Libri| La Sho’ah. Il giorno della memoria

AA.VV., “LA SHO’AH. IL GIORNO DELLA MEMORIA”, A CURA DI MAURIZIO NOCERA, S.L. 2019, PP.52.

 

di Paolo Vincenti

Un agile libriccino dal titolo impegnativo: La Sho’ah. Il giorno della memoria, a cura di Maurizio Nocera (gennaio 2019), ci riporta ad una tematica sempre attuale e intimamente avvertita.

La celebrazione del 27 gennaio, in Italia più che altrove, ha costantemente ricevuto grande risonanza, attraverso scuole, enti, associazioni, che si sono fatti promotori di attivazione delle pratiche del ricordo. In Puglia, principale sponsor della Giornata della memoria è stata la rete laterziana dei Presìdi del libro che attraverso le scuole di ogni ordine e grado sparse sul territorio regionale, spesso in collaborazione con le più sensibili associazioni locali, attiva ogni anno svariate celebrazioni, che non si esauriscono in quel solo importante giorno ma abbracciano interamente il mese di gennaio e sconfinano in quello di febbraio, a volte con significative estensioni per tutto l’anno scolastico. Il libro in parola, realizzato con il sostegno del Comitato promotore dell’Unesco di Lecce, si apre con una significativa citazione di Jean Paul Sartre, tratta dall’opera L’antisemitismo.

Maurizio Nocera, noto e prolifico studioso salentino, scrittore, poeta ed alacre operatore culturale, ha voluto pubblicare questo libro, dalla copertina patinata e dalla elegante veste grafica, senza scopo commerciale, con la meritoria intenzione di distribuirlo gratuitamente agli studenti degli Istituti Superiori di secondo grado, destinatari privilegiati, come si diceva sopra, delle iniziative legate alla Sho’ah, un termine ebraico, tratto dalla Bibbia (Isaia 47, 11) che significa “distruzione”, passato ad indicare per estensione l’eccidio degli Ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale (abitualmente ma non del tutto propriamente definito “Olocausto”).

Nel libro viene ospitato un intervento del 1997 di Avram Goldstein Goren (1905-2005), magnate della finanza ebreo romeno e filantropo, vissuto fra la Palestina e l’Italia, testimone della Shoah, che usa parole semplici eppure emblematiche, togliendole dalle sue memorie di deportato pubblicate in due libri di grande successo. Segue poi un poemetto in versi liberi di Maurizio Nocera, dal titolo “Il demonio della morte ad Auschwitz”, di recente composizione.

Nel suo intervento Maurizio Nocera, anche segretario della sezione leccese dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani italiani), ricorda come nella campagna di odio antisemita, la Shoah fu la punta più estrema della programmatica opera di sterminio del popolo ebreo voluta dalla mente criminale di Adolf Hitler. Cionondimeno, grandi furono le responsabilità del regime fascista italiano che seguì il dittatore tedesco nella sua dissennata politica, che sfociò nel progetto di pulizia etnica con l’Olocausto.

La più grande vergogna della politica fascista viene individuata da Nocera nelle leggi razziali promulgate nel 1938 e successivamente nella creazione anche in Italia dei campi di concentramento sul modello dei lager tedeschi. Di questi, il più tristemente noto è quello di Auschwitz-Birkenau, a nord di Cracovia, Polonia, dove vennero uccisi milioni di Ebrei, insieme a Rom e Sinti, e liberato dall’Armata Rossa il 27 gennaio del 1945. Questo giorno successivamente è diventato la Giornata della Memoria, istituito in Italia con una legge del 2000, recepita poi anche dall’Onu, che ha dichiarato il 27 gennaio Giornata mondiale della Memoria.

Questo impegno è stato promosso principalmente dall’Unesco, ovvero l’Organizzazione delle Nazioni Unite per la Scienza, l’Educazione e la Cultura, nata nel 1946 dalla volontà dei Ministri della Cultura dei Paesi alleati. Su questa organizzazione mondiale e sul suo impegno per la cooperazione e la pace nel mondo, si sofferma Pompeo Maritati nel suo intervento all’interno del libro. Lo stesso Maritati, presidente del club Unesco di Lecce, individua le cause di una immane tragedia come l’Olocausto, non solo nella precisa volontà del regime nazista, ma anche nella acquiescenza dei popoli europei, nella loro indifferenza di fronte ad una simile aberrazione. Ciò perché il regime totalitario aveva in qualche modo svuotato la coscienza della gente, fino ad annullare ogni capacità critica, non solo nel popolo minuto, nella massa degli illetterati, ma addirittura negli intellettuali, molti dei quali avallarono incredibilmente le deportazioni di massa e poi il genocidio. L’indifferenza, sostiene Maritati, seguendo le parole di Liliana Segre, fu mortale almeno quanto i lager e le camere a gas. Maritati sottolinea poi come, dopo la fine della guerra, nonostante il famoso processo di Norimberga, molti criminali nazisti la abbiano fatto franca, con la complicità dei governi nazionali, primo fra tutti il governo tedesco, che imbastì dei processi farsa, garantendo la sostanziale immunità dei colpevoli. Ciò che grida vendetta agli occhi del mondo, secondo Maritati, è proprio questa assenza della giustizia di fronte al genocidio degli ebrei e a chi lo operò. Ecco che il giorno della memoria serve allora non solo per ricordare quanto accadde e per commemorare le vittime del nazifascismo, ma anche per stimolare la riflessione e il pensiero critico delle nuove generazioni di fronte agli emergenti totalitarismi e alle persecuzioni che in forme diverse si perpetuano in svariate parti del mondo, a danno di indifese minoranze.

La seconda sezione del libro, “Voci nel vento”, è dedicata ai dipinti di Massimo Marangio, artista salentino che dipinge con la tecnica del bitume su tela. L’autore rappresenta l’inferno del lager nazista attraverso l’esposizione espressionista dei protagonisti di quell’orrore, le vittime della persecuzione, o più che altro, si potrebbe dire, dei loro corpi. Corpi nudi, emaciati, volti scarniti e magri, esili figure pallide che si muovono come fantasmi sul teatro di una tragedia infinita. Persone ed animali, esponenti di un’umanità dolente, deprivata, protagonisti anonimi popolano questi quadri, dalle rese cromatiche forti, e le immagini ci arrivano inquietanti, stranianti. I contorni sono sfumati, ci lasciano percepire solo una massa indistinta di condannati, morti viventi, a volte sotto lo sguardo vitreo dell’ufficiale nazista la cui macabra figura si staglia sulla turba dei senza volto. Massimo Marangio, che insegna presso il Liceo Artistico Ciardo- Pellegrino di Lecce, ha esposto nelle maggiori fiere nazionali ed è originario di San Pietro Vernotico, il paese di Domenico Modugno, al quale ha anche dedicato una mostra nel 2018, “Dipinti pensati su Domenico Modugno e Pierpaolo Pasolini”, curata proprio da Maurizio Nocera. La ricerca storica è alla base delle sue pitture, come si può evincere dai titoli delle varie personali (basti citare, fra le altre: “Balconi a Oriente”, “Testimoni del tempo” “I luoghi della Taranta”, “Arie crepuscolari”). Marangio è un pittore impegnato che non esita a scegliere tematiche di carattere sociale nelle sue opere. Emblematica è questa, presente nel libro, sebbene priva di didascalie e di qualsiasi commento; forse, nell’intenzione dei proponenti, per lasciare che siano le immagini a parlare da sé. Il messaggio arriva forte e chiaro. Ed assolutamente consigliabile è la lettura del libro.

La chiesetta di Santa Maria della Neve in Galugnano

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

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Maurizio Nocera, Quando Luciana Palmieri scrisse della chiesetta di Santa Maria della Neve in Galugnano

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 273-280

 

ITALIANO

 Alcune pagine di Luciana Palmieri rappresentano lo spunto per un veloce ritratto di un’antica chiesa extramoenia di Galugnano intitolata a Santa Maria della Neve.

 

ENGLISH

Some of Luciana Palmieri’s pages rapresent the basis for a quick done portrait of an ancient extramoenia church in Galugnano dedicated to Saint Maria della Neve.

 

Keyword

 Maurizio Nocera, Luciana Palmieri, Santa Maria della Neve, Galugnano

Libri| Tesori e inventari della Cattedrale di Nardò (sec. XV-XIX)

Tesori e Inventari della cattedrale di Nardò

Sarà presentato lunedì 27 maggio, alle ore 19, presso la Sala “Roma”, annessa al Museo Diocesano in Piazza Pio XI – Nardò, l’ultima edizione dei Quaderni della Diocesi di Nardò – Gallipoli, “Tesori e inventari della Cattedrale di Nardò (sec. XV-XIX)”.

Del volume, edito da Mario Congedo – Galatina, ne è autore Mons. Don Giuliano Santantonio, parroco della Cattedrale e direttore dell’Ufficio Beni Culturali della medesima diocesi.

Curato da Marcello Gaballo, con foto di Lino Rosponi, ha la prefazione del Prof. Maurizio Nocera e riporta ben 13 inventari degli oggetti sacri posseduti dalla cattedrale, inclusi negli Atti delle Visite Pastorali, compiute dai vescovi che si sono succeduti nella sede neritina, a cominciare da quelli indicati nelle tre Visite Pastorali di Mons. Ludovico De Pennis (1451 – 1483) sino a quelli della prima metà del secolo scorso.

Paziente e dotto lavoro di ricognizione, ha richiesto notevole impegno a causa dell’interpretazione e trascrizione dei manoscritti, quasi tutti in latino, abilmente tradotti per facilitare la comprensione della particolare ricchezza del più importante edificio della Diocesi, accumulatasi nei secoli grazie alla munificenza di vescovi mecenati, tra i quali, a dire dell’Autore, i De Franchis, il Fortunato e il Sanfelice, il Carafa, il Lettieri.

Il volume, di grande formato, con 242 pagine, sarà presentato dai Professori Mario Spedicato e Paolo Agostino Vetrugno, dell’Università del Salento.

Tesori e inventari della Cattedrale di Nardò (sec. XV-XIX)

Tesori e Inventari della cattedrale di Nardò

Dalla prefazione di Maurizio Nocera

SUI LIBRI SACRI DEGLI INVENTARI

DELL’ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI NARDO’

 

Giuliano Santantonio è un dotto uomo di chiesa, e di chiesa tratta in questo volume. Trattasi infatti del patrimonio storico e sacro-oggettuale della Cattedrale di Nardò. La sua ricerca, di difficile impegno (lui stesso lo afferma nella sua introduzione), ha seguito un percorso rintracciabile nelle Visite Pastorali di differenti Vescovi succedutisi sulla cattedra della Diocesi neritina. Il suo campo d’indagine è stato il deposito del ricco Archivio Storico Diocesano di Nardò (ASDN), da lui stesso indicato in un suo precedente saggio Ecclesia Mater[1] come il luogo in cui

«oltre agli atti delle visite pastorali, conserva una grande quantità di altre fonti documentarie, come per esempio i processi benificiali».

L’autore, ovviamente, scrive pure che in quell’archivio c’è molto altro ancora. Per cui la ricerca non finisce con questo suo nuovo saggio.

A premessa di quanto qui si leggerà, va detto che sarà utile sapere che Giuliano Santantonio si è già cimentato con queste stesse fonti in occasione appunto del libro Ecclesia Mater citato nel quale, con una prosa asciutta ed eloquente, ha fatto conoscere i differenti avvicendamenti architettonici e manutentivi della costruzione della fabbrica della Matrice neretina, costruita sul sito di una più antica chiesa (sec. XI) su pianta basilicale di origine normanna, attribuita       «all’iniziativa di Goffredo l’Inclito (1035-1100), conte di Conversano e di Nardò».

Qui, a differenza della precedente ricerca, l’autore riporta gli inventari (tutti scritti in latino, ad eccezione di uno, e da lui tradotti) degli oggetti sacri posseduti dalla cattedrale a iniziare da quelli indicati nelle tre Visite Pastorali di Mons. Ludovico De Pennis (16 giugno 1451 – gennaio 1483 deceduto), la prima effettuata nel 1452, con le aggiunte redatte in una sua seconda Visita (1460), ed ancora altre aggiunte rilevate in una terza Visita (1485), quest’ultima compiuta dal suo successore Mons. Ludovico De Justinis (31 gennaio 1483 – 1492 deceduto).

Leggendo e rileggendo gli Inventari di una così importante chiesa salentina, per me laico ma sempre attento agli eventi della Chiesa, mi sono chiesto cosa sottolineare della grande massa di oggetti e paramenti sacri elencati durante le diverse Visite Pastorali in un arco di tempo così lungo (1452-1763). Sicuramente, a causa di una mia sorta di “deformazione professionale”, la curiosità mi ha portato a puntare lo sguardo sui libri posseduti dalla diocesi. Grande è stato sempre il mio interesse per i libri liturgici e in genere religiosi, soprattutto per la loro straordinaria bellezza tipografica, e penso alla grande Bibbia delle 42 linee di Gutenberg del 1454[2]. Occorre dire che da sempre la Chiesa ha dato massima importanza ai libri. Ricchissima è l’iconografia cristiana che mostra immagini di apostoli, di santi e sante, di martiri e martirizzati, di beati e beate con tra le mani codici, cartigli o Exultet. Si pensi ad esempio a san Paolo, l’apostolo delle genti, che viene raffigurato con due immancabili attributi: la spada e il codice. La spada perché antico servitore (esattore) della Giudea e il codice, contenente i suoi scritti sulla base dei quali verrà poi edificata la Chiesa di Roma…

 

Note

[1] Ecclesia Mater. La fabbrica della cattedrale di Nardò attraverso gli atti delle visite pastorali, Congedo, Galatina 2013.

[2] La biblioteca “Antonio Sanfelice” della diocesi di Nardò-Gallipoli vanta il possesso della rarissima edizione della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. In folio, fu stampata nel 1470 da Johannes Andreas, per i tipi di Conrad Sweynheim e Arnold Pannartz, prototipografi renani, allievi di Gutenberg, che, stabilendosi a Subiaco, e poi a Roma, introdussero l’arte tipografica in Italia. L’esemplare neritino, con coperta in pergamena rigida, è miniato con fregi floreali e geometrici; nelle prima pagina riporta un bellissimo stemma degli Avogadro. Oltre a numerosi capilettera miniati, contiene un’epistola a Joh. Andreae, Alariensis episcopi. Dell’esemplare sono note solo altre 14 copie, conservate in importanti biblioteche italiane ed in quella vaticana (Cfr. M. Gaballo, La biblioteca “Antonio Sanfelice” della diocesi di Nardò-Gallipoli. La restitutio ad integrum di una pregevole raccolta defraudata, in D. Levante (a cura di) Studia Humanitatis. Scritti in onore di Elio Dimitri, Barbieri Selvaggi, Mottola 2010, pp. 167-208). Sull’edizione neritina Alessandro Laporta ha scritto: “l’incunabolo posseduto dalla Biblioteca Vescovile di Nardò, esemplare che surclassa le due edizioni pliniane possedute dalla Biblioteca Innocenziana di Lecce (1483) e dalla Consorziale di Bari (1496). L’ex-libris della copia neritina recita esplicitamente Bibliothecae Episcopii Neritonensis addixit Antonius Sanfelicius Ep[iscop]us Nerit[inus], mentre in calce l’incunabolo reca l’impresa araldica degli Avogadro. Prima di passare al Sanfelice, il Plinio di Nardò appartiene verosimilmente ad uno sconosciuto discepolo di Esculapio che, al verso della carta 374, appunta alcune ricette, rendendo ancora più prezioso questo straordinario documento (A. Laporta, Il Plinio di Nardò. Un incunabolo da riscoprire, in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/11/alessandro-laporta-il-plinio-di-nardo-un-incunabolo-da-riscoprire/ ).

Liborio Romano e Sigismondo Castromediano

LIBORIO ROMANO NEI RICORDI DI SIGISMONDO CASTROMEDIANO

(in appendice segue la trascrizione del testo manoscritto del Castromediano)

di Maurizio Nocera

Sulla provenienza del manoscritto

Il 30 settembre 1980, lo storico gallipolino Domenico (Mimì) De Rossi (Gallipoli, 17 agosto 1911 – estate 1981) faceva richiesta alla presidenza della Società di Storia Patria per la Puglia (Bari) della

«costituzione in Gallipoli di una sezione della Società, facendo presente che Gallipoli, antica città marinara, ha un prezioso patrimonio storico-culturale mai finora messo in luce tranne saltuari studi a carattere vario [… Lo scrivente], già iscritto all’albo dei giornalisti, [afferma di avere] cinquant’anni di attività pubblicistica, avendo pubblicato 33 monografie riguardanti il Salento, particolarmente in campo storico-economico».

Questo documento, firmato dallo storico locale e da altri sei giovani studiosi della città, era indirizzato al giudice Donato Palazzo, in quel momento Procuratore della Repubblica per il Tribunale dei Minori di Lecce e Vicepresidente della Società di Storia Patria per la Puglia che, una volta costituita la sezione gallipolina, divenne il primo Commissario.

Durante gli anni 1978-79, ancor prima di formulare la richiesta ufficiale della costituzione della sezione, il presidente della Società, prof. Francesco Maria De Robertis, interpellato dal De Rossi e da chi qui scrive, ci aveva indicato di coordinarci appunto col giudice Palazzo affinché elaborassimo un progetto di eventi che permettesse sul piano pratico la costituzione della sezione. Così, per circa due anni, Domenico De Rossi e chi qui scrive, ogni settimana (preferibilmente il lunedì mattina) ci recavamo a Lecce, presso il Tribunale dei Minori (sito allora sulla strada per la stazione ferroviaria) per conferire col giudice. Le riunioni duravano non più di mezz’ora. In esse, il presidente Palazzo ci indicava quelli che potevano essere i campi di ricerca, che dovevano avere poi come sbocco un convegno. Alla fine furono selezionati tre campi di lavoro: “Brigantaggio”, che fu affidato a Domenico De Rossi; “Risorgimento salentino” a chi qui scrive; “L’attacco navale e la presa di Gallipoli da parte dei Veneziani nel 1484”. Altra indicazione che ci diede il giudice fu quella di concentrare tutto il materiale a nostra disposizione nei settori di ricerca specifica, per cui le carte sul brigantaggio a De Rossi, quelle sul Risorgimento salentino a me e quelle sulla presa di Gallipoli allo stesso giudice.

