Viaggio nel Salento. Le torri costiere

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Torre Colimena

 

di Mauro De Sica*

Per la sua posizione geografica strategicamente importante, il Salento è stato da sempre considerato la principale porta verso l’Oriente e dall’Oriente. Infatti, nel corso dei secoli, il territorio salentino è stato terra di transito per l’Italia settentrionale e l’Europa, ma anche viceversa. Non si dimentichi che alcuni contingenti delle varie crociate partivano dai porti di Brindisi e Otranto.

Il continuo flusso di genti non si è mai interrotto, prova ne sia che dal 1992 sino a primi anni del 2000 i salentini hanno assistito, quasi impotenti, a sbarchi considerevoli di albanesi in cerca di lavoro. Oggi quel flusso di migranti, come tutti sanno, si è spostato a Lampedusa, Siracusa, Crotone ed altre località meridionali.

Va anche ricordato che il Salento ha subito nel corso dei secoli numerose invasioni e scorrerie da parte di pirati albanesi, turchi, saraceni, mori ecc.,che saccheggiavano le popolazioni rivierasche (soprattutto nel basso Adriatico), portando via monili d’oro e d’argento, preziosi arredi e quant’altro avesse un certo valore.Venivano catturati giovani aitanti per essere venduti come schiavi nei mercati orientali o anche destinati al “remo” delle galee. Nel caso in cui i rapiti appartenessero a famiglie facoltose, per il loro riscatto era richiesta una consistente somma di denaro.

Per ovviare alle continue scorribande, molte popolazioni preferirono abbandonare i villaggi costieri e rifugiarsi nell’entroterra a 5-6 chilometri di distanza dal mare, dove un attacco saraceno sarebbe stato meno probabile. Ovviamente i sovrani delle varie epoche, allarmati dalla grave situazione, tentarono in ogni modo di arginare il fenomeno piratesco, ergendo rudimentali costruzioni di avvistamento, poste in luoghi sopraelevati rispetto alle marine, per segnalare con fuochi, fumi o suoni acuti l’imminente pericolo. Le costruzioni erano situate a non molta distanza tra di loro per consentire in breve tempo la comunicazione visiva o acustica dell’avvistamento di imbarcazioni piratesche. I primi ad edificare costruzioni di riparo e di sorveglianza furono i Romani, senza però ottenere grandi risultati. Anche durante la dominazione bizantina, normanna, sveva, angioina e aragonese furono costruite diverse torri, prevalentemente a pianta quadrata, con basamento a scarpa e terrazza sommitale demarcata da merlature con delle feritoie sulle pareti.

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Torre Squillace

 

L’organizzazione difensiva di queste costruzioni si dimostrò spesse volte inadeguata nei confronti delle incursioni di pirati, che erano diventati un vero incubo per le popolazioni salentine rivierasche.

All’inizio del XVI secolo le torri assunsero una forma generalmente a pianta circolare, con basamento a scarpa e con l’ingresso sopraelevato, accessibile mediante una rampa di scale munita di ponte levatoio. Questo sistema, molto più sicuro dei precedenti, garantiva una certa protezione al personale che vi abitava.

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Torre Puntapenne – Brindisi

Grazie alle tante nuove costruzioni e grazie agli espropri delle torri private, fu finalmente ultimata la lunga catena di torri costiere nel basso Adriatico e nello Ionio salentino. La guarnigione di ciascuna torre fu affidata a militari spagnoli, molto esperti in materia di avvistamenti e di resistenza ai saccheggi.

Alla fine del ’500 in tutto il Regno di Napoli si contavano ben 400 torri, rispettivamente disposte a distanza variabile dai due ai cinque chilometri e distribuite con adeguati criteri logistici lungo la costa.

