Il castello di Francavilla (terza parte)

Cortile interno, panoramica (Foto Alessandro Rodia).

 

di Mirko Belfiore

 

Al cortile interno si accede tramite un androne d’ingresso con volta a botte, disposto a pianta quadrata e completamente scoperto. Quest’ultimo è perimetrato da un porticato irregolare contraddistinto da colonne di ordine dorico-toscano (con echino intagliato a ovuli e frecce) che sorreggono archi a tutto sesto nei lati nord e sud e a sesto ribassato nei lati est e ovest, complessità costruttiva che ribadisce ulteriormente la stratificazione architettonica e gli aggiornamenti intercorsi fra Seicento e Settecento. Ponendoci al centro dell’atrio e alzando lo sguardo è possibile vedere il campanile a vela dell’antica cappella di Santa Maria delle Grazie, della quale recentemente sono stati riscoperti alcuni affreschi.

Cappella gentilizia Santa Maria delle Grazie (Anonimo, XVII-XVIII secolo, affresco) (Foto Alessandro Rodia)

 

Quest’ultimi sono stati rinvenuti in un punto di passaggio posto in corrispondenza del lato di levante e riportati alla luce dopo i lavori di scrostamento dei vecchi intonaci presenti sulle pareti e sui soffitti. Anche se lo stato di degrado degli affreschi è notevole, i lavori di ripristino ci hanno riconsegnato un altro di quegli ambienti di cui si era persa memoria.

Cappella gentilizia Santa Maria delle Grazie, particolare della volta (Anonimo, XVII-XVIII secolo, affresco) (Foto Alessandro Rodia)

 

Le notizie sulla cappella gentilizia sono poche e discontinue, ma per la sua realizzazione si rimanda a un lasso di tempo che può essere indicato fra la prima metà del XVII secolo, al tempo del governo di Michele II, e gli anni Venti del XVIII secolo, quando Michele III fece ampliare l’ambiente; persistono comunque dubbi che rimandano alla possibilità di un’esecuzione ancora più tarda della struttura.

Da una prima analisi si possono intuire i dettagli di ogni singola figura rappresentata, l’eleganza con cui le stesse campeggiano sulle pareti e i raffinati riquadri in cui vanno a inserirsi. Al centro della volta si erge in tutta la sua forza il Cristo Pantocratore, immerso in una mandorla di luce retta da quattro angeli con le ali spiegate; il tutto contraddistinto da un acceso cromatismo che rimanda, forse, a esperienze di matrice veneta dell’autore. La scelta dell’icona religiosa non è estranea al territorio circostante perché figlia di una cultura bizantina, di cui ne è rimasta una forte tradizione in Terra d’Otranto.

Lungo le pareti, posizionati a mezza altezza e diffusi lungo le pareti a coronamento di tutto il perimetro troviamo otto figure, di cui due collocate ai lati del varco d’accesso. Le stesse si inseriscono in scomparti dalle arcate a tutto sesto, evidenziati da quadrature dalle linee schematiche e dalle decorazioni a foglie d’acanto. Ogni personaggio che vi trova posto è avvolto da uno sfondo blu notte o rosso vermiglio, è posto di profilo ed è avvolto da tuniche di diversa fattura.

Ogni figura è riconoscibile oltre che dall’iconografia canonica anche per alcune intestazioni poste sui capi. A destra e a sinistra dell’entrata, come a volerli posizionare ai lati del Cristo, possiamo riconoscere gli apostoli Pietro e Paolo, martiri romani che ci riportano alla radice della fede cristiana. Nelle mani del primo ritroviamo le Chiavi del cielo, simbolo della Chiesa universale e del ruolo di Vicario che lo stesso ebbe agli albori della storia della Chiesa e un libro, simbolo per eccellenza della sapienza. Al secondo, invece, vanno ricondotte la folta barba nera, la spada rivolta verso il basso, simbolo del martirio che lo stesso subì perché non cittadino romano e un altro libro.

Proseguendo sulla parete Nord troviamo San Sebastiano, martirizzato due volte dall’imperatore Diocleziano, davanti a cui si profila San Rocco, rappresentato con abito da pellegrino e con la mano che indica le piaghe della peste. I due Santi sono molto celebrati nella fede cattolica perché spesso venivano invocati proprio contro il Terribile morbo che in varie epoche flagellò la penisola italiana con milioni di morti.

Proseguendo nella lettura e poste sempre in maniera speculare possiamo individuare due figure femminili: Santa Caterina d’Alessandria e Santa Lucia. La prima, in parte, è riconoscibile per i dettagli principeschi come l’elegante vestito e la corona posta sul capo, attributi che ne testimoniano le origini nobili, mentre per la seconda si nota subito la coppa che la stessa regge in mano e dove si raccolgono due occhi. Questo attributo insieme alla lampada e al cero rimandano al nome latino Lux, luce, particolari che per secoli hanno posto la Santa a protezione di coloro che pativano malanni alla vista.

La terza e ultima coppia ci propone due dei più importanti uomini della storia della Chiesa: Sant’Antonio da Padova e San Francesco d’Assisi. I due ebbero modo di conoscersi durante la prima metà del XIII secolo e per questo motivo vengono spesso rappresentati assieme. Il primo, di cui si fatica la lettura iconografica, si intuisce per l’intestazione ancora presente mentre il secondo è facilmente riconoscibile per il saio indossato, le stigmate e la chierica.