A quel tempo, io frequentavo già alcuni grandi storici della Questione meridionale, fra cui Tommaso Fiore (Altamura, 7 marzo 1884 – Bari, 4 giugno 1973) e suo figlio Vittore (Gallipoli, 20 gennaio 1920 – Capurso, 21 febbraio 1999), entrambi autori autorevoli di libri e saggi sul Meridione e sull’annosa questione; il lucano Tommaso Pedio (Potenza, 17 novembre 1917 – Potenza, 30 gennaio 2000), autore del volume Brigantaggio e questione meridionale (Edizioni Levante, Bari 1979); Aldo De Jaco (Maglie, 23 gennaio 1923 – Roma, 13 novembre 2003), giornalista de «l’Unità» e presidente del Sindacato Nazionale Scrittori d’Italia, autore del libro Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell’Unità d’Italia (Editori Riuniti, 1969), e soprattutto frequentavo, perché mi è fu pure maestro di storia e di vita, lo storico Franco Molfese (Roma, 1916-2001), vicedirettore della Biblioteca della Camera dei Deputati e autore del famoso libro Storia del brigantaggio dopo l’Unita’ (Feltrinelli, Milano 1964). Soprattutto per Molfese e per De Jaco scrivevo a macchina i loro manoscritti che poi, in bella copia, una volta consegnati, finivano sui banchi della composizione tipografica.

A quel tempo non c’era ancora la fotocopiatrice e, se c’era, bisognava fare chilometri e chilometri di strada per andare a trovarne una, per cui le carte antiche o te le trascrivevi manualmente oppure le prendevi in consegna per lavorarci sopra e successivamente le ridavi al legittimo proprietario. Quindi, sulla base delle indicazioni del giudice Palazzo, io cominciai a convogliare le mie carte (e i libri) sul brigantaggio verso Mimì De Rossi il quale, a sua volta, convogliò quelle sue riguardanti il Risorgimento a me, mentre insieme convogliammo le nostre carte (e i libri) sulla presa di Gallipoli allo stesso Palazzo.

In quegli anni Mimì De Rossi usava andava in giro per paesi e paeselli del Salento a vendere o a donare i suoi libri freschi di stampa (in cambio ovviamente di altri libri o altre carte antiche) presso studi di notai, avvocati, commercialisti, antiche famiglie di nobili in rovina. Spesso ero io che lo accompagnarlo con la mia macchina. Nacque tra di noi una profonda confidenzialità. Non poche carte del suo archivio personale, soprattutto quelle riguardanti il Risorgimento salentino (Bonaventura Mazzarella, Antonietta De Pace, Beniamino Marciano, Sigismondo Castromediano, Nicola Schiavoni Carissimo, Oronzio De Donno, Giuseppe Libertini ed altri ancora), Mimì le consegnò a me affinché elaborassi il progetto del convegno come stabilito dal giudice Palazzo. Ad esse si aggiunsero anche le carte che Aldo Barba, padre di mio cognato Emanuele Mario, eredi del grande medico cerusico, letterato e risorgimentalista gallipolino Emanuele Barba (Gallipoli, 11 agosto 1819 – 7 dicembre 1887), mi consegnò per questa stessa ricerca.

Sfortunatamente, quando la sezione gallipolina della Società di Storia Patria per la Puglia sembrava ormai cosa fatta, Mimì De Rossi venne a mancare nell’estate 1981 e, sia la ricerca sul brigantaggio, sia quella da me condotta sul Risorgimento salentino, s’interruppero. Continuò invece la ricerca del giudice Palazzo, che ebbe il suo epilogo nel Convegno nazionale, organizzato dalla locale sezione della Società di Storia Patria per la Puglia e dal Comune di Gallipoli (sindaco Mario Foscarini) tenutosi, in occasione del quinto centenario dell’evento storico, nella sala poligonale del Castello angioino il 22-23 settembre 1984 col titolo La presa di Gallipoli del 1484 ed i rapporti tra Venezia e Terra d’Otranto.

Subito dopo questo importante evento, anche il giudice Palazzo, divenuto nel frattempo commissario della sezione della Società di Oria, lasciò Gallipoli e la nostra sezione si diede un suo organigramma. La vita del sodalizio continuò ad andare avanti con qualche presentazione di libri e qualche altra ricerca (ricordo, ad es., quella sulla “Fontana greca o ellenistica”), ma non si parlò più di convegni sul Brigantaggio o sul Risorgimento salentino. Accadde così che le carte d’archivio sul brigantaggio, che io avevo dato a Mimì De Rossi, rimasero presso i suoi eredi, mentre le sue presso di me. Per la verità, data la mia stretta vicinanza con la famiglia De Rossi (soprattutto con la moglie Clara e i figli Pina e Fernando), tentai di intavolare il discorso delle “carte”, ma i suoi eredi mi consigliarano di tenerle io e di continuare la ricerca. Poi il tempo è passato e queste carte erano rimaste nel dimenticatoio di una biblioteca come la mia, che oggi si compone di alcune decine di migliaia di volumi e documenti vari.

Così oggi, scartabellando tra queste vecchie carte d’archivio e venendo a conoscenza del 150° anniversario (2017) della morte di Liborio Romano, è riemerso il manoscritto del Castromediano, che mi sono preso la briga di trascriverlo. Sono personalmente contrario a che le carte d’archivio restino sepolte per secoli fino al loro inevitabile deterioramento, quando poi la loro conoscenza può invece aggiungere qualcosa in più alla crescita della coscienza civile, morale e culturale di una comunità umana.

Francamente, una volta trascritto il documento, ho pensato che in esso non ci fossero delle grandi novità sulla vita e l’opera di Liborio Romano. Di lui si sa quasi tutto. Tuttavia l’ho prima mostrato a Giovanni Spano, presidente dell’Associazione culturale “Don Liborio Romano”, quindi l’ho inviato al prof. Giancarlo Vallone, secondo me uno tra i più qualificati storici italiani, per di più grande conoscitore del Romano, il quale mi ha risposto dicendo che «una certa sua valenza, questo documento ce l’ha. Infine ho inviato copia del manoscritto anche al prof. Fabio D’Astore».

 

Ed ora qualche riflessione su Liborio Romano

«Tutti coloro che finora hanno trattato Liborio Romano, lo hanno presentato come un personaggio squallido, camorrista voltagabbana, nel peggiore dei casi, ambiguo, controverso nel migliore dei casi».

Questa affermazione è dell’on. Ernesto Abaterusso, sindaco di Patù nel 1996, che l’ha scritta nella presentazione al libro di Francesco Accogli, Il personaggio Liborio Romano. Precisazioni bio-anagrafiche. Contributo all’epistolario[1].

Questo incipit mi è necessario per dire che di questo straordinario personaggio salentino di Patù sappiamo ormai tutto o quasi tutto. Su se stesso ha scritto in primo luogo direttamente lui, poi suo fratello Giuseppe, ancora qualche altro suo parente. Immenso l’elenco di scrittori o sedicenti tali borbonici, neoborbonici, conservatori, reazionari, antipopolari che, secondo di come gira il tempo o la situazione politica, si sono dichiarati di centro, di destra, qualora anche di sinistra, ma di una sinistra tanto strana da sconfinare (o meglio confinare) con il limite del conservatorismo reazionario Otto/Novecentesco. Alcuni di questi scrittori o sedicenti tali hanno scritto di Liborio Romano, del brigantaggio ed anche della camorra napoletana unicamente per fare cassa e per vanagloriarsi. Sono rari gli storici veri che hanno saputo affrontare il personaggio con serietà e con una messe di studi dai quali è emerso un giudizio sereno molto vicino alla realtà storica. Oltre ai citati Molfese, i due Fiore, Pedio, De Jaco e qualche altro, mi riferisco al prof. Giancarlo Vallone, il quale ha dedicato più di un libro (fondamentali i volumi Dalla setta al Governo: Liborio Romano, Napoli, Jovene 2005, e la sua curatela al volume dello stesso Romano, Scritti politici minori, «Studi Salentini» Editore, Lecce 2005). Vallone ha apportato un contributo di conoscenza ineludibile per chi voglia sapere di e su Liborio Romano.

Si è detto e scritto che Liborio Romano fu Ministro di polizia e che in quanto tale fece accordi con la camorra per il passaggio dei poteri da Casa Borbone a Garibaldi prima e, successivamente, a Casa Savoia. Questa storia degli accordi tra Stato e settori malavitosi va letta attentamente. Oggi abbiamo un libro in più per conoscerne tali intrecci. Mi riferisco soprattutto alle pagine emergenti dall’importante Processo conoscitivo a Liborio Romano, statista o trasformista?, tenutosi a Patù il 17 luglio 2011, patrocinato dall’Associazione Culturale “don Liborio Romano” (presidente Giovanni Spano), dal Comune di Patù (sindaco Francesco De Nuccio), dalla Società di Storia Patria per Puglia di Lecce, e col tribunale giudicante composto dal Dr. Franco Losavio (già consigliere Corte d’Appello di Lecce e Taranto), prof. Mario Spedicato (presidente Società Storia Patria Lecce), prof. Vittorio Zacchino (storico); l’Accusa rappresentata dal prof. Mario De Marco (storico e pubblicista) e dal prof. Luigi Montonato (storico e politologo); la Difesa fu tenuta invece dal dr. prof. Salvatore Coppola (avvocato e storico) e dal prof. Fabio D’Astore (docente Università del Salento).

Dalla lettura del processo, pubblicato poi come libro (“…giudicate sui fatti”. Liborio Romano e l’Unità d’Italia, Edizioni Panico, Galatina, 2012), si evince chiaramente che

«Liborio Romano [fu] una delle figure più incombenti della storiografia risorgimentale, patriota, giurista, politico, personaggio ambivalente» (Zacchino, p. 14); che

«La salvezza di Napoli e il trapasso incruento del Regno delle Due Sicilie dai Borbone ai Savoia, comunque li si voglia considerare, furono operazioni coraggiose, temerarie, chiaramente funzionali all’Unificazione e alla nascita della nazione italiana» (Zacchino, p. 15); che

«Romano […] autorevole protagonista del Risorgimento, e soprattutto tenace propugnatore dell’autonomia del Mezzogiorno, nel più vasto ambito unitario, e perciò co-artefice dell’unificazione nazionale» (Zacchino, p. 16);

«a Liborio Romano, il più discusso personaggio dell’Ottocento Meridionale, è dovuto il titolo di padre della patria unificata, di strenuo difensore delle autonomie del Mezzogiorno, di protagonista del Risorgimento» (Zacchino, p. 33).

L’accusa, affidata nel processo a De Marco e a Montonato, non è affatto tenera nei confronti del Nostro anzi, leggendo i testi, ho avuto la sensazione che si sia esagerato un po’ in quanto a supposti tradimenti politici e a rapporti con la malavita. Mi si dirà: è questa la funzione dell’accusa. Molto convincente invece mi è apparsa la difesa, affidata a Coppola e a D’Astore, i quali hanno difeso a spada tratta il loro assistito. Alla fine del dibattimento, il verbale del processo, a firma del segretario prof. Walter Cassiano, fa giustizia di quanto detto, scritto e letto a premessa del Dispositivo della sentenza per il procedimento penale storico a carico di: Romano Liborio (Patù 1793).

Concordo solo parzialmente con la sentenza, che assolve l’avvocato Liborio Romano dall’imputazione di tradimento, mentre lo condanna a mesi sei per avere egli coinvolto alcuni capi camorristi nell’organizzazione della Guardia Nazionale napoletana. Ricordo a me stesso e a chi mi legge che il Romano, prima di diventare Ministro di polizia era stato avvocato e, come si sa, nel foro di Napoli, la sua stella forense brillava, anche nella difesa per questo tipo di persone associate nel delinquere. L’Italia, si è sempre detto, è la patria del diritto, per cui don Liborio sapeva il fatto suo. D’altronde è egli stesso che ha scritto che, per quanto riguarda la questione camorra, si trattò solo di una misura necessaria e molto limitata nel tempo (appena un paio di giorni) mirante a cercare di contenere le manifestazioni di piazza e salvaguardare l’ordine pubblico. Non dimentichiamo che l’obiettivo di quel momento storico era la più grande rivoluzione politica dell’800: l’unità della patria Italia, per la quale, sin dal tempo di Virgilio, cioè 2000 anni fa, i differenti popoli della penisola anelavano. Non per nulla, nella storia dell’umanità e delle rivoluzioni politiche, c’è stato un tale Machiavelli, che disse e scrisse «il fine giustifica i mezzi».

Su Liborio Romano si sono dette e scritte tante altre cose, moltissime false e comunque distorcenti. Nessuno, però, almeno finora, ha voluto approfondire il suo operato relativo appunto all’ordine pubblico. Le manifestazioni di piazza a Napoli sono state sempre qualcosa di straordinaria importanza. Nessuno può dimenticare cosa accadde in città nel 1799 con l’istaurazione della Repubblica Partenopea. Ci furono migliaia di morti prima e dopo quel fatidico gennaio. In quella vicenda la Puglia e il Salento perdettero il fior fiore della loro più alta intellighenzia giuridico-letteraria. Ancora nel 1821 e nel 1848 ci furono altre insurrezioni, e tutte rivolte sempre a un unico obiettivo: la democratizzazione del regno delle Due Sicilie come fase transitoria verso l’Unità d’Italia.

Anche nel 1859 e nel 1860 Napoli era divenuta una polveriera, pronta a scoppiare da un momento all’altro. Ma, come si sa, non accadde nulla di tanto drammatico. Quindi ci si chiede: perché, in quell’eccezionale momento, la rivoluzione politica, che pure ci fu, non comportò l’insurrezione e la guerra civile? Semplicemente perché lì, nella capitale del regno delle Due Sicilie, si trovava ad operare un uomo, un avvocato, un politico, un ministro degli Interni e di polizia di nome Liborio Romano. Nella storia delle rivoluzioni politico-sociali, non è mai accaduto che un rivolgimento di tale portata (la caduta di un regno, quello dei Borbone, con la sostituzione di un altro, quello dei Savoia) si sia compiuto senza spargimento di sangue e, per di più, con il raggiungimento dell’obiettivo primario dell’intero Risorgimento: l’unità della nazione Italia. Persino lo stesso re napoletano – Francesco II di Borbone – e la sua famiglia ebbero salva la vita riparando nella fortezza di Gaeta. Quando mai?, se pensiamo a quanto accadde a Parigi nel 1789, oppure quanto accadde nella stessa Napoli nel 1799. Un esempio per tutti: la rivoluzione proletaria dell’Ottobre 1917 non finì forse con la strage dell’intera famiglia dello zar Nicola II?

Quindi, se nella Napoli del 1860, ci fu un passaggio di “consegne” senza spargimento di sangue tra il potere borbonico e quello di Garibaldi prima, successivamente a quello di Casa Savoia, il merito sarà stato pure di qualcuno. Per me, fu merito dello statista Liborio Romano il quale, compiuto questo suo alto dovere di rispetto del popolo napoletano e meridionale tutto, non fu poi tanto riconosciuto né dai suoi avversari politici interni (i soliti opportunisti di sempre) allo stesso ex Regno di Napoli, né (ma questo era scontato) dai “vincitori” savoiardi cavouriani.

La questione del mancato spargimento di sangue a Napoli è stato sempre il motivo di fondo di Giovanni Spano, il quale, in una dichiarazione alla stampa di qualche anno fa, dichiarò:

«il mio obiettivo è stato sempre quello di fare luce su una figura [Liborio Romano] ritenuta controversa, ma che ha avuto la giusta chiave per portare all’Unità d’Italia senza spargimento di sangue. In questi anni ho approfondito molto sull’aspetto caratteriale di Romano, scoprendo che era molto amato dal popolo prima di diventare statista. Il nostro avvocato preferiva difendere gratuitamente i poveri e i napoletani lo chiamavano fraternamente “Don Libò”»[2].

La marginalizzazione del Romano all’interno del primo parlamento italiano (fortemente piemontesizzato) e, soprattutto, la continua e persistente contrarietà alla sua proposta di legge per la costituzione della Guardia nazionale su base unitaria (con l’inserimento di personale militare del Nord e del Sud) furono alla base di quello squilibrio Nord-Sud che noi oggi scontiamo ancora. Qualsiasi proposta in tal senso da lui fatta nel primo governo unitario sia successivamente in parlamento, gli veniva immediatamente respinta dai cavouriani e dai reazionari di ogni risma e specie. D’altronde è quello che abbiamo visto anche alla fine della seconda guerra mondiale quando, dopo la caduta del fascismo (25 luglio 1943) e l’inizio della Resistenza (8 settembre 1943), a combattere la dittatura mussoliniana fondamentalmente furono i partigiani delle Brigate garibaldine.

E cosa accadde poi di quei partigiani, molti dei quali avevano dato la vita per la libertà e la democrazia? In un primo momento, il primo governo antifascista li inserì nelle varie componenti delle Forze armate, ma, appena giunto il 18 aprile 1948 e la “vittoria” (oggi sappiamo con evidenti brogli elettorali) di una sola parte politica, tutti i partigiani, e i patrioti, e le staffette, e chi aveva concretamente collaborato alla caduta della dittatura fascista e alla liberazione dell’Italia dall’occupante nazista, spesso immolandosi la propria vita, furono messi alla porta, cacciati senza neanche un foglio di via. Tutti, e non esagero quando dico tutti. Sapete chi fu a occupare quei posti rimasti vacanti dalla cacciata dei partigiani? Ebbene, furono richiamati gli ex repubblichini di Salò più qualche vecchio arnese dell’ufficialità militarista distintasi sotto il regime. Per questo non è peregrino pensare che la marginalizzazione del Romano fu anche alla base di quel tremendo fenomeno passato alla storia italiana col termine di brigantaggio.

Su tale storia c’è una pagina illuminante dello storico Franco Molfese, che scrive:

«Quando Farini assunse la luogotenenza a Napoli, la dittatura garibaldina era già scossa dalle crescenti “reazioni” e le “reazioni”, e la loro repressione, generavano automaticamente il brigantaggio./ Tuttavia, le “reazioni” dell’autunno 1860 appaiono poca cosa di fronte alla grande “reazione” dell’estate del 1861, che fu la vera matrice del grande brigantaggio, durato fino al 1864, e del brigantaggio in genere, durato fino al 1870. Ora, quando si scatenò la rivolta contadina dell’estate del 1861, i moderati governavano in maniera esclusiva da otto mesi. Come fu possibile che il largo favore borghese e popolare, che nel 1860 aveva salutato l’avanzata garibaldina nelle provincie meridionali e aveva reso possibile l’improvviso crollo della monarchia borbonica, appena un anno più tardi si fosse tramutato in un malcontento che raggiungeva tutti gli strati della società meridionale? La responsabilità di ciò […] è da addebitarsi fondamentalmente alla politica dei moderati (“piemontesi” e fuoriusciti napoletani filo-cavouriani), che mirarono soltanto a reprimere, a centralizzare, ad addossare carichi alla stremata economia meridionale, e a monopolizzare il potere, respingendo in tal modo all’opposizione anche quella grande maggioranza della media e della piccola borghesia urbana e rurale che seguiva Liborio Romano e che era liberale, in fondo moderata, unitaria ma “autonomista”, non “annessionista”. Il clero venne vessato e spaventato, senza che il suo potere economico venisse sradicato. Ai contadini venne promessa solennemente la ripresa delle operazioni demaniali, e poi non se ne fece nulla. I moderati [piemontesi liberali conservatori più transfughi dell’ex regno delle Due Sicilie] optarono fin dall’inizio per la repressione con la forza dell'”anarchia” nel Mezzogiorno, e al momento critico non ebbero forze militari sufficienti per sventare o, quantomeno, per domare rapidamente la sollevazione contadina a direzione reazionaria. È difficile, perciò, negare che il brigantaggio fu sostanzialmente il risultato negativo di tutta l’azione di governo dei moderati./ Però, un’altra linea per fronteggiare il malcontento contadino esisteva ed era quella espressa, sia pure confusamente, dalle correnti democratico-autonomiste. Quella “linea” si era anche precisata per tempo in un programma realistico (attuabile), quello di Liborio Romano. […] Se i moderati avessero apprezzato ed attuato il programma Romano […] quasi certamente l’esplosione della “reazione” del 1861 sarebbe stata sventata, il brigantaggio già sviluppatosi (ancora poca cosa nell’inverno 1860-61) sarebbe stato spento con molto meno sangue e con minori sforzi e tutto il processo dell’unificazione ne sarebbe risultato meno travagliato»[3].

