visitandorum cum praxi, et formula generalis visitationis omnium, & quaruncumque ecclesiarum monasteriorum, regularium, monialium, piorum locorum, & personarum, Facciotti, Roma, 1593.2

Di seguito il frontespizio recante lo stemma degli Aldobrandini, essendo l’opera dedicata al papa  Clemente VIII, al secolo Ippolito Aldobrandini (1536-1605).

Al testo dell’imprimatur concesso dal papa e sottoscritto da Vestrius Barbianus segue l’immagine di Luca Antonio, che deve riferirsi, giocoforza, al periodo andriese, cui, d’altra parte, fanno esplicito riferimento il frontespizio e l’imprimatur.

L’immagine precedente ricalca nel dettaglio dello stemma) quella di una lastra collocata nell’episcopio di Andria (di seguito nella foto di S. De Tommaso tratta da http://www.andriarte.it/ChiesaMonache/documenti/Monastero-OrdinationiEtCostitutioni_LAResta1593.html), commemorativa della ricostruzione fatta dal vescovo nel 1582 (anche se sulla lastra si legge, incredibilmente, 1532) del vecchio monastero delle suore  benedettine.

LUCAS ANT(ONIUS) )RESTA/MESSAPIEN(SIS) DEC(ANUS) DOCT(OR)/EP(ISCOP)US ANDRIEN(SIS) A fUNDA(MENTIS) EREXIT/1532 (Luca Antonio Resta dottore decano di Mesagne, vescovo di Andria eresse dalle fondamenta 1532

Nello scudo qui compare il motto CHARITAS, mentre nella stampa si legge CARITAS. E qui s’innesca una polemica antica che già vide contrapposti, pressoché contemporaneamente, due pezzi grossi dell’epoca: il Vico e il Muratori. Il primo nel De constantia philologiae usa charitas in unione a patriae (amor di patria) e nel De constantia philosophiae per la ben nota virtù teologale. In una nota del De uno universi iuris principio et fine uni usa la locuzione caritas sapientis (la manchevolezza del sapiente) e ancora nel De constantia philologiae usa frugis caritas (la mancanza del raccolto); in entrambi i casi è evidente come caritas sia connesso con il verbo carere=mancare3 e come i precedenti charitas vengano connessi con il greco χάρις (leggi charis)=benevolenza.

Contro l’opinione del Vico vi è Il Caritas del suo contemporaneo Ludovico Antonio Muratori ricorrente  nelle citazioni in latino presenti in Della carità cristiana, Soliani, Modena, 1723. Proprio nella prefazione ai lettori il Muratori giustifica la sua scelta e ribadisce la derivazione dal latino  carus, essendo la a di caritas lunga, mentre quella del greco χάρις è breve.

Le ragioni addotte dal Muratori mi appaiono filologicamente ineccepibili e, oltretutto, il passaggio carus>caritas è di una linearità esemplare, associandosi nella tecnica di formazione a fecundus>fecunditas, humilis>humilitas, etc. etc. Altrettanto non si può dire di χάρις>charitas perché, essendo χαριτ– il tema di χάρις (che deriva da *χάριτς con normalissima caduta della dentale davanti al sigma), pure in latino avremmo dovuto avere non charitas ma charis (da *charits), come miles è da *milits.

Non è da escludere, come ipotizzava il Muratori, che la possibilità di equivoco tra caritas=mancanza  (deverbale da carere) e caritas=benevolenza (deaggettivale da carus) abbia indotto all’aggiunta di h nel secondo per una sorta d’influsso paretimologico di χάρις.

Questa epentesi di h sembrerebbe abbastanza datata e nel glossario del Du Cange mi appare sintomatico che al lemma CHARITAS si rinvii a CARITAS, assunto, dunque, come principale). Mi pare particolarmente interessante CARITAS 5, che riporto in formato immagine con la mia tradizione a fronte.

Quanto riportato rende plausibile credere che la confusione, prima concettuale (carità diventa, addirittura il corrispettivo di un donativo con paradossale inversione delle parti: i monaci danno, non ricevono la carità) e poi grafica, risalga all’epoca medioevale. in cui dev’essersi sviluppata in ambienti non molto i acculturati l’epentesi paretimologica di cui ho detto. D’altra parte il processo inverso ha coinvolto charta, che è dal greco χάρτης (leggi chartes) con innumerevoli attestazioni medioevali di carta.

Questa volta, perciò,  non condivido le argomentazioni dell’amico professor Federico La Sala, che pure sento il dovere di citare rinviando il lettore al link http://www.ildialogo.org/filosofia/interventi_1360186035.htm.

Infine c’è da notare che tutti i vocabolari, nessuno escluso4, nonché gli studi etimologici, continuano imperterriti a recare il lemma carità derivato da carus.

Tornando alla pubblicazione del nostro, lo stemma che campeggia in alto a sinistra nel ritratto risulta replicato all’inizio della seconda parte. Nello scudo si notano nell’ordine: una croce maltes5, una stella a otto punte ed un’armatura, oltre al CHARITAS di cui si è estesamente detto.

Il Directorium visitatorum … ebbe un’edizione postuma per gli stessi tipi e col titolo Praxis visitatorum ac visitandorum … nel 1599.

Passo ora all’altro Luca Antonio, all’Affumicato. Riprendendo quanto detto all’inizio sull’iniziale maiuscola e per non rendere troppo seriosa la trattazione, dico che non si hanno notizie di sue malattie curate coi suffumigi e tanto meno di morte dovuta ad intossicazione da fumo di tabacco o sviluppato da qualche incendio. Affumicato è semplicemente perché faceva parte dell’accademia mesagnese degli Affumicati, riconosciuta ufficialmente nel 1671 ma nata certamente prima di tale data.6

Sull’accademia uscirà a breve un post più corposo;  di questo anticipo qui ciò che riguarda il nostro dicendo anzitutto che sull’accademia ben poco sapremmo senza le notizie lasciateci da Antonio Mavaro (1725-1812), giurista e storico locale mesagnese, in un manoscritto (ms. M/4) custodIto nella Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi. Lì il Mavaro, fra l’altro, riporta l’elenco dei 19 soci, dei quali riproduce, da un manoscritto più antico in suo possesso secondo quanto dichiara, anche l’emblema, il motto e lo pseudonimo assunto dal socio in seno all’accademia, non mancando di fornire la sua interpretazione di questi tre dati.

Ecco quanto si riferisce al nostro (dettaglio tratto dalla carta 336r) che nell’elenco compare al n. XIV:

Apprendiamo, così, che il nostro era detto Il tormentato e che il suo motto era Purgatur non comburitur (Viene purificato, non bruciato). Quanto all’emblema il Mavaro a carta 341v così si esprime.

XIV Siegue il Tormentato, col motto Purgatur, non comburitur. Ciocché nel di lui emblema si vede, abbenché  non sia con chiarezza espressato, potrebbe riferirsi all’oro, ò qualche altro metallo simile, che nel crogiuolo si purifica, ma non s’abbrugia).

La conferma dell’interpretazione data dal Mavaro dell’emblema viene dal fatto che il concetto e i vocaboli fondamentali della relativa locuzione erano ben radicati nella cultura del XVII secolo. Un esempio per tutti in Elogium de laudibus, et prerogativis sacrorum liliorum in stemmate Regis Gallorum existentium, Apud Stephanum Colineum, Parisiis, 1608, p. 126: Et iterum aurum in igne positum non comburitur, sed probatur, et purgatur (E d’altra parte l’oro posto sul fuoco non viene bruciato ma viene temprato e viene purificato).

Molto probabilmente, a sua volta è lo sviluppo dell’in fornace ardet palea et purgatur aurum (Nella fornace la paglia viene bruciata, l’oro viene purificato) di Agostino nel suo commento al Salmo 61.

Per dovere di completezza debbo aggiungere che nell’elenco del Mavaro compare un altro rappresentante della famiglia Resta e precisamente al n. XII Francesco detto L’inabile, con il motto Ad fabrilia ineptus (Non adatto a lavori manuali) e per emblema un pezzo di legno inservibile posto sul fuoco.

Ecco quanto al proposito scrive il Mavaro a carta 340r.

(XII L’inabile col motto Ad fabrilia ineptus. Viene nell’emblema espressato un pezzo di legno, posto ak fuoco, volendosi collo stesso significare essere quello inservibile all’Artefice. L’Accademico, che volle dirsi L’inabile, volle per effetto di sua umiltà far presente all’assemblea,ed à quei dotti Accademici che la componeano, che sebbene in quella fosse stato annoverato, pure inabile egli riputavasi à poter produrre colle sue forze cosa di buono.)

Giunto a questo punto, rischio di sbagliare se dico che il Luca Antonio della via è il vescovo (del quale ci resta una pubblicazione e pure il ritratto) e non l’Affumicato, del quale, senza il Mavaro, nulla ci sarebbe pervenuto?

 

Su segnalazione di Vincenzo Zito (vedi in calce il relativo commento) aggiungo il frontespizio dell’opera non citata, nonché una tavola che all’interno si ripete due volte.

Nell’ovale DEXTRA SECUNDET URBEM QUAM LAEVA SUFFULCIT (La destra favorisca la città che la destra siostiene) e nel cartiglio interno S, RICCARDUS  EP(ISCOP)US ANDRIENSIS (S. Riccardo vescovo di Andria)

_________________

1 Per restare nel tema dell’omonimia …, era figlio del medico  Diego e nipote di Epifanio, il più famoso dei Ferdinando.

2 Mi sono limitato a riportare i dati essenziali, quelli che, conosciuti, sanciscono,  piaccia o no, lo spessore storico di qualsiasi personaggio. Per altri dettagli secondari rinvio a Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, tomo III, parte IV, Severini, Napoli, 1755, pp. 82-84.

3 Cfr. Livio, Ab Urbe condita libri, II, 12: Obsidio erat nihilominus et frumenti cum summa caritate inopia (C’era non di meno l’assedio e disagio con l’estrema mancanza di frumento). Ne approfitto per ricordare che connesso con carere è pure l’aggettivo carus=caro (in base ad un’elementare regola psicologica ci è più caro ciò che ci manca e in base all’altrettanto elementare principio economico del rapporto inverso tra offerta e domanda, per cui il prezzo è più caro quando il bene non è molto richiesto.

4 C’è da dire, però, che ne conosco uno, illustre, che nel tempo se n’è lavato le mani. È quello della Crusca che nella prima e seconda edizione (1612 e 1623) fa derivare carità da charitas, nella terza (1691) si limita a citare come sinonimo il greco ἀγάπη (leggi agape) in cui l’assenza di coincidenze fonetiche con il presunto charitas e con χάρις la rileverebbe il più superficiale dei lettori. Il lavaggio si completa con la quarta e con la quinta edizione (1729-1738 e 1863-1923) nelle quali non c’è ombra di proposta etimologica.

5 Allusiva, insieme con la stella ad otto punte,  alle benemerenze acquisite nella difesa della cristianità da qualche antenato. Leggo in Mario Vinci, Lucantonio Resta, in I Mesagnesi, a cura di Marcello Ignone, Tipografia Neografica, Mesagne, 1998, p. 131: La sua famiglia, originaria dalla Dalmazia, si stabilì dapprima a Ragusa (dove troviamo il ramo dei Resta di Ragusa) e successivamente alcuni di loro si trasferirono in Mesagne nei primi del 1500 con Mariano Resta. Mariano de Resta arriva in Mesagne nella II metà del XV sec. al seguito di Castriota Scanderbeg).

6 In Pietro Marti, Movimento intellettuale nel Salento, nel secolo XVII, in Fede: rivista quindicinale d’Arte e di Cultura, anno III, n. 5 (15 marzo 1925) in nota a p. 69 si legge che sorse il 1638, per opera di Giovan Matteo Epifanio, che ne fu più volte Principe.

 

 

Mesagne e la festa di San Giuseppe

s-giuseppe

di Carmelo Colelli

La festa ti San Giuseppu cuntata ti lu zzu Cocù

-Bongiornu zzu Cò, comu stai?

-Beh! Non cc’è mali ndi putimu ccuntintari! Tegnu quasi novant’anni e rringrazziandu a Ddiu pozzu ncora caminari, ncuntrari li cristiani e rraggiunari cu loru.

-Uè zzi t’agghiu nnuttu to zeppuli ti San Giuseppu, cussì ti li mangi a mmenzatia culla la zza Rosa.

-A fattu buenu figghiu mia, ca iu m’aggiu rricurdatu ca osci eti San Giuseppu, prima sobba allu calandariu lu mintiunu a rrussu, ma moni, avi bueni anni ca non lu mentunu cchiui pirceni la festa l’annu llivata. Prima sta festa era proriu nna bella festa ti devozzioni pi llu santu falignami e puvirieddu.

-Zzu Co’, contimi nnu picca, com’era prima la festa ti San Giuseppu.

-Tant’anni aggretu pì sta festa si ncuminzava a priparari già parecchi ggiurni prima, nc’era l’usanza la sera ti San Giuseppu cu si ppicciava lu “Fanoi” e la menzatia cu ssi priparava la “Tria”.

Pì priparari lu fanoi, tutti li vagnuni sciunu girandu casa casa pì circari sarcini e salimienti e ogni cristianu nci tava to tre sarcini, ognunu ti loru si nni caricava una sobba alli spaddi e lla purtava all’angulu chiù largu ti li strati.

A quiddi tiempi la campagna stava vicinu alli casi e li vagnuni sciunu puru fori, allu vicinu e sa ccugghiunu ramagghia ti aulii e ntenni siccati ca li uemmini erunu lassatu nterra toppu la putatura.

Chianu chianu all’angulu si facia na catasta sempri chiù ierta e chiù llarga, li villani la sera quandu si rritiraunu ti fori, cu li traini, puru loru nnuciunu atri sarcini, salimienti, ramagghia e ntenni siccati, e la catasta si facia sempri chiù ierta e chiù grandi.

Pì lli vagnuni era nnu sciecu, faciunu a gara a ci purtava cchiù sarcini, nc’erunu quiddi ca cu ssi fannu a vetiri ca erunu chiù forti sobbra alli spaddi si nni caricaunu puru toi e ttreti.

Comu t’agghiu tittu prima, siccomu San Giuseppu eti lu santu ti li puvirieddi, nc’era puru l’usanza ti priparari lu pranzu pi tridici puvirieddi, ttreti ti loru rapprisintuaunu San Giuseppu, La Matonna e Gesù Cristu e l’atri rapprisintaunu li Santi, e forsi pi sta rascioni lu pranzu si chiamava la “Tria”.