In relazione a questo piccolo gioiello bisogna menzionare un’altra interessante testimonianza che ci porta a calcare i pavimenti della chiesa Matrice. Entrando nel luogo di culto e percorrendo la navata meridionale fino all’altezza del transetto si colloca un altare oggi dedicato a Sant’Anna ma che in passato era proprio sistemato nella suddetta cappella. Questo manufatto si caratterizza di marmi policromi, intarsi di varia fattura e stucchi dalle forme sinuose in cui sembrano riunirsi forme rinascimentali quanto baroccheggianti ma che al centro campeggia, per l’appunto, l’emblema della famiglia Imperiale.

Fonte pedobattista e scalone monumentale (Foto Vanessa Nacci)

 

Posta in un angolo del cortile troviamo l’antico fonte battesimale “pedobattista” databile al XVI secolo, fatta probabilmente realizzare dall’arciprete Matteo Giovanni del Preite e originariamente situata nell’antica primitiva chiesa Matrice. L’oggetto è posto su uno stelo di dubbia provenienza e denota alcune manomissioni successive alla sua realizzazione. La conca è contraddistinta lungo tutto il perimetro lapideo da un fregio scolpito dove si alternano dieci delfini e motivi floreali di discreta fattura, interrotti al centro da uno stemma bipartito con inserite le parole NE QUERELA.

Dall’ampio cortile prende avvio l’importante scalone monumentale, sul progettista della quale gli studiosi dibattono ancora oggi. Certa è invece la realizzazione, sicuramente attribuibile all’operato del Manieri che in quel periodo lavorava per gli Imperiale nel palazzo di Casalnuovo (Manduria) dove vi è uno scalone d’onore molto simile a questo. Alcuni studiosi non sottovalutano il ruolo dell’architetto napoletano Ferdinando Sanfelice, il quale non fu certamente l’artefice della progettazione della rampa ma ebbe comunque un’influenza non indifferente sul Manieri. Lo studioso Bernardo De Dominici, invece, tramanda con sicurezza il nome dell’artista napoletano, affermazione che può essere supportata da un disegno emerso dal fondo Imperiale dell’Archivio di Stato di Napoli e che presenta un prospetto acquerellato ed eseguito su cartoncino (c. 416).

Acquerello scalone monumentale (Fondo Imperiali, XVIII secolo, disegno su carta, Napoli, Archivio di Stato).

 

Il disegno è molto accurato e prevede la costruzione di una prima rampa che si divide in due e prosegue fine a un vano coperto, inserita all’interno di un portico a tre arcate con volta a sesto ribassato e colonne binate. Altri invece, come il Clavica, sostengono con fermezza l’attribuzione al Manieri, ponendo l’accento sull’analisi degli elementi strutturali del progetto. La mancanza di soluzioni ardite e scenografiche, tipiche dell’artista partenopeo, fa propendere verso il maestro leccese, il quale forse avrebbe potuto prendere in esame un’oramai irreperibile modellino in legno dello scalone monumentale inviato da Napoli a Michele III stesso ma che sicuramente ripropose nell’architettura francavillese elementi stilistici riscontrabili in altre sue opere come l’androne del Palazzo Imperiale di Manduria o il portico del Seminario di Brindisi.

Scalone monumentale, rampa d’accesso (Foto Alessandro Rodia)

 

Le doppie rampe in cui si divide lo scalone sono coperte da pregevoli volte a stella, a loro volta rette da paraste addossate alle pareti e pilastri che si aprono sul ballatoio. Su quest’ultimo, completamente scoperto, si affacciano i numerosi varchi d’ingresso del primo piano nobile, tutti finemente ornati da alcuni fregi molto simili a quelli cinquecenteschi della facciata principale. Le aperture si distribuiscono lungo tutto il perimetro con un ordine alternato e sono contornate da ghirlande d’alloro e righe di ovuli di radice classica a cui si affiancano ampi frontoni racchiusi fra due mensole, tutti caratterizzati da intrecci a foglie d’acanto tranne che per quello in cui ritroviamo la succitata epigrafe latina di Michele III.

Ballatoio primo piano nobile (Foto Alessandro Rodia)

 

Le grandi finestre rettangolari quanto i piccoli pertugi di forma quadrata posti a mezza altezza e corrispondenti ai piani ammezzati presentano interessanti cornici dai vari ornamenti fitoformi, ampi frontoni decorati con il medesimo ricamo a foglie d’acanto o eleganti rosette. Una menzione particolare la riserviamo a uno di questi bassorilievi, in cui campeggiano due splendidi pavoni posti l’uno davanti all’altro e impegnati a beccare una pigna, gruppetto che rimanda al più famoso Pignone dei Musei Vaticani. A concludere, un po’ isolato ma dalle forme imponenti, troviamo un altro stemma degli Imperiale, racchiuso in un rettangolo dall’elegante cornice e impreziosito da alcune volute.

Ballatoio primo piano nobile, particolare del campanile a vela (Foto Vanessa Nacci)

 

(continua)

Per la prima parte:

Il castello di Francavilla Fontana (prima parte)

Per la seconda parte:

Il castello di Francavilla (seconda parte)

Il castello di Francavilla Fontana (prima parte)

Castello-Residenza Imperiali, Francavilla Fontana (Foto Alessandro Rodia)

 

di Mirko Belfiore

Il nucleo originario dell’imponente struttura fu commissionato intorno al 1455 da Giovanni Antonio Orsini del Balzo, principe di Taranto, con un ordine perentorio, stringente, che imponeva ai francavillesi la continuazione delle mura concesse da Filippo d’Angiò, più un castello merlato da sostenere qualsiasi assedio.