Sappiamo come sono andate le cose e le conseguenze di quella che molti definiscono l’annessione del Meridione al Nord, oggi la scontiamo ancora. Non è forse vero che, a 160 anni e passa dall’Unità d’Italia, gli squilibri tra Nord e Sud rimangono ancora tutti aperti? E non è forse vero che il Meridione sta pagando il prezzo più alto dell’attuale crisi economico-finanziaria? Certo che sì. Ed è certo pure che indietro non si può andare, che non si può ridividere l’Italia, che non si può dimenticare la storia fatta. Ecco allora che la visione dell’Italia unita che aveva in mente 150 anni fa Liborio Romano ha ancora oggi una sua validità e ad essa occorre necessariamente ritornare, se vogliamo uscire dalla gabbia infernale dello squilibrio Nord-Sud. Oggi, quando noi pensiamo alla patria Italia, all’unità dell’intera penisola, i nostri riferimenti vanno a Garibaldi, a Mazzini, per alcuni momenti possono andare anche a Cavour (che continuiamo a considerare l’opportunista di quel fausto momento) ma, accanto a questi nomi, dobbiamo avere il coraggio di aggiungere il salentino di Patù, Liborio Romano. Anzi, forzando un po’ la storia, si potrebbe scrivere che l’Unità d’Italia (1861) la si deve soprattutto a Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e Liborio Romano.

 

Infine due parole sul manoscritto di Sigismondo Castromediano

Dalla lettura del testo non ci sono grandi novità, e tuttavia, come dice il prof. Giancarlo Vallone, una sua qualche valenza ce l’ha soprattutto quando, a proposito della grande questione (la Guardia Nazionale) che stava a cuore a Romano, Castromediano scrive:

«Non lo si tacci di tradimento. Un uomo d’antica stampa avrebbe evitato quel sentiero, ma senza Liborio, a compiere l’Italia molto altro tempo avrebbe dovuto trascorrere, molti altri affanni a soffrire, molto altro sangue spargere. E tanto straordinaria venne apprezzata la sua condotta, che la Guardia Nazionale di Napoli, da lui creata, ed il popolo che non si inganna quando parla di spontaneo intuito, lo gridò salvatore e liberatore della patria».

Nonostante la solidarietà salentina espressa dal duchino di Cavallino al nobile Liborio Romano di Patù, tuttavia le posizioni politiche tra i due rimarranno sempre quelle che conosciamo: Castromediano, deputato di destra legato a Casa Savoia; Liborio Romano, deputato legato al suo popolo meridionale e strenuo oppositore di sinistra alla politica cavouriana. Se allora fossero state approvate le sue proposte di legge, sorrette da una lungimirante visione autonomista-federalista del nuovo Stato unitario italiano, tutte le discrepanze, soprattutto gli squilibri Nord-Sud, che vediamo oggi in questo nostro malridotto paese, già da tempo sarebbero state risolte.

 

ECCO IL TESTO DEL MANOSCRITTO

Nella trascrizione, ho aggiunto solo qualche segno di punteggiatura e le note.

 

LIBORIO ROMANO

di Sigismondo Castromediano

Romano Liborio di Patù. Così è detto oggi questo villaggio sito nell’estrema punta del Capo di Leuca dal tempo dell’invasione francese nei primordi del secolo presente, XIX, mentre dicevasi Pato altra volta, e sarebbe meglio restituirlo alla sua antica dizione.

Nacque Liborio nel 1798 [sic, vero è 1793] e morì nel [spazio lasciato vuoto dal Castromediano, ma 1867]. Fu figliuolo di Alessandro, che discepolo di Mario Pagano[4], poco mancò non fosse come questi condotto sul patibolo nel 1799, e da [Giulia Maglietta].

Giovinetto il Romano lo condussero a Lecce, dove studiò lettere insegnategli dal Barone Berardino [Francesco] Cicala[5], l’autore delle tragedie, e giurisprudenza nello stesso tempo verso la quale sentivasi potentemente inclinato. Recatosi poscia a Napoli si perfezionò in detta dottrina sotto il Gerardi [Francesco][6], il Giunti [G.][7], il Sarno [D.][8], il Parrillo [Felice][9], il quale ultimo non cessò d’amarlo durante tutta [la] sua vita.

Già Liborio, iniziato dal padre medesimo nella setta dei Carbonari, tuttoché avesse (…) appena di anni 21, ottenne per concorso dal Governo insurrezionale del 1820 d’essere eletto professore sostituto nella cattedra di diritto civile e commerciale nell’Università di Napoli. Lo stesso Governo si servì di lui del pari inviandolo suo Commissario in questa provincia collo scopo di raccogliere sotto la bandiera costituzionale da presso innalzata i militi di già sbandati.

Ma i tempi, atteso lo spergiuro di Re Ferdinando I, precipitarono a rovina, quel raggio di libertà venne spento, moltissimi furo i perseguitati, ed al Romano, toltagli la carica di Professore, vennegli imposto sotto la più severa sorveglianza di polizia di restarsene confinato nel proprio paese natale, mai rompesse la cerchia, mai più riandare alla capitale.

Così sen visse Liborio per due anni continui fra le paure e i sospetti, dietro i quali gli fu concesso di recarsi a Lecce, ma non vi esercitasse professione d’avvocato, né potesse uscire da quelle mura. Ivi però la circospezione non valse, che l’Intonti [N.][10], il selvaggio poliziesco ministro dei Borboni, un bel giorno ghermirlo insieme a Gaetano suo fratello e ad Eugenio Romano suo cugino, e insieme ad altri molti concittadini, sotto la scusa d’appartenere a una società segreta, chiamata degli Ellenisti, della quale rimase sempre dubbia l’esistenza nelle nostre contrade, e ligati [legati] e circuiti da gendarmi se li fece portare a Napoli. Qui giunto lo fece bendare negli occhi, e così introdurre nel carcere di S. Maria Apparente, nelle cui segrete lo tenne chiuso da prima per 150 giorni e fuori di queste il resto d’un anno. Dopo uscito di prigione gli fu fatto precetto di restarsene nella capitale sorvegliato dalla polizia, e non ritornare in patria.

Non si sconfortò egli, che giovane ardito era, e tant’oltre si spinse nella palestra giuridica, che tra gli avvocati di quel foro tolse palma d’incontrastata rinomanza, per cui gran numero di studenti corse ad addottrinarsi nel suo studio. Fu per costoro però che gli occorse un’altra sventura. Era il 1837, e fra quei discepoli vi aveva un Geremia Mazza[11], giovane onesto e di retti principi politici, ma che contava la disgrazia d’avere un fratello diverso affetto di lui e occulto cagnotto di polizia, il quale dopo i rovesci del 1848 giunse a sedere direttore della stessa, sotto il fierissimo Ferdinando II. Questo fratello, forse per alcuna confidenza imprudente o casuale di Geremia, adoprossi a sottoporre il Romano a nuove persecuzioni.

Ma l’anno ultimamente pronunziato giunse, e una nuova costituzione del Regno fu giurata dal Regno dianzi nominato. In seno a questi fu proposto Liborio per suo ministro costituzionale, che questi respinse la proposta, e nemmeno per soli quattro voti che gli mancarono poté occupare un posto di deputato al Parlamento d’allora. Perdute da questa terra anche leggerezze di libertà per gli effetti del 15 maggio di quello stesso anno, Liborio nel febbraio del 1850 per odio dell’infame Peccheneda [Gaetano][12] fu sospinto un’altra volta nel carcere di S. Maria Apparente, dove rimase a soffrire due anni continui insieme ad Antonio Scialoja[13], e Giuseppe Vacca[14], il primo Ministro del Regno d’Italia la seconda volta, mentre che scriviamo, e il secondo Senatore, e poscia senza alcuna forza di giudizio, esiliato insieme al suo amico Domenico Giannattasio[15].

Condizione dell’esilio era che il Romano, per cui gli fu richiesto obbligo formale, fu di andarsene in Francia, ma si tenesse lontano da Parigi e da ogni porto di quei mari. Così fu ch’egli prescelse Montpellier per sua residenza, ove stette un anno intiero, dopo il quale rotto il divieto tramutò stanza per un altro anno in quella capitale appunto che gli era stata vietata.

In questo fra tempo moriva sua madre, che prese occasione per chiedere amnistia, e l’ottenne nel 1855. Stavasene a Napoli, e tuttoché guardingo e dedito soltanto alla sua antica professione, la polizia borbonica non cessava di tenerlo d’occhio, e più severamente di prima, quando nel settembre del 1859, in quei giorni in cui le voci, che Napoleone III sarebbe disceso in Lombardia, voci che ridestando le speranze dei napoletani giunti all’estremo di loro oppressione, in quei giorni dico in cui molti liberali alla cieca vennero imprigionati, Liborio ond’evitare la stessa sorte, si diede a latitare insieme al proprio fratello Giuseppe, e coll’assenso del Conte d’Aprile[16], zio del Re, a rifugiarsi nella casina di Posillipo da prima, e dopo nella casa del Ministro plenipotenziario americano.

Ma l’ora fatale della caduta di Casa Borbone in Napoli era suonata dopo le sciagure e le miserie da essa versate a piene mani su queste stanche province. Ferdinando II era morto, ucciso dalla più schifosa delle malattie, gli succedeva un figlio, Francesco II, debole, inesperto, di poco senno, privo di amici, e per giunta d’antipatica e imbecille figura, il quale ereditando i peccati di tutti i suoi, e più atto a vestir la tunica di prete, che il manto dei governi, pronunziossi col proclamare, che avrebbe seguite le tracce del genitore. L’ora fatale suonava, e il Conte di Siracusa[17], fratello del morto Re e zio del nuovo, col consiglio del Romano spingeva il nipote a salvare la dinastia, e sulle vie legali ridonare quella costituzione ai suoi popoli, quella ad oggi tolta con violenza, e delegare suo ministro lo stesso Romano.

Il quale da prima invitato rifiutò, ma richiamato di nuovo ai 27 giugno del 1860, cioè dopo che l’attuazione della repressa costituzione del 1848 si prometteva con atto sovrano, e cioè per reprimere la minacciata sommossa dei napoletani, e attutire le conseguenze terribili d’una bastonata reazionaria, che il Brenier[18], ambasciatore francese ebbe a offrire, assunse l’incarico di reggere la prefettura di polizia, e proprio quando s’era proclamato lo stadio d’assedio.

L’ora in cui Liborio s’accingeva a sedere su d’una scrivania da tanti infami suoi predecessori lordata con ogni sorta di abusi e di violenze, di ferocie e di delitti, era malaugurata, e malagevole l’impresa che assumeva. Momento in cui la plebe da una parte, sospinta dalla propria furia, s’era impossessata di tutti i Commissariati di polizia della città, ne aveva cacciati via quei carnefici che vi avevano dominato colle vesti di funzionari e di cagnotti, cui ben dato s’era dall’universale il nome di feroci, e disarmando e ferendo questi, e in quelli manomettendo carte ed archivi; e dall’altra si formulavano liste di proscrizione della Camerilla [del Borbone], e i lazzari, e i camorristi, i briganti avidamente attendevano un segnale, onde dar mano al saccheggio ed alla strage. Provvidamente però Garibaldi volava in Sicilia sulle ali della vittoria, ed il Romano ridestava [la] sua tempra con tanto coraggio, che deve considerarsi il solo e vero salvatore di quell’ora e di quel momento.

Solo in mezzo al popolo il nuovo Prefetto attraversò le vie della Capitale agitata, e giunto al palazzo di Prefettura lo trova nudo affatto d’ogni occorrente, ma coadiuvato ed aiutato dai suoi amici, seppe allontanare l’ira del saccheggio, dileguando con un suo primo manifesto, e fino ad un certo punto le tristi apprensioni, e ridonando calma, e riconducendo agli usati uffici i napoletani sgominati e perplessi. Non avendo altra forza materiale, si rivolse e si circondò di camorristi della plebe, la sola della quale poteva disporre e da lui ben diretta, rese in quei momenti grandi servigi a lui e al paese.

Il momento precipitava, ed il Romano senza volerlo forse, costretto dalla fatalità, o dalla storica Provvidenza, si mise in carteggio cogli agenti piemontesi e lo stesso Garibaldi[19], e a cospirare contro il Borbone del quale era divenuto Ministro. Non lo si tacci di tradimento. Un uomo d’antica stampa avrebbe evitato quel sentiero, ma senza Liborio, a compiere [l’]Italia molto altro tempo avrebbe dovuto trascorrere, molti altri affanni a soffrire, molto altro sangue spargere. E tanto straordinaria venne apprezzata [la] sua condotta, che la Guardia Nazionale di Napoli, da lui creata, ed il popolo che non si inganna quando parla di spontaneo intuito, lo gridò Salvatore e liberatore della patria.

Oltre che alleggerì le garanzie richieste dall’esercizio della stampa periodica, fu in quell’ora che ricordossi di quanto sofferto aveva egli stesso, e l’immenso numero dei perseguitati politici nelle immani carceri borboniche, e v’abolì tosto le segrete, l’arbitrio ed il sopruso dei carcerieri, e le legnate, ordinandovi miglioramenti ed ordinamenti umani.

Su venuto il Ministro Spinelli [A.][20], quello che inconscio di sé e del turbine che lo avvolgeva, titubante e privo di ardimento, il 14 luglio, Liborio vi prese parte tenendovi il portafoglio dell’Interno e della stessa Polizia. I partiti politici che dividevano Napoli e coi quali ebbe ad incontrarsi il Romano si componevano di Borbonici puri conservatori ad ogni costa della spietata e vecchia tirannide, di repubblicani col Mazzini[21], o di moderati liberali, costituzionali ed annessionisti all’Italia con Vittorio Emanuele II[22]. V’era un quarto partito dei costituzionali dinastici borbonici e autonomisti, i quali poco condensati, e per niente intesi, e a cui forse senza decisione forte e convinzione perdurevole il Romano apparteneva, e v’era per aumentate la confusione. Quindi è che un biografo, certo non amico di costui, confessa che Liborio non dormiva sopra letto di rose, e a sostenersi facendogli duopo molte astuzie e molte pieghevolezze.

Tra tali difficilissime condizioni, egli incontrava pure una lega col Piemonte, proposta dalla Corte napoletana; la Sicilia invasa da Garibaldi, e la certezza d’essere invaso anche da questi il continente; e il volere degli Italiani, che in quel momento più potente d’ogni altro destino manifestavasi di volere essere nazione unita, libera ed indipendente; volere rappresentato in Napoli da un Comitato detto d’azione, questo colla Repubblica, quello col Re di Savoia.

Un altro minuto e la borbonica dinastia, e Francesco II[23] non sono più per essere, e il Romano non esitò d’avvertirla anche una volta, e suggerirle qualche buon consiglio, il quale se non servisse a salvarla, l’avrebbe fatta cadere con dignità inutilmente. Gli uomini della nazione sovvenendogli dell’esito del 15 maggio del 1848, e lusingati, credevano opportuno ripetere la strage, e non d’altre baionette seguiti, poiché l’esercito intiero sfasciatosi perché vinto già e nella disciplina demoralizzato, se non dalle baionette della Guardia reale, e con il Conte di Trapani[24] alla testa.

Un primo tentativo venne iniziato, ma ben presto represso. Due altri ne successero, capitanati l’uno dal Conte di Aquila[25], zio del Re, che ambiva rovesciare il nipote, ed occuparne il trono, [il] secondo da un de Sanclier [ma de Sauclières Hercule][26], prete e legittimista francese, [i] quali coll’esiliare il Conte, e coll’arresto del prete. Per la quale ultima avventura è da notare, come il Ministro di Francia recassi al Romano, onde impetrare la liberazione del Sanclier [ma de Saunclières E.], e perché detto Ministro dal Romano veniva avvertito essere stato già quegli consegnato al potere giudiziario, esclamò l’ambasciatore – «Dunque volete rinnovare così il 1793?» – Io devo salvare il paese dalle cospirazioni gli fu risposto, quali che fossero i cospiratori, e giustizia deve avere il suo corso.

Avendo fra tanto Garibaldi passato lo Stretto, audacissima ne divenne la rivoluzione napoletana, e fatta più certa d’un esito felice. Garibaldi avansavasi verso la Capitale incontrastato e con la sicurezza d’un vincitore, ed il Romano accortosi dell’istante della catastrofe, avendo scritto un memorandum da essere accettato dai Ministri suoi colleghi, i quali non vollero leggere nemmeno la legge al Re direttamente. Ivi era dipinta netta la situazione; nuda esposta tutta quanta la verità, e vi consigliava il Re ad allontanarsi per poco dalla sua sede, creare una reggenza, e risparmiare così gli errori d’una guerra civile.

Invece il Re appigliossi all’altro consiglio, di formare cioè un ministero di reazionari, il che però non riuscì; ma ogni autorità morale del potere essendo [e]sperita, e resa impotente, e i reazionari credendo poterla restaurare collo stato d’assedio, fecero che questo venisse ordinato dal Re nella Capitale. Invano il ministero si oppose, che il Re a Governatore di Napoli aveva nominato Cutrofiano [d’Aragon R. di][27], essere capace d’ogni violenza, e che nel 27 agosto proce[de]sse avanti con un’ordinanza racchiudente ferocissima legge stataria, ma che il Romano con fermezza ed energiche disposizioni volle radicalmente modificata.

All’arrivo imminente del Garibaldi il Re per nulla pensava, e fu duopo che il Ministero prendesse da sé qualche determinazione, il 29 agosto esortandolo a mettersi a capo delle sue truppe, ma nulla fecendosene il Ministero divenne dimissionario. A tale incontro Francesco II si decise finalmente d’abbandonare la capitale, e ricoverarsi in Gaeta, e prima di dipartirsi ebbe in mente di creare il Romano suo Luogotenente in Napoli, il che non avvenne poscia, prevedendosi il rifiuto che da questi avrebbe ricevuto.

