Libri| Ti vedo, di Mauro Bortone

ti vedo

Ti vedo è un romanzo ipertestuale, un intreccio di esistenze che sembrano essersi arrestate sulla sponda di un fiume di dubbi inquieto e incessante. Riccardo, un salentino trasferitosi a Nord per lavoro, tornando nella sua terra, riassapora la gradevolezza e l’amaro, i sapori forti e quelli più delicati di un passato fatto di perdite, di amicizie lacerate e di donne che lo hanno segnato, a volte imbruttito e svilito. Poi Marco, un venditore di elettrodomestici cinico e completamente svuotato da ambizioni, che in un ormai irrintracciabile attimo di lucidità, decide di tornare a Firenze, ritrovare i vecchi amici e ricominciare a fare musica. Ma anche per Marco Firenze sarà solo il campo di battaglia con il tempo, con i cambiamenti inattesi e le delusioni. Infine Arturo, in coma da tempo, abitante della città di “Nebulandia”, che slaccia la fantasia e si abbandona a racconti irreali e conversazioni con figure paradossali e strampalate.

Ma la penna che traccia questa mappa di storie, che vuole disorientare il lettore e poi ricondurlo a sé, è quella di Dario, detenuto, colpevole di un omicidio, con in corpo ancora le schegge di una relazione sofferta e l’impulso di provare a riappropriarsi, tramite la scrittura, di mondi, scenari e stralci di vita che continuano a sanguinare.

Ti vedo ha il suono di singole storie, di errori personali, di scivolate inevitabili, a volte feroce, a volte lento. Un faro nel buio pesto delle incertezze, che sono di uno e di tanti, che diventano voce di una generazione, costretta a far tacere o disintegrare i bisogni di cambiare forma per vedersi migliore.

 

Ti vedo, di Mauro Bortone, Lupo Editore, 13,5×21, pagine 264, Eu. 16,00.

I Santi Martiri di Otranto e il 1480 (IV ed ultima parte)

Per merito della guarigione nel 1980 di suor Francesca Levote oggi 11 febbraio 2013 si è tenuto il concistoro per la canonizzazione dei già Beati 800 Martiri di Otranto, che saranno dichiarati Santi il 12 maggio 2013. Benedetto XVI, che a suo tempo ha autorizzato la Congregazione delle cause dei Santi a promulgare i Decreti di nuovi Santi, nominerà dunque Antonio Primaldo e i suoi 800 concittadini uccisi dai turchi durante l’assedio di Otranto del 1480 per aver rifiutato la conversione all’Islam. Ci è sembrato doveroso ricordare quei tristi fatti riproponendo l’ampio studio di Mauro Bortone, riproposto in questi ultimi quattro giorni (NdR).

 

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Cattedrale di Otranto, interno

 

 

L’alibi del nemico turco ed il gioco del sultano

 

Facciamo un passo indietro. Nel maggio 1453, si era verificato, per via degli Ottomani e del loro sultano, Maometto II, un avvenimento di portata mondiale: la caduta di Costantinopoli, che aveva posto fine ad una storia ultramillenaria, gettando il mondo cristiano in una prostrazione profonda, solcata da paurosi lampi apocalittici. Numerose profezie, che avevano attraversato tutto il Medioevo e che ora tornavano più drammatiche, associavano la caduta della nuova Roma all’avvento dell’Anticristo e alla fine dei tempi[1]. La guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra, che ormai languiva allo stato endemico, si chiuse precipitosamente dinanzi al nuovo pericolo; con la “pace di Lodi” del 1454 si aprì il periodo del cosiddetto “equilibrio”, dove emergeva la preoccupazione, non infondata, che i Turchi sbarcassero davvero in Italia.