Qua vicinu, n’cera lu nunnu Vitucciu, ca ogni annu facia la “tria”, stu cristianu non era riccu, pi iddu era nu sacrificiu, ma tinia sta devozioni, era aiutari quiddi ca no putiunu mangiari, armenu cuddu ggiurnu.

Totta la famiglia ti lu nunnu Vitucciu, ccuminzava qualchi sittimana prima a priparare ciò ca nci sirvia, pi prima cosa sgumbraunu ti li scigghi la rimesa, la ncuacinaunu e all’angulu ti fronti allu purtoni faciunu n’altarinu cu li tauli e li banchi, rricupriunu tutto cu li coprilietti ti seta colorati, sobbra nci mintinu nnu lanzulu biancu rricamato e sobbra allu lanzulu, sistimaunu llu quadru ti San Giuseppu.

La taulata la faciunu cu lli tauli ti lu liettu, mintiunu na banca e nu picca chiù luntanu n’atra banca e sobbra ntra una e l’atra nci ppuggiaunu li tauli.

Pì quddu ggiurnu la nunna Ntunietta, assia li tuvagghi chiù belli ca tinia, quiddi rricamati a manu, quiddi ca era avuti pì tota, li llavava e li stirava e la matina ti la festa li sistimava sobbra alla taula.

Li femmini ti vicinu casa nsiemi alli fili sua l’aiutaunu, nc’era ci llavava piatti e bicchieri, ci vacava lu vinu ntra li bucali, ci priparava la verdura pi sobbrataula, ci cucinava, edda sistimava bicchieri, furcini, curtieddi e fiuri sobbra alla taula, pi urtumu nci mintia vicinu a ogni postu nu panittuddu ti pani, lu pani spiciali a forma ti frisedda grandi, cuddu ca era fattu lu ggiurnu prima.

Lu ggiurnu ti la festa, sotta allu quadru, tanti candeli, tanti portafiuri cu tanti fiuri, li fiuri no ssi ccattaunu, li purtaunu li cristiani ti qua nnanzi, tannu ntra ogni ortali nuestru crisciunu tanti belli fiuri, li calli bianchi, li bocca ti lupu, li rosi, li garofuli e tanti atri.

Sotta menzatia quedda rimesa simbrava diversa ti tutti l’atri ggiurni, simbrava nu saloni pi lli festi, sobbra alla taula nc’era tuttu lu ben di dio, atturnu li tridici puvirieddi, a caputaula san giuseppu e ti costi a iddu la matonna, e all’atru costi gesù cristu.

Lu nunnu Vitucciu e la nunna Ntunietta, tisi ti fronti alla taula, vicini a loro lu previti cu toi picuezzuli, vistuti comu quandu stannu sobbra all’altari, atturnu atturnu li cristiani ti vicinu casa, crandi e piccinni.

Lu previti biniticia la taula e tutti li cristiani ca staunu ntra quedda rimesa, toppu la binidizioni ognunu turnava a casa sua e lu nunnu Vitucciu e la nunna Ntunietta ccuminzauno a sirviri lu pranzu a li puvirieddi, loru quddu ggiurnu no si ssittaunu a quedda taula, la devozioni loru era cu servunu a ci avia bisuegnu.

Tanti erunu li cosi ca la nunna Ntunietta era priparatu, pietanzi nustrani e sapuriti, ti la tradizioni ti li villani ti lu paisi nuestru, tutti cosi curtivati ti loro stessi o ti li vicini ti casa.

Alla fine ti lu pranzu lu nunnu Vitucciu sirvia a tutti li zeppuli ti San Giuseppu, l’era sa ccattati la matina prestu ti lu bbarra ca stava alla Porta Grandi.

A ogni puvirieddu, la nunna Ntunietta nc’era priparato nu fagottu e intra nc’era misu na pagnotta ti pani, na buttiglia ti vinu e atri cosi ca erunu rimasti ti lu pranzu, nsomma quiddi puvirieddi putiunu mangiari ancora pi natri toi tre ggiurni.

La sera quandu lu sole era calatu, sempri ci nc’era statu, pirceni a marzu lu soli nu picca stai e nu picca si nni vai, lu nunnu Chiccu ccuminzava a mettiri fuecu sotta alla catasta sistimata all’icrocio ti li strati.

Chianu chianu lu fuecu pigghiava forza, ti nn’angulu all’atru si tava voci ca lu Fanoi sta ppicciava, e li cristiani si ccuminzaunu a nvicinari.

Nanzi nanzi, atturnu atturnu, staunu tutti li vagnuni chiù piccinni, chiù ggretu li crandi, tutti li famigli si rriuniunu vicinu allu Fanoi, pi tradizioni, pi devozioni e pirceni era proriu bellu cu vitivi li fiammi gialli e russi, ca si azaunu versu lu cielu ca oramai s’era fattu scuro e si vitiunu li stelli e la luna.

Si cantava, si parlava, si nbivia ncunu bicchiere ti vinu e chianu chianu la sirata passava e lu fanoi cu li fiammi e li scintilli divintava sempre chiù bellu.

Si scia ti nu fanoi all’atru, pi vetiri quali sta ppicciava megghiu, qual’era cuddu chiu grandi e cuddu ca turava ti cchiui.

Ogni tanto sintivi scattarisciari qualche ntenna, li vagnuni si anchiunu li poti ti sali cruessu e ogni tantu lu iaticaunu ntra lu fuecu senza cu si faciunu avvetiri, subbuti sintivi scattarisciari e vitivi tanti scintilli, tanti cristiani si spantaunu e si lluntanaunu e li vagnuni ritiunu.

Quandu oramai lu fuecu s’era sbasciatu e staunu tanti crauni belli rrifucati, chianu chianu li cristiani si anchiunu li frasceri e si li purtaunu ntra casa loro, era lu fuecu binidettu ti San Giuseppu.

Era na festa pì tutti, pì crandi e piccinni, e puru ca annu passati tant’anni no ti la puè scurdari.

La cenniri ca rumania si ccughia e lu ggiurnu toppu li villani la spandiunu fori sempri in onori ti lu Santu Falignami e Puvirieddu.

Moni la festa eti tiversa e menumali ca armenu annu rimasti li zzeppuli.

Le Tavole di San Giuseppe 3

 

La festa di San Giuseppe di tanti anni fa, a Mesagne (Brindisi), raccontata da zio Cosimo

Bungiorno zio Cosimo, come stai?

Beh! Non c’è male, ci possiamo accontentare.

Ho quasi novant’anni e ringraziando Iddio posso ancora camminare, incontrare le persone e ragionare con loro.

Zio ti ho portato due zeppole di San Giuseppe, le mangiate a mezzogiorno insieme alla zia Rosa.

Hai fatto bene figlio mio, io mi sono ricordato che oggi è San Giuseppe, prima sul calendario il 19 Marzo era colorato di rosso, adesso non lo è più perché questa festa l’hanno tolta.

Questa festa era proprio bella, una festa di devozione per il santo falegname e poverello.

Zio, raccontami come si festeggiava San Giuseppe qui a Mesagne.

Il racconto ha inizio:

Tanti anni fa, per questa festa, i preparativi iniziavano alcuni giorni prima, vi era l’usanza la sera di San Giuseppe di accendere i falò, “Li fanoi”, per le strade, a mezzogiorno si preparava un pranzo speciale per i poveri, detto: “La Tria di San Giuseppe”.

Per preparare il falò, tutti i ragazzi del quartiere andavano di casa in casa a chiedere fascine e salmenti: tutti ne donavano. Ogni ragazzo si caricava in spalla le fascine e le portava all’incrocio più largo tra due strade.

Per i ragazzi era un gioco, facevano a gara a chi riusciva a trasportare più fascine, vi erano alcuni che per dimostrare la loro forza se ne caricavano sulle spalle anche due o tre, era una festa la preparazione.

Pian piano, all’incrocio, la catasta diventava sempre più alta e più larga, i contadini, la sera, tornando dalla campagna, con i carretti, portavano altre fascine e altri rami secchi di albero di ulivo, resti della potatura degli alberi, la catasta diventava sempre più alta e più grande.

Siccome San Giuseppe è il santo dei poverelli, vi era l’usanza di preparare un pranzo per tredici poveri, tre di loro rappresentavano San Giuseppe, la Madonna e Gesù, gli altri i vari Santi, un pranzo senza carne ma con tredici portate, chiamato da sempre: “La Tria di San Giuseppe”.

Vito, un mio vicino di casa, ogni anno preparava “La Tria”, non era ricco, per lui era un sacrificio, aveva però questa devozione, desiderava aiutare chi non poteva mangiare, almeno il giorno della festa di San Giuseppe.

Tutta la famiglia di Vito collaborava alla preparazione, la settimana prima, gli uomini sgombravano la rimessa, il locale dove tenevano gli attrezzi da lavoro per i campi, che era quello più grande per ospitare tante persone, lo imbiancavano con calce bianca e, all’angolo di fronte al portone d’ingresso, con tavole e tavolini, preparavano l’altarino.

Le donne ricoprivano la struttura con vari copriletti di seta colorata, sopra veniva steso un lenzuolo bianco e ricamato, il più bello che la padrona di casa aveva avuto in dote, al centro, in alto troneggiava il quadro di San Giuseppe.

Per sistemare la lunga tavolata, erano utilizzati dei tavoli, avuti in prestito dai vicini di casa, su cui erano poste le tavole del letto.

Per quel giorno Antonietta, la moglie di Vito, apparecchiava la tavola con le tovaglie più belle, il giorno prima le prendeva dall’ultimo cassetto del comò, le lavava e le stirava.

Tutte le donne del vicinato insieme alle figlie di Antonietta collaboravano ai preparativi, chi lavava piatti e bicchieri, chi riempiva i boccali di vino, chi preparava la verdura per la “sopratavola”, chi cucinava.

Una pagnottella di pane a forma di frisella, preparata il giorno prima, veniva sistemata al posto di ogni commensale.

Il giorno della festa, sotto il quadro di San Giuseppe, tante candele e tanti fiori, portati dai vicini.

Poco prima di mezzogiorno, tutto era pronto per la festa, sulla grande tavolata vi erano tante cose buone, attorno i tredici poveri, al centro San Giuseppe alla sua destra il figlio Gesù e alla sua sinistra Maria.

Vito e Antonietta, in piedi di fronte alla tavola, accanto a loro il prete con i due chierichetti, attorno i vicini di casa, grandi e piccoli.

Dopo che il prete aveva benedetto la tavola e i presenti, Vito ed Antonietta cominciavano a servire il pranzo ai loro ospiti.

Tante cose buone preparate da Antonietta, pietanze della tradizione contadina, il piatto principale era composto da ceci e piccolissime lasagne fatte in casa, alcune fritte, dette in tutto il Salento “tria”, da qui il nome: “La tria di San Giuseppe”

Alla fine del pranzo, Vito serviva a tutti le zeppole di San Giuseppe, le aveva comperate la mattina presto dal bar, vicino alla Porta Grande.

Per ogni povero, Antonietta aveva preparato un fagottino, con dentro una pagnotta di pane, una bottiglia di vino ed altre pietanze rimaste dal pranzo, così potevano mangiare ancora per altri due tre giorni.

La sera quando il sole era calato, Chicco, un signore anziano del vicinato, accendeva la catasta di legna sistemata all’incrocio delle strade.

Piano piano il fuoco prendeva forza, da un angolo all’altro ci si dava voce che il Falò era stato acceso, la gente cominciava ad avvicinarsi.

In prima fila, in cerchio c’erano i ragazzi, quelli più piccoli, dietro quelli più grandi, attorno intere famiglie. Tutti attorno al Falò, per tradizione e per devozione, era proprio bello vedere le fiamme gialle e rosse che si alzavano verso il cielo, oramai fattosi scuro, si vedevano anche le stelle e la luna.

Si cantava, si parlava, si beveva qualche bicchiere di vino, pian piano la serata passava ed il falò con le fiamme e le scintille diventava sempre più bello.

Si andava da un falò all’altro, per vedere quello più bello, il più grande e quello che durava di più.

Ogni tanto si sentiva qualche scoppiettio, erano i rami secchi. Alcuni ragazzi si riempivano le tasche di sale da cucina, quello grosso e, ogni tanto, senza farsene accorgere lo lanciavano nel falò, si sentiva subito scoppiettare ancora e si alzavano tante piccole scintille, molte persone si spaventavano e si allontanavano e i ragazzi ridevano a crepapelle.

Quando la catasta si era quasi consumata e i carboni erano belli ardenti, le persone si riempivano “le frascere”, dei contenitori in rame per il fuoco e le portavano a casa, era il fuoco benedetto di San Giuseppe.

La cenere che rimaneva si raccoglieva ed il giorno dopo i contadini la spargevano in campagna in onore del Santo Falegname.

Era una festa per tutti, per grandi e piccoli, anche se sono passati molti anni non la si può scordare.

Zio Cosimo conclude dicendo:

“Ora la festa è diversa, sono però rimaste le zeppole”.

A zio Cosimo luccicano gli occhi ed io ho un nodo in gola, lo ringrazio per il bel racconto e mi allontano.

 

Mesagne e la memoria della Shoah

ebrei

L’Amministrazione Comunale dedica diverse giornate per celebrare la memoria della Shoah.

Dal 25 al 30 gennaio sarà un susseguirsi di iniziative, denominato “Fili di memorie”, organizzate in stretta collaborazione con le Scuole cittadine di ogni ordine e grado e curate dall’Archivio Storico e dalla Biblioteca Comunali. In particolare si è pensato di coinvolgere gli studenti, partendo dalla Scuola Primaria, ai quali è stata offerta la possibilità di confrontarsi con autori e, soprattutto, con alcuni testimoni; inoltre, l’Archivio Storico Comunale ha messo a disposizione degli studenti la visione di alcuni documenti relativi agli anni immediatamente precedenti e seguenti all’emanazione del Manifesto della Razza, mentre la Biblioteca Comunale ha selezionato alcuni saggi e testi di narrativa sul tema della Shoah e rinvenuto alcuni dei testi proibiti dal regime nazifascista. Una selezione di documenti e libri troverà spazio nella raccolta aperta al pubblico presso il primo piano del Castello Comunale.  

Da segnalare, pure, l’iniziativa promossa dall’Associazione “G. Di Vittorio” incentrata sulla figura di Antonio Somma, partigiano e prigioniero a Mathausen.