Nel Salento troviamo circa 80 tra torri di avvistamento e fortini costieri, alcuni dei quali sono giunti quasi intatti sino ai giorni nostri, molti altri invece non sono riusciti a sopravvivere al tempo e all’incuria dell’uomo, altri ancora sono addirittura scomparsi. Va comunque osservato che il disfacimento di alcune torri è da attribuire soprattutto alla trascuratezza delle varie municipalità d’appartenenza, le quali, oltre ad utilizzare materiali di scarsa qualità nella loro costruzione, non provvedevano ad eseguire i periodici lavori di manutenzione e di consolidamento. Come dire che, anche a quelle epoche, la corruzione nella realizzazione e nella gestione di importanti opere pubbliche era viva e si faceva sentire.

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Torre Suda
  • pubblicato su “Il Filo di Aracne”

C’era una volta l’Amore…

A volte i miracoli s’avverano anche senza l’intervento divino

C’era una volta l’Amore…

 

di Mauro De Sica

Ero un ragazzetto di quasi otto anni, quando mia nonna mi raccontò l’indimenticabile favola sull’Amore.

Solitamente la nostra famiglia trascorreva la vigilia di Natale, così come il giorno di Pasqua e del santo patrono, in casa di nonna Giuseppa per festeggiare insieme il lieto evento.

Nell’autunno del 1950 la nonna era stata poco bene per via d’un raffreddore che l’aveva costretta a starsene sempre tappata in casa. Per tale motivo mio padre aveva stabilito un turno quotidiano d’assistenza tra tutti i nipoti galatinesi. Ogni giorno uno di noi doveva trascorrere un paio d’ore per tenerle compagnia e sbrigarle qualche faccenda domestica.

Nel primo pomeriggio di quella memorabile vigilia di Natale toccava a me andare a trovarla. Ero per strada a giocare in tutta libertà con gli amici di via XX Settembre, quando mia madre, con voce perentoria ma amorevole, mi ricordò che s’erano già fatte le tre e dovevo recarmi da lei.

Un improvviso gelo scese dentro di me. Facendomi forza ma anche con tanta rabbia in corpo, salutai mal volentieri i compagni di gioco e rientrai in casa.

Lei, mia madre, aveva capito il grande dramma che stavo vivendo, per cui mi carezzò più volte la guancia, per poi donarmi dieci lire.

“Passando dalla piazza, còmprati quel che vuoi…” – mi disse dolcemente – “…Suvvia, Mauro, non fare quella faccia truce: fra un paio di ore saremo tutti a casa della nonna e insieme gusteremo una cena succulenta, giocheremo a tombola ed infine aspetteremo la nascita del bambin Gesù”.

Malvolentieri e con il cuore a pezzi, lasciai gli amici e mi avviai lentamente in via Gallipoli, dove lei abitava da sola.

In quella casa, che odorava di antico e di chiuso, il tempo sembrava non trascorrere mai, cosicché, dopo appena mezz’ora, la noia e la tristezza mi aggredirono, spazientendomi.

“Cosa hai, Mauro, ti trovo alquanto silenzioso e imbronciato!” – disse la nonna, molto preoccupata.

“Ho freddo e poi…”.

Mi bloccai di colpo.

“E poi cosa?!”.

“E poi mi mancano tanto i miei compagni di gioco!…” – le risposi con un pizzico d’amarezza – “…Se almeno mi raccontassi una delle tue favolette, non mi annoierei e tutto passerebbe”.

“Prendi un po’ di legna dal cortile, aiutami ad accendere il camino e poi mettiti a sedere accanto a me. Però, promettimi che mi presterai attenzione e, soprattutto, che non dimenticherai la storiella che sto per raccontarti”.

“Brava nonnina, ti giuro che la porterò per sempre nel cuore”.

Dopo un buon quarto d’ora, il caldo tepore cominciava già a diffondersi nell’ampia stanza.

“Nonna, cosa stai per raccontarmi di tanto importante, da non doverlo dimenticare?”.

“Ti parlerò dell’Amore e dei miracoli che fa in continuazione”.