Base torre fortificata sita sul lato ovest del pian terreno (Foto Alessandro Rodia)

 

L’Orsini si assicurò la proprietà di Francavilla tramite uno scambio di casali con la famiglia Dell’Antoglietta, titolari del feudo da più di un secolo, perché alla ricerca di un punto strategico fortificato lungo la via Appia fra le città di Taranto e Brindisi.

Secondo lo storico locale Piero Palumbo, la struttura: non doveva servire per dimora del feudatario ma come centro di difesa… e quindi: “fu costituito da una torre quadrata, robusta, severa e merlata con uno stanzone per alloggio dei soldati e un ampio fossato scavato tutt’intorno, valicabile a mezzo di un ponte levatoio. A questa prima fase costruttiva ne succedette un’altra, intercorsa durante la prima metà del XVI secolo, quando divenne feudatario di Francavilla l’umanista e poeta Giovanni Bernardino Bonifacio, il quale: volle allargare con altre due torri, con altri stanzoni e con un fossato più ampio perché ne fosse impedita l’entrata, consegnando al complesso quella pianta rettangolare che ancora oggi la contraddistingue”.

L’identificazione di queste fasi realizzative è stata resa possibile grazie ai recenti restauri (anni 2000) e a una nuova e più approfondita lettura degli elementi stilistici e strutturali, i quali hanno evidenziato i segni inequivocabili di una stratificazione architettonica costante fin dal primo Rinascimento.

Le due porzioni perimetrali risalenti alle antiche torri fortificate sono emerse in due aree distinte; la prima è sita nei locali del pianterreno, lato levante, dove si può osservare una muraglia massiccia con pietre squadrate e profili a scarpata mentre la seconda si trova a ponente del secondo piano ed è contraddistinta da un bugnato tufaceo e una decorazione a beccatelli.

Da ciò possiamo dedurre l’imponenza dei torrioni difensivi inseriti ai lati della struttura originaria e in seguito incorporati nei rifacimenti sei-settecenteschi. Se a tutto ciò, infine, uniamo la planimetria a forma rettangolare, i basamenti a scarpata dei perimetri esterni e il grande fossato, possiamo concludere che siamo di fronte a caratteristiche che rimandano inequivocabilmente alle tipologie militari di molti dei castelli del Regno di Napoli realizzati fra il XV e il XVI secolo, uno fra tutti, Castel dell’Ovo.

Castel dell’Ovo, Napoli

 

Dopo alcuni anni di quiescenza, il punto di svolta nella storia dell’edificio si ebbe verso la fine del XVI secolo, quando la borgata di Francavilla fu scelta come residenza feudale da Michele I, membro della famiglia di origine genovese degli Imperiale e figlio di Davide I, suo padre e primo feudatario, il quale acquistò il feudo in Terra d’Otranto l’otto marzo del 1575, senza mai risiedervi.

Michele giunse da Genova nel 1593 accompagnato dalla moglie Maddalena Spinola e dai numerosi figli e secondo il Palumbo, dopo essersi insediato nella fortezza: arredò una splendida abitazione nel Castello, con armigeri, cortigiani ed amici. Suo nipote Michele II, divenuto Principe di Francavilla nel 1639, rimodernò e ampliò ulteriormente una parte del complesso per destinarla a propria abitazione, iniziando così a porre le prime sostanziose modifiche.

Primo piano nobile, planimetria

 

L’architettura dell’antico castello conserverà il suo aspetto fortificato fin quando Michele III Senior non decise di trasformarlo in una vera e propria residenza nobiliare, a cavallo dei secoli XVII e XVIII. A testimonianza di questa radicale trasformazione è l’incisione posta sul frontone di una delle porte del primo piano nobile, posta sul lato est del ballatoio: MICHEL IMPERIALIS ANDREA ET PELINAE FILIUS / INSTAURAVIT AUXIT ET ORNAVIT, iscrizione che mette in connessione gli interventi dello stesso con l’antenato Michele II.

Questi ultimi lavori di rinnovamento sottolineano inequivocabilmente quella ricerca ostentativa che coinvolse molte delle casate nobiliari presenti del Regno di Napoli, le quali nei loro possedimenti si prodigarono per sostituire la vecchia immagine guerriera con una che potesse testimoniare la magnificenza e la forza economica raggiunta, resa in primis tramite l’edificazione di residenze di lusso che potessero gareggiare con quelle della capitale partenopea. Ancora molte, però, sono le difficoltà che si riscontrano nelle attribuzioni di queste ristrutturazioni, sia per la fase progettuale che per quella realizzativa.

Il Palumbo, nel suo libro, afferma senza particolare precisione che il progetto sia potuto giungere dall’ambiente romano. La storiografia più recente invece, propende per una progettazione ideata in toto dall’architetto di origine leccese Mauro Manieri, molto attivo nelle commissioni architettoniche dalla famiglia Imperiale.

Probabilmente la verità sta nel mezzo. Confrontando alcuni disegni di Filippo Barigioni, artista riferimento per il Cardinale Giuseppe Renato Imperiale, membro illustre della famiglia a Roma, con alcune sue opere architettoniche tutt’ora esistenti, gli studiosi Regina Poso e Giacinto Urso hanno pensato allo stesso come progettista almeno per alcuni elementi quali: “la pianta quadrata, il portale racchiuso tra due colonne e il balcone che sovrasta il portale, sottolineando di come in altre sezioni come il vano scale, la sagomatura a orecchio delle porte e il balcone in ferro sovrastante il portale posto sul lato settentrionale, si possano riscontrare i segni concreti dell’operato del Manieri”.