Nella giornata conclusiva delle Celebrazioni, prevista per il 30 gennaio, oltre alla presenza di importanti testimoni, come Marika Kaufman e Nando Tagliacozzo si segnala il concerto di Shanah Tovah con la voce di Nadia Martina.

Di seguito il programma dettagliato.

 

25 E 28 GENNAIO

 

 

SOFIA SCHITO AUTRICE   DE “LA B CAPOVOLTA” (Lupo Editore) INCONTRA GLI ALUNNI DELLE CLASSI   IV E V DELLA SCUOLA PRIMARIA DEL 1° E 2° CIRCOLO DIDATTICO (EVENTO A CURA DELLA BIBLIOTECA COMUNALE “U.GRANAFEI”)

 

27 GENNAIO

 

 

 

APERTURA AL PUBBLICO della RACCOLTA DI DOCUMENTI E LIBRI –

1° PIANO CASTELLO COMUNALE – DALLE ORE 10.00 ALLE ORE 12.00 E DALLE ORE 17.00 ALLE ORE 20.00 (EVENTO AD INGRESSO LIBERO A CURA DELL’ARCHIVIO STORICO E BIBLIOTECA COMUNALI IN COLLABORAZIONE CON GLI GLI STUDENTI DELL’I.I.S.S. “E.FERDINANDO” – SEZ. SCIENTIFICO )

L’esposizione sarà visitabile, secondo gli orari del Castello, sino al 7 febbraio

 

 

 

 

INCONTRO SULLA FIGURA DI ANTONIO SOMMA (PARTIGIANO PRIGIONIERO A MATHAUSEN)

EVENTO ORGANIZZATO DALL’ASSOCIAZIONE DI VITTORIO

VIA CASTELLO – ORE 17.30

 

28 GENNAIO

 

 

FRANCO BRUNO VITOLO AUTORE DI “CIOCCOLATO AD AUSCHWITZ” (SIMONE PER LA SCUOLA ED.) INCONTRA GLI ALUNNI DELLA SCUOLA MEDIA “M.MATERDONA-A.MORO

 

GLI STUDENTI DELL’I.I.S.S “E. FERDINANDO” -SEZ. COMMERCIALE DIALOGANO SULLA SHOAH DOPO LA VISIONE DI ALCUNE FONTI DOCUMENTARIE

 

30 GENNAIO

 

 

 

GLI STUDENTI ED I DOCENTI DELL’I.I.S.S. “E.FERDINANDO” – SEZ. SCIENTIFICO e del II° CIRCOLO DIDATTICO INCONTRANO I TESTIMONI:

– MARIKA KAUFMAN – MOGLIE DI SHLOMO VENEZIA, AUTORE DEL LIBRO “SONDERKOMMANDO”

– NANDO TAGLIACOZZO AUTORE DEL LIBRO “DALLE LEGGI RAZZIALI ALLA SHOA’ 1938-45”

INCONTRO PUBBLICO CON I TESTIMONI MARIKA KAUFMAN E NANDO TAGLIACOZZO

INTRODUCE IL CORO DI VOCI BIANCHE DEL 2° CIRCOLO DIDATTICO

A SEGUIRE LA SHOAH IN MUSICA CON SHANAH TOVAH (VOCE DI NADIA MARTINA)

Salone Affreschi – Castello Comunale -ORE 17.30

Il vecchio Cavaliere della nostra terra

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La Puglia è piena di maestosi e meravigliosi alberi di ulivo, alcuni più che centenari, a volte hanno sembianze umane, animalesche, mostruose, sono distorti, contorti, uno diverso dall’altro ma tutti magicamente belli

Il vecchio Cavaliere della nostra terra

 

di Carmelo Colelli

Contorto, martoriato dal tempo, piegato e scavato dalle intemperie, rimani sempre un cantastorie della natura, professore di varie discipline.

Hai visto ai tuoi piedi donne e uomini, sei stato testimone dei loro amori e dei loro dolori, hai ascoltato le loro storie e le hai conservate nel tempo.

Come un vecchio, sei lì pronto a raccontare, pronto a trasmettere, a chi ti ascolta, la forza di guardare avanti.

Forte è la tua voglia di essere, sembra che ci dici:“mi sono piegato, mi sono contorto, ho perso parte della mia bellezza giovanile, ma voglio essere qui, voglio essere radicato a questa terra, qui ho visto l’amore che gli uomini mi hanno dato nel tempo.

Voi che siete i figli di quegli uomini, figli di questa terra, continuate ad amarmi.”

Come un guerriero hai dovuto lottare contro le forze della natura, ma come un Vecchio Cavaliere ci insegni ad amare la pace.

ULIVO-01-A

In dialetto mesagnese.

Lu cavalieri ti la terra nostra

Sturtigghiatu, marturiatu ti lu tiempu, piegatu e scavatu ti li ntimperie, rumani sempri nu cantastorie ti la natura, profissori ti tanti materie.

A vistu alli pieti tua femmini e masculi, a statu testimogna di l’amori loru e ti li tuluri loru, a sintutu li storie loru e la stipati pi tantu tiempu.

Comu nu vecchiu, stai prontu cu cuenti, prontu cu dici a ci ti senti, uardamu sempri annanti!

Tieni tanta voglia cu stai dani e sembra ca ndi sta dici: “m’aggiù piegatu, e m’aggiù stuertu tuttu, agghiu persu parti ti la billezza mia ti quandu eru ggiovini, ma vogghiu stau qquani, vogghiu stau raticatu a sta terra, qquani addo agghiu vistu l’amori ca li cristiani mannu datu pi tantu tiempu.

E vui ca siti li fili ti quiddi cristiani, fili ti sta terra, vulitimi puru vui bbeni.

Comu a nnu guerrieru a luttato contru la forza ti la natura, ma comu nu Vecchiu Cavalieri ndi nsiegni ca ama amari la paci.

 

Quando le olive si raccoglievano con le mani

ULIVI-01

di Carmelo Colelli

Al mattino, alle prime luci dell’alba, per le strade di Mesagne si vedevano già i carretti e le sciaraballe con sopra le donne che dovevano andare in campagna per la raccolta delle olive. Il carrettiere era seduto davanti, con in mano le redini, vestito con stivali, pantaloni di flanella pesante, un vecchio cappotto, il fazzoletto legato alla gola ed il cappello in testa, dietro di lui erano sedute le donne ed i bambini.

Le donne, anche loro avvolte in grandi mantelli di lana pesante o in scialli, fatti a mano, portavano il fazzoletto in testa annodato sotto il mento.

Quando arrivavano in campagna, una volta scese dal carretto, si toglievano il mantello o lo scialle ma il fazzoletto in testa lo tenevano per tutto il giorno, poggiavano le loro cose da una parte sotto un albero e si mettevano al lavoro.

Per raccogliere le olive, a quel tempo, bisognava che le donne si inginocchiassero per terra, dovevano muoversi come pecorelle, dalla parte più esterna dell’albero verso il tronco dell’ulivo, si disponevano a semicerchio una vicino all’altra e il paniere, in canna intrecciata, accanto ad ognuna di loro.

Le olive si raccoglievano da terra, con le mani, si faceva prima un bel mucchietto, poi prendendole con i palmi delle mani si mettevano nel paniere.

C’erano donne giovani, donne sposate e donne un po’ più anziane.

Sotto l’albero dell’olivo si raccontavano le loro storie, si consigliavano l’un l’altra, sempre con la testa china e le mani che raccoglievano le olive una ad una.

“Beh! Svuotiamo i panieri!” gridava la “fattora (la donna che comandava il gruppo), “questi panieri li dobbiamo riempire!, non li dovete portare vuoti e non li dovete portare semi pieni!. Dovete riempirli fino all’orlo, belli pieni pieni!”.

Così diceva la “fattora” quando vedeva che i panieri non erano pieni fino all’orlo o che non erano colmi oltre l’orlo.

Verso mezzogiorno, la “fattora” richiamava le donne e diceva: “Beh fermiamoci un po’ e mangiamo qualcosa”.

Le donne si avvicinavano al posto dove avevano lasciato i loro fagotti e le loro borse al mattino e prendevano quanto avevano portato da casa.

Di solito le cose da mangiare le tenevano in un tovagliolo di cotone, solitamente a quadri colorati, chiuso a mo di fagottino.

Portavano più o meno tutte un pezzo di pane fatto in casa. La mattina, presto tagliavano il pezzo del pane a coppetta, toglievano la mollica lo riempivano con ciò che era rimasto della cena della sera prima o ci mettevano un po’ di “gialletta” (semplice pietanza fatta con olio, pomodori gialli e peperoncini.) preparata calda- calda la mattina stessa, poi prendevano la mollica e richiudevano tutto.

Ci voleva più tempo a preparare quel pezzo di pane che a mangiarlo.

La voce della “fattora” si faceva sentire di nuovo: “Beh! andiamo che tra un po’ comincia ad imbrunire!”. Ed eccole si rimettevano ancora a testa bassa, inginocchiate per terra e raccoglievano olive fino a quando non cominciava a calare il buio.

“Beh! Svuotiamo i panieri.”

La “fattora” chiamava l’ultima volta, per sgomberare i panieri nel sacco, si chiudeva l’ultimo sacco della giornata, le donne si rivestivano con lo scialle o con il mantello e risalivano sul carretto.

Il carrettiere seduto al suo posto: un colpo di frustino ed il cavallo partiva. Quando arrivavano in paese ormai era buio.

 

ULIVO-01-A

Quandu l’aulii si ccugghiunu cu lli mani

  La matina, ‘nppena ccuminzava a lucesciri, si vitiunu già pi li strati ti Misciagni li traenuri e li sciarabbai, carichi ti femmini ca erunu a sciiri fori a ccogghiri l’aulii.

Lu trainiere, ssittatu ‘nnanzi, cu li retini mmanu, vistutu cu li stuvali, li quazi ti flanella pisanti, ‘nu cappottu vecchiu, lu fazzuletto grandi ttaccato ‘ncanna e lu cappieddu ‘ncapu, cretu a iddu staunu ssittati li femmini e li vagnuni.

Li femmini, puru loro staunu mmucciati ‘ntra li fazzulittuni ti lana pisanti o ‘ntra li scialli, fatti a manu, purtaunu puru lu fazzuletto ‘ncapu ttaccato sotta a lu vangaliri.

Quandu rrivaunu fori, ca scindiunu ti sobbra a lu trainu, si llivaunu lu fazzulittoni o lu sciallu ma lu fazzulettu ti ‘ncapu si lu tiniunu pi tutto lu ggiurnu, ppuggiaunu tutti li rrobbi a ‘nna vanda sotta a n’arvulu e si mintiunu a fatiari.

Pi ccogghiri l’aulii, a cuddu tiempu, bisugnava cu si ‘nginucchiaunu ‘nterra, serana a moviri a picuredda, ti lu largo ‘nfinu alla rapa ti l’aulia, faciunu ‘nnu mienzu ciercu atturnu all’alvuru, una ti costi all’atra e lu panaru ti costi a ognuna ti loru.

L’aulii si ccugghiunu ti ‘nterra, cu li mani, si facia prima ‘nnu munticchiu, poi si pigghiaunu cu li to parmi ti li mani e si mintiunu tra lu panaro.

Staunu femmini giuvini, femmini maritati e femmini ‘nnu picca chiù vecchiareddi.

Sotta all’alvuri ti la’aulii si cuntaunu li fatti loru, si taunu cunsigli unu l’atra, sempri cu la capu sotta e li mani ca ccugghiunu aulii a una a una.

“Meh! Sgumbramu sti panari!”: critava la fattora. “Sti panari la ma anchiiri! No lli nnuciti vacanti! E no lli nnuciti sminzati! Facitili belli curmi curmi meh!”

Ccussì ticia la fattora quandu vitia ca li panari non erunu belli chini chini e curmi curmi.

Versu menzatia, la fattora tava voci e ticia: “Meh! lassamu ‘nu picca e mangiammindi ‘na cosa!”

Li femmini si ‘nvicinaunu addo erunu lassati li rrobbi la matina e pigghiaunu quddu ca s’erunu nnuttu ti casa.

Ti solito li cosi ca s’erana a magiari li tiniunu tra ‘nu sarviettu ti cuttone, ti solito li sarvietti erunu a quadri culurati. Purtaunu chiù o menu tutti ‘nu stuezzu ti pane fattu a casa.

La matina prestu, taghiaunu lu stuezzu ti lu pani a cuppitieddu, llivaunu la muddica e anchiunu lu stuezzu di pani cu cuddu ca era rimastu la sera prima o ‘nci mintiunu nu picca ti gialletta fatta cauta cauta la matina stessa, poi pigghiaunu la muddica e chiutiunu tuttu. Nci vulia chiussai tiempu cu lu priparunu cuddu stuezzu di pane ca cu ssì lu mangiunu.

La voci ti la fattora si facia sintiri n’atra vota : “Meh sciamu ca ‘ntra n’atru picca scuresce!” E loro si mintiunu n’atra vota cu la capo sotta, ‘nginucchiati ‘nterra e ccugghiunu aulii finu a quando no ccuminzava a calari lu scuro.

“Meh! Sgumbramu sti panari!!”

La fattora chiamava l’urtama vota, pi sgunbrare li panari ‘ntra lu saccu, si chiudia l’urtumo saccu ti la sciurnata, li femmini si sa vistiunu, cu lu sciallo o cu lu fazzulittone e ‘nchianaunu sobbra allu traino. Lu trainiere s’era già ssittato allu postu sua, nu cuerpu di scurriato e lu cavaddu partia. Quandu ‘rrivauno ‘ntra lu paesi oramai era scurutu.

 

La masseria Canali… si può fare

masseria canali

di Gianni Ferraris

Fra il 1994 e il 2005 venne decimato il Clan Campana, notissimi esponenti di primo piano della Sacra Corona Unita vennero arrestati. Da quelle operazioni si passò alla confisca dei beni. Colpire le mafie negli interessi, nei loro feudi, espropriare i criminali  nella palese dimostrazione di potenza fatta di terreni, masserie, ville, beni, è il modo più potente per combattere una battaglia che altrimenti non porterebbe da nessuna parte.

E proporre quei beni confiscati ad utilizzi socialmente ed economicamente utili per i territori sottomessi da una criminalità bieca e assassina è uno schiaffo non solo ai mafiosi, ma a tutti coloro che pensano che “mafia è bello”, che dicono che “la mafia dà lavoro” senza tenere conto dei danni sociali, etici, morali ed economici che procura.