Qui se avesse troncata [la] sua vita politica Liborio Romano sarebbe rimasto sul suo sepolcro tanta gloria per quanta sa compartirne la storia, ma sventuratamente non volle, né seppe, e credendo di poter continuare nella sua popolarità giustamente, ma stranamente, e per cause impossibili a rinnovarsi, in un momento acquistata, ostinassi a continuare. Il prestigio s’era ecclissato, ed accetta il portafoglio di Ministro dell’Interno e di Polizia datogli da Garibaldi. Quest’altro suo Ministero durò soli quattrodici giorni, nel quale si distinse per averlo diviso in Ministero di polizia e in Ministero dell’Interno. Dopo egli cadde, e non cadde per lacci e voleri di alcun suo nemico, com’egli lamenta, o qualche altro vorrebbe far credere, ma cadde perché finito il suo tempo, perché delle cose che gli giravano intorno non aveva concetto sicuro e determinato, perché criteri non aveva saldi, perché incerto e volubile non guardava meta da cogliere.

Dimesso il Romano ebbe offerta da Garibaldi la carica di Presidente della Corte suprema di Giustizia, ch’egli non accettò.

Dopo la solennità del plebiscito col quale l’Italia si arricchiva delle province meridionali il Conte di Persano [C. Pellion, conte di][28], a nome di Re Vittorio Emanuele II, che trovavasi ad Isola, gli presentava l’incarico di comporre il Consiglio di Luogotenenza, ed egli anche si ricusava. Avesse così sempre proseguito, ma entrata la seconda Luogotenenza in Napoli, dov’era giunto il Principe di Carignano[29], egli accettò l’incarico di comporre il nuovo Consiglio, e nel quale ebbe parte, assumendo a sé il portafoglio dell’Interno, e vi rimase fino al 12 di marzo, giorno nel quale aveva dato le sue dimissioni. E cadde non per forza altrui, ma perché finito aveva il suo tempo.

Durando [la] sua carica giunse pur l’altra ora delle elezioni politiche, e l’agitazione e l’ansia in queste province d’essere rappresentate al parlamento Italiano era grande e premurosa. Più grande fu l’ambizione di Liborio Romano a mostrare al mondo ch’egli fosse eminentemente popolare, e si fece eleggere in più Collegi, e Deputato venne proclamato in quello di Altamura, di Tricase, di Sala, di Campobasso, di Palata, di Atripalda, di Bitonto, ed in Napoli nel quartiere della Vicaria, oltre i ballottaggi degli altri collegi. Fatua luce di sua popolarità che più presto doveva annientarlo. Era compiuto il suo tempo.

Preceduto da non dubbia fama d’aprir guerra al Conte di Cavour[30], potentissimo Ministro che formato aveva l’Italia e d’aprir guerra con certe sue vedute di egemonia del proprio paese, di certe avversioni a quello ch’ei con altri appellava piemontesismo, e non so con quali altre chimere fuor di tempo e di luogo la sua elezione venne oppugnata, come quella avvenuta mentre sedeva egli Consigliere di Luogotenenza; però non tanto oppugnata da non essere finalmente accettato Deputato.

Però ad accedere nell’Aula della Camera il Re meno non poté tanto presto per quanto intendeva, imperò mentre che vi veniva, giunto a Genova, vi venne intrattenuto dalla gotta. Passata questa, Torino lo vide, ma egli senza che fosse andato a visitare l’avversario di sua mente, il Cavour sedé defilato tra i banchi del Centro sinistra nel Parlamento da prima, ottando [optando] nel patrio Collegio di Tricase.

L’ora di parlare in quel consesso egli affrettava, e non vi avesse parlato mai. Io Deputato di destra alla prima parola che profferse tremai per lui, poiché m’accorsi dei visi dei nostri colleghi disposti a manifestargli irrisione, che ogni opinione del nostro concittadino andava scemando. Pareva [il] suo dire la vacua declamazione degli avvocati, cui manca ragione nel difendere il proprio cliente, la voce trascinata e nasale d’un frate al quale non è giunta l’ora di scendere dal pulpito, e pur vi deve rimanere. Fu così che ei cadde per sempre. Fu così che ritirossi dalla pubblica carriera e ritornato a Napoli trascinò infermi i suoi giorni, finché divenuti perigliosi, i medici lo consigliarono a respirare a Patù [l’]aria nativa.

Qui dopo poco tempo che vi stette cessò di vivere in mezzo ai suoi il Romano, ma compianto da pochi e quasi ignorato. Però moriva lasciando sue faccende domestiche assai scompigliate e non ricco come i maligni avevano buccinato, e ricco divenuto nel potere. Fu questa la calunnia più atroce, della quale certi partiti si servirono brutalmente nella rivoluzione italiana per togliere fama ed abbattere gli onesti. Infamia della quale l’Italia a lavarsi può solo scontare coprendola di virtù moltissime.

Molti giornali si occuparono del Romano, lui vivente e nel potere; quelli che lo difendevano con accesissimo calore di parzialità, i contrari con ingiustificabile prevenzione ed odio senza fondamento. Il Romano può rassomigliarsi a colui che favorito dalla sorte, compie una grande impresa per caso, per forza, senza preconcetto divisamento, ma che ottiene gloria e popolarità imprevista, vuol continuare a sedere nel momentaneo suo grado. Ecco perché il Petruccelli [Della Gattina F.][31], questo agre e spudorato ingegno, ma talvolta fine e penetrativo tuttoché non suo avversario, scrisse di lui – «Liborio Romano arrivando alla Camera si assise al centro, poscia emigrò verso la sinistra. Io non so ciò ch’ei voglia, chi sia, ove tenda, se vezzeggi l’unità italiana o l’autonomia napoletana» – E un altro proponeva di scriversi sulla sua scranna di Deputato – «Qui riposa nel sonno parlamentare Liborio Romano, che fu sempre fermo nel non aver fermezza» -.

La presente biografia è stata rilevata con imparzialità da due elementi cozzanti, e ci sian tenuti nel giusto mezzo, onde la verità da una parte non ne venisse offesa, e l’amicizia personale verso un nostro concittadino, cui tutti i Napoletani debbono gratitudine eterna non rimanesse acciecata. Questi elementi sono. I 453 deputati del Presente, e i Deputati dell’Avvenire, opera diretta da Cletto Arrighi[32], volume III, Milano 1865, e delle Memorie politiche di Liborio Romano, pubblicate per cura di Giuseppe Romano suo fratello con note e documenti, Napoli, presso Giuseppe Marghieri[33], 1873.

Oltre le molte memorie forensi messe in istampa da Liborio, e i suoi atti governativi, olre le dette Memorie, vi son pure:

Des principes de l’economie politique puises dans l’economie animal, scritta in Francia nel tempo del suo esilio.

Lettera del 5 maggio 1861, diretta al Ministro d’Italia Conte di Cavour:

Sulle condizioni delle Province Napoletane.

Discorsi parlamentari.

Ferdinando Cito in Terra d’Otranto, senza data o nome di stampatore. Ma fu in Napoli in 1848.

 

[1] . F. ACCOGLI, Op. cit., Edizioni “Il Laboratorio, Parabita, 1996.

[2] Vd. «La Gazzetta del mezzogiorno», 28 giugno 2010, p. VIII.

[3] F. MOLFESE, Op. cit., pp. 402-403.

[4] Mario (Francesco) PAGANO (Brienza, 8 dicembre 1748 – Napoli, 29 ottobre 1799), giurista, filosofo, politico e drammaturgo italiano. Fu uno dei maggiori esponenti dell’Illuminismo italiano e un precursore del positivismo. Personaggio di spicco della Repubblica Napoletana (1799). Soppressa la Repubblica dal Borbone, fu impiccato in Piazza Mercato il 29 ottobre 1799.

[5] Bernardino CICALA (Lecce, 1765-1815), poeta e tragediografo. Nel 1799, aderì alla Repubblica Napoletana. Al ritorno dei Borbone, cominciarono per lui due anni di carcere e di persecuzioni: fu costretto a fuggire fuori dal regno. Tornato in patria con l’arrivo dei Napoleonidi, si stabilì a Lecce, dove morì.

[6] Francesco GERARDI, giurista, nel 1867 tra i fondatori della Camera degli avvocati penali di Napoli.

[7] G. GIUNTI, su questo giurista, l’unica citazione trovata finora sta negli scritti minori di L. Romano.

[8] Domenico SARNO, su questo abate, l’unica citazione trovata finora sta negli scritti minori di L. Romano.

[9] Felice PARRILLO, giudice della Gran Corte civile di Napoli.

[10] Nicola INTONTI (Ariano Irpino, 9 dicembre 1775 – Napoli, 8 maggio 1839), ministro della polizia nel regno delle Due Sicilie.

[11] Geremia MAZZA, giornalista del «Galluppi», morto nel 1840.

[12] Gaetano PECCHENEDA, direttore del Ministero dell’Interno del Regno delle Due Sicilie nel 1849-51.

[13] Antonio SCIALOJA (San Giovanni a Teduccio, 1 agosto 1817 – Procida, 13 ottobre 1877), economista. Nel 1848 divenne Ministro dell’Agricoltura e del Commercio del regno delle Due Sicilie, nel governo liberale di Carlo Troja. Arrestato dopo la repressione del 1849, fu condannato all’esilio “perpetuo” e quindi costretto a rifugiarsi nel regno di Sardegna. Ritornò a Napoli nel 1860, dopo la spedizione dei Mille, per diventare Ministro delle Finanze nel governo provvisorio di Garibaldi. In seguito fu segretario generale al Ministero dell’Agricoltura nel primo governo Ricasoli del regno d’Italia, consigliere della Corte dei Conti e senatore dal 1862, Ministro delle Finanze nel secondo governo La Marmora e poi nel secondo governo Ricasoli, infine Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Lanza e nel secondo governo Minghetti. Si dimetterà dall’incarico per la mancata approvazione del suo progetto sull’Istruzione elementare obbligatoria. Nel 1876 ebbe l’incarico di razionalizzare le finanze dell’Egitto.

[14] Giuseppe VACCA (Napoli, 6 luglio 1810 – 6 agosto 1876), magistrato, tra l’altro Procuratore presso la Gran Corte criminale di Lecce dopo il novembre 1846 e prima del febbraio 1848, Procuratore generale presso la Suprema Corte di giustizia, poi Corte di Cassazione di Napoli, Segretario generale del Comitato d’azione meridionale (1860), Senatore del Regno d’Italia dal 1861; Ministro di Grazia, Giustizia e Culti (27 settembre 1864-10 agosto 1865).

[15] Domenico GIANNATTASIO, di Salerno, liberale e deputato nel regno delle Due Sicilie.

[16] Conte d’APRILE, in realtà è Luigi di Borbone, conte d’Aquila, uno dei falchi della dinastia borbonica, vicino al Romano forse per traccia massonica. Devo questa precisazione al prof. Giancarlo Vallone, che ringrazio.

[17] Conte di Siracusa, ossia Leopoldo di BORBONE (Palermo, 22 maggio 1813 – Pisa, 4 dicembre 1860), fu un principe membro della Real Casa di Borbone-Due Sicilie, terzo figlio maschio di re Francesco I delle Due Sicilie e della regina Maria Isabella di Borbone-Due Sicilie. Leopoldo, conte di Siracusa, era critico nei confronti dell’operato del re Ferdinando II, suo fratello, come risulta dalle sue lettere alla madre Isabella di Spagna.

[18] BRENIER, ambasciatore di Francia a Napoli durante la fase di transizione e, fin dall’inizio, filo unitario.

[19] Giuseppe GARIBALDI (Nizza, 4 luglio 1807 – Caprera, 2 giugno 1882).

[20] Antonio SPINELLI (Capua, 23 marzo 1795 – Napoli, 9 aprile 1884), sovrintendente generale degli archivi e ultimo primo ministro del Regno delle Due Sicilie.

[21] Giuseppe MAZZINI (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872).

[22] Vittorio Emanuele II di Savoia (Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia; Torino, 14 marzo 1820 – Roma, 9 gennaio 1878).

[23] Francesco II di Borbone, battezzato Francesco d’Assisi Maria Leopoldo (Napoli, 16 gennaio 1836 – Arco, 27 dicembre 1894), ultimo re delle Due Sicilie, salito al trono il 22 maggio 1859 e deposto il 13 febbraio 1861 con la nascita del Regno d’Italia.

[24] Conte di Trapani (Napoli, 13 agosto 1827 – Palermo, 24 settembre 1982).

[25] Conte d’Aquila, ossia Luigi di Borbone-Due Sicilie (Napoli, 19 luglio 1824 – Parigi, 5 marzo 1897).

[26] de Saunclières, ma Hercule DE SAUCLIÈRES, storico del Risorgimento.

[27] CUTROFIANO [d’Aragon R. di Raffaele Fitou d’Aragon (1802-1868), figlio di Pietro e di Maria Anna Filomarino duchessa di Cutrofiano.

[28] Conte Carlo PELLION di Persano (Vercelli, 11 marzo 1806 – Torino, 28 luglio 1883), ammiraglio comandante della flotta italiana nella battaglia di Lissa.

[29] Eugenio di Savoia Principe di Carignano
(Parigi, 14 aprile 1816 – Torino nel 1888), Tenente di vascello, nel gennaio 1861 fu nominato luogotenente delle Provincie Meridionali, con sede a Napoli.
Responsabile di non poche atrocità nella repressione del brigantaggio.

[30] Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di CAVOUR, di Cellarengo e di Isolabella, noto semplicemente come conte di Cavour o Cavour (Torino, 10 agosto 1810 – 6 giugno 1861).

[31] Ferdinando PETRUCCELLI DELLA GATTINA (Moliterno, 28 agosto 1815 – Parigi, 29 marzo 1890), giornalista, scrittore e politico. Scrittore liberale, spesso anticonformista, fu un esule del governo borbonico a seguito dei moti del 1848.

[32] Cletto ARRIGHI – Carlo Righetti, vero nome dell’autore divenuto famoso come Cletto Arrighi (Milano, 1828 – 3 novembre 1906) giornalista e scrittore, massimo esponente della scapigliatura.

[33] Giuseppe MARGHIERI, editore napoletano.

Giuseppe Mazzini e i Mazziniani salentini

G. Toma, O Roma o morte

 

di Maurizio Nocera

 

Perché ricordare oggi Giuseppe Mazzini (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872), a 146 anni dalla morte? Semplicemente, almeno questo vale per me, perché sembra che in questo nostro Paese di gambe all’aria e di false notizie propalate a piene mani da ogni parte, ci si sia dimenticati della storia e delle buone maniere anche nelle minime faccende quotidiane. E allora, e questo vale sempre in primo luogo per me, ricordare Mazzini significa ricordare un esempio di buona patria, di buona politica repubblicana, di democrazia concreta, ed anche, perché no?, di buona letteratura, se pensiamo che, sin da giovinetto, egli amò la musica (suonava la chitarra) e lesse Goethe, Alfieri, Leopardi, Foscolo, Shakespeare, Manzoni, altri ancora.

Oggi i suoi scritti hanno ancora un loro valore politico-letterario. Li cito a partire dal primo, che fu Dell’amor patrio di Dante (1926). Mazzini fu giornalista, e il suo primo impiego in quanto tale fu presso «l’Indicatore Genovese» (Genova, 1827-1828, chiuso dalla censura), sul quale, ancora giovanissimo, iniziò a pubblicare recensioni di libri patriottici, fino, successivamente, da uomo maturo, ad arrivare alla fondazione e direzione di importanti periodici come «l’Apostolato Popolare», «Il Nuovo Conciliatore», «L’Educatore», «Le Proscrit. Juornal de la République Universelle», «Il tribuno», «Pensiero e azione», «Roma del popolo». Scrisse importanti opere come Atto di fratellanza della Giovane Europa (1834), Scritti politici inediti (Lugano 1844), Del dovere d’agire (1855); Ai giovani d’Italia (1859); e l’importanti libro Dei doveri dell’uomo. Fede ed avvenire (Lugano, 1860), non a torto ritenuto il primo manifesto di libertà e democrazia dei popoli della nuova epoca, nel quale inserì un appello Agli operai italiani:

«A voi, figli e figlie del popolo, io dedico questo libretto nel quale ho accennato i principii in nome e per virtù dei quali voi compirete, volendo, la vostra missione in Italia: missione di progresso repubblicano per tutti e d’emancipazione per voi. Quei che per favore speciale di circostanze o d’ingegno, possono più facilmente addentrarsi nell’intelletto di quei principii, li spieghino, li commentino agli altri, coll’amore, col quale io pensava, scrivendo, a voi, ai vostri dolori, alle vostre vergini aspirazioni alla nuova vita che – superata l’ingiusta ineguaglianza funesta alle facoltà vostre – infonderete nella Patria Italiana […] Le divisioni naturali, le innate spontanee tendenze dei popoli, si sostituiranno alle divisioni arbitrarie sancite dai tristi governi. La Carta d’Europa sarà rifatta. La Patria del Popolo sorgerà, definita dal voto dei liberi, sulle rovine della Patria dei re, delle caste privilegiate. Tra quelle patrie sarà armonia, affratellamento. E allora, il lavoro dell’Umanità verso il miglioramento comune, verso la scoperta e l’applicazione della propria legge di vita, ripartito a seconda delle capacità locali e associato, potrà compiersi per via di sviluppo progressivo, pacifico: allora, ciascuno di voi, forte degli affetti e dei mezzi di molti milioni d’uomini parlanti la stessa lingua, dotati di tendenze uniformi, educati dalla stessa tradizione storica, potrà sperare di giovare coll’opera propria a tutta quanta l’Umanità» […] La Patria è una, indivisibile. Come i membri d’una famiglia non hanno gioia della mensa comune se un d’essi è lontano, rapito all’affetto fraterno, così voi non abbiate gioia e riposo finché una frazione del territorio sul quale si parla la vostra lingua è divelta dalla nazione» (vd. G. Mazzini, I doveri dell’uomo, Sansoni – La Meridiana, Firenze, 1943, pp. 5, 57 e 61).

Va subito detto che se non ci fosse stato Giuseppe Mazzini, e con lui Giuseppe Garibaldi, Liborio Romano e, per alcuni eventi specifici, Cavour (che non amò mai il patriota, anzi fece di tutto per incarcerarlo e persino farlo condannare a morte), mai si sarebbe raggiunta l’Unità d’Italia; unità che significò in primo luogo liberare l’Italia dalla presenza sul suo suolo degli eserciti di altre potenze europee. Per questo suo alto obiettivo politico (Unità nazionale retta da una Repubblica con un governo centrale) fondò e diresse movimenti politici e diversi periodici.