In questo contesto, la cristianità occidentale si accorse dolorosamente che il “troppo presto liquidato ecumenismo politico”[2] aveva lasciato un vuoto: con un Sacro Romano Impero, ridotto ad una larva germanizzata, la stessa auctoritas del papato risultava dimezzata: “il pontefice non poteva che ambire ad un ruolo quasi simbolico di una qualche (diciamo così) presidenza della “lega” dei principi e dei popoli cristiani d’Europa, riunita per battere il pericolo turco. Fu quanto s’impegnarono a fare, con differente energia, pontefici quali Niccolò V, Callisto III, Pio II, Paolo II, Sisto IV, cercando disperatamente di metter d’accordo le divergenti idee e gli interessi contrastanti della repubblica di San Marco, del re di Napoli, del re d’Ungheria e di altre potenze: perché, intanto, si era capito molto bene che i turchi erano sì un pericolo, ma potevano essere anche uno splendido alibi

I Martiri di Otranto e il 1480 (III parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Lo strano caso della congiura dei Pazzi

ed il contesto storico

 

Seppur tra molti lati oscuri, la vicenda di Otranto, potrebbe essere collegata in qualche modo alla congiura dei Pazzi, architettata contro Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze. Dall’agosto del 1471, infatti, era asceso al soglio pontificio, col nome di Sisto IV, Francesco della Rovere. Tra i suoi favoriti c’era il nipote Girolamo Riario: per lui il Papa acquistò la contea di Imola a un passo dal territorio fiorentino;[1] ma tale operazione necessitava di un prestito di trentamila fiorini: i Medici, banchieri di fiducia della Santa Sede, si erano però rifiutati di concederlo. A Roma si trovava un’altra banca in grado di sborsare una cifra del genere: quella dei Pazzi[2]. Ne era a capo Franceschino d’Antonio, grande amico di Girolamo Riario, col quale concepì una congiura che facesse fuori Il Magnifico. Il Papa, dal canto suo, accarezzando l’idea di trasformare Firenze in una signoria per il proprio nipote, impose alla diocesi un nuovo arcivescovo, Francesco Salviati, avverso Magnifico[3]. Il momento scelto per la congiura fu la primavera del 1478: Giuliano, fratello di Lorenzo, fu colpito a morte con i pugnali di Franceschino e Bernardo Bandini. Il Magnifico, però, riuscì a scappare. A Firenze scoppiò la rivolta: l’arcivescovo Salviati fu impiccato alle finestre del palazzo della Signoria, mentre altri congiurati, penetrati nell’edificio, venivano scaraventati giù. Bernardo Bandini riuscì a fuggire: si imbarcò su una grossa galea del re di Napoli, raggiungendo Istanbul, dove aveva amici e parenti. Anche il Magnifico, nella capitale turca, aveva interessi e spie. La polizia del sultano scoprì il Bandini e lo imprigionò. Antonio de’ Medici partì nel luglio ’79 da Firenze con ricchi doni per il sultano e ritornò alla vigilia di Natale con il Bandini. Qualche giorno più tardi, l’assassino di Giuliano de’ Medici pendeva a una finestra del palazzo del Bargello. Da allora, tra la Signoria di Firenze e l’impero ottomano s’instaurarono rapporti cordiali, con scambi di messaggi, ambascerie e doni.

L’altra grande potenza, Venezia, desiderava porre un limite all’influsso degli Aragonesi. Un tacito patto, un anno dopo, permise al sultano di trovare la via spianata per conquistare Otranto[4].

Sulla presa di Otranto, c’è da rimarcare ancora un particolare, spesso sottovalutato nel dibattito odierno: l’atteggiamento del Pascià. Molti storici sostenitori del “movente religioso” dell’assalto islamico fanno derivare le

I Martiri di Otranto e il 1480 (II parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Le controversie storiche. Una breve rivisitazione dell’episodio ed alcune questioni irrisolte

 