Purtroppo ancora oggi assistiamo quotidianamente ad episodi inquietanti: auto e case che bruciano, sparatorie in vie cittadine trafficate, negozi che vanno a fuoco, contrabbando di sigarette e spaccio di stupefacenti organizzato e gestito dai mafiosi, sale per gioco d’azzardo “legale” gestite da prestanome dei mafiosi stessi, che servono per riciclare denaro sporco e per praticare l’usura. Purtroppo assistiamo a collusioni anche con la politica, parlamentari arrestati e condannati, ex ministri che aiutano la latitanza di boss di mafia e via dicendo.

Però esistono persone che credono alla possibilità di un riscatto etico, morale, sociale ed economico, esistono ragazzi che lanciano sfide, e rendono i terreni confiscati veri luoghi di legalità, di lavoro. Producono vino, taralli e  tutto ciò che questa meravigliosa terra offre. La cooperativa Terre di Puglia Libera terra, a Mesagne, è fatta da ragazzi che rischiano, che si vedono i raccolti incendiati dai servi dei boss che poi, magari, si ritrovano al bar sotto casa a vantarsi delle loro gesta.

Però non demordono, i ragazzi, e proseguono a fare impresa pulita, trasparente, tutto alla luce del sole. Così i beni confiscati al clan Campana, la masseria Canali, è diventata Masseria Didattica.

“Abbiamo speso moltissimo per ristrutturare” oltre un milione di euro, ma ne è valsa la pena, ora in quei locali ci sono sale computer, una cucina attrezzata, c’è un orto con essenze mediterranee e campi dove si coltiva grano,  e c’è tutto l’occorrente per accogliere e fare didattica, insegnare ed imparare. Si insegna lavoro pulito e legalità. Il 10 giugno la Masseria Canali è stata inaugurata.

C’erano autorità, forze dell’ordine, c’era Don Luigi Ciotti. “Si può fare” ha detto e ripetuto. Già, si può veramente fare. La mafia può essere combattuta e alla lunga vinta e sconfitta. Oggi che le mafie si sono espanse al nord, che dominano appalti e affari, è più che mai necessario fare dei beni confiscati ovunque regni di legalità.

E sarebbe indispensabile che i legislatori uscissero dal loro opportunismo ed estendessero la confisca dei beni anche ai politici corrotti. Sembra fantascienza, anche allora lo sembrava, si può fare!

La menza e Giove Menzana, altre perle dalla rete.

di Armando Polito

 

La tecnologia ha reso obsoleti parecchi utensili trasformandoli, anche per le loro dimensioni variabili, da strumenti di lavoro in oggetti da museo, di antiquariato, da collezione e, in alcuni casi, di arredamento, sia per interni che per esterni. Di quest’ultimo destino hanno goduto in modo particolare oggetti prima destinati a contenere o a travasare solidi e liquidi; tra questi ultimi recita la parte della star indiscussa la capasa1 , ormai immancabile, anche in esemplari di moderna produzione, in qualsiasi agriturismo che si rispetti, soprattutto dalle nostre parti.

Diversa sorte è toccata alla menza, contenitore di circa 10 litri, usato, fra l’altro, per il trasporto del prodotto finale negli stabilimenti vinicoli e oleari fino agli anni sessanta-settanta del secolo scorso. All’origine era in terracotta ed aveva forme più aggraziate (quasi da anfora). Come qualsiasi oggetto in questo materiale era, però, sensibile agli urti e il tempo sempre più tiranno e la necessità, dunque, di non perderne in accortezza nel maneggiarla, la costrinse ad assumere una veste di lamiera che nulla conservava dell’antica linea, essendo formata in pratica, partendo dal basso,  da un tronco di cono capovolto chiuso alla base, da un secondo tronco di cono, appena più alto della metà del primo, dal quale partiva un collo un po’ più corto dell’altezza della prima sezione; il tocco finale era costituito da due manici ognuno dei quali (almeno in questo c’era coerenza stilistica) formato da quattro sezioni cilindriche opportunamente posizionate e saldate. L’invenzione della plastica segnò la terza sua mutazione e la malleabilità del nuovo materiale le consentì, comunque, di conservare abbastanza fedelmente l’aspetto dell’antenata di lamiera.

L’avvento impetuoso della tecnologia, con macchinari rivoluzionari rispetto al passato, segnò la sua fine senza appello ed ora è possibile vederne qualche raro esemplare solo in qualche museo della civiltà contadina.

Menza è la deformazione dell’italiano mezza. Premesso che il sistema di pesi e misure in passato non era uniforme ma variava in rapporto al territorio (anche tra luoghi distanti pochissimo tra loro), non c’è ombra di dubbio che menza tra il nome dal fatto che essa come capacità corrispondeva a metà barile, che la precedeva nella scala gerarchica. E siccome il barile dalle nostre parti corrispondeva, più o meno, a 18 litri, la menza aveva una capacità di circa 9-10 litri. Menza, dunque, sarebbe forma sostantivata dell’aggettivo menza, femminile di mienzu, da cui deriva minzanu (corrispondente all’italiano mezzano), che con valore sostantivato indica il piano ammezzato e l’intermediatore (quest’ultimo altrimenti detto zzinzale, corrispondente all’italiano sensale), nonché minzettu che a Nardò  indica la mezza suola e a Gallipoli la metà di un tomolo. Al precedente maschile minzanu corrisponde ad Oria per il Brindisino ed a Grottaglie per il Tarantino il femminile minzana (recipiente per il trasporto dell’acqua, della capacità di circa 20 litri). Per completare il quadro vanno ricordate altre voci per le quali per brevità riporto quanto presente nel vocabolario Treccani on line:

meżżina s. f. [der. di mezzo1; cfr. mezzetta]. – Recipiente di terracotta invetriata, della capacità di circa mezzo boccale, usato in passato generalmente per contenere vino. In Toscana, la brocca di rame per attingere l’acqua alla fonte o per tenere l’acqua in casa. Dim. meżżinina, recipiente rotondo, panciuto, a bocca stretta, destinato a contenere vino o acqua, fornito di piede e dotato di un beccuccio alla bocca o alla pancia e di un manico all’altezza della pancia oppure, nei tipi per attingere acqua, al di sopra della bocca.

meżżétta s. f. [der. di mezzo1, perché equivalente, come misura per liquidi, a mezzo boccale]. – Antica unità di misura di capacità, usata in alcune regioni d’Italia prima dell’adozione del sistema metrico decimale, di valore diverso a seconda dei luoghi.

Il lettore non dimentico del titolo a questo punto si sarà chiesto più volte se io non sia stato colto da un attacco di schizofrenia, visto che di Giove non si è visto ancora nemmeno l’ombra.

È tempo di scoprire le carte dicendo preliminarmente che questo post mi è stato ispirato da ciò che occasionalmente ho letto in http://itcmesagne.altervista.org/letimologia_di_mesagne.html e che, per comodità del lettore, riproduco di seguito integralmente e fedelmente (tanto per intenderci con un copia-incolla che più passivo non si può …).

L’etimologia di Mesagne

Una interessante ricerca etimologica è stata condotta dagli studenti dell’Istituto tecnico commerciale di Mesagne che attraverso uno studio storico hanno avanzato una suggestiva, quanto credibile, ipotesi di lavoro circa l’origine lessicale di Mesagne che deriverebbe da “Menzana” antica divinità messapica. Gli studenti, guidati dal loro docente di storia, francesco Campana, hanno partecipato al convegno sui Messapi che si è svolto a Mesagne e al termine hanno ufficializzato la loro tesi. Nuova asserzione storica che è illustrata dal professore Francesco Campana. Giove Menzana – dice – dovrebbe essere l’antica divinità femminile dei cavalli e proprio a Menzana Pluvio i Messapi, nel mese di ottobre, bruciavano un cavallo vivo nel fuoco. Questi indomabili domatori di cavalli che nessuno, né col ferro né col fuoco, riuscì ad abbattere, hanno sempre avuto grandi problemi nell’approvvigionamento dell’acqua. Evidenzia come a Pilo, nel periodo miceneo, è presente una divinità simile a Menzana che si chiama Hippios. Questo dio, che donava la vita – continua il docente – era il nome tutelare delle sorgenti e delle acque sotterranee e, per fecondare, si accoppiava con una dea con la testa di cavallo. Infine, sia il dialetto che la tradizione orale parlano ancora di Menzana, tanto che i nostri anziani chiamano tutt’oggi il recipiente di “creta” che contiene la preziosa acqua: la “menza” o la “minzana”. Non è tutto, poiché gli studenti spiegano che in una radura al centro di un bosco sacro (locus), vicino ad una sorgente d’acqua, gli antenati officiavano i loro riti per propiziarsi la divinità. Altrove si preoccupavano di mantenere acceso il fuoco sacro pubblico, come nella leggenda del trono di Rustem di Shahariyar.

Veneravano le forze della natura come l’acqua e il fuoco – continua il professore Campana – e cercavano i luoghi sacri presenti sul territorio: le sorgenti e le grotte “bucate” e “a cupola” dove il fuoco miracoloso poteva bruciare quasi senza essere alimentato. Sicuramente individuarono le grotte ma anche le fonti migliori presenti sul nostro territorio e vicino costruirono i loro Temenè. Ma i romani, dopo le guerre sannitiche, li assoggettarono e i loro luoghi sacri probabilmente divennero “castella acquarum” cioè i serbatoi sotterranei dell’acqua, dell’articolato e complesso sistema di alimentazione e fruizione idrica della città di Brundisium e delle sue campagne, grazie alla concretezza romana e alla loro consapevolezza dell’importanza politica della cultura dell’acqua. Sito che probabilmente oggi si potrebbe riconoscere nella zona agricola di “Castello Acquario” nelle cui vicinanze c’è un lussureggiante bosco. Per dare certezza a tale ipotesi di lavoro mancano solo degli scavi archeologici ricognitivi.

«Probabilmente lo stesso Federico II – conclude Campana – quando nel 1220 promulgava “le Costituzioni di Capua” con una famosa bolla parlava di non abbattere “castrum mezzaneum” riferendosi proprio a “castella Menzanae” cioè ai serbatoi dell’acqua presenti nel suburbio di Mesagne, pertanto parlava, probabilmente, della necessità di sistemare i serbatoi sotterranei dell’Acquaro così utili non solo alla sussistenza umana, ma anche prezioso elemento di celebrazione del potere imperiale».

Riporto, come è mia abitudine, le fonti (almeno quelle che conosco io e della cui attenta lettura da parte degli autori dell’ipotesi ho più di un motivo per dubitare profondamente) perché il lettore si renda conto da solo fino a che punto ne è legittima la libera interpretazione e quando, invece, in virtù di un’ipotesi troppo cara, si aggiunge qualcosa, nell’intento riprovevole, perché in un certo senso truffaldino, di corroborarla. Non è questo, comunque, il caso del prof. Campana che usa ripetutamente l’avverbio a me più caro: probabilmente. Esclusa, perciò, la malafede, tenterò ora di spiegare perché, secondo me, l’ipotesi non sarebbe praticabile. Tutte le traduzioni sono mie.

1) FESTO (II secolo d. C.); scrisse il De verborum significatione, opera andata in gran parte perduta, ma di cui ci resta l’epitome che ne fece Paolo Diacono nel secolo VIII  d. C., oltre a frammenti contenuti in diversi manoscritti. Cito i due brani originali (le traduzioni sono mie) che ci interessano da Sexti Pompei Festi De verborum significatu quae superstunt cum Pauli epitome, a cura di Emilio Thewrewk De Ponor, Accademia delle Lettere Ungherese, Budapest, 1889, parte I, pagg. 194-196.

October equus appellatur qui in campo Martio mense Octobri Marti immolabatur. De cuius capite magna erat contentio inter Suburranenses et Saeravienses, ut hi in regiae pariete, illi ad turrem Mamiliam id figerent. Cuius cauda, ut ex ea sanguis in focum destillaret, magna celeritate perferebatur in regiam (Si chiama cavallo di ottobre quello che viene sacrificato a Marte nel Campo Marzio nel mese di ottobre. La sua testa era oggetto di una grande contesa tra gli abitanti della Suburra e quelli della Via Sacra, perché l’affiggessero  questi sul muro della reggia, quelli sulla torre Mamilia; e la sua coda a gran velocità veniva portata nella reggia).

October equus appellatur, qui in campo Martio mense Octobri immolatur quod annis2 Marti, bigarum victrigum3 dexterior, de cuius capite non levis contentio solebat esse inter Suburanenses et Sacravienses, ut hi in regiae pariete, illi ad turrim Mamiliam id figerint4; eiusdemque quod5 atanta6 celeritate perfertur in regiam, ut ex ea sanguis destillet in focum, participandae rei divinae gratia; quem hostiae loco quidam Marti bellico deo sacrari dicunt, non, ut vulgus putat, quia velut supplicium de eo sumatur, quod Romani Ilio sunt orundi7, et Troiani ita effigie mequi8 sint capti. Multis autem gentilibus equum hostiarum numero haberi testimonio sunt Lacedaemoni, qui in monte Taygeto equum ventis immolant, ibidemque adolent, ut eorum flatu cinis eius per finis quam latissime differatur. Multis autem gentibus equum hostiarum numero haberi testimonio sunt Lacedaemoni, qui in monte Taygeto equum ventis immolant, ibidemque adolent, ut eorum flatu cinis eius per finis quam latissime differatur. Et Sallentini, aput9 quos Menzanae Iovi dicatus vivus conlicitur10 in ignem et trodi11, qui quod annis2 quadrigas soli consecratas in mare iaciunt, quod is12 tali curriculo fertur circumvehi mundum (Si chiama cavallo di ottobre quello che viene sacrificato ogni anno a Marte nel Campo Marzio nel mese di ottobre, quello destro delle bighe vincitrici; la sua testa soleva essere oggetto di una contesa non di poco conto tra gli abitanti della Suburra e quelli della Via Sacra, perché l’affiggessero questi sul muro della reggia, quelli sulla torre Mamilia; e la sua coda viene portata nella reggia con tale velocità in modo che il sangue goccioli nel fuoco al fine di godere del favore divino; alcuni dicono che il cavallo viene consacrato come vittima a Marte dio della guerra non, come il popolo crede, perché da esso si compia il sacrificio, ma poiché i Romani sono oriundi di Ilio e i Troiani sarebbero stati presi dall’immagine di un cavallo.  Che poi il cavallo presso molte genti sia tenuto nel novero delle vittime sacrificali lo testimoniano gli Spartani che sul monte Taigeto immolano un cavallo ai venti e lì lo bruciano in modo che col loro soffio la sua cenere si sparga quanto più ampiamente è possibile per i territori. E i Salentini, presso i quali un cavallo consacrato a Giove Menzana viene gettato vivo nel fuoco e gli abitanti di Rodi che ogni anno gettano in mare le quadrighe consacrate al sole perché si dice che da queste il mondo è portato in giro con tale corsa).