Si pensi alla “Giovine Italia” (1831), alla “Associazione Nazionale Italiana” (1848) e al “Comitato Nazionale Italiano” (1850) e, nello spirito di un sincero internazionalismo patriottico, si spinse a fondare la “Giovine Germania” (1834) e la “Giovine Polonia” (1835) per l’unificazione nazionale di quei paesi, ai quali si deve aggiungere la fondazione della “Giovine Europa” (1866) per l’unificazione dello stesso vecchio continente attraverso un Fronte unito che chiamò “Alleanza Repubblicana Universale”, da cui nacque il “Comitato Centrale Democratico Europeo” (1850). Uno dei capolavori politici di Mazzini, purtroppo sconfitto poi dalla reazione più nera, fu la Repubblica Romana (1849), che diresse per alcuni mesi assieme ad Aurelio Saffi e Carlo Armellini (il cosiddetto triumvirato), al quale un contributo notevole apportò Carlo Pisacane.

Inutile aggiungere che per la sua passione politica e per l’Unità d’Italia soffrì il carcere, le percosse, l’esilio (per lunghi anni a Londra) e più volte la condanna a morte in contumacia.

Il 3 giugno 1888, sul periodico dell’Associazione Democratica Elettorale di Gallipoli – lo «Spartaco» – Victor Hugo, autore francese a noi molto noto, scrisse:

«Pour Mazzini il y a la libertè. Pour Garibaldi il y a la patrie. Pour nous il y a l’Italie».

Nel Salento come pure nella nostra Gallipoli operarono i mazziniani repubblicani, a cominciare da Epaminonda Valentino, (Napoli 1811 – Lecce 1849), fondatore della “Giovine Italia” nell’allora Regno di Napoli e il primo introduttore nella stessa Gallipoli e a Lecce. Epaminonda aveva sposato Rosa de Pace, sorella di Antonietta, il cui solo nome per noi gallipolini è una bandiera. Epaminonda, nel maggio 1848, partecipò ai moti insurrezionali di Napoli e di Lecce, aderì al Circolo patriottico di Terra d’Otranto (fondato il 29 giugno 1848). In seguito alla sua partecipazione ai moti insurrezionali, venne arrestato a Lecce il 30 ottobre 1848, assieme a Sigismondo Castromediano (Cavallino), i fratelli Stampacchia (Lecce), Gaetano Brunetti (Lecce), più altri. Epaminonda fu condannato a morte ma, prima ancora dell’esecuzione, morì nel penitenziario di Lecce nel 1849 tra le braccia del Castromediano. Dell’atroce modo in cui egli mori, lo storico Pier Fausto Palumbo ha scritto:         «Fin dal 29 settembre (1848) una prima vittima fu fatta: nelle braccia del Bortone e del Castromediano era spirato, in carcere [si tratta del carcere dell’Udienza o carcere centrale di Lecce], a soli trentotto anni, Epaminonda Valentino, gallipolino d’elezione per le nozze con Rosa de Pace, fondatore in provincia della “Giovine Italia”» (vd. P. F. Palumbo, Terra d’Otranto nel Risorgimento, in «Studi Salentini», X, dicembre 1960, p. 165).

Anche Sigismondo Castromediano, che lottò esemplarmente contro il Borbone, nelle sue Memorie scrive una chiara pagina patriottica su questo straordinario napoletano rivoluzionario repubblicano mazziniano, salentino e gallipolino d’elezione:

«Epaminonda lasciava la giovane moglie, Rosa de Pace, e due figlioletti ancora piccini, che amava sino alla follia, e con essi Antonietta sua cognata […] La nuova dolorosa giunse a quelle donne in Gallipoli per via di nostre lettere, e a conforto di loro sventura e a venerata memoria dell’estinto loro inviammo un’iscrizione lapidaria…» (vd. Aspetti e figure del Salento nelle parti inedite delle “Memorie” di Sigismondo Castromediano, a cura di Aldo Vallone, in «Studi Salentini», III-IV, giugno-dicembre 1957, p. 174).

Accanto a Epaminonda c’è da annoverare anche suo figlio Francesco Valentino (Gallipoli, 1835 – Pieve di Ledro, 1866), nipote di Antonietta de Pace. Morì da patriota nelle battaglie risorgimentali, convinto repubblicano, prendendo parte nelle associazioni democratiche e nel giornalismo rivoluzionario di Marsiglia e di Genova. Nel 1866 indossò la camicia rossa garibaldina morendo a Pieve di Ledro, nei pressi di Bezzecca (Trento) nella battaglia contro l’impero austro-ungarico in quella campagna militare che Garibaldi intraprese per la liberazione di Trento e Venezia. Del figlio Francesco, nel commentare la battaglia di Bezecca (24 giugno 1866) riporto quanto scrisse il corrispondente di guerra Augusto Vecchi:

«Il povero Valentino è morto, colpito al petto, gridando “Viva l’Italia”».

E come non ricordare ora Antonietta de Pace (Gallipoli, 2 febbraio 1818 – Capodimonte, 4 aprile 1893), cognata di Epaminonda e zia di Francesco, patriota e rivoluzionaria gallipolina, repubblicana mazziniana fin dalla prima ora, alla cui opera la città di Lecce ha intitolato una via e un istituto scolastico di secondo grado. Dopo la morte del cognato e del nipote, la responsabilità dell’attività cospiratrice nel Salento ricadde proprio su di lei. Così la ricorda Pier Fausto Palumbo:

«Animatori della vasta cospirazione mazziniana, e segretari del Comitato centrale di Napoli, i due salentini Fanelli e Mignogna. Collaboratrice instancabile e preziosa, Antonietta de Pace: ad essa facevano capo i Comitati di Lecce, di Brindisi, di Ostuni, di Taranto; e fu essa, con la madre dei Poerio, la moglie del Settembrini, la figlia di Luigi Leanza, poi moglie di Camillo Monaco, a intrattenere gli ancor più rischiosi rapporti coi galeotti politici di Procida, Santo Stefano, Ventotene, Montesarchio e Montefusco. Le corrispondenze segrete tra Santo Stefano e Napoli passavano per Ventotene, i cui reclusi erano giunti a dare tale fastidio al governo che, per liberarsene, preferì disfarsi dei meno pericolosi (…) La guerra di Crimea, riaccendendo le speranze, si fece leva sui militari, con una società mazziniana tutta particolare per loro. Anche di questa, animatori furono il Mignogna e la de Pace, che vennero arrestati: l’uno si ebbe cinquanta legnate e l’eroica donna fu per quarantasei volte inquisita. Al processo che ne seguì, il Mignogna s’ebbe condanna all’esilio, la de Pace fu assolta [dopo aver scontato 18 mesi di carcere preventivo]» (vd. P. F. Palumbo, Terra d’Otranto nel Risorgimento, in «Studi Salentini», X, dicembre 1960, p. 167).

È nota la vicenda che vuole la de Pace entrare in Napoli liberata al fianco di Giuseppe Garibaldi. Era il 6 settembre 1860 e da lì, da quella città del Sud, l’Italia iniziava la sua nuova era di paese unito. Oronzo Colangeli, che fu preside per molti anni dell’Istituto Professionale Femminile “Antonietta de Pace” di Lecce, presso il quale anche chi qui scrive ha insegnato per diversi anni, così ricorda la Gallipolina: «Mazziniana convinta e repubblicana, non si scostò mai dalla sua linea ideale pur adattandosi, per un consapevole senso di civile partecipazione al momento storico che attraversava l’Italia […] Con una fede pari a quella degli apostoli del nostro Risorgimento non ebbe incertezze neppure nei momenti più difficili ed oscuri della reazione. Perseguita dalla polizia e dai tribunali borbonici non vacillò, trovando in se stessa le risorse morali per resistere agli inquisitori e risorgere in adamantina coscienza di riaffermata libertà. Esempio purissimo delle migliori tradizioni delle donne italiche che, in tempi dolorosi e di triste servaggio, seppero credere nel radioso avvenire della Patria» (vd. O. Colangeli, in Antonietta de Pace, Patriota Gallipolina, Istituto Professionale Femminile di Stato – Lecce, Editrice Salentina, Galatina 1967, pp. 73-74).

E ancora, come non ricordare Bonaventura Mazzarella (Gallipoli 8 febbraio 1818 – Genova 6 marzo 1882), avvocato e magistrato gallipolino ancor prima dei moti risorgimentali del 1848, repubblicano mazziniano sin dalla prima ora. A Lecce fondò il primo nucleo del Partito d’azione d’ispirazione mazziniana con la costituzione dei primi Comitati collegati ai Circoli. Nel maggio 1848, sempre a Lecce città, uno di questi Comitati prese il nome di Circolo Patriottico Provinciale di Terra d’Otranto, che vide al suo interno il fior fiore della migliore gioventù, fra cui Giuseppe Libertini, Sigismondo Castromediano, Annibale D’Ambrosio, Oronzio De Donno, Alessandro Pino, Nicola Schiavoni, Cesare Braico, Emanuele Barba, altri ancora. Mazzarella fu eletto presidente del Circolo dedicandosi all’organizzazione della Deputazione Provinciale, dalla quale sarebbe nata, dopo l’Unità d’Italia, quella struttura amministrativa che noi oggi conosciamo col nome di Provincia. Il 30 aprile 1849, Bonaventura Mazzarella fu l’unico salentino, assieme ad altri trenta emigrati repubblicani, ad combattere sotto le mura di Roma nella difesa della Repubblica. In tutta la sua vita fu sempre coerente rimanendo repubblicano mazziniano. Passò il resto della sua vita a Genova, dopo essere stato deputato per alcune legislature e, per decenni, consigliere comunale di quella città.

A Gallipoli, tra i repubblicani mazziniani, ci fu anche Eugenio Rossi (Gallipoli 1831-1909), il quale partecipò a tutte le iniziative politiche e militari contro il Borbone e per l’unità nazionale, ad iniziare dal maggio del 1848. Dopo l’Unità d’Italia si arruolò, per mezzo del “Comitato per Roma e Venezia”, presieduto da Emanuele Barba, alla campagna garibaldina di Aspromonte nel 1862, partecipando a tutte le altre campagne che Garibaldi fece fino a Bezzecca. Ritornato in Gallipoli divenne uno dei più ferventi promotori di lotte sociali a favore del popolo, divenendo più volte consigliere comunale ed assessore della città. Fu il fondatore e primo presidente della sezione del Partito socialista di Gallipoli a iniziare dal 1892. Fondò, assieme ad altri suoi compagni, lo «Spartaco», organo dell’Associazione Democratica Elettorale di Gallipoli e circondario e, più tardi, nel 1900, fondò pure, divenendone direttore, «Il Dovere», organo dell’Unione Dei Partiti Popolari di Gallipoli, espressione delle masse popolari. La sua opera, sociale e politica, è oggi rintracciabile nelle centinaia di lettere, articoli, saggi sul socialismo ecc. che egli ci ha lasciato sullo «Spartaco», su «Il Dovere», e su altri giornali ed opuscoli.

Inoltre va annoverato il nome di Giuseppe Libertini (Lecce 1823-1874), repubblicano mazziniano della prima ora il quale, dopo la morte di Epaminonda Valentino assunse la direzione della “Giovine Italia” salentina. I leccesi gli hanno intitolato una bella piazza e un bel bronzo. Fu avvocato e amico personale di Giuseppe Mazzini, col quale stette per lungo tempo a Londra. Partecipò ai moti insurrezionali del 1848, fondò il Circolo Patriottico di Terra d’Otranto e combatté sulle barricate di Monte Calvario a Napoli il 5 maggio 1848. Fu membro del governo provvisorio garibaldino (settembre 1860) e deputato del Regno d’Italia. Mazzini lo mise alla guida del Partito d’Azione, col compito di far insorgere le province allo sbarco di Garibaldi sul continente, perché

«uomo di pronti ed arditi disegni, che seppe far miracoli, tanto da superare di gran lunga la nostra aspettazione», (vd. P. F. Palumbo, Terra d’Otranto nel Risorgimento, in «Studi Salentini», X, dicembre 1960, p. 171).

Del Libertini, un inedito ricordo lo scrive anche Francesco Stampacchia nel 1860:

«Giuseppe Libertini, pur esso salentino e propriamente leccese, figura di primo piano nel Risorgimento nazionale, intimo di Giuseppe Mazzini e con lui operante, già recluso a Ventotene, membro del Comitato Europeo con Kossut ed Herzen, aveva organizzato la insurrezione di Potenza, di Ariano e delle Calabrie, e si trovava in Napoli membro del Governo Provvisorio costituitosi al partire di Francesco II e scioltosi quando fu proclamata la dittatura di Garibaldi. Egli era allora accanto all’eroe, da cui era stato chiamato, e con lui fra gli applausi percorreva le vie della Capitale» (vd. F. Stampacchia, Lecce e Terra d’Otranto un secolo fa, in «Studi Salentini», X, dicembre 1960, p. 308).

Accanto a questi eroi unitari del Risorgimento salentino, non vanno dimenticati Vito Mario Stampacchia senior (Lequile 1788 – Lecce 1875), patriota leccese giacobino, che partecipò ai moti insurrezionali del 1820 e anni successivi; Gioacchino Stampacchia (Lequile 1818 – S. M. Capua Vetere 1904), che fu patriota mazziniano e aderì alla “Giovine Italia”; Salvatore Stampacchia (Lecce 1812-1885), fratello di Gioacchino e figlio di Vito Mario senior, anch’egli patriota risorgimentale. E ancora Gaetano Brunetti (Lecce 1829-1900), avvocato, repubblicano mazziniano della prima ora, che partecipò a tutto il risorgimento italiano.

Accanto a tutti costoro non vanno dimenticati altri personaggi come: Cesare Braico, di Brindisi, garibaldino fra i Mille, il quale combatté nel 1848 sulle barricate a Santa Brigida a Napoli. Successivamente prese parte alla difesa della Repubblica Romana. Per la sua partecipazione ai moti rivoluzionari fu condannato a 25 anni di galera. Soffrì il carcere duro borbonico assieme a Sigismondo Castromediano e a Luigi Settembrini. Dopo 11 anni di carcere fu esiliato dall’Italia. Riparò a Londra dove per bocca dell’altro suo compagno Giuseppe Fanelli ricevette il saluto di Giuseppe Mazzini. Appunto Giuseppe Fanelli, di Martina Franca, anch’egli garibaldino fra i Mille, che partì da Quarto per la Sicilia (famoso il coraggio dimostrato durante la battaglia di Calatafimi), e repubblicano mazziniano della prima ora, difensore della Repubblica Romana del 1849, dove combatté sotto il comando politico di Giuseppe Mazzini. Fu anch’egli uno dei responsabili della “Giovine Italia” in Terra d’Otranto. C’è ancora Vincenzo Carbonelli, di Taranto, anch’egli garibaldino fra i Mille, repubblicano mazziniano della prima ora, partecipò il 15 maggio 1848 ai moti insurrezionali di Napoli, anch’egli difensore della Repubblica Romana e propagatore degli ideali mazziniani in Terra d’Otranto. E infine va ricordato anche il leggendario Nicola Mignogna, di Taranto, garibaldino fra i Mille che, il 5 maggio 1860 fu, assieme a Crispi, Rosolino Pilo e La Massa, tra gli organizzatori della spedizione da Quarto alla volta della Sicilia. Repubblicano mazziniano della prima ora, nel 1836 si era affiliato alla “Giovine Italia” diffondendone gli ideali nelle provincie napoletane. Nel 1848 combatté a Monte Calvario a Napoli, successivamente prese parte alla difesa della Repubblica Romana. Venne processato assieme ad Antonietta de Pace. Lavorò spesso a fianco di Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi. Fino alla fine dei suoi giorni rimase un convinto repubblicano. (Per tutti cfr. Aa. Vv. Lecce e Garibaldi, Capone editore, 1983).

Fin qui i garibaldini, i mazziniani e gli altri patrioti unitari salentini, i cui nomi andrebbero scritti nel Grande Libro della Storia nazionale d’Italia. E tuttavia la storia, che noi sappiamo essere maestra di vita e regolatrice di ogni cosa, non lascia mai nulla di scoperto sulle sue indistinguibili pagine sulle quali è narrata l’evoluzione degli eventi. Tant’è che nel 1945-46, quando i costituenti del secondo dopoguerra si riunirono per gettare le basi di quella che sarebbe divenuta la Carta fondamentale della nuova Italia antinazifascista, la Costituzione, (la forma statuale fu quella repubblicana, scelta dal popolo italiano con il referendum del 2 giugno 1946), non dimenticarono l’insegnamento di Giuseppe Mazzini e dei suoi compagni. Così, nell’impeto gioioso di un’indimenticabile giornata per gli italiani, e nel calore sostenuto dal forte vento della libertà e della democrazia riconquistata, nacque la nostra Costituzione Repubblicana, promulgata il 1° gennaio 1948.

Ecco perché, oggi, in un’Italia continuamente gabbata da ignoranti di Stato, non è sbagliato ritornare a leggere i testi di Giuseppe Mazzini, affinché si riscoprano i valori e le idealità d’un tempo per ritrovare anche il senso e il significato profondo di una vita degna di essere vissuta alla ricerca di un mondo ideale concreto, mondo che fece degna di essere vissuta la vita dei grandi iniziati di tutti i tempi: Socrate, Pitagora, Budda, Confucio, Gesù Cristo, Maometto, Giordano Bruno, Ernesto “Che” Guevara. Forse, ma questo è difficile accertarlo in un momento storico come quello che stiamo vivendo, fra questi grandi della storia dell’umanità, un suo posto l’ha anche Giuseppe Mazzini, indiscutibilmente l’apostolo più significativo del repubblicanesimo moderno.

A Lecce, su una fiancata dell’ex Convitto Palmieri, insiste una bella immagine di Giuseppe Mazzini, sotto la quale, Giovanni Bovio, altro personaggio assai noto ai gallipolini, ha scritto: «Giuseppe Mazzini// pari ai fondatori di civiltà// Maestro».

 

Pubblicato su Anxa

Aldo Bello, giornalista e poeta galatinese

da www.galatina.it
da www.galatina.it

 

di Maurizio Nocera

Galatina, la città che gli aveva dato i natali il 7 settembre 1937, ha perduto (Roma, 2 dicembre 2011) uno dei suoi più grandi figli, non minore ad altri illustri personaggi che la Città ha sempre vantato di avere visto nascere.

Aldo Bello è stato giornalista, inviato speciale, economista, storico, meridionalista, saggista, direttore di testate televisive e di diversi altri giornali, poeta. Chi avesse l’interesse di conoscerlo meglio è sufficiente andare in internet e, cliccando sulla rivista «Apulia», con facilità si accorgerà di quanto ampio sia stato il suo contributo critico letterario alla varia umanità. Ma il suo massimo contributo di saggista economico e letterario l’ha dato al Salento attraverso la fondazione e la direzione per oltre tre decenni della rivista della Banca Popolare Pugliese, meglio conosciuta come «SudPuglia», poi «Apulia». Questa rivista nacque nel 1974 con la testata «Rassegna della Banca Agricola Popolare di Matino e Lecce»; successivamente (1983) la testata divenne «SudPuglia», infine, settembre 1994, «Apulia». La rivista oggi, con la morte del suo fondatore e direttore, ha chiuso definitivamente le sue pubblicazioni dopo quarant’anni di ininterrotta attività.