“Sono tutt’orecchi, nonnina!”. E mi predisposi all’ascolto con molta curiosità ed attenzione.

C’era una volta…  – cominciò a raccontare quella brava donna –  …un’isola dove vivevano tutti i sentimenti, buoni e cattivi. C’era il Buon Umore, la Tristezza, l’Invidia, la Vanità, il Sapere, la Saggezza ed anche l’Amore.

Un giorno venne annunciato ai “sentimenti” che l’isola stava per sprofondare. Allora tutti prepararono le loro barche e partirono. L’Amore, però, volle aspettare fino all’ultimo momento. Solo quando l’isola fu sul punto di sprofondare, l’Amore decise di chiedere aiuto.

La Ricchezza passò nelle vicinanze dell’isola su una barca lussuosissima.

“Signora Ricchezza, mi puoi portare con te?” – le chiese l’Amore.

“Mi dispiace tanto ma non posso, c’è molto oro e argento sulla mia barca e non ho posto per te”.

“Potresti buttare in acqua una minima parte delle tue monete d’oro: a me basterebbe un cantuccio!”.

“Non sia mai detta una cosa del genere!…” – le rispose quella, impettita e quasi offesa – “…Non baratterei mai una sola moneta d’oro con un poveraccio come te!”.

E se ne andò.

L’Amore decise allora di rivolgersi all’Orgoglio, che stava passando nei paraggi su un magnifico e lustrato vascello.

“Signore Orgoglio, ti prego, accogli la mia richiesta d’aiuto!”.

“Se posso, lo farò con piacere” – gli ribatté quello.

“L’isola sta sprofondando e, se qualcuno non mi presta soccorso, rischio di andare giù!”.

“Mi dispiace, Amore. Sul mio vascello tutto è in ordine, perfetto e pulito: potresti sporcare dappertutto e rovinare ogni cosa!”.

L’Amore era disperato ed intanto l’isola iniziava pian piano ad andare giù. Proprio in quei momenti di disperazione gli passò accanto la Tristezza.

“Tristezza, dolce Tristezza, lasciami venire con te!” – supplicò l’Amore, rivolgendole un accorato appello.

“No, Amore, non mi è possibile!… Sono così triste e desolata che ho bisogno di starmene da sola. Se salissi sulla mia barca, troverei un compagno e smetterei di essere triste, cosicché ogni uomo si rallegrerebbe!”.

L’Amore non sapeva più a quale santo rivolgersi: ormai la sua fine era segnata.

Gli passò a fianco il Buon Umore e, nonostante l’Amore si sgolasse a supplicarlo, se ne andò senza neanche accorgersi di lui, perché si beava tra le sue eccessive contentezze.

L’Amore era disperato e paventava una fine imminente, quando gli passarono accanto l’Invidia e la Vanità su una barca splendente e profumata.

“Perché ti disperi così tanto, buon uomo?!” – chiese una delle due.

“Fatemi salire sulla vostra barca, fra poco l’isola sprofonderà e mi porterà via con sé!”.

“Ti ospiteremo solo se t’imbelletterai così tanto da far invidia alla mia compagna di viaggio!” – gli rispose perentoriamente la Vanità.

“Non basta!…” – replicò l’Invidia, con un pizzico di orgoglio – “…Metterai piede sulla barca solo se diventerai più bello e fascinoso di sorella Vanità, tanto che io possa leggerle negli occhi un sentimento profondo e traboccante d’invidia”.

“Ma è tutto contro la mia natura!…” – ribatté l’Amore, alquanto mortificato.

“E allora, visto che non ti pieghi, sprofonda pure nelle fauci della terra!” – conclusero quelle all’unisono.

L’Amore, affranto e scoraggiato, osservava con molta mestizia che la terra s’apriva lentamente sotto i suoi piedi.