Per rispondere a questa domanda, si rende necessaria una breve rivisitazione degli episodi storici del 1480. Dopo aver raggiunto il suo massimo splendore nei secoli X-XV, Otranto rimase vittima della conquista di Gedik Ahmed Pascià (o Passà)[2], inviato da Maometto II[3]. I cittadini resistettero all’assedio, dopo aver visto arrivare via mare l’armata turca, composta da 90 galee e 18mila soldati. L’offensiva turca fu martellante: con le bombarde rovesciarono per giorni sulla città centinaia di grosse palle di pietra, «che quando dette palle sparavano, era tanto il terremoto che pareva che il cielo e la terra si volessero abbissare, e le case et ogni edificio per il gran terrore pareva che allora cascassero»[4]. Dopo quindici giorni, all’alba del 12 agosto, l’esercito turco concentra il fuoco su uno dei punti più deboli delle mura, ed aprendo facilmente una breccia, irrompe in città. A contrastarne l’avanzata accorre il capitano Zurlo con il figlio e con altri armati, ma il nemico è superiore e cadono tutti eroicamente, senza poter arrestare l’offensiva dell’orda: «era tanta la calca della gente Turchesca che veniva spinta da dietro dal Bassà e da loro Capitani con bastoni e scimitarre nude per farli entrare per forza e con gridi et urli, che non si posseva più resistere. […] I Cittadini resistendo ritiravansi strada per strada combattendo, talché le strade erano tutte piene d’homini morti così de’ Turchi come de’ Cristiani et il sangue scorreva per le strade come fusse fiume, di modo che correndo i Turchi per la città perseguitando quelli che resistevano e quelli che si ritiravano e fuggivano la furia non trovavano da camminare se non sopra li corpi d’homini morti»[5]. Certamente fu decisivo per l’esito del conflitto il grande divario di forze in campo. Incredibili le crudeltà commesse dagli assalitori sugli otrantini inermi: nel massacro, tutti i maschi con oltre quindici anni vengono uccisi, mentre donne e bambini sono ridotti in schiavitù. Secondo alcune stime (su cui però i dubbi restano consistenti), i morti furono 12.000 (inclusi quelli periti nei combattimenti e sotto i bombardamenti delle grosse artiglierie) e gli schiavi 5.000.

Qualche giorno dopo aver saccheggiato la Cattedrale, i Turchi uccidono sul colle “detto della Minerva” oltre ottocento superstiti. Nella tragica morte di quegli otrantini sono da rintracciare, secondo la versione più largamente diffusa le origini del martirio: stando a questa tesi, l’episodio consumato sul colle della Minerva non fu una semplice selvaggia carneficina, né un massacro per rappresaglia, ma qualcosa di più importante; quegli otrantini, condotti alla presenza del Pascià, furono obbligati ad operare una scelta chiara: l’apostasia o la morte come “infedeli”. La maggioranza degli otrantini scelsero di morire piuttosto che rinnegare la propria fede e furono decapitati con un colpo di scimitarra: il primo a morire fu tal Antonio Pezzulla, un cimatore di panni, che aveva esortato tutti a perseverare nella fede[6], e che, pur decapitato, secondo la tradizione, si levò in piedi col solo busto, senza la testa, restando immobile sino all’esecuzione dell’ultimo dei suoi compagni[7]. Un carnefice turco di nome Berlabei, sempre secondo la stessa tradizione, a quel prodigio si convertì al cristianesimo e venne condannato al supplizio del palo, quello stabilito per i “traditori della fede”[8]. I corpi degli Ottocento rimasero insepolti per circa 13 mesi, sino all’8 settembre 1481, quando il Duca Alfonso d’Aragona entrò nella città (pare, infatti, piuttosto arduo parlare di una vera e propria “liberazione”): le loro reliquie furono condotte all’interno della cattedrale. Il “martirio” del colle, secondo la tradizione cristiana, fu subito un dato “acquisito”, che fece riconoscere quegli uomini come “autentici Martiri di Cristo”. Ma non tutti concordano. Una seconda versione dell’accaduto, facendo leva sulle non poche contraddizioni emerse nel processo, ha a lungo sollevato dubbi in merito alla questione del martirio e un’accesa discussione sulla consistenza storica del dato: questi storici “laici” ritengono irrilevante, infatti, che gli otrantini del 1480 siano morti per una reale professione di fede, preferendo la tesi della “razzia” e della soppressione barbara dei superstiti; del resto, per questi storici, le mire espansionistiche turche non traevano alcun vantaggio da una conversione di massa. Di certo su questa confusione incide e non può ignorarsi quella che, rifacendosi al famoso titolo di un testo del giornalista Marco Travaglio, sarebbe definibile come “la scomparsa dei fatti”: per anni, l’episodio otrantino ha avuto scarsa menzione nei libri scolastici e nei testi storici. E se oggi c’è una sostanziale concordia sulla vicenda, per molto tempo non è stato così. E anche laddove c’era concordanza storica, la questione del martirio o della razzia ha creato comunque divisione.