 

Gli Imperiale e le loro residenze in Terra d’Otranto (terza parte)

Veduta di Oria (Carlo Francesco Centonze, 1643, disegno su carta, Napoli, Archivio di Stato)

 

di Mirko Belfiore

 

Le numerose residenze risultano interessanti anche per lo studio delle fasi progettuali intercorse per la loro realizzazione che videro all’opera diverse maestranze. In primis il leccese Mauro Manieri, consulente di fiducia degli Imperiale, presente in buona parte delle fabbriche commissionate dalla dinastia.

A questi vanno aggiunti alcune interessanti figure come il romano Filippo Barigioni, stretto collaboratore del Cardinale Giuseppe Renato e il napoletano Ferdinando Sanfelice, affermato architetto sulla scena partenopea.

L’incrociarsi di questi tre nomi, nelle occasioni offerte dal programma di opere pubbliche e di gestione del patrimonio culturale varato dagli Imperiale durante i due secoli di governo è il dato più significativo di questa fase tarda del Barocco pugliese.

Anche se la cronica carenza di documenti non ha consentito sinora di distribuire con decisione la responsabilità per la progettazione e l’edificazione di una buona parte di questi palazzi, resta fondamentale l’opportunità verificatasi da questo incontro, inserito in un ambiente dove si rintraccia un orientamento culturale che fa da ponte fra Barocco e Neoclassico ma, allo stesso tempo, radicato ancora nel Manierismo e suggestionato da spunti Rococò.

Il nome del Manieri è presente in tutte le fabbriche più importanti come la residenza urbana di Francavilla e la Collegiata, il castello di Manduria o il palazzo di Latiano, a dimostrazione del fatto che in questo artista i feudatari trovavano piena fiducia per l’espressione del proprio gusto e dei propri desideri. Il possibile incontro con il Sanfelice viene ipotizzato dal De Dominici, il quale afferma che, durante il soggiorno giovanile a Napoli del Manieri o la presenza del napoletano a Nardò per le progettazioni di alcuni edifici sacri durante i primi decenni del Settecento presso il fratello vescovo Antonio (o, come afferma il Cantone, la presenza simultanea dei due nella fabbrica della Cattedrale di Salerno), possano essere stato il momento in cui essi abbiano potuto scambiare idee e suggerimenti.

Naturalmente, in queste occasioni, il Sanfelice aveva la parte del maestro vista l’età più tarda mentre al Manieri toccava la parte dell’interlocutore, in un ruolo tutt’altro che provinciale.

In questo sodalizio architettonico resta ancora da quantificare l’inserimento di una figura affermata come quella del Barigioni, il quale come architetto aveva grande credito presso il Cardinale Giuseppe Renato e che con molta probabilità fu il progettista del disegno a pianta centrale della Chiesa Matrice di Francavilla, disegno realizzato in occasione della ricostruzione dell’edificio dopo il terremoto del 1743.

Negli articoli successivi verranno presentate le varie residenze della famiglia Imperiale disseminate in terra d’Otranto e analizzate attraverso piccoli excursus storico-artistici e architettonici.

(continua)

Antica carta geografica della Terra d’Otranto (Antonio Zatta , 1774, disegno su carta, 405 x 308 mm, Venezia)

 

BIBLIOGRAFIA

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Per la prima parte:

Gli Imperiale e le loro residenze in Terra d’Otranto (prima parte)

Per la seconda parte:

Gli Imperiale e le loro residenze in Terra d’Otranto (seconda parte)

Gli Arcadi di Terra d’Otranto (18/x): Mauro Manieri di Lecce

di Armando Polito

Nacque a Lecce nel  1687 da Angelo, medico e letterato originario di Nardò, e da Maria Grismondi.  Utriusque iuris doctor1, è più noto come architetto, meno come pittore, meno ancora come letterato, il che sicuramente è legato all’intensità con cui si dedicò ai vari settori. Per questo non stupisce che del letterato, come vedremo, non ci è rimasto quasi nulla, nonostante un altro arcade leccese, Domenico De Angelis, in una lettera al marchese Giovanni Giuseppe Orsi di Bologna, pure lui arcade (nonché accademico della Crusca e dei Gelati) col nome pastorale di Alarco Erinnidio, lo definisca come giovane di elevatissimo ingegno, e di molte aspettazione nelle lettere latine e nonostante fosse membro dell’Accademia degli Spioni2, fondata, con altri, dal padre nel 1683.

In Giovanni Mario Crescimbeni, L’Arcadia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1711, p. 370 si legge: Liralbo …. D. Mauro Manieri Leccese e come data d’ingresso nell’Arcadia il 19 aprile 1708. Evidentemente alla data del 1711 non gli era stata ancora assegnata la seconda parte del nome pastorale, cioé Fereate come risulta nei suoi (del Crescimbeni) Comentari intorno all’Istoria della volgar poesia, Basegio, Venezia, 1730, p. 397. Se per Liralbo non ho proposte, Fereate potrebbe essere una forma aggettivale connessa con il greco Φεραῖος (leggi Feràios), che significa di Fere, città della Tessaglia.