“Cosa accadrà agli uomini, ora che sto per andarmene?…” – pensava con rassegnazione l’Amore – “…Sono già abbastanza superbi, cattivi e violenti, nonostante mi dia un gran da fare per calmarli e abbonirli. Dopo la mia scomparsa diverranno ancora più malvagi e crudeli, tanto da annientarsi vicendevolmente!”.

Pensava e ripensava, ma intanto l’isola sprofondava sempre più, sino ad abbassarsi al livello del mare.

“Addio, vita mia!… addio progetti per i quali ho impegnato ogni mia stilla di bene!… Addio… addio per sempre!”.

Ormai l’acqua gli era salita al livello delle ginocchia, quando…

“Vieni, Amore… ti prendo con me!” – disse stentoreamente una voce, spuntata all’improvviso chissà da dove.

Era un vecchio, che indossava un lungo abito bianco, aveva la barba incolta e dei capelli fluenti.

L’Amore si sentì attrarre da una sensazione piacevole e smisurata da dimenticare di chiedere al vecchio il suo nome. Quando approdarono sulla terraferma, ormai lontani dall’isola e dal pericolo, il vecchio salutò sorridendo e proseguì il viaggio.

Dopo una buona mezz’ora, l’Amore si rese conto di aver commesso una grave manchevolezza. Non aveva ringraziato il vecchio, né tanto meno gli aveva chiesto il nome.

Si rivolse al Sapere, che passava in quel momento nei paraggi.

“Signor Sapere, sai dirmi chi mi ha aiutato?!”.

“È stato il Tempo…” – gli rispose quello.

“Il Tempo?!…” – s’interrogò l’Amore – “…Perché mai mi ha aiutato il Tempo?”.

“Perché solo il Tempo è capace di comprendere quanto l’Amore sia importante nella vita degli uomini” – gli rispose il Sapere, compagno inseparabile della Saggezza.

Da allora l’Amore si è impegnato di gran lena per aiutare gli uomini ed affrancarli da ogni sentimento cattivo.

La nonna, commossa, piegò la testa.

“È finita, nonna!” – le dissi con un pizzico di rammarico.

“Sì, Mauro, è proprio finita. Mi auguro che abbia fatto presa nel tuo cuore”.

“Certo, nonna, ti prometto che non mi stancherò mai di amare e di fare del bene”.

E mi passò la mano vellutata sul viso.

“Mauro, hai capito la morale della favoletta?”.

“Sì, nonna!”.

“Solo se la racconterai ai tuoi figli e a tutti i ragazzi che incontrerai, e se altrettanto faranno i figli dei tuoi figli e di quei ragazzi, l’Amore si rafforzerà a tal punto, da sconfiggere tutti i mali del mondo”.

Quel Natale fu per me il più bello.

Perciò, voi ragazzi, ma anche voi adulti, che mi avete letto con molta pazienza, continuate a credere nell’Amore e a sognare di averlo accanto: vi aiuterà a vivere meglio e a desiderare il bene proprio e degli altri.

Solo in questo modo la vostra “isola” non sprofonderà mai e mai ricorrerete all’aiuto di quegli ingannevoli e illusori sentimenti, che da sempre abbagliano e seducono l’uomo, conducendolo, il più delle volte, verso il Male.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Salento e Società Segrete

Nel Salento ve ne erano oltre cento, mentre un migliaio nell’intero Regno delle Due Sicilie

LE SOCIETÀ SEGRETE

Erano movimenti clandestini sorti per contrastare il governo borbonico o per difenderlo

di Mauro de Sica

Premessa

Grazie allo storico Pietro Palumbo di Francavilla Fontana, al notaro Nicola Pignatelli e a Ferrante Tanzi, direttore dell’Archivio di Lecce, la storia salentina del primo Ottocento si è potuta arricchire adeguatamente. Il primo, grazie ad una ricerca meticolosa, ha studiato in lungo e in largo il Risorgimento Salentino; il secondo ha redatto uno zibaldone di cause criminali risalenti alla Repubblica Napoletana del 1799, mentre il terzo ha riordinato pazientemente molte notizie sulle Sette o Vendite Carbonare.