I problemi, oggi, forse sono da rintracciarsi altrove: innanzitutto nelle oggettive difficoltà di elevare al culto universale della Chiesa uomini uccisi dai Turchi, in un contesto culturale di dialogo ecumenico e di “restrizione identitaria”; d’altro canto, nelle interpretazioni dei fatti del 1480, spesso si tende all’esagerazione opposta, quella, cioè, di una eccessiva retorica identitaria. Ormai va diffondendosi come moda maniacale quella di rileggere la vicenda otrantina sotto la veste di “una difesa epica del cristianesimo”, dentro ad un clima intellettuale dove crescerebbe la “minaccia islamica” e dove starebbero crollando tutti i riferimenti alla matrice cristiana della cultura europea, in un delirio da misticismo intransigente alla Socci o con una deriva fideistica da “atei devoti” alla Ferrara. Non da meno distorta pare, ad onor del vero, la scelta, ridondante di un’enfasi senza legame storico, di propugnare ogni anno a cadenza estiva, il solito riassuntino precotto e scopiazzato sulle vicende del 1480, condendolo con titoli altisonanti contro il nemico che viene da Oriente, come qualche eminente personaggio politico locale fa sempre più spesso. C’è, invece, poco interesse ad approfondire davvero le vicende, le cui interpretazioni non sono più semplicisticamente ridotte alle mire espansionistiche del mondo islamico o all’attacco di civiltà, come puntualmente e retoricamente ribadito anche nei discorsi commemorativi, che si tengono nelle celebrazioni civili dei Martiri otrantini. La vicenda storica, come sempre, è più complessa e determinata dalla convergenza di vari fattori.

(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°3
 

I Martiri di Otranto e il 1480 (II parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Le controversie storiche. Una breve rivisitazione dell’episodio ed alcune questioni irrisolte

 

Per rispondere a questa domanda, si rende necessaria una breve rivisitazione degli episodi storici del 1480. Dopo aver raggiunto il suo massimo splendore nei secoli X-XV, Otranto rimase vittima della conquista di Gedik Ahmed Pascià (o Passà)[2], inviato da Maometto II[3]. I cittadini resistettero all’assedio, dopo aver visto arrivare via mare l’armata turca, composta da 90 galee e 18mila soldati. L’offensiva turca fu martellante: con le bombarde rovesciarono per giorni sulla città centinaia di grosse palle di pietra, «che quando dette palle sparavano, era tanto il terremoto che pareva che il cielo e la terra si volessero abbissare, e le case et ogni edificio per il gran terrore pareva che allora cascassero»[4]. Dopo quindici giorni, all’alba del 12 agosto, l’esercito turco concentra il fuoco su uno dei punti più deboli delle mura, ed aprendo facilmente una breccia, irrompe in città. A contrastarne l’avanzata accorre il capitano Zurlo con il figlio e con altri armati, ma il nemico è superiore e cadono tutti eroicamente, senza poter arrestare l’offensiva dell’orda: «era tanta la calca della gente Turchesca che veniva spinta da dietro dal Bassà e da loro Capitani con bastoni e scimitarre nude per farli entrare per forza e con gridi et urli, che non si posseva più resistere. […] I Cittadini resistendo ritiravansi strada per strada  combattendo, talché le strade erano tutte piene d’homini morti così de’ Turchi come de’ Cristiani et il sangue scorreva per le strade come fusse fiume, di modo che correndo i Turchi per la città perseguitando quelli che resistevano e quelli che si ritiravano e fuggivano la furia non trovavano da camminare se non sopra li corpi d’homini morti»[5]. Certamente fu decisivo per l’esito del conflitto il grande divario di forze in campo. Incredibili le crudeltà commesse dagli assalitori sugli otrantini inermi: nel massacro, tutti i maschi con oltre quindici anni vengono uccisi, mentre donne e bambini sono ridotti in schiavitù. Secondo alcune stime (su cui però i dubbi restano consistenti), i morti furono 12.000 (inclusi quelli periti nei combattimenti e sotto i bombardamenti delle grosse artiglierie) e gli schiavi 5.000.