Un suo epigramma costituito da due distici elegiaci è in Pompa accademica celebrata nel dì primo d’ottobre natale dell’augustissimo imperadore Carlo VI re di Spagna per l’anno MDCCXXI nella sala del castello di Lecce da D. Magin De Viles preside di questa provincia consagrata all’eminentis. principe Michele Federico del titolo di S. Sabina Prete Cardin. de’ Conti d’Althann, Nuova stampa del Mazzei, Lecce, 1721, p. 56.

Austriacis CAROLI Lux aurea condita fastis

nascere, et aeternum concolor inde redi.

Audior, Alma nites Magnum Imperii incrementum

et laevum nobis Juppiter intonuit 

(O luce aurea dell’austriaco Carlo, nasci fondata sui fasti e da lì ritorna dello stesso colore come cosa eterna. Sono ascoltato: tu risplendi nobile come grande incremento dell’Impero e per noi Giove ha tuonato propizio) 

Per tradizione indiretta, come spesso è successo per tante opere perdute, ci è giunto un frammento di un’elegia in lode di Fabrizio Pignatelli, che fu vescovo di Lecce dal 1696 al 1734: due distici elegiaci citati da Iacopo Antonio Ferrari, Apologia paradossica, Mazzei, Lecce, 1728, p. 6. 

Quid referam heroas naturae arcana secutos,

qui rerum ignotos explicuere sinus

quique novo caecosa explorant lumine causas,

auspicio doctos, te praeunte, gradus.

________

a Errore per caecas.

(Perché dovrei ricordare gli eroi che hanno indagato i misteri della natura, che hanno spiegato gli ignoti cuori delle cose e quelli che con nuova luce esplorano le cieche cause, passi insegnati con autorità sotto la tua guida)

Sicuramente dopo gradus o più avanti questa parte dell’elegia, che probabilmente è l’incipit, doveva concludersi con il punto interrogativo. Gli eroi sono i membri dell’accademia degli Spioni, con riferimento ai loro interessi culturali, che erano prevalentemente quelli scientifici e filosofici. La guida è quella del vescovo e sicuramente l’elegia fu scritta dopo il 24 aprile 1719, quando il prelato rientrò in Lecce da cui si sera allontanato per Roma, su ordine del viceré, nel 1711 a causa di grandissimi contrasti con l’Università.

________

1 Dottore in diritto civile e canonico.

2 Vedi  Archivio storico per le province napoletane, Giannini, Napoli, 1878, anno III, fascicolo I, pp. 150-153.

 

Per la prima parte (premessa)https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/       

Per la seconda parte (Francesco Maria dell’Antoglietta di Taranto): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/15/gli-arcadi-di-terra-dotranto-2-x-francesco-maria-dellantoglietta-di-taranto/   

Per la terza parte (Tommaso Niccolò d’Aquino di Taranto):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/23/gli-arcadi-di-terra-dotranto-3-x-tommaso-niccolo-daquino-di-taranto-1665-1721/   

Per la quarta parte (Gaetano Romano Maffei di Grottaglie):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-4-x-gaetano-romano-maffei-di-grottaglie/    

Per la quinta parte (Tommaso Maria Ferrari (1647-1716) di Casalnuovo): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/16/gli-arcadi-di-terra-dotranto-5-x-tommaso-maria-ferrari-1647-1716-di-casalnuovo/

Per la sesta parte (Oronzo Guglielmo Arnò di Manduria,  Giovanni Battista Gagliardo, Antonio Galeota e Francesco Carducci di Taranto):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-6-x-oronzo-guglielmo-arno-di-manduria-giovanni-battista-gagliardo-antonio-galeota-e-francesco-carducci-di-taranto/  

Per la settima parte (Antonio Caraccio di Nardò):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/17/gli-arcadi-di-terra-dotranto-7-x-antonio-caraccio-di-nardo/  

Per l’ottava parte (Donato Capece Zurlo di Copertino): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-8-x-donato-maria-capece-zurlo-di-copertino/  

Per la nona parte (Giulio Mattei di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/28/gli-arcadi-di-terra-dotranto-9-x-giulio-mattei-di-lecce/ 

Per la decima parte (Tommaso Perrone di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/ 

Per l’undicesima parte (Ignazio Viva di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/11/gli-arcadi-di-terra-dotranto-ignazio-viva-di-lecce-11-x/ 

Per la dodicesima parte (Giovanni Battista Carro di Lecce): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/18/gli-arcadi-di-terra-dotranto-12-x-giovanni-battista-carro-di-lecce/ 

Per la tredicesima parte (Domenico de Angelis di Lecce): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-13-x-domenico-de-angelis-di-lecce-1675-1718/ 

Per la quattordicesima parte (Giorgio e Giacomo Baglivi di Lecce): 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-14-x-giorgio-e-giacomo-baglivi-di-lecce/ 

Per la quindicesima parte (Andrea Peschiulli di Corigliano d’Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-15-x-andrea-peschiulli-di-corigliano-dotranto/

Per la sedicesima parte (Domenico Antonio Battisti di Scorrano): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/05/gli-arcadi-di-terra-dotranto-16-x-domenico-antonio-battisti-di-scorrano/

Per la diciassettesima parte (Filippo De Angelis di Lecce):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/24/gli-arcadi-di-terra-dotranto-17-x-filippo-de-angelis-di-lecce/

Tra i dipinti della chiesa delle Alcantarine di Lecce

Nel secolo fui chiamata Margarita… 

Una rara leggenda agiografica tra i dipinti della chiesa delle Alcantarine di Lecce.