Poco è emerso dagli Atti di polizia relativi al periodo 1800-1860, ammucchiati qua e là disordinatamente in diversi luoghi del Regno. La scarsità di notizie è anche dovuta al fatto che molti storici dell’epoca erano asserviti al regime borbonico, per cui poche verità furono consegnate alla Storia; anzi, uomini di provato stampo repubblicano e patriottico, come Oronzo Massa, Giuseppe Libertini, Nicola Mignogna, Giuseppe Fanelli, Liborio Romano, Epaminonda Valentino, Sigismondo Castromediano, Antonietta de Pace e altri, furono a lungo perseguitati, incarcerati, torturati. Alcuni marcirono in galera, altri furono passati per le armi, in pochi si salvarono.

Origine delle società segrete

Va innanzitutto precisato che, nel Meridione d’Italia, le società segrete erano già operanti ancor prima della Repubblica Napoletana del 1799, fallita nel sangue dopo appena mezz’anno.

A quei tempi si contrapponevano due fazioni estremistiche con finalità diverse: i Giacobini da una parte, i Realisti (poi diventati Sanfedisti, Concistoriali, Trinitari, Calderari) dall’altra.

Sia gli uni che gli altri si muovevano clandestinamente. I primi erano convinti assertori che la libertà, l’indipendenza e il retto governo si potessero ottenere soltanto con una Repubblica democratica. Si muovevano nell’ombra, ma erano legati da vincoli indissolubili e da una buona rete organizzativa. Anche i secondi agivano in clandestinità, ma erano foraggiati e manovrati dai Borbone. Appoggiati dal clero e da alcuni nobili fedeli alla corona, i realisti ritenevano che i giacobini fossero nemici del Papa, di Cristo e del Trono e, come tali, dovevano essere eliminati. Essi usavano tutti i mezzi, leciti o illeciti, per scovarli e combatterli. Molti esponenti giacobini di spicco perirono per mano realista.

 

La società segreta dei Carbonari1

La carboneria vera e propria era stata introdotta nel Regno delle Due Sicilie intorno al 1807, forse dal generale francese Miot, e aveva attecchito immediatamente in quasi tutti gli strati della popolazione. Molti borghesi e nobili napoletani erano stati adeguatamente istruiti e guidati da alcuni ufficiali transalpini al pensiero politico giacobino,in modo che fosse diffuso in tutte le terre del Meridione, sino a radicarsi nelle coscienze di ogni cittadino. Nel 1811 il governo repubblicano di Gioacchino Murat aveva istituzionalizzato il movimento della carboneria, conferendogli il necessario riconoscimento politico e tutelandolo legalmente; ma ben presto le sette carbonare gli si rivoltarono contro per la politica economica sbagliata e ben distante dall’iniziale pensiero riformista.

La finalità precipua delle sette carbonare, che nella struttura erano molto simili a quelle massoniche, era l’emancipazione di ogni uomo e la sua uguaglianza di fronte alla società, alla legge e a Dio. A differenza delle sette massoniche, in quelle carbonare vi era un ordine androgino, cioè vi potevano aderire sia uomini (chiamati buoni cugini) sia donne (chiamate sorelle giardiniere). L’emblema di ogni setta carbonara riportava numerosi simboli caratteristici: la croce drappeggiata, la corona di spine, il fascio e la scure, la spada e il flagello, Marte e Pallade Frigia, il gallo sull’òmphalos, l’albero, il sole, la terra, l’acqua, la bilancia, la scala, il Vangelo, il Cristo e altri minori. I vari simboli erano collocati intorno ai vertici di due triangoli equilateri intersecanti, uno dei quali capovolto sull’altro nella parte mediana. I lati dei triangoli erano costituiti da lunghe catene, a testimonianza delle sofferenze del Cristo, redentore degli oppressi. La Carboneria era in pratica la società degli umili e dei perseguitati. Cristo era considerato il primo carbonaro, san Teobaldo era il patrono della setta. Nella parte interna dei triangoli vi erano delle lettere maiuscole, disposte su due righe. La prima conteneva: A…G…D…G…M…D…U…, vale a dire “A Gloria Del Gran Maestro Dell’Universo”; la seconda, invece, S…G…A…D…N…P…S…T…, cioè Sotto Gli Auspici Del Nostro Protettore San Teobaldo”.