Qualche giorno dopo aver saccheggiato la Cattedrale, i Turchi uccidono sul colle “detto della Minerva” oltre ottocento superstiti. Nella tragica morte di quegli otrantini sono da rintracciare, secondo la versione più largamente diffusa le origini del martirio: stando a questa tesi, l’episodio consumato sul colle della Minerva non fu una semplice selvaggia carneficina, né un massacro per rappresaglia, ma qualcosa di più importante; quegli otrantini, condotti alla presenza del Pascià, furono obbligati ad operare una scelta chiara: l’apostasia o la morte come “infedeli”. La maggioranza degli otrantini scelsero di morire piuttosto che rinnegare la propria fede e furono decapitati con un colpo di scimitarra: il primo a morire fu tal Antonio Pezzulla, un cimatore di panni, che aveva esortato tutti a perseverare nella fede[6], e che, pur decapitato, secondo la tradizione, si levò in piedi col solo busto, senza la testa, restando immobile sino all’esecuzione dell’ultimo dei suoi compagni[7]. Un carnefice turco di nome Berlabei, sempre secondo la stessa tradizione, a quel prodigio si convertì al cristianesimo e venne condannato al supplizio del palo, quello stabilito per i “traditori della fede”[8]. I corpi degli Ottocento rimasero insepolti per circa 13 mesi, sino all’8 settembre 1481, quando il Duca Alfonso d’Aragona entrò nella città (pare, infatti, piuttosto arduo parlare di una vera e propria “liberazione”): le loro reliquie furono condotte all’interno della cattedrale. Il “martirio” del colle, secondo la tradizione cristiana, fu subito un dato “acquisito”, che fece riconoscere quegli uomini come “autentici Martiri di Cristo”. Ma non tutti concordano. Una seconda versione dell’accaduto, facendo leva sulle non poche contraddizioni emerse nel processo, ha a lungo sollevato dubbi in merito alla questione del martirio e un’accesa discussione sulla consistenza storica del dato: questi storici “laici” ritengono irrilevante, infatti, che gli otrantini del 1480 siano morti per una reale professione di fede, preferendo la tesi della “razzia” e della soppressione barbara dei superstiti; del resto, per questi storici, le mire espansionistiche turche non traevano alcun vantaggio da una conversione di massa. Di certo su questa confusione incide e non può ignorarsi quella che, rifacendosi al famoso titolo di un testo del giornalista Marco Travaglio, sarebbe definibile come “la scomparsa dei fatti”: per anni, l’episodio otrantino ha avuto scarsa menzione nei libri scolastici e nei testi storici. E se oggi c’è una sostanziale concordia sulla vicenda, per molto tempo non è stato così. E anche laddove c’era concordanza storica, la questione del martirio o della razzia ha creato comunque divisione.

I problemi, oggi, forse sono da rintracciarsi altrove: innanzitutto nelle oggettive difficoltà di elevare al culto universale della Chiesa uomini uccisi dai Turchi, in un contesto culturale di dialogo ecumenico e di “restrizione identitaria”; d’altro canto, nelle interpretazioni dei fatti del 1480, spesso si tende all’esagerazione opposta, quella, cioè, di una eccessiva retorica identitaria. Ormai va diffondendosi come moda maniacale quella di rileggere la vicenda otrantina sotto la veste di “una difesa epica del cristianesimo”, dentro ad un clima intellettuale dove crescerebbe la “minaccia islamica” e dove starebbero crollando tutti i riferimenti alla matrice cristiana della cultura europea, in un delirio da misticismo intransigente alla Socci o con una deriva fideistica da “atei devoti” alla Ferrara. Non da meno distorta pare, ad onor del vero, la scelta, ridondante di un’enfasi senza legame storico, di propugnare ogni anno a cadenza estiva, il solito riassuntino precotto e scopiazzato sulle vicende del 1480, condendolo con titoli altisonanti contro il nemico che viene da Oriente, come qualche eminente personaggio politico locale fa sempre più spesso. C’è, invece, poco interesse ad approfondire davvero le vicende, le cui interpretazioni non sono più semplicisticamente ridotte alle mire espansionistiche del mondo islamico o all’attacco di civiltà, come puntualmente e retoricamente ribadito anche nei discorsi commemorativi, che si tengono nelle celebrazioni civili dei Martiri otrantini. La vicenda storica, come sempre, è più complessa e determinata dalla convergenza di vari fattori.