 

di Valentina Antonucci

Una delle più belle chiese di Lecce, benché non tra le più note, è quella dedicata a S. Maria della Provvidenza.

Affacciata sull’odierna piazzetta Giorgio Baglivi, poco distante da Porta Napoli, essa faceva anticamente parte di un complesso monastico appartenente all’ordine degli Alcantarini, francescani riformati che seguivano la Re­gola di S. Pietro d’Alcantara. Nella fattispecie, la residenza di piazzetta Baglivi era sorta per ospitare la comunità femminile delle Alcantarine di Lecce, costituitasi nel 1698.

Si tratta di un edificio ad aula unica con altari laterali e presbiterio a pianta quadrata. La facciata a due ordini, sormontata da cimasa a timpano, è ornata da nicchie con statue di Santi . Fu eretta a partire dal 1724 su disegno dell’architetto Mauro Manieri per volontà e con il finanziamento del barone di Torchiarolo, Giuseppe Angrisani, che lasciò in merito precise disposizioni testamentarie.

La fabbrica fu completata nel giro di vent’anni e nello stesso arco di tempo furono realizzati gli altari, i quali erano originariamente quattro: altri due ne furono aggiunti nel XIX secolo e trovarono posto nel vano di due porte che erano state murate dopo l’abbattimento del convento adiacente e la risistemazione urbanistica dell’isolato.

Qualche anno fa ebbi occasione di osservare e studiare alcuni dei dipinti facenti parte dell’arredo pittorico della chiesa. L’occasione fu quella del loro restauro, che venne affidato ad un laboratorio in cui avevo agevolmente accesso, stanti i rapporti di stretta collaborazione che mi legavano alla restauratrice di esso responsabile. Per uno storico dell’arte, non vi è situazione più felice di quella in cui gli sia dato agio di seguire il restauro di opere pittoriche che rientrino nell’ambito dei suoi interessi di studioso: la visione ravvicinata del dipinto nella luce perfetta del laboratorio, con le emozionanti scoperte di iscrizioni o di dettagli iconografici che quasi sempre comporta, nonché la possibilità di osservare la materia pittorica e persino la consistenza e la struttura del supporto, sono condizioni di studio ideali,

Mauro Manieri e l’altare di San Michele Arcangelo nella chiesa del Carmine in Lecce

di Giovanna Falco

A Lecce, nella chiesa di Santa Maria del Carmine in piazza Tancredi, è custodito l’altare di San Michele Arcangelo, realizzato nel 1736 da Mauro Manieri e le sue maestranze. È una delle opere più interessanti per la storia dell’arte leccese, perché il suo artefice l’ha progettata e realizzata nella sua totalità.

L’altare in pietra leccese è situato nella prima cappella a destra entrando nella chiesa. Sui due pilastri laterali che delimitano la nicchia, sono murate due epigrafi inneggianti a San Michele Arcangelo[1]. Vi si ascende da due gradini, sul piano di calpestio si apre una botola coperta da una pedana di legno. Il sarcofago bombato, decorato con volute, è delimitato da due busti di angelo.

La mensa si articola in tre gradi finemente intagliati. L’ancona convessa è contenuta tra due stipiti costituiti da brevi pilastri, scolpiti con decorazioni barocche, e sormontati da capitelli con foglie di acanto. Su questi poggiano le cariatidi scolpite a tutto tondo, raffiguranti a sinistra la Superbia e a destra l’Ambizione. Le due figure, incatenate, sono abbigliate con una semplice tunica, forgiata con panneggi molto movimentati, e indossano un copricapo che funge da appoggio ai capitelli sovrastanti. Questi ultimi presentano le stesse decorazioni dei capitelli delle paraste che racchiudono l’edicola ovale con San Michele Arcangelo: foglie di acanto sormontate da rosette. Alla base delle paraste, articolate verticalmente in tre gradi, due coppie di putti innalzano armature vuote, complete dei loro accessori e sormontate da croci.

L’edicola è racchiusa, alla base da tre testine di putti, due laterali e una centrale, in alto da due decorazioni angolari, formate da una rosetta contornata da foglie. Sui capitelli è posata una cornice mistilinea che funge da elemento di raccordo tra i due ordini dell’altare: al centro sono seduti due putti separati da due palme che s’incrociano. Il fastigio, più stretto e arretrato rispetto al settore sottostante, termina con una breve cornice mistilinea, composta da un elemento centrale curvo e sormontata da una testa di angelo. Al di sotto è ubicata un’edicola, cinta da una composita cornice che racchiude un dipinto raffigurante il Redentore. Ai lati dell’edicola sono presenti due sculture a tutto tondo raffiguranti angeli seduti e rivolti verso di essa. La composizione è delimitata da due volute, le cui estremità inferiori sono forgiate a guisa di busto di angelo. L’edicola centrale ospita la pala ovale con l’altorilievo di San Michele Arcangelo, racchiusa in una cornice lignea. Sotto la scritta“QUIS UT DEUS”, è ritratto il Santo con la spada sguainata, nell’atto di trafiggere il drago. Il manufatto è stato descritto nel Settecento come un’«effice di creta cotta e messa in argento che sembra di argento in pietra, opera degna del signor D. Mauro Manieri»[2]. Le analisi di laboratorio, eseguite durante il restauro dell’opera, hanno rilevato un «assemblaggio di vari materiali, dal sughero alla terracotta alla cartapesta»[3].