Dopo la lettura, almeno credo, di questi due brani (il secondo, presente in un manoscritto delle Biblioteca Farnesiana, probabilmente è il brano festiano originale sintetizzato nel precedente da Paolo Diacono) cosa fa il professore Campana? Giove Menzana – dice – dovrebbe essere l’antica divinità femminile dei cavalli e proprio a Menzana Pluvio i Messapi, nel mese di ottobre, bruciavano un cavallo vivo nel fuoco.

Saldando malamente quanto arbitrariamente le due testimonianze, il sacrificio ottobrino del cavallo a Marte viene attribuito a Giove Menzana che, non si sa in base a che cosa, viene assimilato a Giove Pluvio e diventa, così, Menzana Pluvio, divinità indispensabile per completare l’ipotesi che a questo punto chiama in causa la seconda fonte13. Prima di passarvi, però, debbo far notare  Hippios presentato come una misteriosa divinità micenea dalle abitudini sessuali particolari (finché non viene citata la fonte non ci credo, anche se questi dei erano capaci di tutto; d’altra parte, che dei sarebbero stati?). Hippios è semplicemente l’epiteto di diverse divinità, tra cui spicca Poseidone (ma non Zeus/Giove), che notoriamente ha a che fare con l’acqua e con il cavallo …

2) Pausania (II secolo d. C.), Graeciae descriptio, VIII, 10, 2: Παρὰ δὲ τοῦ ὄρους τὰ ἔσχατα τοῦ Ποσειδῶνός ἐστι τοῦ Ἱππίου τὸ ἱερόν, οὐ πρόσω σταδίου Μαντινείας (Ai piedi dei monti vi è il tempio di Poseidone Hippio, non lontano dallo stadio di Mantinea); VIII, 14, 5: Καὶ Ποσειδῶν χαλκοῦς ἕστηκεν ἐπωνυμίαν Ἵππιος, ἀναθεῖναι δὲ τὸ ἄγαλμα τοῦ Ποσειδῶνος Ὀδυσσέα ἔφασαν· ἀπολέσθαι γὰρ ἵππους τῷ Ὀδυσσεῖ, καὶ αὐτὸν γῆν τὴν Ἑλλάδα κατὰ ζήτησιν ἐπιόντα τῶν ἵππων ἱδρύσασθαι μὲν ἱερὸν ἐνταῦθα Ἀρτέμιδος καὶ Εὑρίππαν ὀνομάσαι τὴν θεόν, ἔνθα τῆς Φενεατικῆς χώρας εὗρε τὰς ἵππους, ἀναθεῖναι δὲ καὶ τοῦ Ποσειδῶνος τὸ ἄγαλμα τοῦ Ἱππίου (Dicono che Ulisse pose la statua di Poseidone, che cavalli erano stati perduti da Ulisse e che egli, dopo aver percorso tutta la Grecia alla ricerca dei cavalli, innalzò un tempio di Artemide, e chiamò la dea Eurippa, in quella parte della regione feneatica in cui aveva trovato i cavalli e che innalzò anche una statua di Poseidone Hippio); VIII, 25, 7: Τὴν δὲ Δήμητρα τεκεῖν φασιν ἐκ τοῦ Ποσειδῶνος θυγατέρα, ἧς τὸ ὄνομα ἐς ἀτελέστους λέγειν οὐ νομίζουσι, καὶ ἵππον τὸν Ἀρείονα· ἐπὶ τούτῳ δὲ παρὰ σφίσιν Ἀρκάδων πρώτοις Ἵππιον Ποσειδῶνα ὀνομασθῆναι (Dicono che Demetra generò da Poseidone una figlia il cui nome ritengono da non dirsi in presenza di non iniziati, e il cavallo Arione; e che per questo Poseidone fu chiamato Hippio da loro per primi tra gli Arcadi);    VIII, 25, 5: Πλανωμένῃ γὰρ τῇ Δήμητρι, ἡνίκα τὴν παῖδα ἐζήτει, λέγουσιν ἕπεσθαί οἱ τὸν Ποσειδῶνα ἐπιθυμοῦντα αὐτῇ μιχθῆναι, καὶ τὴν μὲν ἐς ἵππον μεταβαλοῦσαν ὁμοῦ ταῖς ἵπποις νέμεσθαι ταῖς Ὀγκίου, Ποσειδῶν δὲ συνίησεν ἀπατώμενος καὶ συγγίνεται τῇ Δήμητρι ἄρσενι ἵππῳ καὶ αὐτὸς εἰκασθείς (Dicono che Poseidone inseguiva Demetra, che vagava in cerca della figlia, desiderando accoppiarsi con lei e che essa trasformatasi in cavalla si nascose tra i cavalli di Onchio;  Poseidone però si accorse di essere stato ingannato e si accoppiò con Demetra dopo aver assunto le sembianze di un cavallo); VIII, 42, 1-5: Ὅσα μὲν δὴ οἱ ἐν Θελπούσῃ λέγουσιν ἐς μῖξιν τὴν Ποσειδῶνός τε καὶ Δήμητρος, κατὰ ταὐτά σφισιν οἱ Φιγαλεῖς νομίζουσι, τεχθῆναι δὲ ὑπὸ τῆς Δήμητρος οἱ Φιγαλεῖς φασιν οὐχ ἵππον ἀλλὰ τὴν Δέσποιναν ἐπονομαζομένην ὑπὸ Ἀρκάδων· τὸ δὲ ἀπὸ τούτου λέγουσι θυμῷ τε ἅμα ἐς τὸν Ποσειδῶνα αὐτὴν καὶ ἐπὶ τῆς Περσεφόνης τῇ ἁρπαγῇ πένθει χρωμένην μέλαιναν ἐσθῆτα ἐνδῦναι καὶ ἐς τὸ σπήλαιον τοῦτο ἐλθοῦσαν ἐπὶ χρόνον ἀπεῖναι πολύν. Ὡς δὲ ἐφθείρετο μὲν πάντα ὅσα ἡ γῆ τρέφει, τὸ δὲ ἀνθρώπων γένος καὶ ἐς πλέον ἀπώλλυτο ὑπὸ τοῦ λιμοῦ, θεῶν μὲν ἄλλων ἠπίστατο ἄρα οὐδεὶς ἔνθα ἀπεκέκρυπτο ἡ Δημήτηρ, τὸν δὲ Πᾶνα ἐπιέναι μὲν τὴν Ἀρκαδίαν καὶ ἄλλοτε αὐτὸν ἐν ἄλλῳ θηρεύειν τῶν ὀρῶν, ἀφικόμενον δὲ καὶ πρὸς τὸ Ἐλάιον κατοπτεῦσαι τὴν Δήμητρα σχήματός τε ὡς εἶχε καὶ ἐσθῆτα ἐνεδέδυτο ποίαν· πυθέσθαι δὴ τὸν Δία ταῦτα παρὰ τοῦ Πανὸς καὶ οὕτως ὑπ᾽ αὐτοῦ πεμφθῆναι τὰς Μοίρας παρὰ τὴν Δήμητρα, τὴν δὲ πεισθῆναί τε ταῖς Μοίραις καὶ ἀποθέσθαι μὲν τὴν ὀργήν, ὑφεῖναι δὲ καὶ τῆς λύπης. Σφᾶς δὲ ἀντὶ τούτων φασὶν οἱ Φιγαλεῖς τό τε σπήλαιον νομίσαι τοῦτο ἱερὸν Δήμητρος καὶ ἐς αὐτὸ ἄγαλμα ἀναθεῖναι ξύλου. Πεποιῆσθαι δὲ οὕτω σφίσι τὸ ἄγαλμα καθέζεσθαι μὲν ἐπὶ πέτρᾳ, γυναικὶ δὲ ἐοικέναι τἄλλα πλὴν κεφαλήν· κεφαλὴν δὲ καὶ κόμην εἶχεν ἵππου, καὶ δρακόντων τε καὶ ἄλλων θηρίων εἰκόνες προσεπεφύκεσαν τῇ κεφαλῇ· χιτῶνα δὲ ἐνεδέδυτο καὶ ἐς ἄκρους τοὺς πόδας· δελφὶς δὲ ἐπὶ τῆς χειρὸς ἦν αὐτῇ, περιστερὰ δὲ ἡ ὄρνις ἐπὶ τῇ ἑτέρᾳ. Ἐφ᾽ ὅτῳ μὲν δὴ τὸ ξόανον ἐποιήσαντο οὕτως, ἀνδρὶ οὐκ ἀσυνέτῳ γνώμην ἀγαθῷ δὲ καὶ τὰ ἐς μνήμην δῆλά ἐστι· Μέλαιναν δὲ ἐπονομάσαι φασὶν αὐτήν, ὅτι καὶ ἡ θεὸς μέλαιναν τὴν ἐσθῆτα εἶχε Τοῦτο μὲν δὴ τὸ ξόανον οὔτε ὅτου ποίημα ἦν οὔτε ἡ φλὸξ τρόπον ὅντινα ἐπέλαβεν αὐτό, μνημονεύουσιν· ἀφανισθέντος δὲ τοῦ ἀρχαίου Φιγαλεῖς οὔτε ἄγαλμα ἄλλο ἀπεδίδοσαν τῇ θεῷ καὶ ὁπόσα ἐς ἑορτὰς καὶ θυσίας τὰ πολλὰ δὴ παρῶπτό σφισιν, ἐς ὃ ἡ ἀκαρπία ἐπιλαμβάνει τὴν γῆν· καὶ ἱκετεύσασιν αὐτοῖς χρᾷ τάδε ἡ Πυθία· “Ἀρκάδες Ἀζᾶνες βαλανηφάγοι, οἳ Φιγάλειαν/νάσσασθ᾽, ἱππολεχοῦς Δῃοῦς κρυπτήριον ἄντρον,/ἥκετε πευσόμενοι λιμοῦ λύσιν ἀλγινόεντος,/μοῦνοι δὶς νομάδες, μοῦνοι πάλιν ἀγριοδαῖται./Δῃὼ μέν σε ἔπαυσε νομῆς, Δῃὼ …(Tutto quello che dicono gli abitanti di Thelpusa circa l’unione di Poseidone e Demetra lo ritengono accettabile gli abitanti di Figalea, ma questi ultimo dicono che da Demetra fu generato non un cavallo ma la dea chiamata Padrona dagli abitanti dell’Arcadia; dopo questo dicono che, presa dall’ira contro Poseidone e dal dolore in seguito al rapimento di Persefone, indossò una veste nera e ritiratasi in questa spelonca fu assente dal cielo per lungo tempo. Così tutto ciò che la terra produce deperiva e pure il genere umano in gran parte moriva per la fame senza che nessuno degli altri dei sapesse dove Demetra si nascondeva; ma che Pan venne in Arcadia e, lì cacciando ora su un monte ora su un altro, giunto vicino all’Elaio riconobbe Demetra sotto l’aspetto e il vestito che aveva indossato, che Giove seppe ciò da Pan e così da lui furono inviate le Moire e queste placarono lira e allontanarono il dolore. Per questo gli abitanti di Figalea dicono di considerare sacro quest’antro di Demetra e di avervi posto una statua di legno. Dicono che da loro era stata raffigurata seduta su una pietra e che somigliava in tutto ad una donna eccetto la testa; che aveva la testa e la chioma di una cavalla e che immagini di serpenti e di altri animali feroci le uscivano dalla testa, che indossava una tunica che le arrivava ai piedi. Aveva un delfino su una mano, una colomba sull’altra. È chiaro a qualsiasi uomo che abbia un minimo d’intelligenza e di memoria perché la statua era stata fatta così: dicono di averla chiamata Nera poiché anche la dea aveva un vestito nero. Non ricordano di chi fosse opera né come il fuoco la distrusse. Distrutta l’antica statua, gli abitanti di Figalea non ne dedicarono un’altra alla dea e venne trascurato da loro  quanto riguardava le feste e i sacrifici, per cui l’infertilità assalì la terra; e ad essi che avevano consultato l’oracolo questa fu la risposta della Pizia: “Abitanti Arcadi di Azania mangiatori di ghiande, che abitate Filagea, antro nascosto della divinità mutata in cavalla, venite a domandare la fine della fame che vi tormenta, solo due volte nomadi, solo per la seconda volta ridotti a nutrirvi di frutti selvatici. Demetra ti ha tolto il pascolo, Demetra …).

Come andò a finire? Naturalmente, ripristinato il culto per Demetra, la carestia cessò.

Ho detto che l’attributo Ippios ricorre per molte divinità e in modo particolare per Poseidone. Ad onor del vero ci sarebbe pure un Giove Ippio (Ζεῦϛ Ἵππιος), dubbio per due motivi, in Esichio di Mileto (V-VI secolo d. C.), autore di una Storia universale. Il primo dubbio è legato al modo in cui ci è giunto il testo di Esichio che appare come una sua elaborazione fatta da Giorgio Codino, scrittore bizantino del XV secolo col titolo Πάτρια Κωνσταντινουπόλεως κατὰ Ἡσύχιον Ἲλλούστριον (Costumi di Costantinopoli secondo Esichio l’Illustre). Cito il testo originale da Corpus historiae Byzantinae a cura di G. B. Niebhur, Weber, Bonn, 1843, p. 12:  Παυσαμένης δὲ τῆς ὀργῆς τοῦ Σεβήρου αὖθις τοῦτον ἔσχον εἰς βασιλέα, ὅς καὶ εἰς μείζονα καὶ περιφανῆ κόσμον ἐπανήγαγε τὸ Βυζάντιον. Λουτρὸν μὲν μέγιστον κατὰ τὸν τοῦ ἱππίου Διὸς βωμόν, ἤτοι τὸ Ἡρακλέους καλούμενον ἄλςος, ἀνήγειρεν, ἔνθα δὴ καὶ τὰς Διομήδους δαμάσαντες ἵππους Ζεύξιππον τὸν τόπον ὠνόμασαν (Ebbero questo a vantaggio del regno una volta  cessata l’ira di Severo, il quale pure elevò Bisanzio ad un decoro più grande e visibile da ogni parte. Realizzò infatti un grandissimo bagno presso l’altare di Zeus Ippio e quello chiamato bosco sacro di Eracle, dove pure quelli che avevano domato i cavalli di Diomede chiamarono il luogo Zeuxippo).