(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°3
 
 

I Martiri di Otranto e il 1480 (I parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Il decreto  super martyrio

 

Nello scorso mese di luglio, la Santa Sede, per volontà stessa di Benedetto XVI, ha dato parere favorevole alla santificazione dei Beati Martiri di Otranto, uccisi nell’invasione turca del 1480. L’atto è un formale riconoscimento, da parte della Congregazione per le Cause dei Santi, del martirio degli Ottocento: un primo importante tassello, non ancora decisivo, del lungo percorso verso la canonizzazione. Il processo di proclamazione della Santità avviene, infatti, attraverso due momenti: la constatazione dell’avvenuto martirio e l’accertamento di un miracolo per intercessione di quanti si venerano. Il decreto in questione ravvisa che, nelle vicende storiche del 1480, Antonio Primaldo e Compagni siano da ritenersi a tutti gli effetti martiri, uccisi “in odio alla fede”. Nel gergo ecclesiale, è il decreto super martyrio: martiri si, dunque, ma non ancora santi. E ci sarà ancora da attendere, come la tradizione e la storia stessa insegnano: perché, sebbene nel sentire comune dei più, i martiri otrantini siano da tempo “santi”, le fasi e gli sviluppi storici del lungo processo di canonizzazione dicono tutt’altro, o meglio, raccontano di difficoltà di approdo a questa agognato giudizio a dir poco “croniche”. Il decreto non va sminuito nella sua rilevanza, ma occorre anche ricordare che ad esso si è giunti, dopo un percorso lungo 16 anni. La fase del processo diocesano di canonizzazione dei Martiri, si è, infatti, conclusa nel 1991. Ma l’iter è ancor più lungo e complesso, se si pensa a tutte le fasi processuali che hanno interessato i Beati Antonio Primaldo e Compagni. I martiri otrantini furono definiti tali perché al termine di un processo, aperto nel 1539 e concluso il 14 dicembre 1771, la Chiesa ne aveva autorizzato il culto[1]. Da allora gli Ottocento otrantini, morti nel sacco cittadino del 1480, sono “beati”. Con l’entrata in vigore delle nuove norme, in vista di una possibile canonizzazione, il processo è stato interamente rifatto dalla Chiesa con un’accurata ed approfondita inchiesta storica, che ha confermato il risultato

I Martiri di Otranto e il 1480 (III parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Lo strano caso della congiura dei Pazzi

ed il contesto storico

 

Seppur tra molti lati oscuri, la vicenda di Otranto, potrebbe essere collegata in qualche modo alla congiura dei Pazzi, architettata contro Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze. Dall’agosto del 1471, infatti, era asceso al soglio pontificio, col nome di Sisto IV, Francesco della Rovere. Tra i suoi favoriti c’era il nipote Girolamo Riario: per lui il Papa acquistò la contea di Imola a un passo dal territorio fiorentino;[1] ma tale operazione necessitava di un prestito di trentamila fiorini: i Medici, banchieri di fiducia della Santa Sede, si erano però rifiutati di concederlo. A Roma si trovava un’altra banca in grado di sborsare una cifra del genere: quella dei Pazzi[2]. Ne era a capo Franceschino d’Antonio, grande amico di Girolamo Riario, col quale concepì una congiura che facesse fuori Il Magnifico. Il Papa, dal canto suo, accarezzando l’idea di trasformare Firenze in una signoria per il proprio nipote, impose alla diocesi un nuovo arcivescovo, Francesco Salviati, avverso Magnifico[3]. Il momento scelto per la congiura fu la primavera del 1478: Giuliano, fratello di Lorenzo, fu colpito a morte con i pugnali di Franceschino e Bernardo Bandini. Il Magnifico, però, riuscì a scappare. A Firenze scoppiò la rivolta: l’arcivescovo Salviati fu impiccato alle finestre del palazzo della Signoria, mentre altri congiurati, penetrati nell’edificio, venivano scaraventati giù. Bernardo Bandini riuscì a fuggire: si imbarcò su una grossa galea del re di Napoli, raggiungendo Istanbul, dove aveva amici e parenti. Anche il Magnifico, nella capitale turca, aveva interessi e spie. La polizia del sultano scoprì il Bandini e lo imprigionò. Antonio de’ Medici partì nel luglio ’79 da Firenze con ricchi doni per il sultano e ritornò alla vigilia di Natale con il Bandini. Qualche giorno più tardi, l’assassino di Giuliano de’ Medici pendeva a una finestra del palazzo del Bargello. Da allora, tra la Signoria di Firenze e l’impero ottomano s’instaurarono rapporti cordiali, con scambi di messaggi, ambascerie e doni.