Aldo Bello, oltre che giornalista, ha scritto diversi libri. Ne cito qui qualcuno: Terzo Sud (1968), un saggio dedicato all’annosa questione meridionale; Poeti del Sud (1973), una raccolta importante delle più interessanti voci poetiche del Meridione d’Italia; La mattanza (finalista per la narrativa – opera prima – al Viareggio 1973); Le lune e Riobò (1978); L’idea armata (1983), una riflessione dall’interno dei gruppi eversivi dell’ultra sinistra; Amare contee, un viaggio in Puglia (premio Ciaia-Martina Franca, 1985), un ritratto della regione ricavato attraverso le voci dei più importanti personaggi; Economia e civiltà di Terra d’Otranto. Dal Consorsio Agrario di Matino alla Banca Popolare Sud Puglia (1988); Passo d’Oriente (1992), dove sono registrate le esperienze di viaggio e di guerre nel Medio Oriente; Il salice e l’imam. Califfi Oriente e Occidente del Ground Zero (2002), dove è possibile leggere la realtà contraddittoria interculturale Occidente/Oriente, del dopo Ground Zero. Sul fronte della narrativa, si è cimentato inizialmente con la forma del racconto breve (Il sole muore, del 1973, poi riedito con revisioni ed integrazioni come Le lune e riobò già ciato); in seguito, con il romanzo La Mattanza, anch’esso già citato.

Alcuni (quasi tutti) di questi libri, Aldo me li ha donati quando con dediche quando semplicemente brevi manu. E tra di essi ce ne sono due ai quali sono molto legato. Mi riferisco a Poeti del Sud, del 1973, e Amare contee, un viaggio in Puglia, del 1985.

Poeti del Sud è un ampia antologia che Aldo Bello curò con la passione letteraria di un poeta perché, per me, pur’egli è stato tale, anzi uno dei più fini. Tanto per citare i salentini che fanno parte del lungo elenco dei 73 antologizzati, cito: Salvatore Bello (Galatina), Vittorio Bodini (Lecce), Raffaele Carrieri (Taranto), Girolamo Comi (Lucugnano), Nicola G. De Donno (Maglie), Enzo Miglietta (Novoli), Donato Moro (Galatina), Enzo Panareo (Lecce), Vittorio Pagano (Lecce), Albino Pierro (Taranto), Lucio Romano (Galatina).

Nella sua lunga premessa, Bello, dopo avere analizzato le origini e le peculiarità della poesia di altre regioni meridionali, a proposito di quella pugliese, scrive: «Con la Puglia il discorso sulla poesia meridionale si può ampliare notevolmente: Di per sé, questa regione, appiattita su mari che furono campo d’azione di mercanti, colonizzatori, fuggiaschi, bucanieri e predatori, divenne dapprima terra di conquista, e successivamente ponte di passaggio di vari popoli./ Le civiltà e le culture, dunque, si sovrapposero fin dai tempi più antichi, lasciando inconfondibili testimonianze storiche, artistiche, linguistiche, condizionando pensieri, usi e costumi, strutture urbanistiche, concezioni di vita e di lavoro. Valga su tutti l’esempio del Salento, isola d’anima greca e di cultura varia (più greco-bizantina a sud, più spagnolesca al centro, con residui linguistici anche francesi. […] In questo quadro, la poesia pugliese si illumina variamente, si sente più aperta agli influssi europei, classici e moderni, ne assimila con immediatezza le poetiche, penetrandole e rivivendole autonomamente» (p. XI).

Del secondo libro a me caro, Amare Contee. Un viaggio in Puglia, del 1985, c’è da sottolineare il fatto che anche in questo caso si tratta di un viaggio del curatore attraverso una serie di interviste a personaggi che hanno fatto la storia della regione, alcuni dei quali sono: Giuseppe Giacovazzo, Ennio Bonea, Brizio Montinaro, Lionello Mandorino, Mino delle Site, Maria Corti, Mario Marti, Donato Valli, Oreste Macrì, Nicola G. De Donno, Ennio De Giorgi, Emilio Greco, Carmelo Bene, Renzo Arbore, Domenico Modugno.

Nella sua introduzione, Aldo Bello, a chiusura di una lunga riflessione sulle radici e le alterne vicende non di una regione ma almeno di tre Puglie, scrive: «Se mai un aggettivo si attagliò a tutte le Puglie, è amaro. Attribuito a contea (l’uno e l’altra di memoria bodiniana [ancora un poeta]) e volto al plurale, dà il titolo a questi incontri […] che cosa avrei risposto io, se per avventura fossi stato dall’altra parte dell’intervista. Avrei parlato di me e delle mie vicende e cose, come tutti gli spiriti attori, o degli altri e delle loro storie, come tutti gli spiriti osservatori? Un notevole sforzo di mimesi, di identificazione, intanto, ha richiesto questo stare di fronte, di volta in volta, a personaggi di cultura, sensibilità, vocazioni varie e anche in contrasto: sempre disponibili, spesso sorpresi, mai reticenti. Nessuna mediazione nei giudizi formali e di merito. […] Ma, infine, che cosa avrei risposto io? “Ora so che cosa mi portavo in giro per il mondo: questa luce”, mi diceva un amico pittore assente dalla Puglia da vent’anni, ritornato per poco e per caso. La stessa luce che aveva meravigliato Tecchi. Quella che “forma le forme”, secondo Calò. La luce che ispirò Pitagora e Archita. Ecco di chi avrei parlato: di coloro che vivono dentro questa luce che scolpisce da sé, e dà chiarezza di pensiero e lealtà di comportamento. Se non altro, per smentire – ancora una volta – la divina insolenza di Dante, il quale volle “bugiardo ciascun pugliese”. E non sapeva, il gran fuggiasco, che in una pianura schiacciata da (in) questa luce sono verità anche le più levantine bugie, il progetto più onirico, la vita più propositiva o più dissipata, le storie più vere o più fantastiche. Ulisse non conobbe queste Puglie. La sua odissea – che, come tutti i nostòi, meritò Itaca come castigo di chi non aveva scoperto l’ultima verità – manca di un capitolo. O di uno splendido intermezzo» (p. 39).

Aldo Bello è un grande Galatinese che sarà difficile dimenticare. Per questo, mi piace ricordarlo qui nel suo sodalizio con i poeti salentini, in particolare con Antonio L. Verri, del quale quest’anno cade il ventesimo anniversario della morte (9 maggio 1993). Aldo ebbe un sincero e profondo rapporto amicale col poeta di Caprarica di Lecce, rapporto che si evince dalla lettura di una sua lettera del 25 ottobre 1996, in risposta all’invio della bozza del mio poemetto Antonio! Antonio. O dell’amicizia che, per la prima volta, vide la luce nel 1998. Mi permetto di sottoporla alla rivista «Il Filo di Aracne» e a chi ha voglia di leggerla:

«Carissimo Maurizio,/ e tre! In ventiquattrore Antonio Verri è riemerso tre volte. Ieri sera ho trovato fra le mie carte il racconto di una sua visita al convento dei cistercensi di Martano, e subito dopo un saggio di Nicola Carducci sulla sua opera; stasera trovo la tua lettera con le bozze che ho letto e riletto, ti prego di credermi, con un nodo alla gola. Antonio c’è tutto: con la testa e col cuore. Con la voce. Col suo modo di essere e di fare. Bisogna essergli (stato) molto amico, profondamente e assolutamente amico, per scrivere quel che hai scritto tu; per svelare con tanta naturalezza di poesia e disperazione di sentimenti i segreti di un sodalizio totale, qual è stato il vostro. Trovo splendidi tanti tuoi “passaggi”, le invenzioni che vorrei definire (altrimenti, perché tante affinità e tanta contiguità?) “verriane”, la testimonianza composita in sé, e la memoria che si fa nostalgia tanto più dolorosa e lacerante quanto più dai virgolettati emergono versi e frasi che conoscemmo appena nati nei Belli-Luogni di Lecce, di Castro, di Galatina, di Matino, ora – devo confessare – un poco deserti, schivi: per la paura che assale di pensarsi ormai soli definitivamente defraudati./ “Impossibile dimenticare.| Meglio fuggire…” scrivi. Fuggire? Non facciamoci illusioni. Antonio non ci ha lasciato tracce, segni superficiali sulla pelle; ma solchi abissali. Ha spostato la nostra meridiana sulla sua ora, sul suo ritmo del tempo, sui suoi orizzonti inquieti. Prima di essere Assenza, ferita insanabile nella carne. Quale tu impudicamente (e per questo di più t’ammiro) esibisci al mondo bue. Che non capirà mai. Ti ringrazio per questi fogli, per gli scenari che vi ricrei, per i climi e le atmosfere che intensamente disegni, e dentro i quali mi ritrovo del tutto, fermo a quell’alba di maggio, quando Antonio Errico urlò più volte al telefono il nome di Antonio, senza riuscire a dirmi altro. Il nostro “Signore dalle ali spiegate” era “volato via”. Ora è lo stesso sgomento di allora. La stessa domanda senza risposta. La stessa ragione: la nave Castro è colata a picco nel cielo irto di vecchi stupidi ulivi addormentati. Mi spiace per quest’estate. Ti avrei visto molto volentieri…/ D’altra parte, come puoi immaginare, ho perso i contatti con molti amici, dopo quella notte-alba. Antonio aggregava, sollecitava, scopriva. Mi ha sorpreso non poco la tua descrizione della sua stanchezza. Era il moto perpetuo, il suo sistema neuronico era sempre vibrante, faceva fibrillare anche tutti noi. Una parentesi irripetibile…/ Intanto, ti abbraccio caramente./ Aldo».

Pubblicato su “Il filo di Aracne”

– Magliani Agostino detto Tino e la sua medaglietta? La ferrovia tra Brindisi e Taranto l’ho portata io … –

di Armando Polito

Così Maurizio Crozza interpreterebbe un omologo salentino  del napoletano De Luca, facendogli aggiungere: – Prima di me per recarsi da Brindisi a Taranto i salentini adoperavano liane appese agli alberi di ulivo. A Brindisi salivano sull’ulivo più a portata di mani e di piedi e grazie alla liana con adeguati movimenti oscillatori volavano verso l’albero successivo e, di albero in albero, arrivavano a Taranto. Parecchi calcolavano male l’ultimo salto e cadevano nel Mar Piccolo e il loro miserabile annegamento contribuiva ad un considerevole innalzamento del tasso d’inquinamento. Sempre per un maldestro uso dell’ultima liana parecchi, nel compiere il percorso inverso, finivano i loro giorni nel porto di Brindisi e le ultime loro parole erano – Porto cornuto!- e così l’incolpevole porto finì per convincersi di esserlo, assumendo la forma che si vede in tutte le mappe. Tutto questo fino a quando non ho portato io la Xylella fastidiosa, pardon, la ferrovia, evitando, tra l’altro, di ovviare all’annegamento di tanti poveretti con due belle colate di cemento. Magliano Agostino detto Tino: personaggetto. La sua medaglia? Medaglietta … -. 

Per evitare che qualche lettore animato da uno spirito cristiano troppo zelante  si faccia frettoloso promotore di un TSO (Trattamento sanitario obbligatorio) nei miei confronti, invito tutti a leggere, se non l’hanno fatto, e, se l’hanno fatto, a rileggere l’interessante recente post di Maurizio Nocera (https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/04/un-libro-di-pietro-cavoti-per-un-ministro-delle-finanze/), post del quale questo mio costituisce una sorta di leggera integrazione. Essa, probabilmente, per certi aspetti farà molto piacere al buon Maurizio, (da qui in avanti da intendersi Nocera, non Crozza), ad altri meno. Comincio dalle note dolenti dicendo subito che la pubblicazione reperita al mercatino probabilmente non ha un grande valore antiquario, anche se essa costituisce, per così dire, quasi una seconda edizione. Infatti dell’opuscolo (lo chiamo così non per il formato ma per il ridotto numero di pagine) esiste una versione stampata a Lecce dallo Stabilimento tipografico Scipione Ammirato nel 1883 con 20 pagine numerate, con tre tavole, e con dimensione verticale di pagina di 23 centimetri. La seconda versione,quella del pezzo, appunto,  fu stampata nello stesso luogo e nello stesso anno da G. Spacciante e conta 37 pagine numerate, con tre tavole (una diversa da quelle dell’altra edizione) e con dimensione verticale di pagina di 25 cm.

Paradossalmente della prima versione (che sembra essere la più modesta dal punto di vista editoriale) l’OPAC registra la presenza di 7 esemplari (Biblioteca provinciale Nicola Bernardini – Lecce – LE; Biblioteca comunale – Zollino – LE; Biblioteca comunale Pietro Siciliani – Galatina – LE; Biblioteca dell’Associazione Pernix Apulia di Apulia Selvaggi – Manduria – TA; Biblioteca comunale Labronica Francesco Domenico Guerrazzi. Sezione catalografica e magazzino librario – Livorno – LI; Biblioteca Malatestiana – Cesena – FC; Biblioteca di storia moderna e contemporanea – Roma – RM) e della seconda 9 (Biblioteca della Soprintendenza per i beni culturali e ambientali di Palermo – Palermo – PA; Biblioteca comunale – Gallipoli – LE; Biblioteca provinciale Nicola Bernardini – Lecce – LE; Biblioteca comunale Francesco Piccinno – Maglie – LE; Biblioteca comunale Pietro Siciliani – Galatina – LE; Biblioteca comunale Isidoro Chirulli – Martina Franca – TA; Biblioteca dell’Associazione Pernix Apulia di Apulia Selvaggi – Manduria – TA; Biblioteca del Museo civico archeologico – Bologna – BO; Biblioteca nazionale centrale – Firenze – FI).

Insomma, anche se Maurizio è riuscito, mi si conceda la similitudine venatoria nonostante la mia avversione alla caccia,  a beccare l’esemplare più in carne, la selvaggina non pare essere estremamente pregiata. Ma certe prede per Maurizio, come per me, sono importanti solo perché recano una data e questa, a meno che non si riferisca all’altro ieri, è sempre uno stimolo per conoscere un po’ di più del nostro passato.

Dopo aver capito (ci ho messo tre secondi, ma ho la mia età …) che si tratta di un testo celebrativo per la consegna di una medaglia ad un personaggio importante per meriti importanti, mi son chiesto se non fosse il caso, visto che Maurizio ha detto tutto sul libro, di mettermi sulle tracce della medaglia.

Saltando con una liana da ulivo su ulivo (magari …!), grazie ad un atterraggio morbido sulla rete (quella informatica, non quella della raccolta delle olive), sono in grado di presentarla con immagini tratte da http://www.ebay.it/itm/SALERNO-Agostino-MAGLIANI-66-mm-1882-/261069989542

Ecco il dritto (non sto presentando me stesso, parlo della medaglia …).

AUGUSTINUS MAGLIANIUS OECONOMIAE STUDIIS INSIGNIS (Agostino Magliani insigne per gli studi di economia)

E(UGENIO) MACCAGNANI MOD(ELLÒ) GI(OVANNI) VAGNETTI INC(ISE) IN ROMA

Prima di passare al verso spendo poche parole per Eugenio Maccagnani e Giovanni Vagnetti (su Agostino Magliani basta e avanza quanto scritto da Maurizio).

Eugenio Maccagnani era nato a Lecce nel 1852 e, dunque, quando realizzò il modello della medaglia (non credo che gli fosse stato affidato l’incarico all’ultimo momento e, comunque, come vedremo, la medaglia reca nel verso la data MDCCCLXXXII) doveva essere trentenne. Fa piacere constatare che almeno allora per celebrare un evento che ci riguardava da vicino non ci si rivolse ad artisti non salentini o, addirittura, stranieri .., ma ad un salentino doc, e per giunta  giovane.

È anche vero, però, che già a quella data il Maccagnani (che appena ragazzino si era fatto le ossa nella bottega dello zio Antonio famoso cartapestaio) era celebre a livello internazionale e, quindi, avrebbe fatto scalpore, anzi sarebbe stato vergognosamente scandaloso, se non ci si fosse ricordati di lui. Una sorte ben diversa ebbero, invece, se c’erano, gli incisori salentini, perché l’incarico di incidere il calco venne affidato al fiorentino Giovanni Vagnetti (1840- dopo il 1890). Credo che a tale scelta non fu estranea la fama di specialista in medaglie del Vagnetti, ma dovette essere decisiva la prova che di sè aveva dato un anno prima in un altro conio, i cui committenti erano leccesi,  riguardante sempre Agostino Magliani (immagini tratte da http://numismatica-italiana.lamoneta.it/moneta/W-ME52M/13).

AD AGOSTINO MAGLIANI GLI AMICI ED AMMIRATORI

GIOV. VAGNETTI FECE

 

PROFONDO ECONOMISTA

INSIGNE FINANZIERE

LIBERÒ L’ITALIA

DALLA TASSA DEL MACINATO

E DAL CORSO FORZOSO

 

LECCE 15 LUGLIO-1880-LECCE 7 APRILE 1881

 

A distanza di più di un secolo mi chiedo quale medaglione dovrebbe essere conferito a chi, pur non essendo un profondo economista (sorvolo sul finanziere perché qui è sinonimo di ministro delle finanze) ha liberato l’Italia dall’IMU sulla prima casa. Il solito disfattista salentino, però, dice che in compenso ha fatto lievitare le altre o ne ha inventate di nuove (impresa che comincia a richiedere dosi massicce di perversa fantasia) e, non prendendosela certamente con l’IMU, sbotta in un – LI MU … ! e, dopo aver completato la seconda parola, ci aggiunge quello che in italiano è l’aggettivo possessivo di seconda persona singolare, che nel dialetto neretino, in particolare, vale per tutti i generi e per tutti i numeri.

Ritorno alla nostra medaglia con l’esame del verso.

ALTERIUS ALTERA POSCIT OPEM

MDCCCLXXXII

GIOV(ANNI) VAGNETTI INC(ISE) E(UGENIO) MACCAGNANO MODELLÒ

L’Italia (accanto a terra lo scudo sabaudo sorretto da un leone) stringe la mano alla Terra d’Otranto che regge lo scudo col delfino con accanto una cornucopia rovesciata. Sullo sfondo convogli ferroviari (sono riconoscibili tre fumaioli di altrettante locomotive) procedentiin direzioni opposte ed in alto la Stella d’Italia con l’originale forma  di un pentacolo raggiato.

Il motto (ALTERIUS ALTERA POSCIT OPEM=Una chiede l’aiuto dell’altra) è l’adattamento di due versi di Orazio (Ars poetica, 410-411: … alterius sic/altera poscit opem res … = … così una cosa richiede l’aiuto dell’altra … ).