Per quanto le sculture siano scolpite con uno stile riconducibile al barocco romano e risalgono al 1736, l’apparato iconografico dell’altare si rifà a una concezione già riscontrata a Lecce nella facciata della basilica di Santa Croce, dove Marcello Fagiolo e Vincenzo Cazzato suppongono che le decorazioni alludano alla vittoria della Fede sugli infedeli [4]. Nell’altare del Carmine, la Superbia e l’Ambizione sono incatenate e spogliate delle armature simboleggianti il loro potere. Queste ultime sono state conquistate dall’Autorità celeste, rappresentata dai putti che le sostengono e dalla croce sovrastante. Così come nel Carmine le due statue sorreggono la sezione superiore dell’altare, destinata al Redentore e ai suoi messaggeri, in Santa Croce sui telamoni (allegoria degli infedeli) ricade tutto il peso della Fede, rappresentata negli ordini superiori della facciata. È la stessa foggia che si riscontra nelle due coppie di cariatidi, poste ai lati del portone di palazzo Marrese, in piazzetta Ignazio Falcomieri a Lecce. Nel Carmine, inoltre, si nota il forte contrasto tra la posizione scomposta delle figure inferiori e la serafica tranquillità degli angeli di fianco al Redentore. Un altro elemento già riscontrato nel Cinquecento a Lecce, in porta Napoli e sul Sedile, è l’armatura vuota, da interpretare come trofeo delle vittorie conseguite da Carlo V. Questo elemento ricompare in seguito su porta Rudiae, realizzata nel 1703 e attribuita da Michele Paone a Giuseppe Cino[5]. Nel Carmine potrebbe rappresentare la vittoria dell’Arcangelo Michele sulle debolezze umane. Il tema della vittoria è trascritto anche nel testo delle lapidi inneggianti al Santo, da cui si rilevano le varie facoltà attribuitegli nel Settecento, e, allo stesso tempo, il monito nei riguardi di chi non lo venerava, già rappresentato dalle due cariatidi incatenate.

L’apparato iconografico dell’altare denota una regia unitaria, che non tralascia nulla al caso. L’unico elemento di difficile lettura è rappresentato dai due putti con le palme incrociate, poiché non è dato sapere se alludano al culto di San Michele o al committente dell’altare. Dalle fonti consultate, infatti, non è stato possibile evincere se l’altare fu commissionato dai frati, da una famiglia nobile o da uno dei due pii sodalizi che avevano sede nella chiesa: l’Oratorio degli Artisti e la Confraternita del Carmine. Sono riconducibili al committente gli autori del testo delle epigrafi: «pantal: diac:» e «d: laurent: iust».

San Michele Arcangelo, è ritratto nell’atto di trafiggere il Male, rappresentato dal drago. E’ la stessa iconografia con cui usualmente è rappresentato il profeta Elia, raffigurato anche nell’altare di fronte a quello di San Michele nel Carmine. Qui l’ovale racchiude la pala dipinta da Gian Domenico Catalano tra Cinque e Seicento. A differenza dell’altorilievo attribuito a Manieri, Lucifero è ritratto con sembianze umane. Si potrebbe leggere nella decisione di ubicare i due altari di fianco all’entrata della chiesa, un monito ai fedeli contro le forze del Male, o, viceversa, per chiunque entri nel pio luogo, la protezione dei difensori della Cristianità dal Maligno. Potrebbe, altrimenti, indicare l’importanza del culto dei due Santi nella comunità carmelitana. La centralità della figura del profeta Elia nell’Ordine Carmelitano è nota[6], non è altrettanto facile comprendere la devozione dei padri nei riguardi di San Michele. Nello specifico, per la comunità carmelitana leccese, è giunta testimonianza di un’immagine dell’Arcangelo Michele di legno indorato, acquistata, nel 1614 a Napoli insieme con altre cinque statue, per adornare l’altare maggiore[7]. Nella chiesa del Carmine si trova un’altra immagine del Santo: è un dipinto riposto nell’edicola superiore del sesto altare intitolato a Sant’Anna, ubicato nel transetto a destra[8].

La venerazione per San Michele Arcangelo si diffuse in Italia a causa della lotta iconoclasta che ebbe luogo nell’Impero d’Oriente tra il VII e il IX secolo: molti religiosi si rifugiarono in Occidente e trasmisero la loro dottrina alla popolazione che li aveva accolti. Il culto di San Michele Arcangelo, inoltre, fu imposto nei domini bizantini durante l’impero di Niceforo Foca (964-969), tra questi era annoverata Otranto, la cui diocesi era alle dirette dipendenze della chiesa di Costantinopoli. Riguardo alla situazione leccese, non ci sono giunte testimonianze dirette che attestano la situazione dell’epoca. Le uniche tracce pervenuteci risalgono al 1300 e riguardano la consacrazione a San Michele Arcangelo della chiesa degli Agostiniani, già dedicata a Santa Maria di Costantinopoli[9]. Tra Cinque e Settecento, inoltre, furono realizzate svariate effigi dell’Arcangelo Michele, riscontrabili sia su edifici privati, sia all’interno e all’esterno di alcune chiese[10]. Sono attribuite a Mauro Manieri altre quattro sculture raffiguranti San Michele Arcangelo: sono ubicate sulla colonna angolare di palazzo Panzera in via degli Ammirati; nella mensola centrale del portale di palazzo Marrese in piazzetta Ignazio Falconieri, dove due coppie di cariatidi, abbigliate come quelle del Carmine, sono scolpite ai lati del portale; sul fastigio, a sinistra, della chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo degli Olivetani (1716) e nella nicchia a sinistra del portale della chiesa di Santa Maria della Provvidenza delle Alcantarine[11].