L’altra grande potenza, Venezia, desiderava porre un limite all’influsso degli Aragonesi. Un tacito patto, un anno dopo, permise al sultano di trovare la via spianata per conquistare Otranto[4].

Sulla presa di Otranto, c’è da rimarcare ancora un particolare, spesso sottovalutato nel dibattito odierno: l’atteggiamento del Pascià. Molti storici sostenitori del “movente religioso” dell’assalto islamico fanno derivare le

I Martiri di Otranto e il 1480 (IV parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Cattedrale di Otranto, interno

 

 

L’alibi del nemico turco ed il gioco del sultano

 

Facciamo un passo indietro. Nel maggio 1453, si era verificato, per via degli Ottomani e del loro sultano, Maometto II, un avvenimento di portata mondiale: la caduta di Costantinopoli, che aveva posto fine ad una storia ultramillenaria, gettando il mondo cristiano in una prostrazione profonda, solcata da paurosi lampi apocalittici. Numerose profezie, che avevano attraversato tutto il Medioevo e che ora tornavano più drammatiche, associavano la caduta della nuova Roma all’avvento dell’Anticristo e alla fine dei tempi[1]. La guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra, che ormai languiva allo stato endemico, si chiuse precipitosamente dinanzi al nuovo pericolo; con la “pace di Lodi” del 1454 si aprì il periodo del cosiddetto “equilibrio”, dove emergeva la preoccupazione, non infondata, che i Turchi sbarcassero davvero in Italia.

In questo contesto, la cristianità occidentale si accorse dolorosamente che il “troppo presto liquidato ecumenismo politico”[2] aveva lasciato un vuoto: con un Sacro Romano Impero, ridotto ad una larva germanizzata, la stessa auctoritas del papato risultava dimezzata: “il pontefice non poteva che ambire ad un ruolo quasi simbolico di una qualche (diciamo così) presidenza della “lega” dei principi e dei popoli cristiani d’Europa, riunita per battere il pericolo turco. Fu quanto s’impegnarono a fare, con differente energia, pontefici quali Niccolò V, Callisto III, Pio II, Paolo II, Sisto IV, cercando disperatamente di metter d’accordo le divergenti idee e gli interessi contrastanti della repubblica di San Marco, del re di Napoli, del re d’Ungheria e di altre potenze: perché, intanto, si era capito molto bene che i turchi erano sì un pericolo, ma potevano essere anche uno splendido alibi

Giuggianello, “no” del difensore civico al parco eolico

di Mauro Bortone

Il difensore civico provinciale scrive alle istituzioni nazionali, regionali e locali, per chiedere la tutela del sito archeologico della Collina dei fanciulli e delle ninfee: “Evitare lo scempio”

I Martiri di Otranto e il 1480 (V parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

 

di Mauro Bortone

L’assalto di Otranto nei giochi diplomatici italiani

Da qui il sospetto che, per capire l’assalto a Otranto, non si debba guardare ai piani del sultano, ma alle tensioni e ai giochi diplomatici delle corti d’Italia: la volontà egemonica del re d Napoli sulla penisola ed il conflitto veneziano-aragonese per il dominio sull’Adriatico sono, forse, la vera chiave di tutto, con l’elemento scatenante, che è appunto la congiura dei Pazzi a Firenze.