Il secondo dubbio è di natura più strettamente filologica ed è legato al toponimo Ζεύξιππον (leggi Zèuxippon) attestato nell’Antologia Palatina (compilazione bizantina risalente alla metà del X secolo) e in particolare inserito nel titolo (Ἔκφρασις τῶν ἀγαλμάτων τῶν εἰς τὸ δημόσιον γυμνάσιον το ἐπικαλουμένον τοῦ Ζευξίππου=descrizione delle statue che ci sono nei pressi del ginnasio pubblico detto di Zeuxippo) di un componimento in esametri di Cristodoro Tebano (sec. V d. C.). In esso nessuna statua di uno Zeus Hippios è registrata presente nel ginnasio e tantomeno descritta; si può immaginare, se veramente Zeuxippo fosse composto da Zeus e hippos che mancasse proprio quella che aveva dato il nome allo stesso ginnasio, mentre sono presenti, tra le divinità, Poseidone, Eracle, Ermes, Artemide, Apollo ed Afrodite (questi ultimi due addirittura con tre statue ciascuno)? E perché Ζεύξιππον e non Ζεύσιππον (leggi Zèusippon)?

Secondo me tutto sta proprio in –ξ– invece di –σ e, siccome tale passaggio non sarebbe giustificato da nessuna regola fonetica, credo che il primo componente non sia Ζεῦϛ ma la radice [ζευγ– (leggi zeug-)] del verbo ζεύγνυμι (leggi zèugniumi)=aggiogare. Ciò è in linea non solo con l’azione operata sui cavalli di Diomede da Eracle ed Abdero ma anche, foneticamente parlando, con formazioni analoghe [ζευξίγαμος (leggi zeuxìgamos)=che unisce in matrimonio; ζευξίλεως (leggi zeuxìleos)=soggiogatore del popolo]. Lo confermano gli onomastici (non teonimi) Ζεύξιππος (leggi Zèuxippos)=Zeusippo e Ζευξίππη (leggi Zeuxìppe)=Zeusippa, attestati, il primo, fra gli altri, in Platone (Protagora, 318 b) e il secondo in Alcmane, 71 ed in Apollodoro, III, 14, 8. Non c’è ombra di dubbio, pure qui, che il primo componente non è certamente Zeus.

Un’altra spia è data dall’assenza di –ι– in Ζεύξιππος e la sua presenza, invece, (mi riferisco alla seconda) in Ἵππιος, che come aggettivo comune deriva dal sostantivo ἵπποϛ (=cavallo) e significa, perciò, equino. Si ripete, cioè, la tecnica di formazione (radice verbale+sostantivo) presente, guarda caso, nell’Εὑρίππα  che poco fa ho citato da Pausania e che è formato da εὑρ– (radice del verbo εὑρίσκω=trovare)+ἵπποϛ (adattato al femminile). Insomma: Εὑρίππα si chiama così con riferimento al ritrovamento dei cavalli, il luogo Ζεύξιππον con riferimento al loro aggiogamento. 

Tenendo conto della cronologia degli autori per questa questione citati non è azzardato supporre che il Codino per salvare capra e cavoli abbia mixato la corretta etimologia esichiana con una paretimologia di epoca posteriore. Credo che questo, unito al riferimento del bagno e del bosco sacro, abbia autorizzato il professor Campana (a meno che non abbia ripreso una tesi altrui) a conferire a Zeus caratteristiche idriche sovrapponendole alle originarie equine.

3) Si tratta di un repertorio di Statuta officiorum (statuto dei doveri), in pratica un elenco di toponimi riferentisi a vari centri di ciascun distretto (iustitiariatus) degli undici, previsti dalle Costituzioni di Melfi ed istituiti dopo la loro emanazione (1231), con annotazione dei soggetti aventi l’obbligo o la facoltà di provvedere al restauro o alla manutenzione delle fortezze regie.   Riporto integralmente in formato immagine per fare più presto, sempre con la mia successiva traduzione13, la parte relativa al giustiziariato di Terra d’Otranto citandola da E. Winkelmann Acta imperii inedita sec. XIII, Verlag der Wagner’Schen Universitats Buchhandlung, Innsbruck, 1880, pp. 773-775:

2

Nomi dei centri fortificati e delle case del giustiziariato imperiale di Terra d’Otranto e nomi delle terre del medesimo giustiziariato, che sono deputate al rifacimento dei centri fortificati e delle case imperiali.

In primo luogo il centro fortificato di Otranto può essere rifatto dagli uomini della medesima città, della chiesa otrantina e delle altre chiese della medesima terra che hanno ivi feudi e dai baroni della medesima terra e dagli uomini e chiese aventi feudi con dignità di centro fortificato.

Il centro fortificato di Lecce dagli uomini di Lecce.

Il centro fortificato di Nardò può essere rifatto dagli uomini della medesima terra e di Cesarea.

Il centro fortificato di Gallipoli deve essere rifatto dai baroni di Nardò, dall’abate di Nardò con il feudo di Soleto e di Ugento, e della chiesa di Ugento, che hanno feudi e casali della stessa terra e gli uomini di Gallipoli possono rifare con gli stessi il centro fortificato.

Il centro fortificato di Brindisi deve essere rifatto dagli uomini del casale di San Pietro di Ypsale, del casale di Campi, di San Vito e dagli uomini di Brindisi e delle chiese che hanno feudi in Brindisi e dal feudo di Ruggero di Mayfino e gli uomini di Lecce e delle chiese della medesima terra che hanno feudi in Lecce possono rifare il medesimo centro fortificato insieme con i predetti.

Il centro fortificato di Mesagne può essere rifatto dagli uomini della medesima terra.

Il centro fortificato di Oria deve essere rifatto dai sottoscritti uomini per motivi precisi, cioè il feudo di don Ioto de Divente deve dare per il rifacimento dello stesso centro abitato cento moggi di calce e venti travi, il feudo di donna Claricia cinquanta moggi di calce e trenta travi, l’abate di S. Andrea cento moggi di calce e trenta travi, dal possedimento di Oria il vescovo di Ostuni cinquanta moggi di calce e dieci travi, il vescovo di Lecce venti moggi di calce e cinque travi, il vescovo di Ugento trenta moggi di calce e dieci travi, Roberto di Mostacia cinquanta moggi di calce e trenta travi, l’abate di Vaniolo venti moggi di calce e cinque travi, Ugo di Lucone quaranta moggi di calce e dieci travi, don Ruggero cinquanta moggi di calce e venti travi, Oliviero Grimmamala centocinquanta moggi di calce e cinquanta travi, Stefano Pagano di Benevento cento moggi di calce e cinquanta travi, l’arciprete di Oria duecento moggi di calce e sessanta travi, Leone di Palagana venti moggi di calce e due travi, Adenolfo di Aquino cinquanta moggi di calce e venti travi, donna Dyatimia moglie di Ruggero di Flandines deve dare la calce e le travi per il possedimento di Oria, il priore di Santa Cecilia cinque moggi di calce  e due travi, Ruggero Scannacavallo quaranta moggi di calce e dieci travi, S. Maria di Grana cinque moggi di calce e due travi, Ceglie e Gualda centocinquanta moggi di calce e cento travi, il priore di Casavecchia cento moggi di calce e cinquanta travi, Potente cinquanta moggi di calce e venti travi. E il resto del medesimo centro fortificato possono restaurarlo e rifarlo gli uomini di Oria. Il centro fortificato di Ostuni può essere rifatto dagli uomini di Ostuni, Carovigno e Petrella. Il centro fortificato di Taranto deve essere rifatto dagli uomini sottoscritti per motivi precisi, cioè la sala grande la debbono fare ed allestire gli uomini di Taranto dal demanio del signor imperatore, gli uomini di Castelluccio e di Mottola debbono rifare il giro nel prospetto e coprire sette canne. Nella sala del principe sono necessarie quattro travi, otto capriate e una delle sale dev’essere impalcata e dev’essere impalcato il portico davanti alle medesime sale, cosa che deve fare l’arcivescato. Sul barbacane dalla parte del grande muro un’apertura alla base di cinque canne e sopra un’apertura dall’angolo del muro di cinque canne, il che deve fare il priore di Franganone e il priore di S. Ronzo e deve fare la parte mediana e l’abate di Tripiano deve dargli l’ausilio di undici salme di calce. Le quattro torri, che sono dalla parte della città, sono da lastricare e in esse devono essere fatte scale di legno e la parte esterna del muro dev’essere fatta di pietre e dev’essere cementata, il che debbono fare gli uomini di Taranto. La torre che è sopra la grande porta del castello la deve allestire Guglielmo Maletto, nonché il ponte e il parapetto che è da una parte e dall’altra della stessa torre. La porta di S. Benedetto de Caveis deve farla il priore del casale Ruito, al quale il priore di Asano deve dare l’aiuto di venti salme di calce. La porta di Celo la devono fare gli abati dell’Isola grande e piccola e gli uomini di Murugliano debbono aiutarli e il priore di S. Pietro Imperiale deve fare la metà della stessa porta e deve avere l’aiuto degli affidatari di Lanzano. La torre della torre di Pilato la deve fare Lando di Aquino e deve rifare il muro dritto che è presso la stessa torre. Guglielmo Maletto deve porre in alto nella cappella di Santa Maria cinque travi e sopra le stesse fare il pavimento. E il resto del medesimo centro fortificato lo possono rifare gli uomini di Taranto. Il centro fortificato di Massafra può essere rifatto dagli uomini della medesima terra e dagli uomini che la chiesa di Moculo ha a Massafra e dai baroni di Massafra. Il centro fortificato di Moculo può essere rifatto dagli uomini della medesima terra e dagli uomini che la chiesa di Moculo ha a Moculo e dai baroni di Moculo. La casa del signor imperatore che è a Castelluccio può essere rifatta dagli uomini della medesima terra e dagli uomini del casale di Palagiano. Il centro fortificato di Ienusa può essere approntato dagli uomini della medesima terra e dagli uomini di Laterza. Il centro fortificato di Matera può essere approntato dagli uomini del corpo della città di Matera e di Sasso Barisano della medesima terra. La casa di Girofalco può essere rifatta dagli uomini di Sasso Carioso di Matera e dai Saraceni del casale di San Iacopo.

Punti cardine del testo latino sono quattro verbi, dei quali gli ultimi tre riassumono quella che oggi è chiamata manutenzione ordinaria e straordinaria: facere  (=fare), riservato alla realizzazione di parti prima inesistenti; reparare (=riparare); reficere (=rifare, ripristinare, restaurare); preparare=organizzare l’esecuzione dei lavori. Colpisce anche la descrizione dettagliata di alcuni interventi, di chi deve fornire i materiali (sostanzialmente calce e travi) e in quale quantità. Tutti gli interventi, comunque, riguardano fabbriche dell’imperatore che costituiscono il cuore del castrum, ribadisco castrum e non castellum14. Ecco, allora, la seconda disinvolta forzatura: si passa dal castrum Meyani di questo documento al  castrum mezzaneum (che in realtà compare nel diploma del 1221 di cui parlerò fra pochissimo) perché mezzaneum (dopo un’ulteriore capriola che, con l’assimilazione, arbitraria, di castrum a castellum, ha dato vita a castella Menzanae)  si mostra più adatto per la messa in campo, dopo Giove Menzana,  della menza o minzana.

Su quest’ultima mi riservo di tornare per la botta finale. Intanto sottolineo come nel repertorio appena analizzato alcuni lavori, certamente meno importanti del rifacimento o della non distruzione di un castellum (inteso come serbatoio), sono descritti dettagliatamente per altri castra che non siano Mesagne. Vista l’importanza di immagine (con tutti i connessi aspetti politici, strategici , propagandistici) che una qualsiasi struttura idrica (naturale o artificiale che fosse) poteva avere, come pure, questa volta giustamente, sottolinea il Campana, è mai pensabile che tale dettaglio potesse essere omesso?

In realtà la possibilità di reparatio concessa a castrum Meyani è frutto di un calcolo politico, magari già maturato in occasione della promulgazione delle Costituzioni di Capua e che nella fattispecie trova la sua attuazione appena un anno dopo in diploma emesso a Taranto nell’aprile 1221 (custodito nell’Archivio di Stato di Napoli, del quale riporto i brani che ci interessano da Historia diplomatica Friderici Secundi, a cura di J. L. A. Huillard-Bréholles,Fratelli Plon, Parigi, 1852, tomo II, parte I, pagg. 163-165). Con questo diploma l’imperatore Federico ripristina un privilegio già concesso ai cavalieri Teutonici da suo padre Enrico VI: …  quod predictus dominus pater noster pia liberalitate concesserat et donaverat eidem domui Mezzaneum castrum, videlicet in terra Ydronti, quod est inter Brundisium et Oriam cum omnibus justis tenimentis et pertinentiis suis, et quod priuvilegium imperatoris ejusdem adveniente casu fuerat amissum, tempore videlicet quo Brundusini contra eamdem domum insultum temerarium facientes in ipsam et bona ejus nequiter et rapaciter irruerunt, intuitu retributionis eterne et pro remedio animarum divorum augustorum parentum nostrorum volentes quod idem imperator fecerat de liberalitate munifica innovare, castrum [……] cum omnibus justis tenimentis et pertinentiis suis eidem domui hospitalis et fratribus supradictis donamus, concedimus et in perpetuum confirmamus … (il luogo fortificato di Mesagne che il predetto padre nostro con pia generosità aveva concesso e donato alla medesima casa, cioè in terra d’Otranto, quello che si trova fra Brindisi ed Oria con tutti i suoi possedimenti e le sue pertinenze, privilegio del medesimo imperatore che era stato perduto per sopraggiunte vicende, cioè nel tempo in cui i Brindisini facendo un temerario attacco contro la medesima casa si scagliarono ingiustamente e rapacemente contro di essa ed i suoi beni, con l’intento di eterna ricompensa e a suffragio delle anime dei nostri divini augusti genitori, cosa che lo stesso imperatore aveva fatto istituire con munifica liberalità, doniamo, concediamo e confermiamo in perpetuo alla stessa casa dell’ospedale e ai suddetti frati il luogo fortificato [….] con tutti i suoi giusti possedimenti e pertinenze …).