Come in tutte le sette, l’iniziazione alla Carboneria avveniva con riti che avevano del simbolico, del misterioso ed anche del pauroso. All’iniziato erano bendati gli occhi e poi era condotto nella baracca, luogo segretissimo, considerato il Tempio della Virtù. Qui, alla presenza di tre luci (il Gran Maestro e due Maestri) e di persone incappucciate, era sottoposto a una serie di domande e ad alcune prove di coraggio. Se l’aspirante carbonaro superava i vari ostacoli e dimostrava di possedere ingegno, fede e coraggio era sbendato. Si ritrovava con quattro pugnali puntati alle tempie e con il Gran Maestro (anch’esso incappucciato) che gli ricordava che, se avesse tradito, sarebbe stato ucciso brutalmente, il suo corpo fatto a pezzi, bruciato e le ceneri sparse al vento. Dopo di che, l’iniziato era invitato a giurare e a firmare con il suo stesso sangue una pergamena. Per ultimo, il Gran Maestro gli consegnava un nastro tricolore (rosso, nero e celeste), chiamato chantillon, e, pubblicamente, lo nominava Apprendista. Alla fine del rito iniziatico, gli rammentava che l’orgoglio, la vanità e le ricchezze dovevano essere bandite dalla sua vita e che nella sua mente dovevano alloggiare soltanto l’umiltà, la giustizia e la fratellanza.

Ogni affiliato non conosceva altro che i superiori immediati della vendita (setta) di appartenenza, ai quali doveva cieca obbedienza. Nel corso della sua vita poteva salire la scala gerarchica, passando da Apprendista, a Maestro, a Gran Maestro e, infine, a Grande Eletto.

I carbonari, per riconoscersi, dovevano far ricorso a un complicato sistema di battute, di toccamenti, di passi e, infine, a seconda delle situazioni, ad una sequenza di particolari parole d’ordine.

Negli anni a seguire si costituirono in tutto il Salento numerose vendite carbonare. I titoli con cui erano denominate risentivano del risveglio della letteratura classica, iniziato dall’Alfieri, che aveva in odio i tiranni.

A Lecce troviamo ben sei vendite de L’Idume, il cui Gran Maestro era Girolamo Congedo, ad Otranto L’Idro, a Galatina I Novelli Bruti, guidati da tale Giovanni Campa, a Gallipoli L’Asilo dell’Onestà e L’Utica del Salento, a Nardò La Fenice Neretina, a Squinzano Il sollievo dell’Umanità, a Monteroni I figli di Muzio Scevola, a Copertino I Figli della Ragione, a Soleto Il Sole Rallegrato, a Carpignano Gli Alunni di Marte, a Novoli Il Nuovo Carbone e Il Novilunio, a Taurisano L’Aquila Imperiale Romana, e tanti altri ancora. A Lecce gli affiliati si riunivano presso la bottega “Alle quattro Spezierie” di tal Giacomo Macella o presso il “Gran Caffè” di Raffaele Persico, in Piazza Sant’Oronzo.

La setta dei Guelfi

Una setta carbonara moderata era quella dei “Guelfi”, presente in molte parti del Meridione e dello stesso Salento. Gli affiliati si limitavano a diffondere l’ideale repubblicano e liberale, piuttosto che prendere parte a movimenti insurrezionalisti e violenti.