Se l’assenza di RES ha finito per personalizzare ALTERA (Terra d’Otranto) ed ALTERIUS (Regno d’Italia) debbo dire, però, che l’operazione è vecchia, come mostrano, solo per fare qualche esempio, una stampa di Jacob Hoefnagel datata 16341 e custodita nel British Museum (l’immagine è  tratta da http://www.britishmuseum.org/research/collection_online/collection_object_details/collection_image_gallery.aspx?assetId=793109001&objectId=3448674&partId=1)

lo stemma dell’Accademia Tiberina già Pontificia (immagine tratta da https://twitter.com/acctiberina) del 1824; il motto è nel cartiglio superiore)

e, in ultimo, una medaglia dedicata ad Enrico Newton di cui scrive Pietro Antonio Gaetani in Museum Mazzuchellianum, Zatta, Venezia, 1763, pp. 108-109: Richiamato ei fu a Londra per sostentare presso il suo Sovrano cariche di maggior momento, l’anno 1710, nel quale vennero parimenti coi Torchi di Lucca pubblicate in un Volume le sue Orazioni, le sue Lettere, e le sue Poesie Latine, distese con sommo gusto, con alquante d’altri Letterati di maggior grido ad esso dirette, ed in fronte alle quali venne posto questo nostro medesimo Impronto, lavoro del  celebre Scultore Massimiliano Soldani. Ha questo nel suo dinanzi il sembiante d’Enrigo, ed intorno ad esso le le parole HEN. NEWTON ABLEG. EXT. BRIT. AD M. ETRUR. D. ET R. P. GEN. FLOREN. 1709. Nel rovescio poi vedesi a sedere la Natura abbracciata da Minerva stantesi in piedi, col motto ALTERIUS ALTERA POSCIT OPEM.

Di seguito la tavola relativa alla medaglia

e la tavola che precede  il frontespizio dell’edizione citata dal Gaetani.

Non escluderei che il Maccagnani nella creazione della nostra medaglia sia stato ispirato, ma quasi certamente non sapremo mai se così fu, da questo modello.

So già cosa qualcuno starà pensando: Polito Armando detto Armapò: personaggetto in grado solo di produrre disarticolati articoletti che se fossero stampati su carta andrebbero a ruba nei cessi di tutto il Salento, se non fosse stato  che in Salento la carta igienica l’ho portata io. Prima i salentini usavano le foglie verdi e non dico cosa si sviluppava ad autunno inoltrato … Polito Armando detto Armapò: personaggetto …    

_______________

1 Tuttavia va precisato che l’immagine era già comparsa in Emblematum ethico-politicorum centuria Iulii Guilielmi Zincgrefii, caelo Matth. Meriani, Apud Iohann. Antonium et Petrum Manschallum, Francfurti, MDCXXIV

L’uno chiede l’aiuto dell’altro.

Quando la natura t’avrà dotato di ricchezze,

sappi che non sei nato per te solo.

Bisogna che il tuo vicinosenta l’effetto dei tuoi beni.  

 

Va anche detto che il tema era già stato illustrato in due tavole e con un motto diverso da Andrea Alciato, Emblematum libellus,  Christianus Wechelius, Parisiis, 1534.

                                   Mutuo aiuto

Il cieco porta caricato sulle spalle lo zoppo

e si sdebita con questo dono con gli occhi del compagno;

A quello di cui ciascuno dei due manca così l’uno e l’altro concorde fa fronte;

questi mette in comune gli occhi, quello i piedi. 

 

(Dicono che) uno non può nulla, due moltissimo

Zenale [pittore attivo a Milano tra la fine del secolo XV e gli inizi del successivo] con abile mano raffigurò insieme in questa tavola il figlio di Laerte [Ulisse] e quello di Tideo [Diomede]. Questi si distingue per la forza, quegli per l’acutezza della mente. Tuttavia l’uno e l’altro hanno bisogno del reciproco aiuto. Quando intervengono uniti la vittoria è certa; la mente o la mano abbandona l’uomo solo.

 

Un libro di Pietro Cavoti per un ministro delle Finanze

Pietro Cavoti

 

PREGIATO LIBRO DI PIETRO CAVOTI DI GALATINA CON LA MEDAGLIA E LA PERGAMENA IN ONORE DI AGOSTINO MAGLIANI, MINISTRO DELLE FINANZE DEL REGNO D’ITALIA*

di Maurizio Nocera

Andando per mercatini antiquari di Terra d’Otranto, non è raro, e comunque capita, di trovare preziosità bibliofiliche, che ti aiutano poi a comprendere la natura e la storia dei luoghi dove sei nato e vivi. Si tratta spesso di libri, i cui contenuti, una volta letti, ti fanno riemergere dal passato personaggi, storie e saperi ormai sopiti dal tempo e dalla dimenticanza. È quanto mi è accaduto in uno dei mercatini antiquari della domenica di ogni fine mese a Lecce, dove, tempo fa, mi capitò di trovare un libro che dal titolo della copertina nulla faceva trasparire del suo prezioso contenuto. Tuttavia, anche la coperta di questo libro mostrava un certo interesse bibliofilico, nel senso che si tratta di un volume in 8° grande, con coperta rigida rivestita di carta pergamenata, il cui calice indicativo recita così: MEDAGLIA/ offerta/ DALLA PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO/ A S. E./ AGOSTINO MAGLIANI/ G[iuseppe] Spacciante // MDCCCXXXIII.

Aldilà dell’indicazione del nome del tipografo, appunto G. Spacciante, rinomato stampatore leccese dell’Ottocento che, dopo diverse vicissitudini, divenne infine l’Editrice Salentina di Galatina, le indicazioni di copertina nulla dicono a proposito dell’autore. Quindi, per sapere qualcosa in più, cosa che sempre faccio quando mi capita per le mani un libro, sono andato al frontespizio, dove ho letto: MEDAGLIA/ offerta/ DALLA PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO/ A S. E./ AGOSTINO MAGLIANI/ Senatore del Regno/ Ministro delle Finanze// Cenni del Cav. Prof. Pietro CAVOTI// Tipo-Litografia Salentina Spacciante – Lecce.

Ecco scoperto un’interessante indicazione che mi immediatamente mi ha fatto decidere l’acquisto del volume. Sicuramente deve trattarsi di un unicum perché, molto probabilmente, accompagnava la succitata Medaglia. Francamente non riesco a capire come mai un volume così prezioso sia stato scorporato dal quadro eseguito dal Cavoti e che accompagnava la Medaglia, finendo così sulla bancarella di un antiquario di chincaglieria e prodotti affini.

Comunque, come scrivo poco sopra, si tratta di un libro curato da Pietro Cavoti (Galatina, 1819-1890) del quale, associandolo all’altro patriota galatinese Nicola Bardoscia, il compianto Antonio Antonaci scrive: «Il Cavoti era imparentato per vie diverse, con antiche casate galatinesi, […] Il contributo dato dal Cavoti e dal Bardoscia all’ideale unitario fu, non solo per Galatina ma anche per l’intero Salento, di grande efficacia, anche se di dimensioni diverse: più romantico e per certi aspetti audace e passionale, quello del Cavati, un tipo dalla fantasia accesa e dalle tendenze contraddittorie fino a sembrare talvolta strane, come accade nel mondo degli artisti […] Il Cavoti […] fu il tramite fisso di collegamento tra i patrioti galatinesi e quelli di Lecce. Fu segretario del Circolo patriottico comunale di Galatina, fondato subito dopo quello di Lecce» (v. A. Antonaci, Galatina Storia & Arte, Panico, Galatina 1999, pp. 605-6).

Ma di Pietro Cavoti abbiamo ancora qualche altra notizia fornitaci dall’enciclopedia libera Wikipedia, che riporta quanto segue: «è stato un artista, pittore e studioso dell’arte italiano. Compì i primi studi al Real Collegio dei Gesuiti a Lecce. […] Insegnò francese, disegno e calligrafia nel Collegio degli Scolopi, divenuto poi Liceo Convitto Colonna [Galatina], attuale sede del museo a lui dedicato./ Artista e ricercatore attento, fu nominato dal Ministro della Pubblica Istruzione nella commissione incaricata di censire e classificare i monumenti italiani, al fine di indicare quelli da considerare monumenti nazionali. Il suo lavoro iniziò dalla provincia di Lecce e precisamente dalla Chiesa di Santa Cristina a Galatina e della Chiesetta di Santo Stefano a Soleto. Furono questi gli anni del suo soggiorno fiorentino, durato 15 anni, dal 1861 al 1876, fino a quando le sue condizioni di salute non lo indussero a ritornare a Galatina./ Fu amico di Atto Vannucci, che gli affidò l’illustrazione della sua Storia dell’Italia Antica./ Nel 1876, tornato a Galatina dalla sua esperienza fiorentina, accettò l’incarico, affidatogli da Sigismondo Castromediano, di presidente della Commissione conservativa dei monumenti di Terra d’Otranto e di Ispettore dei monumenti.Ricevette l’incarico di rilevare gli affreschi del Palazzo Marchesale di Sternatia e di effettuare lo studio dell’edificio arcaico detto Le Cento Pietre di Patù. […] Scrisse inoltre alcuni saggi, tra cui si ricorda Saggio di lavori nelle pietre denominate carparo e pietra leccese delle rocce salentine./ Gran parte dei suoi lavori è conservata nel museo civico di Galatina a lui intitolato».

Ma adesso, vediamo com’è fatto questo libro, curato e per tre quarti scritto da Pietro Cavoti. Il frontespizio è un capolavoro d’arte tipografica con arabeschi e un disegnino dorato in cui cinque puttini lavorano in un ambiente tipografico (interessante la cassettiera con i caratteri mobili e il seicentesco torchio in legno); la carta è pergamenata; i caratteri usati sono gli aldini; gli incipit dei capitoli hanno testatine e grandi lettere iniziali colorate con foglia d’oro; due pagine fuori testo custodite da una carta sottile tipo velina, in una v’è la riproduzione della Medaglia, nell’altra la fotografia della Pergamena d’Indirizzo al Ministro delle Finanze Agostino Magliani; in tutto si tratta pp. 4 bianche + 37 + 5 bianche.

Qui di seguito viene riportato uno dei testi in esso presenti.

 

Pietro Cavoti

Copertina: MEDAGLIA/ offerta/ DALLA PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO/ A S. E./ AGOSTINO MAGLIANI/ G[iuseppe] Spacciante // MDCCCXXXIII.

Frontespizio: MEDAGLIA/ offerta/ DALLA PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO/ A S. E./ AGOSTINO MAGLIANI/ Senatore del Regno/ Ministro delle Finanze// Cenni del Cav. Prof. Pietro CAVOTI// Tipo-Litografia Salentina Spacciante – Lecce.

 

Testi

Il Consiglio Provinciale di Terra d’Otranto volle, con unanime e spontanea cortesia, affidarmi l’incarico della Medaglia d’oro e dell’Indirizzo in pergamena, che, per sua speciale deliberazione del 1882, stabiliva doversi offerire al Ministro delle Finanze, AGOSTINO MAGLIANI, fautore di un contratto di mutuo colla Cassa dei depositi e prestiti, necessario ad agevolare, per l tempo e pel dispendio, la costruzione delle strade ferrate da Taranto a Brindisi, e da Zollino a Gallipoli, dalle quali s’impromette gran bene la Provincia e la nostra gran patria.

L’opera mia fu accolta con somma benevolenza; e con espressioni assai cortesi fui chiamato a pubblicare questi brevi cenni intorno alla mia idea ed al lavoro dei valenti esecutori. Io corrispondo con animo pronto e volenteroso a sì cortese invito, perché fu ispirato dall’amore del luogo natio, e perché, quale che siasi questo mio tenue lavoro, spero che servirà d’incoraggiamento ai giovani, mostrando che la loro Lecce, culta e gentile, smentisce l’antico, amaro e scoraggiante proverbio: Nemo Profeta in Patria.

Adunque verrò esponendo quale sia stato il mio studio per accordare l’idea colla forma, in modo che le onoranze della mia patria al celebre Ministro AGOSTINO MAGLIANI fossero quali si convengono alla dignità di chi le offre ed alla virtù dell’uomo cui spettano; poiché il suo sapere e i suoi fatti pel governo Italiano lo rendono degno di essere annoverato fra i pochi sommi, che in Italia hanno dato vigore a quella scienza, che cerca la ricchezza e la potenza de’ popoli, ed esige aumento e gloria da noi, ora che siamo liberati dal flagello delle male Signorie.

 

MEDAGLIA D’ORO AD AGOSTINO MAGLIANI

E. Maccagnani Mod. – G. Vagnetti Inc. in Roma.

Rovescio: La statua dell’Italia, con al fianco il leone con scudo crociato, che stringe la mano alla Provincia di Lecce con al suo fianco lo scudo col delfino. Sullo sfondo il treno con locomotiva sulla strada ferrata): «ALTERIUS ALTERA POSCIT OPEM – MCXXXII». Prof. P. Cavoti Int. – E. Maccagnami Mod. – G. Vagnetti Inc.

 

CONCETTO DELLA MEDAGLIA

Se il trovare l’epigrafi, i motti, le imprese e le medaglie è cosa difficile per se stessa, certamente cresce molto la difficoltà quando è sterile l’argomento. Ognuno vede quanto poco si porga alla plastica (specialmente per la numismatica) un contratto di mutuo: pur nondimeno è questo appunto il tema della nostra Medaglia.

Sarebbe stato ovvio e facilissimo il trattarlo, ponendo nel diritto l’effigie del celebre Ministro, e nel rovescio una breve iscrizione, che dicesse quello ch’egli aveva operato a pro della Provincia salentina: ma in tal modo si sarebbe ricorso alla epigrafia, quando era pregio dell’opera esprimere il fatto con una rappresentazione, come si conviene ad una medaglia. Imperciocché questo piccolo monumento, essendo di sua natura scultorio, è necessario che parli colla massima sobrietà e chiarezza per mezzo della imagine, alla quale l’epigrafe non deve servire ad altro che a determinare quello, che non si può col linguaggio della figura.

Meditando e rimeditando, trovai che in questo caso la Medaglia non doveva essere soltanto onoraria, ma altresì commemorativa. Primo, perché così la richiedeva un fatto di tanta importanza nella storia commerciale della Provincia salentina: fatto che tornerà a vantaggio della nostra gran patria comune. Secondo, perché così si eleva al suo giusto grado l’onore meritato dall’illustre Economista, imperciocché il suo nome, associato a quello di una Provincia, non resterà racchiuso entro i limiti personali e fra i ricordi di famiglia; ma si estenderà quanto la sfera del progresso contemporaneo delle provincie d’Italia. Terzo finalmente (e questo è più importante) perché questa Medaglia dirà ai nostri nepoti, che quando l’Italia riguadagnò fra le altre nazioni il suo posto d’onore, da tanti anni perduto, i reggitori di questa Provincia seppero, coi loro saggi provvedimenti, stendere queste strade ferrate sul suo terreno, posto come anello di congiunzione tra l’Oriente e l’Occidente, e così resero più comodi i commerci fra i due mondi, nell’epoca appunto in cui tutti i popoli si affaticavano a stringersi la mano, anche divisi dalle regioni più lontane.

Guardato da questo punto un tema sì sterile a primo sguardo, mi parve poi sì poetico e fecondo, che, studiandolo nella sua pienezza, vidi bentosto la necessità di premerne il sugo, e andai cercando un concetto che, coi mezzi della numismatica, si manifestasse chiaramente.

Quel concetto mi suggerì la leggenda del diritto, e quella del rovescio colla sua allegoria; m’ispirò l’indirizzo in pergamena, e mi fece immaginare la decorazione, che lo contorna. Cosicché tutto il mio tema altro non è che una sola idea incarnata in triplice forma, tradotta in triplice linguaggio. Si concentra nella Medaglia e nelle sue leggende col laconismo numismatico ed epigrafico; si sviluppa nell’Indirizzo colla libertà della prosa; e finalmente viene illustrato nel suo contorno colle iscrizioni, coi simboli e colle allegorie.

Ecco il concetto della Medaglia.

Nel suo diritto, intorno al ritratto del rinomato MAGLIANI, scrissi: AUGUSTINUS MAGLIANIUS D[‘]ECONOMIAE STUDIIS INSIGNIS; perché cola leggenda volli accennare intorno alla fisonomia il profilo, per così dire, della mente dell’uomo, nel quale l’Italia ha trovato il Ministro, che presiede alle Finanze col diritto, che gli viene dal suo valore nella scienza.

Ad esprimere nel rovescio il fatto, in cui egli ci fu sì vantaggiosamente fautore, e che ha per noi e per l’Italia quella importanza, che di sopra abbiamo accennato, mi parve che la forma più vivace sarebbe una rappresentazione allegorica. Per ciò disegnai la maestosa ed augusta figura dell’Italia, che abbraccia la nostra Provincia, e le stringe la mano, conducendola su di una strada ferrata, che va a perdersi nell’orizzonte della scena, in cui si vedono locomotive correnti in varie direzioni. La nostra Provincia pone il piede su di una delle due rotaie, e sull’altra ha posto il corno della prosperità e dell’abbondanza. Sul capo delle due donne splende la Stella d’Italia, e su di essa s’inarca la leggenda: ALTERIUS ALTERA POSCIT OPEM [Una sostiene all’altra].

Le due rotaie, passanti dinanzi ad una colonnetta miliaria, di forma moderna, presentano i loro estremi ricurvi in su, come si vedono al termine delle strade ferrate, per indicare con ciò in quale della Penisola stia la Provincia salentina. Sulla colonnetta si legge il numero di chilometri della distanza di Lecce dal mare.

 

PERGAMENA

INDIRIZZO

All’idea, così rappresentata nella Medaglia, mi pare che possa servire di sviluppo la prosa dell’Indirizzo, come alle parole dell’Indirizzo servono d’illustrazione i simboli, i motti e le iscrizioni del suo contorno. Ecco le sue parole:

AD AGOSTINO MAGLIANI

Senatore del Regno d’Italia e Ministro delle Finanze

L’Italia, già fatta nazione, si affretta, colle altre sorelle, alla grande opera della civiltà universale. Quindi è per noi sacro dovere il tramandare ai nostri figliuoli, come ammaestramenti di famiglia, i nomi degli illustri contemporanei, e specialmente di quelli che, con sapienza civile, seppero dare norma al nostro riordinamento, serbandosi intemerati in questa epoca, che per l’Italia è transito alla sua vita nuova.

Fra i nomi di questi sta scritto il vostro, o Signore; lo richiede la storia della Economia e delle Finanze; e la nostra Provincia vuole imprimerlo in una Medaglia, affinché resti come stampato in una pagina d’oro.