Procediamo con ordine. Ferdinando I d’Aragona, re di Napoli, appoggiava con decisione la politica antifiorentina dei senesi e dei fuorusciti antimedicei; papa Sisto IV aveva concepito il disegno di appoggiarsi agli avversari del Magnifico, ancor presenti nell’aristocrazia fiorentina, per scalzare il potere dei Medici, trovando nella città toscana una signoria per il nipote Gerolamo Riario. E sebbene la congiura dei Pazzi fosse fallita, il Papa – cogliendo l’occasione dal fatto che, nella repressione di essa, erano stati giustiziati anche alcuni membri del clero- scomunicò il Magnifico, gettò l’interdetto su Firenze e suscitò contro di essa una lega con il re di Napoli, la repubblica di Siena e Federico da Montefeltro, che fu nominato comandante delle truppe alleate.

Firenze aveva dalla sua Venezia e Milano, le due antiche avversarie, riavvicinatesi tra loro per fronteggiare il pericoloso espansionismo napoletano. Ma i milanesi erano troppo occupati in questioni di politica interna e i veneziani ancora impegnati nella guerra contro i turchi. Il re di Francia, tradizionale sostenitore di casa Medici, fece sapere al Papa che dal suo paese non sarebbe più partito un soldo alla volta della Camera apostolica, finché il Pontefice si fosse ostinato a far guerra ai cristiani anziché ai turchi: un ottimo alibi per risparmiar danaro con la scusa della crociata e dell’unità tra i fedeli. Lorenzo, rimasto praticamente solo ed accusato intanto dal Papa di ostacolare con la sua superbia un’azione unitaria dei cristiani contro i turchi (ancora il pretesto della crociata…), non poteva fidarsi neppure del comandante delle sue poche milizie, il duca di Ferrara Ercole d’Este, ch’era genero di Ferdinando di Napoli.

La guerra in Toscana andava male e Venezia, pur avendo fatto pace con i turchi fin dal gennaio 1479, non voleva entrare apertamente nello scontro. Il nuovo signore di Milano, Ludovico il Moro, non faceva intendere da che parte volesse schierarsi. E’ concorde visione degli storici che in tale frangente Lorenzo abbia genialmente rotto l’accerchiamento, che ormai rischiava di sopraffarlo, ricorrendo ai mezzi diplomatici e mostrando a Ferdinando I di non aver alcun interesse a legarsi troppo alla politica

I Martiri di Otranto e il 1480 (VI e ultima parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

Le varie fasi di un lungo processo

Dopo una necessaria rilettura storica degli avvenimenti storici del 1480, torniamo all’origine della breve inchiesta sui martiri di Otranto. Abbiamo detto delle lungaggini del processo canonico. Ad iniziarlo fu l’arcivescovo Pietro Antonio De Capua, coadiuvato dal suo vicario A. De Beccariis, vescovo di Scutari, nel 1539 come “processo informale”, per il riconoscimento del culto degli ottocento. Con il decreto della Sacra congregazione dei Riti, del 14 dicembre 1771, firmato dall’allora pontefice Clemente XIV, venivano dichiarati “Beati”, secondo le norme predisposte da Urbano VIII[1].

Da allora una lunga fase di stallo, ha reso incerto, contraddittorio l’intero iter di avvicinamento al passaggio successivo. Nuovi dubbi, sorti intorno alla dimostrabilità del martirio, le perplessità legate ai cosiddetti prodigi riconducibili alla venerazione degli ottocento e i ritardi nella burocrazia ecclesiastica locale hanno reso in salita il processo di canonizzazione. Solo agli inizi degli anni sessanta, un nuovo improvviso risveglio scuote la chiesa diocesana di Otranto: nel 1962, infatti, l’arcivescovo Gaetano Pollio presentò istanza a Giovanni XXIII, per ottenere la canonizzazione equipollente dei Bb. Martiri. Il suo successore, mons. Nicola Riezzo nominò una commissione di “saggi”, che studiasse la questione storica, per dare una sferzata decisiva al processo: quella commissione preparò la relazione della “Positio super martyrio” (1973), ossia la raccolta di tutte le fonti documentate sul caso, approdando ad una risposta condivisa e definitiva circa le circostanze storiche del martirio. Il 5 ottobre 1980, nella ricorrenza del quinto centenario della beatificazione, Giovanni Paolo II venne ad Otranto, “per venerare i martiri”. L’arcivescovo Vincenzo Franco celebrò il

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