Una tra le sette più affermate era, senza alcun dubbio, L’Utica del Salento, sorta a Gallipoli intorno al 1820 da una costola della vendita carbonara L’Asilo dell’Onestà, sanguinaria e interventista. Pare che i motivi della scissione siano da collegare all’uccisione di un gendarme gallipolino, omicidio non condiviso da alcuni affiliati. La nuova setta, guidata nei primi anni da Gregorio de Pace (padre della più famosa Antonietta) e, alla sua morte, dal fratello, il canonico Don Antonio, si riuniva nelle casine di Stracca e di Camerelle, nei pressi di Villa Picciotti (Alezio).

La setta dei Calderari

Rimpossessatosi del regno nel 1815, Ferdinando IV di Borbone aveva immediatamente vietato logge massoniche e vendite carbonare. Per completare la sua campagna contro i Carbonari, il sovrano aveva autorizzato e sostenuto una setta a lui fedele, i Calderari, o anche Calderai, che diedero inizio ad una serie infinita di regolamenti di conti. Quella dei Calderari era un’associazione segreta reazionaria e filo-borbonica, chiamata anche società «del contrappeso», perché la sua attività era contrapposta a quella dei carbonari. Il sangue si spargeva per tutte le terre del regno e la delazione era diventata un fatto quotidiano. In provincia di Lecce, resta famosa la setta dei calderari di Gallipoli, guidata dal notaio Francesco Sambati, il quale più volte si scontrò con gli affiliati de L’Asilo dell’Onestà. È da ricordare anche il violento Ciro Vergine da Maglie.

Malgrado queste pressioni la Carboneria salentina continuò a crescere.

A capo della setta controrivoluzionaria dei calderari c’era il Principe di Canosa Antonio Capece Minutolo, graziato da Ferdinando ai tempi della rivoluzione del ’99 e poi schieratosi sull’altra sponda, tanto da essere nominato ben presto Direttore di Polizia del Regno. Il nobile si lasciò andare a continue scorrerie nelle zone ad alto indice di carboneria. Godendo del favore del governo, i Calderari agivano in modo inconsulto e sfrenato, compiendo violenze e azioni brutali. Per tale motivo la setta, dopo alcuni anni, fu sciolta e perseguitata dallo stesso sovrano.

Altre sette di minore importanza si mossero nella prima metà dell’800. Su tutte ricordiamo i Concistoriali e i Trinitari, dalla parte borbonica, mentre i Filadelfi, gli Edennisti, i Turbolenti e, soprattutto, i Decisi, dalla parte liberale.

Conclusione

A un Ottocento, fervido e movimentato, in cui gli uomini si sono battuti strenuamente per il conseguimento della Libertà, della Giustizia e della Pace, ha fatto seguito un secolo pieno di guerre e di sangue, in cui sono state conquistate soltanto le Carte Costituzionali e una vita (apparentemente) democratica, ma ancora inquieta, preoccupante e molto distante dalle grandi aspettative umane e sociali.

Oggi, purtroppo, godiamo di una libertà contenuta, ristretta, tascabile. Vi sono persone che ne usufruiscono a piacimento, a volte anche per perseguire degli interessi illeciti; ad altre, invece, è concesso il minimo indispensabile per muoversi entro spazi vitali sempre più ridotti e ritagliarsi una vita appena appena decente. La vera libertà, quella di cui tutti vorrebbero usufruire, è ancora inchiodata sulle pagine della Carta Costituzionale e stenta a muoversi tra la gente. Occorrono decenni e decenni di dura fatica, di lotte civili, di impegni sociali perché si riesca ad abbattere definitivamente le roccaforti egemoniche e possa avverarsi il grande disegno che l’uomo si porta dietro dall’alba della Storia.

Estratto da “http://it.wikipedia.org/wiki/Calderari

 

1 La Carboneria era sorta dalla setta dei “Filadelfi”, chiamati anche “Filateti”, il cui capo era Filippo Buonarroti.

 

NdR: Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per la concessione

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