Il motivo per cui molte immagini di San Michele Arcangelo risalgono ai primi anni del Settecento e ben quattro, oltre a quella nel Carmine, sono state attribuite a Mauro Manieri, verosimilmente dipende dal fatto che nel 1688 il Santo fu proclamato protettore generale del Regno di Napoli.

L’altare di San Michele Arcangelo è il frutto della maturità acquisita da Mauro Manieri nel corso degli anni. Il suo ingegno derivò da un’approfondita preparazione classica. Il diciannovenne Mauro Manieri fu definito dall’abate e letterato Domenico De Angelis, un «giovane di elevatissimo ingegno, e di molte aspettazione nelle lettere latine»[12]. Nell’atto di matrimonio, celebrato a Nardò nel 1710 dal vescovo Antonio Sanfelice, è scritto: «Clericus Maurus Manieri Utriusque Juris Doctor Lyciensis»[13]. Ulteriori notizie si apprendono da Nicola Vacca: fu «censore, dottore e matematico»[14]. Ricoprì la carica di censore, infatti, per l’Accademia degli Spioni, cui si aggregò giovanissimo producendo tre componimenti poetici in latino[15]. Mauro Manieri fu membro anche dell’Accademia dei Trasformatori e della colonia leccese della napoletana Arcadia, presso la quale assunse il nome di Liralbo[16]. Completò la sua formazione un soggiorno a Roma, dove conobbe personalmente i capolavori dei grandi protagonisti del barocco, tracciandone gli schizzi, cui s’ispirò al momento della progettazione delle sue opere[17].

Quest’assunto è facilmente riscontrabile mettendo a confronto il San Michele Arcangelo del Carmine con l’angelo posto a sinistra della Cattedra di San Pietro nella Basilica Vaticana, realizzata tra il 1657 e il 1666 da Gian Lorenzo Bernini e i suoi aiuti[18]. L’angelo berniniano è ritratto in un atteggiamento di scarto: posato su una nuvola, reca in mano una palma. Nell’opera di Mauro Manieri gli attributi iconografici cambiano, ma si riscontrano la posizione simile delle gambe, così come la stessa impostazione dell’ala a sinistra di chi guarda. Mutano le torsioni della testa e del braccio destro e non compare il braccio sinistro nascosto dal mantello. Riguardo alla scelta dell’altorilievo, e non di un gruppo scultoreo a tutto tondo, è evidente l’ascendenza dalla tipologia delle pale d’altare tipiche della produzione di Alessandro Algardi, ripresa in seguito, oltre che dai grandi artisti romani, da scultori di tutta Italia.

Il San Michele Arcangelo nel Carmine di Lecce, può essere considerato la summa di tutto il sapere del grande architetto e scultore settecentesco. Ai suoi tempi, il «signor D. Mauro Manieri» era considerato «eccellentissimo nel modello e architettura»[19]. Il cronista Francesco Antonio Piccinni, lo definì «Mastro celebre singolare (in) tal mestiere di modellare»[20].

Oltre alle tante opere architettoniche, realizzate a Lecce e in molti centri pugliesi, a Mauro Manieri è stata attribuita una vasta produzione scultorea lapidea, in cartapesta e in terracotta[21], ma non è dato sapere se fu realizzata direttamente dall’artista o su suo disegno. Si nota, infatti, una differente resa plastica tra le statue in pietra e le altre, così com’è evidente ad esempio, confrontando, nella chiesa del Carmine, l’altorilievo del San Michele Arcangelo e la statua, abbigliata con la medesima foggia, posta a destra dell’altare del profeta Elia, entrambi attribuiti a lui e datati 1736, e, ancora, con gli angeli dell’altare maggiore.

Si è scritto tanto su Mauro Manieri e le sue opere, ma ci sarebbe tanto altro da rintracciare e studiare, come, ad esempio: il soggiorno a Roma, il rapporto delle sue opere con la cultura napoletana e romana, i committenti, i rapporti con gli esponenti della cultura dell’epoca, il ruolo che ricoprì nelle accademie leccesi. Sta di fatto che è stato una figura fondamentale per la storia dell’arte salentina. In lui s’incarna il passaggio dal vecchio al nuovo modo di “fare arte”: l’artista non è più solo esecutore materiale di un disegno altrui, ma lo concepisce, lo progetta e lo realizza.

La chiesa di S. Antonio da Padova in Nardò

di Donato Giancarlo De Pascalis

 

Le origini sulla fondazione della chiesa e del convento di S. Antonio da Padova sono strettamente connesse con le vicende della comunità ebraica della città, insediatasi in Nardò fin dall’XI secolo d.C.

Gli Ebrei esercitavano in Nardò l’attività conciaria della lavorazione delle pelli, nonché quello del prestito e dell’usura, e risiedevano nella Giudecca, localizzata all’interno del Pittagio San Paolo, sin quando nel 1495, a causa delle agitazioni antisemite, furono costretti a fuggire ed a riparare nella vicina Gallipoli. L’abbandonata Sinagoga neritina fu affidata all’ordine conventuale dei Francescani Osservanti per essere trasformata in complesso conventuale. Il convento e la chiesa furono edificati ex novo sotto l’auspicio del nuovo duca di Nardò, Belisario Acquaviva, la cui politica a favore della regola francescana era strettamente in linea con quella dei re aragonesi.

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