Appare evidente che solo un pazzo autolesionista e con nessuna vocazione politica avrebbe potuto ordinare la distruzione di un bene che aveva intenzione di donare (non certo o, almeno, non solo per suffragio delle anime di un genitore per quanto augusto …) e che, dunque, la possibile reparatio dell’atto precedente riguarda senza dubbio alcuno il castrum Meyani (qui castrum Mezzaneum) e non i fantomatici castella Mezzanae.

Non commento la banalità di Non è tutto, poiché gli studenti spiegano che in una radura al centro di un bosco sacro (locus), vicino ad una sorgente d’acqua, gli antenati officiavano i loro riti per propiziarsi la divinità e voglio attribuirla al maldestro intervistatore, come attribuisco pure a lui Temené per Temène (per chi non conosce il greco: significa recinti sacri).   

Tornando agli autori dell’ipotesi (e continuo a limitarmi al solo recipiente perché mi occuperò dell’etimo di Mesagne solo se questo post susciterà qualche interesse o, meglio, qualche rabbiosa reazione …) : pretendere, poi, che Menzana abbia dato origine a minza e minzana sarebbe come dire, per restare in loco, che castello deriva da castellana e non viceversa.

Sarebbe bastata questa considerazione [al di là delle incongruenze di carattere metodologico che ho appena finito di provare e pure al di là del fatto, anch’esso di natura linguistica, che concordemente si considera menzana forma aggettivale dell’illirico *menza/mandia (cfr. albanese mes/mezi=muletto, mezat=torello, mezore=vitella; la continuazione nel latino mannus15 (da *mandus)=puledro e nel diminutivo mànnulus16] a distogliere dal formulare l’ipotesi di lavoro e, addirittura, ufficializzarla in un convegno. Non so quali siano state le reazioni di altri addetti ai lavori o presunti tali. So solo che quest’ipotesi non poteva non trovare accoglimento, dopo aver subito un’ulteriore mutazione in dato certo, da parte di una persona di mia conoscenza adusa alla latitanza delle fonti ed a collage di ogni tipo, in un improbabile quanto confuso e ricorrente (per usare due eufemismi …) sincretismo di forze naturali e non;  ma,  perché egli ne abbia contezza, propongo per brevità al lettore interessato ad un controllo, nel mentre mi scuso con gli altri per aver fatto, probabilmente, già perdere loro troppo tempo, il link http://www.iltaccoditalia.info/sito/index-a.asp?id=24755.

Vi troverà il povero Iuppiter Menzana (per quanto s’è detto Giove signore del cavallo) diventato nel Campana Menzana Pluvius (signore del cavallo propiziatore della pioggia), che ha subito un imprevisto cambiamento di sesso, cui allude il nuovo nome Menzana pluvium (Pluvius è di genere maschile, pluvium di genere neutro e neppure sotto tortura potrebbe accordarsi con Menzana che neutro non è, nonostante i variabili gusti sessuali degli dei pagani …); siccome, poi, le varianti, soprattutto quelle inventate, fanno comodo, ecco comparire Minzana pluvium in http://mobile.virgilio.it/micro/canali/search/dettaglio.jsp?nsid=41029690&ncid=00&qrs=magia+rituale&ofsp_back=0&eng_back=3&fromhp=yes

Infine, per chi, non pago, non volesse farsi mancare proprio nulla (tra l’altro il carattere prezioso di tutti i contributi segnalati in questo gran finale è dimostrato dal fatto che essi appaiono, postati da chi? …,  in un numero considerevole di altri links): http://www.frequency.com/video/campane-salentine-minzana-pluvium-giove/23070372.

__________

1 Per la capasa ed altri contenitori in terracotta vedi: https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/03/capasone-e-il-capofamiglia-capasa-la-mamma-capasieddhu-il-figlio/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/12/a-proposito-di-cumitati-ecco-le-terracotte-salentine/

2 Quod annis per quotannis.

3 Per victricium.

4 Per figerent.

5 Per cauda.

6 Per tanta.

7 Per oriundi.

8 Per equi.

9 Per apud.

10 Per conicitur.

11 Per Rhodii

12 Per his.

13 Finché non sarò smentito riterrò il periodo conclusivo attribuito al professor Campana Probabilmente lo stesso Federico II quando nel 1220 promulgava “le Costituzioni di Capua” con una famosa bolla parlava di non abbattere “castrum mezzaneum” riferendosi proprio a “castella Menzanae” cioè ai serbatoi dell’acqua presenti nel suburbio di Mesagne, pertanto parlava, probabilmente, della necessità di sistemare i serbatoi sotterranei dell’Acquaro così utili non solo alla sussistenza umana, ma anche prezioso elemento di celebrazione del potere imperiale una trascrizione passiva e strumentale di quanto si legge in Domenico Urgesi, Il castello di Mesagne nelle fonti storiche e documentarie, Mesagne, Flash, 1998: … il castrum (o la rocca) di Mesagne viene menzionato in un documento federiciano del 1220 [non so in base a che viene recuperata questa data, visto il range temporale ascritto al repertorio] sul quale non pesa alcun’ombra di dubbio; in esso si dice che: Castrum Mejanii [ovvero Meyani] reparari potest per homines eiusdem terre. Nel momento in cui Federico II emanava le Costituzioni di Capua (tese a recuperare al sovrano il suo demanio) e, con esse, ordinava la demolizione di numerosi castelli costruiti durante la sua minore età, quello di Mesagne veniva invece preservato: il castello [la rocca o il semplice luogo fortificato) può essere riparato dagli uomini della sua Terra (e quindi non va distrutto]. Si noti che il termine “castrum” viene utilizzato nei documenti svevi ed angioini, per indicare fortificazioni in cui si insediava solo una guarnigione militare.

Anche qui la definizione di castrum [per la quale l’autore cita in nota E. Sthamer, L’amministrazione dei castelli nel regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo I d’Angiò, Adda, Bari, 1995; molto più illuminante, invece, mi pare Jean- Marie Martin, I castelli federiciani nelle città del Mezzogiorno d’Italia, in Castelli e fortezze nelle città italiane e nei centri minoro italiani (secoli XIII-XV), a cura di Francesco Panero e Giuliano Pinto, Centro Internazionale di Ricerca sui Beni Culturali, Cherasco, 2009, pp. 251-269)] mi pare riduttiva, anche alla luce del ripristino di un privilegio riguardante proprio Mezzaneum castrum cum omnibus justis tenimentis et pertinentiis suis contenuto in un diploma del 1221 del quale parlerò poco più avanti.

14 Già nel latino classico (Virgilio, Georgiche III, 475) indica una borgata posta in altura  e in Vitruvio un serbatoio per l’acqua. Questo secondo significato continuerà nel latino medioevale come voce giuridica: ecco come il lemma è trattato nel Glossarium mediae et infimae latinitatis del Du Cange: “Receptaculum quod aquam publicam suscipit, quae ducitur ad aliquod praedium irrigandum, in veteri utriusque Juris vocabulario” (Serbatoio che riceve l’acqua pubblica che viene condotta per irrigare un fondo, in un vecchio vocabolario di entrambi i diritti).

15 Lucrezio (I secolo a. C.), De rerum natura, III, 1062: currit agens mannos ad villam praecipitanter (corre spingendo precipitosamente i puledri verso la fattoria).

16 Plinio il giovane,  (I-II secolo d. C.), Epistulae, IV, 2, 3: Habebat puer mannulos multos et iunctos et solutos (Il fanciullo aveva molti puledrini e legati e liberi).

 

Sans-Papiers e Cattedrale, a Mesagne

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L’associazione Sans-Papiers nel suo settimo anno di attività ripropone domenica 24 marzo alle ore 21,00 per il pubblico del Teatro Comunale di Mesagne il suo spettacolo “Cattedrale”,  un racconto musicale moderno  tratto dal celeberrimo romanzo storico di Victor Hugo “Il Gobbo di Notre Dame”.
L’occasione o se vogliamo il pretesto, nasce da un periodo per certi versi critico vissuto dal giovane gruppo mesagnese, dovuto principalmente ad una fase nuova che sta vivendo l’associazione alle prese con una fortunata ma complessa attività di ristrutturazione che, a partire da l’ultima stagione appena trascorsa, ha dirottato sempre di più i propri sforzi verso la realizzazione di spettacoli destinati principalmente agli operatori turistici del territorio salentino. Una fase questa, ricca di opportunità di lavoro, complessa e delicata che ha comportato l’impiego di notevoli risorse economiche ed umane con lo scopo ambizioso, ma realistico perché già sperimentato con successo, di realizzare nella nostra città un centro di produzione  permanente e funzionale agli interessi di un crescente e sempre più dirompente desiderio di offerta culturale da parte di giovani artisti, gruppi, associazioni e tecnici che operano  nel campo della danza, della musica e dello spettacolo da vivo.
Per questi motivi e per dare alla associazione la spinta necessaria per raggiungere i suoi intenti, la Sans-Papiers ha chiesto a tutti i suoi artisti e tecnici associati di aderire gratuitamente a questa giornata di solidarietà; al suo pubblico e a quanti desiderano conoscere e apprezzare meglio le nostre attività di partecipare allo spettacolo serale del 24 marzo sottoscrivendo una piccola quota di partecipazione che dà diritto ad un invito numerato in teatro.

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N.B.
Non saranno ammessi in teatro ingressi a pagamento. Per procurarsi l’invito è necessario prenotare uno o più posti al seguente numero telefonico 328.83.60.179 o scrivere a: sanspapiersteatro@yahoo.it

Tutti i posti del loggione sono gratuiti e riservati ai ragazzi under 18, sempre con prenotazione del posto.

Posti ancora disponibili
CON UN PICCOLO CONTRIBUTO
vi regaleremo una splendida serata in
CATTEDRALE musical
domenica 24 marzo Teatro Comunale di Mesagne
(inizio spettacolo ore 21,00)

Hanno già aderito e ringraziamo:
A.S.D. Danza in Disordine Mesagne; Musical Academy Taranto; Dance Art Torchiarolo; PureRock Brindisi; Groove Music Store Mesagne; Comune di Mesagne; Cooperativa Thalassia; ISBEM Mesagne

sinossi dello spettacolo
CATTEDRALE di G.Carlos Stellini e Tony Bottazzo

musiche di A.A.V.V. in collaborazione con A.S.D. Danza in Disorrdine
coreografie di Simona Licci

è un racconto musicale scandito dalla voce di due giovani narratrici che
rievocano in un gioco di visioni tra passato e presente la triste storia dei derelitti di Parigi: Quasimodo, il campanaro gobbo di Notre Dame e di Esmeralda la bella gitana.
Un amore impossibile nato sul sagrato della cattedrale; un amore tragico cantato da Gringoire e compianto da Clopin; assediato dalla violenza di Febo; minacciato dall’orgoglio di Fiordaliso e represso nel sangue dalla lucida follia dell’arcidiacono Frollo innamorato della povera gitana.
Formazione: 7 cantanti; 2 attori; 8 ballerini.

con Giampiera Dimonte; Clara Scardicchio, Erica Montanaro, Fabrizio Loconsole, Francesco Strambelli; Francesca Miccoli; Monica Stenti; Mina Carlucci; Piero Locorotondo; Tony Bottazzo; Stefano Vozza; Daniele Barletta
Sara Baldini, Simona Licci, Claudia Ferruccio, Deborah Gravante, Sara Furone,
Chiara Gravili, Valentina Gatti, Fabiana Pinto.
Gabriele Omed Quaranta; Daniele Wana Magrì
Fonica e Luci Nanni Surace e Dario Morciano
assistente fonico Davide Petiti

associazione culturale
SANS-PAPIERS
Teatro Danza & Spettacolo
via Lazio, 12 – 72023 mesagne br
tel. e fax 0831733233

Francesco Bellotto scultore di Nardò e il cinquecentesco corteo trionfale della chiesa di S. Sebastiano a Galatone

 

Mesagne, portale del Bellotto (ph M. Gaballo)

di Vittorio Zacchino

Se vi capita di recarvi a Mesagne, vi raccomando una visita alla chiesa dell’Annunziata, o almeno una veloce incursione al «vico Antonio Corsi, alle spalle della Chiesa dei Domenicani». Vi imbatterete nella piacevole sorpresa di poter ancora ammirare «incastonato nella muratura esterna del coro» un bel portale di gusto e fattura rinascimentali con un sopraporta scolpito con scene di un corteo.

Ne fu autore, come scoprirete di lì a poco, uno scultore salentino del Cinquecento, anzi un neretino di Nardò: Francisco Bellocto de Nerito, reso noto per primo nel 1875 dallo storico di Mesagne Antonio Profilo. Dopo un superficiale interessamento di Amilcare Foscarini, fu un altro genius mesagnese, Antonio Franco, che il 1960 sottopose il portale a rigorosa analisi critica, in un ambito comparativo fra portali di epoca rinascimentale, allargato a tutta l’area pugliese. Da quella scrupolosa ricognizione non sortirono altri frutti se non questo che il portale della chiesa domenicana dell’Annunziata risultava opera unica a firma di questo pressoché ignoto scultore.
Infatti su due targhette laterali del portale di Mesagne si conservano il nome del suo autore e quello della sua patria d’origine: su quella di sinistra è inciso M(Fran)CISCO BELLOCTO, sull’altra di destra DE NERITO SCULPSIT, e in aggiunta l’impresa della città di Mesagne e quella della Famiglia Beltrano, feudataria pro tempore di Mesagne; sul filatterio, ai lati della Veronica (testa del Cristo) la data di esecuzione IS/SS (1555).

A giudizio del Franco l’autografo corteo di Francesco Bellotto è «di squisita eleganza» ed ancora in buono stato nonostante le bucherellature del salnitro e quelle prodotte dalle fionde dei monelli.

In concreto siamo di fronte a un fregio rettangolare, collocato al di sotto della statua della Madonna Annunziata, in cui viene effigiata una «scena continua che si svolge da sinistra verso destra e rappresenta molto probabilmente un corteggio regale che entra in una città simboleggiata da una specie di torre a tre piani che si trova all’estremità destra». Nonostante l’entusiasmo di Franco, l’opera appariva, già nel 1960, molto rovinata, ma non fino al punto da non consentirne una descrizione: «da sinistra di chi guarda sono riconoscibili vicino la torre due specie di buffoni che precedono due figure virili con corona, col capo vestito di lunga tunica stretta alla cintura che avanzano verso la torre seguite da paggi, fanciulli, cavalieri e da un carro a due ruote tirato da una coppia di cavalli, uno dei quali arpionato da una figura infantile, è preceduto da un cane. Sul carro è seduta una donna anch’essa con corona sul capo. Segue questo gruppo centrale una serie di guerrieri appiedati vestiti di corazze e con ampi scudi, chiudono il corteo alcuni cavalieri al galoppo verso i quali si sottomette una figura prona».

Ma il corteo rappresentato, smentendo Antonio Franco, non era quello della principessa Isabella Gonzaga che aveva fatto tappa a Mesagne nel luglio 1549, durante il viaggio verso i suoi feudi del basso Salento (di Alessano e Specchia), bensì quello che il 1510 aveva portato la Regina Giovanna a Mesagne e in altre sue terre, dove l’avevano accolta in pompa magna il governatore Giovanni Granai Castriota e il di lui fratello Alfonso (le due figure virili coronate).
Questo di Mesagne, autografo dell’artista neritino, è pertanto un pannello lapideo cinquecentesco, dedicato all’ingresso di una regina in una piccola terra del Mezzogiorno, un corteo affollato delle varie rappresentanze cittadine (civili, religiose, militari) che scortano l’augusta ospite, Giovanna III d’Aragona, una delle due tristi reyne, vedova di re Ferrante nel suo ingresso a Mesagne di cui è feudataria.

Antonio Franco nel tentarne la destrutturazione storica ed artistica, mediante un suggestivo excursus che prende in esame diverse sculture di analogo soggetto, presenti in edifici sacri di tutta la regione, veniva fortemente attratto, tanto da concentrarvi ogni sua attenzione, dal portale rinascimentale della chiesa dei Santi Sebastiano e Rocco di Galatone, datato 1500 e, particolarmente, dall’elegante fregio che lo sormonta. Anche il sovrapporta di Galatone infatti propone un corteo trionfale di rilevanti qualità artistiche.

Mesagne, particolare el portale firmato dal Bellotto (ph M. Gaballo)

Sulla base delle forti somiglianze che vi colse tra le due opere, di Mesagne e di Galatone, Franco si convinse che questo secondo corteo doveva attribuirsi alla stessa mano che aveva firmato il portale di Mesagne, cioè a Francesco Bellotto de Nerito. Il portale di Galatone fa venire in mente scultori di maggior grido come Nuzzo Barba e Niccolò Ferrando di Galatina, o loro discepoli, né si deve escludere che lo stesso Bellotto, come anche il Franco supponeva, potrebbe essersi formato nelle loro botteghe. Un’ipotesi su cui scava il dibattito storiografico come sull’altra, suggestiva, dell’attribuzione del medesimo portale ad artista di maggior spicco, il famoso Gabriele Riccardi proposto di recente da Mario Cazzato, autorevole storico dell’arte. In questa sede mi preme tentare di capire ed eventualmente riuscire a dimostrare, sul piano umano e storiografico, se è compatibile e conciliabile nella vicenda esistenziale ed artistica di Bellotto una divaricazione cronologica di ben cinquantacinque anni, quanti ne sarebbero corsi appunto tra le due committenze domenicane di Galatone (1500) e di Mesagne (1555).

Recentissime analisi storiche, nostre e di altri, hanno dimostrato che la forbice si può restringere di almeno una ventina d’anni, con la conseguente datazione del bassorilievo di Galatone al 1530-1535, e l’agevole superamento del problema di incompatibile longevità artistica del Bellotto. Analisi confortate e supportate dagli avvenimenti storici galatonesi e salentini coevi, e dai loro protagonisti. Nella problematica epigrafe situata sul prospetto della chiesa di Galatone si afferma che la chiesa sorse nell’anno 1500 (MD) per voto ed iniziativa di Giovanni Granai Castriota figlio primogenito di Bernardo, barone di Ferrandina e conte di Copertino, il quale Giovanni dedicò il tempio a San Sebastiano e lo affidò ai padri domenicani.

Chi era costui e quali rapporti ebbe con Galatone? Oriundo macedone, brillante dongiovanni, cortigiano ed intrinseco della regina Giovanna, dopo essere stato anche vescovo di Mazara, il Castriota fu soprattutto audace condottiero e tenace difensore di Taranto di Gallipoli e di Galatone che, fortiter pugnans, aveva difeso e liberato dai francesi invasori del Salento negli anni 1500-1502. Amico dell’umanista Antonio Galateo, il quale qualche anno dopo ne ricorderà le gesta eroiche e le vittorie nel De Situ Iapygiae (1507-1509) e in due epistole dirette ai fratelli Alfonso e Giovanni, e al figlio di quest’ultimo Pirro.

Fu sicuramente in quel tempo (1500-1503) di perdurante esposizione ai pericoli che Giovanni Castriota dovette proclamare l’intenzione di erigere la chiesa la quale, come si può facilmente intuire, non poteva essere costruita in tempo di guerra, bensì alcuni anni più tardi. Nel 1712, ricostruita la chiesa, i domenicani ricordarono l’avvenimento sottolineandone la data con epigrafi dentro e fuori dell’edificio sacro: graffita sulla sommità della facciata in una cornice barocca (PRAEDICATORUM ORDINIS DUX ET MAGISTER DOMINICUM A.D.1712), replicata nella targa marmorea sovrastante il portale, su fascia di colore più scuro aggiunta in basso (NOVITER ERECTUM A(NNO) D(OMINI) MDCCXII), e ancora il 5 maggio 1719 al momento della consacrazione officiata dal vescovo Antonio Sanfelice, con altra più elaborata iscrizione posta all’interno, per riaffermare che questa nuova fabbrica era sorta il 1712 post CC annos dalla precedente del 1500, ad iniziativa dell’ordine domenicano. E così la data della prima fabbrica veniva avanzata, per malizia o ignoranza, dal MD al 1512 senza osservazioni di chicchessia. Fino ad oggi. E già questa discrepanza tra due epigrafi apposte a soli 7 anni di distanza, segnala una correzione di ben dodici anni tramite l’espressione post CC annos. Perché è assurdo che nel 1719, imperversanti Antonio Sanfelice e Pietro Polidori negli ambienti curiali di Nardò, si continuasse a parlare di Giovanni Granai Castriota semplicemente come del rampollo dei baroni di Ferrandina, e si ignorasse il nobile guerriero barone di Galatone e conte di Copertino, e valoroso trionfatore dei francesi.

Giovanni Castriota era succeduto al padre Bernardo nella contea di Copertino e nella baronia di Galatone, nell’ agosto 1508, e gli era anche subentrato a Ferrandina, e nella amministrazione dei feudi reginali di Leverano, Veglie, e Mesagne, dove si narra abbia perso la vita in duello nel 1516 (non nel 1514).

È importante, quindi, sottolineare i seguenti elementi: Mesagne e Galatone, due località governate dal medesimo barone Giovanni Granai Castriota, stessa intermediazione nelle due città dei padri domenicani, incaricati di far costruire due chiese o dallo stesso mecenate-committente finché fu in vita, o, in seguito, da congiunti del medesimo casato. Come è noto i Granai Castriota, con Maria, unica erede di Giovanni a Ferrandina, Galatone, e nella contea di Copertino, inizialmente tutorata dallo zio Alfonso, governatore della provincia e marchese di Atripalda, governarono quei feudi fino al 1549; quindi stesso artifex (Bellotto) pur con interventi eseguiti in epoche assai distanti tra loro.

Qualche anno dopo la morte del Castriota, la sua vedova Giovanna Gaetani di Traetto, aveva sposato in seconde nozze il duca di Nardò Bernardino Acquaviva. Una coincidenza non priva di sviluppi. Si può supporre infatti che il Bellotto sia stato suggerito ai domenicani di Mesagne da Isabella Acquaviva Castriota la quale, per essere figlia di Francesco, terzo duca di Nardò, era nipote di Bernardino Acquaviva, e ovviamente di Giovanna Gaetani, e naturalmente già vedovata in questi anni del conte Beltrano. Sicché la committenza mesagnese potrebbe essere riconducibile a lei che, verosimilmente, vivendo anche a Nardò, vi aveva conosciuto il Bellotto e viste opere sue forse eseguite in precedenza a Galatone e a Nardò.

Il nostro discorso, come è evidente, punta a dimostrare che la prima fabbrica del San Sebastiano di Galatone, e quindi il suo portale col corteo, vanno spostati di una trentina d’anni: a) per le difficoltà belliche già accennate (guerra tra Francia e Spagna scandita dalla disfida di Barletta del 1503, poi dalla battaglia di Cerignola dello stesso anno, fino alla stabilizzazione del viceregno di Napoli nel 1506 con Ferdinando il Cattolico; guerra franco-ispanica di Lautrech del 1527-1529; b) per il ritrovamento di un cartiglio (da me scoperto sul suddetto portale) con incisa la frase CASTRIOTA DOMUS, coincidente col documentato decennio di dimora nel castello di Galatone della famiglia Castriota (Alfonso con la moglie Camilla Gonzaga e la nipote Maria Castriota orfana di Giovanni) dal 1522 al 1531; c) l’inoppugnabile evoluzione artistica del classico manufatto galatonese rispetto a quello più modesto di Mesagne.

Alla luce di tali presupposti si può sostenere che, dopo il voto di Giovanni Castriota dichiarato il 1500, mentre ferveva in Salento la guerra contro i francesi, a costruire la chiesa di S.Sebastiano siano stati i Castriota, con tutta probabilità nel corso della loro residenza a Galatone. La Casa Castriota in solidum (con Pirro e la sua sorellastra Maria figli di Giovanni, soprattutto quest’ultima, ormai uscita di minorità e titolare della baronia) i quali, prima a Galatone, in seguito a Mesagne, vollero immortalare, nei rispettivi portali di due chiese domenicane, le gesta eroiche del loro glorioso congiunto. Le cui spoglie, ormai circondate dall’aureola e dal mito, alla cui nascita avevano contribuito l’amicizia personale e gli elogi di Antonio Galateo, potrebbero aver trovato l’ultima ospitalità in San Sebastiano, ed aver costituito il pannello di un eventuale sarcofago-mausoleo dell’eroe albanese.
(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°4

Ve la racconto io Mesagne!

di Mino Bianco

“Tu sei di Mesagne? Dove è successo quel casino con la Mafia a Brindisi?”
Ecco cosa mi è stato detto appena arrivato a Roma qualche giorno fa.
Ma fu solo l’inizio di una diffamazione continua della mia città.

Ma chi meglio di un cittadino può raccontarvi e parlare del proprio Paese?
Allora oggi lo faccio io!
E pretendo la stessa attenzione degli articoli in cui si inneggia Mesagne come capitale della violenza!

Mesagne è un paese di circa 30.000 abitanti in provincia di Brindisi.
E’ uno dei paesi più popolosi del Salento, magica terra a cui appartiene.
Nel suo stemma c’è una palma e due spighe a rappresentare la fertilità della terra e il clima caldo e mite.
Dientro di sè ha una lunghissima storia documentata ancora oggi dai suoi innumerevoli e magnifici beni culturali.
Prima centro messapico, poi romano, bizantino, passando per il medioevo, Federico II, il Barocco, per arrivare infine all’età moderna e le due grandi guerre e i simboli ancora impressi in molti palazzi del dispotismo del 900.
Perchè Mesagne è una città che ricorda ciò che ha vissuto e non lo dimentica, anzi è sempre pronta a buttartela in faccia a costo di farti male.
Città prettamente agricola. Chi non conosce il nostro vino, il nostro olio extravergine di oliva? Le pesche saporite, i pomodori, i carciofi e tutti i piatti buonissimi che potete assaporare nelle tante trattorie e ristoranti del paese?
Mesagne è anche città di cultura e sport!
Calcio, basket, tennis, taekwondo, teatro, danza : non abbiamo limiti per far vedere i talenti che portiamo fuori!
Città artigiana e negli ultimi periodi scoperta dai turisti.
Ecco Mesagne è prima di tutto questa!

Mesagne è la città in cui si celebra il 16 Luglio la Festa della Madonna del Carmine, piena di luminarie che illuminano le strade del paese e che affascinano i passeggeri.
Mesagne è la città in cui io a 16 anni camminavo alle 3 di notte per strada senza aver paura.
Mesagne è la città che ha ispirato i miei studi universitari essenso così ricca di storia e ricordi.
Mesagne è la città delle mille masserie che puoi visitare prendendo una bici e facendoti una bella scampagnata nelle nostri colorate campagne.
Mesagne è la città delle venti chiese, simbolo della forte devozione di un popolo fedele.
Mesagne è la città dove fanno la cavalcata dei Re Magi, dove c’era il carnevale, dove si promuove una bella rassegna teatrale, dove io ho iniziato a studiare danza classica e la mia maestra ora si trova a insegnare alla Scala ed io a fare il suo stesso mestiere.
Mesagne è la città che ha il centro storico a forma di cuore così come i suoi cittadini come hanno dimostrato nelle ultime occasioni.
Si, Mesagne è ANCHE il Paese dove è nata la SCU, ma sottolineo ANCHE!
C’è chi ci ha dipinto come gente che vive nella paura e nell’omertà!

Appello per la necropoli messapica di Mesagne (Br)

a cura del Gruppo Archeologico di Terra d’Otranto

Cari amici, dopo Arnesano, chiediamo ancora il vostro aiuto.

Ci interessiamo questa volta della necropoli messapica di via Castello a Mesagne (Br).

Si tratta di un’area sepolcrale di grande importanza per la presenza di tombe monumentali, di cui la più nota è senz’altro la tomba 6 che presenta tra le decorazioni un ingresso con porta in pietra girante su cardini raffigurante l’entrata all’oltretomba.

La necropoli monumentale di Mesagne è di fondamentale importanza, per i cicli pittorici che possiedono le tombe, per lo studio dell’arte sepolcrale messapica in età ellenistica. Attualmente, sebbene l’area sia stata indagata, scavata e ristrutturata con fondi pubblici, essa non può essere visitata dagli abitanti e turisti semplicemente per piccoli dettagli che l’Amministrazione Comunale non ha volontà di adottare.

Nel frattempo, l’abbandono e l’incuria stanno di fatto rendendo vani i lavori effettuati, con buona pace dei finanziamenti spesi. Il Gruppo Archeologico chiede, pertanto, assieme al comitato civico “Terre di Mesagne” che l’Amministrazione Comunale faccia quanto di sua competenza ed obbligo affinchè sia resa ai legittimi proprietari, ovvero la popolazione locale, la necropoli monumentale.

Chiediamo a tutti voi, cari amici di collaborare con noi per la tutela dell’area monumentale condividendo la nota ed inviando le vostre osservazioni ed inviti all’apertura direttamente all’indirizzo mail del comune di Mesagne: urp@comune.mesagne.br.it

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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