Voi sapeste riordinare secondo la giustizia sociale i tributi, e promuoveste i progressi della Nazionale Economia. Voi manteneste il credito Italiano in questa epoca fortunosa. Voi liberaste il Popolo dalla odiosa imposta sui cereali. Voi deste opera all’abolizione del Corso Forzoso. Voi, guardando sempre alla prosperità della nostra gran patria comune, faceste sì che la provincia idruntina avesse più presto, e con facile dispendio, le strade ferrate che saranno ravvivatrici di quella prosperità civile che da lunga età languiva, malgrado i doni che ne fece Iddio.

Se Taranto gioverà meglio all’Italia pei bisogni della guerra; se Lecce e Gallipoli feconderanno meglio di prima studii e i commerci della pace; se brindisi ed Otranto stenderanno più agevolmente di prima le nostre braccia all’Oriente ed all’Occidente coi paralleli delle strade ferrate e col mare; e se questi beni della Provincia messapica torneranno a vantaggio della nostra intera nazione, tocca a Voi, o Signore, il vanto di avervi efficacemente operato. E quando sorgerà il tardo, ma giusto giudizio della Storia, i nostri nepoti sapranno che mentre il Ministro della Istruzione Pubblica era intento a cavare dalla loro tomba le eloquenti reliquie della nostra antica cultura tarentina, il Ministro delle Fnanze, l’Illustre Economista AGOSTINO MAGLIANI, si adoperava a facilitare i mezzi, affinché potessimo renderci di quella degni eredi e continuatori.

Di tanta importanza è il fatto che Voi sì generosamente compiste, o Signore, e la nostra Provincia vuol tramandarlo ai posteri come un’altra fra le corone del merito civile vi tributa l’Italia.

Lecce 1882

 

Il Presidente del Consiglio Provinciale

GAETANO BRUNETTI

del fu Francesco

 

 

In queste parole vedesi chiaro che l’odierno stato d’Italia è il fondo, su cui si accennano i fatti principali del Ministro per la prosperità della nazione risorta. Fra quelli si annovera la sua cooperazione per le già dette strade ferrate, ch’è la giusta orazione di queste onoranze. Ecco la decorazione allusiva che lo contorna.

Nei quattro angoli della cornice, di gusto barocco, i quattro capoluoghi della Provincia di Terra d’Otranto sono indicati dai loro rispettivi stemmi, tenuti da genietti a gruppo, tra quali alcuni fanno svolazzare cartelle con leggende esprimenti i pregi caratteristici di ciascun luogo, sì morali come storici e geografici, ed anche la loro destinazione secondo il nuovo ordinamento della nostra nazione.

Lecce ha sulla sua targa il lupo passante da destra a sinistra sotto l’albero di leccio, e la sua leggenda Artes Ingenuae et Iura rammenta i suoi studii antichi e fiorenti tuttora.

Gallipoli ha il gallo che tiene colle zampe la storica divisa Fideliter excubat; e i suoi pregi geografici e morali sono compresi nell’ampio significato della scritta Terrae marisque dives.

Brindisi ha sulla sua impresa il massacro sormontato da due colonne coronate all’antica. La sua leggenda definisce il suo sito, dalla natura e dalla nazione fatto porto di molta importanza pei commerci fra l’Oriente e l’Occidente; Statio tutissima nautis.

La gloriosa ed antica Taranto ha in capo allo scudo la conchiglia intercalata col nome Taras, e il il corpo dell’impresa è il Taras sul delfino. La scritta Armamentarium Italicun accenna il suo nuovo destino, che ci desta le sue memorie di guerra nel mondo romano.

Gli spazi della cornice, che si avvicinano a questi gruppi, sono adorne di cose allusive alle rispettive leggende.

Pensando che i due stati supremi a cui si riduce la vita dei popoli sono la Pace e la Guerra (domi belliqua) collocai ne’ due centri dei lati verticali di questa cornice i due simulacri della Pace e della Guerra: la prima fra le parole di Silio Italico:

Pax optima rerum

Quas homini novisse datum…

… Pax custodire salutem

Et cives acquare potest

 

la seconda fra quelle di Epaminonda riferite da Plutarco:

Pax Bello paratur, nec tam eam tueri licet nisi cives… ad Bellum instructi.

 

Nel lato superiore è fissata da due borchette la pergamena coll’Indirizzo contornato da meandri d’oro, e adorno del piccolo mezzobusto dell’Italia miniato nell’iniziale.

Questa pagina è alquanto accartocciata nei due angoli del lato inferiore, sicché scuopre due paesi lontani in basso del quadro sul quale scende. In uno, le piramidi e le pagode indicano l’Oriente; nell’altro il Campidoglio e il Vaticano rappresentano l’Italia nelle due grandi epoche della sua storia. Fra queste due scene intercedono campagne, ponti e mare, e corrono locomotive e battelli.

Nel centro di questo lato siedono due putti tenendo lo stemma della città di Otranto, che dà il nome a tutta la Provincia; la quale cole nuove strade ferrate avvicinerà più comodamente di prima Alessandria d’Egitto a Roma. La leggenda di questa parte è:

Distantia jungunt.

Finalmente il quarto lato superiore, che chiude il quadro, ha nel centro un piccolo monumento, in cui vedesi in bassorilievo il ritratto del rinomato Ministro, ed intorno tre genietti che mostrano i fatti principali della sua vita pubblica, scritti in cartelle: la Quistione della Moneta, l’Abolizione della tassa sui cereali, l’Abolizione del Corso Forzoso. Sul piccolo imbasamento vi è questa epigrafe in lettere di oro:

AUGUSTINUS . MAGLIANIUS

Aerarii . Italici

Serbator . et . Auctor

MDCCCLXXXII

 

La composizione di questo gruppo è tratta dalle parole dell’Indirizzo, che sono queste:

«Di tanta importanza è il fatto che voi sì generosamente compiste, o Signore, e la nostra Provincia vuole tramandarlo ai posteri, come un’altra fra le corone del merito civile che vi tributa l’Italia.»

 

Quindi vedesi la Provincia di Terra d’Otranto, che pone una ghirlanda d’alloro sul ritratto del Ministro, il quale, secondo l’epigrafe, rammenterà nella storia un’era prosperevole delle finanze del Regno d’Italia.

Su questo lato della cornice, ch’è il principale, vi è la scritta dedicatoria:

Sunt heic suae praemia laudi.

 

Mi pare conveniente che la cornice di legno, che racchiude il quadro, non fosse un ornamento senza significato, e per gli angoli mi giovai del delfino che morde la mezzaluna, e che, posto sui pali di rosso e d’oro, è lo stemma della Provincia.

 

ESECUZIONE

Posciacché ebbi determinata l’idea e la forma, pensai che le opere d’arte, quando giungono ai nepoti, manifestano la mente degli avi non solo, ma anche il grado della loro cultura; imperciocché parlano (a chi sappia bene intendere) direttamente per mezzo della rappresentazione, e con vivacità maggiore nel loro linguaggio estetico, ed anche coi mezzi tecnici, senza bisogno di alcuna parola, absque ulla literarum nota. Quindi cercai, per quanto mi fu possibile, che l’esecuzione fosse tutta lavoro del paese che l’offriva; affinché come pianta indigena mostrasse quale fosse la nostra natural disposizione, e quale lo stato di cultura quando si fecero queste memorie. E però, giovandomi dell’assoluta libertà, che cortesemente mi era data per compiere l’incarico, mi parve giusto e bello scegliere giovani leccesi; tanto più che ben sapeva come dell’opera loro mi sarei giovato con felice affetto.

È vero che quanto io richiedeva era ben poco a mostrare tutto il loro valore; ma tanto bastava al mio intento: varcare i limiti sarebbe stato per lo meno inopportuna abbondanza.

 

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Eugenio Maccagnani, già conosciuto in Italia per opere premiate e di grandi proporzioni, modellò la Medaglia colla grandiosità scultoria, che anche in piccolo ti fa vedere il colossale; ciò ch’è mirabile pregio della glittica e della cultura.

Questo valente giovine, per lunghi e severi studii fra i tesori antichi di Roma, sa giovarsi della forma greca, sicché ne veste l’idea senza sforzo e senza pedanteria. Lo Spartaco, il Mirmillone, l’Aspasia, il Primo Bagno sono opere sue che ciò provano abbastanza.

Nella Medaglia al Ministro MAGLIANI egli ci fa vedere come la stessa mano, che tratta il mazzuolo e la gradina nei monumenti colossali, sappia pure maneggiare la stecca delicata per modellare le piccole forme di una medaglia e di una gemma.

Egli ha ritratto il MAGLIANI colla massima somiglianza, ricercando con sommo giudizio tutti quei minuti e vivaci particolari, di cui si compiace il naturalismo; ma conservando sempre la larghezza della forma scultoria: e ciò non riesce facile a chi non sia nato col sentimento della scultura.

 

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Egli è facile intendere che quando l’opera dello scultore vien trasportata nelle piccole proporzioni del conio dall’incisore, deve subire tutti i pericoli di un testo che passi alla traduzione. Se l’incisore non è artista capace, d’interpretare bene il modello può avvenire che, malgrado la somma diligenza del suo lavoro, faccia sì che lo scultore non vi riconosca più l’opera sua.

Il calco del Maccagnani fu inciso da Giovanni Vagnetti artista degno della sua Firenze. Se fosse mestieri rilevare un ignoto, mi basterebbe apporre qui il catalogo delle medaglie da lui eseguite per celebrare uomini e fatti memorandi della nostra storia: ma il Vagnetti è omai noto abbastanza. A noi occorre dire che il tipi del Ministro MAGLIANI è stato inciso da lui con giusta lode per altre simili onoranze. Ecco perché egli ha saputo capire ogni piano ed ogni piccola modellatura del bassorilievo dello scultore, sicché l’opera sua ha tutto quel pregio che noi qui accenniamo di volo, perché senza la Medaglia non può gustarsi cola sola fotografia.

Sono lieto di avere avuto fra i miei concittadini un distinto valentuomo della mia direttissima Firenze; ma mi duole che l’arte d’incidere le medaglie non si trovi fra noi; e vorrei che sorgesse alcuno ben disposto a coltivare questo ramo dell’arte scultoria severo e difficile quanto necessario ai lumi della storia; cosicché queste mie parole restassero a provare che, quando la nostra Provincia coniava la prima medaglia commemorativa, cominciava allora a coltivarsi quest’arte da tanta età spenta fa noi, dopo i conii bellissimi delle antiche medaglie Tarentine.

 

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L’ornamento della pergamena cercai che avesse un carattere ricco ma serio, e lo volli monocromo, eccetto nei festoncini dei fiori, procurando l’effetto nel giuoco dei piani e della luce. A questo si porge benissimo il barocco elegante della decorazione della nostra architettura del secolo XVII; ed io mi attenni a quel gusto, anche per dare con ciò il tipo dell’arte nostrana.

Questa parte fu da me affidata al signor Pietro De Simone, giovine anch’esso, e leccese come il Maccagnani.

Il De Simone pittore, miniatore e calligrafo ha molto lavorato in Roma per distinte ed onorevoli commissioni. Egli condusse questa pergamena con quel grado di esecuzione che si richiedeva, secondo quel ch’egli ha appreso da pregevoli modelli, lasciando, cioè, quel tormentoso meccanismo che talora raffredda e distrugge l’effetto per la noiosa lisciatura. Che il De Simone abbia ciò fatto con lodevole accorgimento, si vede bene, osservando che, dove l’arte lo richiedeva, egli è stato minuto e diligente miniatore.

Merita lode anche la sua fermezza di mano, e la nitidezza del carattere; che io scelsi di forma latina, come è nei codici del buon secolo, perché la leggiera eleganza, e le bizzarrie e la destrezza di mano nei ghirigori della calligrafia moderna male si addirebbero alla serietà dell’Indirizzo ed alla severa maestà della lingua latina delle epigrafi che accompagnano le figure.

 

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L’intaglio della cornice è lavoro del signor Giuseppe De Cupertinis, anch’esso leccese, giovine distinto con premii riportati per opere d’intaglio in legno. Egli è il primo che fa risorgere fra noi quest’arte decorativa, già spenta coi nostri arcavoli, che ci hanno lasciato pregevoli lavori qua e là in alcune chiese ed in qualche antica mobilia. Quel poco che finora ha fatto qui il De Cupertinis ne assicura ch’egli impianta la sua scuola con prosperi auspicii. Così possano i ricchi persuadersi del sapiente consiglio del Venosino:

Nullus argento color est avaris

Abdito terris, inimice lamnae

… nisi temperato

Splendeat usu;

 

e intendano una volta che l’uso più bello, e più nobile dell’argento è quello che giova ad incoraggiare le arti e le industrie del proprio paese.

 

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Queste mie schiette e libere parole ai valenti giovani, che condussero con tanto amore questo lavoro, valgano ad argomento dell’affetto con cui la loro patria corrisponde a quelli che seppero attuare gloriosamente le speranze che le fecero concepire nei loro primo anni.

Intanto io vorrei che ciò fosse grato anche a tutti gli altri loro confratelli d’animo e d’ingegno eletto, dai quali si spera che sieno ravvivate, a seconda dei nostri tempi, non solo le Arti del Bello, ma altresì tutti i rami delle arti fabbrili, che solo da quelle possono ricevere grazia, bellezza, e quindi aumento di valore.

Così la cura e il dispendio della nostra Provincia, adoperati a facilitare colle strade ferrate il commercio dei nostri lavori, non saranno sprecati per un popolo infingardo, che non sappia offrire altro che i prodotti del suo terreno, fecondo non tanto per opera dell’uomo quanto per sua natura.

Grave danno e somma vergogna sarebbe certamente se i mezzi commerciali che andiamo procurando, invece di servire ad un florido scambio delle nostre opere industriale cin quelle de’ nostri vicini, non servissero ad altro che a renderci più facile il viaggio per pagare, quale tributo della nostra ignoranza, il prezzo dei prodotti dell’altrui cultura, restando noi sempreppiù oppressi dalla ignavia e dalla sonnolenza.

Pensiamo che se noi Italiani fummo forti e longanimi nel cospirare; se fummo coraggiosi e fieri nel combattere, e riconquistammo l’indipendenza politica, non però abbiamo fin  qui riguadagnato la nostra antica indipendenza dalle arti, e dalle industrie dello straniero. Pur troppo siamo ancor scoperti da questo lato agli assalti di quelle: assalti assai più funesti delle armi, perché non uccidono di un colpo solo, ma fanno morire nella fame, dopo averci fatto lungamente agonizzare nella corruzione.

Intanto gli è certo che oggigiorno il progredire ci costa assai meno di quel che ci costava prima; imperciocché la nostra attività non è più rannicchiata e costretta entro la cerchia di una città o di una provincia, come quando ci univa la comune sventura.

In quello stato miserando divisi, spogliati, collo straniero sul collo, e costretti a diuturne umiliazioni, eravamo quasi per perdere ogni speranza di far bene e perfino la coscienza del nostro ingegno. Ma ora lo sviluppo delle nostre forze morali non ha nessuno impedimento. Al regno che premiava gl’ingegni coll’esilio, col carcere, colla ghigliottina, è succeduta la Patria che si adopera sollecita con ogni studio a favorirli.

Quindi è che per non vi ha più scusa, e siamo responsabili in faccia all’Italia, come l’Italia alla presenza delle altre nazioni.

Ed a me pare che la responsabilità di noi Italiani moderni abbia questo di proprio: ch’essa è tanto più grande in confronto di quella degli altri popoli, quanto sono più gloriose in confronto delle altrui le nostre antiche tradizioni. Se gli altri rivolgono lo sguardo al loor passato possono sempre vantarsi di avere progredito riguardo ai primi passi del loro incivilimento; ma noi non potremo mai vantarci di camminare avanti se prima non saremo tornati quelli che fummo quando gli altri si affaticavano a raggiungere la nostra cultura.

Ma speriamo ed operiamo fermamente. Egli è certo che non è spento in noi «il fondamento che natura pone». Egli è certo che vi è la libertà della stampa, e che si vanno sempreppiù stendendo ed incrociandosi per tutto il Bel Paese le fila de’ telegrafi e le rotaie delle strade ferrate.

 

* pubblicato su Il Filo di Aracne

Una nuova edizione per la Fondazione. Nardò e i suoi

Nardò e i suoi

Con cerimonia privata, cui si accede per invito, sarà presentato e distribuito questa sera l’ultimo lavoro inserito tra le pubblicazioni della Fondazione, Nardò e i suoi. Studi in memoria di Totò Bonuso.

Un volume di 400 pagine, cartonato, in formato 24×30 cm, con saggi tutti riguardanti Nardò, a cura di Marcello Gaballo, presentazione di Luciano Tarricone. Edizione non in vendita. ISBN: 978-88-906976-5-4.

Saggi di Francesco Giannelli, Armando Polito, Maurizio Nocera, Gian Paolo Papi, Giuliano Santantonio, Fabrizio Suppressa, Paolo Giuri. Giovanni De Cupertinis, Marcello Gaballo, Stefano Tanisi, Alessandra Guareschi, Alessio Palumbo, Elio Ria, Maurizio Geusa, Pino De Luca, Letizia Pellegrini, Massimo Vaglio, Valentina Esposto, Daniele Librato, Mino Presicce, Pippi Bonsegna.

 

 

Luciano Tarricone, presentazione ……………………….……………………………………. p. 1
Francesco Giannelli, Tracce di preistoria e protostoria nel territorio di Nardò …… 5
Armando Polito, Un toponimo sulla riviera di Nardò: la Cucchiàra ………………….. 11
Maurizio Nocera, Della tipografia e dei libri salentini ……………….……………………. 15
Gian Paolo Papi, La “Madonna di Otranto” in territorio di Cascia
tra i possibili lavori del neritino Donato Antonio d’Orlando ……………………………… 29
Armando Polito, Antonio Caraccio l’Arcade di Nardò ……………………..……………… 41
Giuliano Santantonio, Ipotesi di attribuzione di alcuni dipinti
a Donato Antonio D’Orlando, pittore di Nardò ………………………………………………. 67
Fabrizio Suppressa, Torre Termite, la masseria degli olivi selvatici …………………. 81
Paolo Giuri – Giovanni De Cupertinis, Il seminario diocesano di Nardò dal xvii al xix secolo …………………………………………………………………………………………………….. 91
Marcello Gaballo, Un’architettura rurale impossibile da dimenticare.
Lo Scrasceta, dalle origini ai nostri giorni ………………………………………………………101
Stefano Tanisi, Lo scultore leccese Giuseppe Longo
e l’altare di San Michele Arcangelo nella Cattedrale di Nardò ………………….……… 117
Marcello Gaballo, Achille Vergari (1791-1875) e il suo contributo
per debellare il vajolo nel Regno di Napoli ……………………………………………………. 131
Alessandra Guareschi, L’arte “nazionale” di Cesare Maccari nella Cattedrale di Nardò ………………………………………………………………………………………………………. 147
Alessio Palumbo, Il mito di Saturno in politica: le elezioni del 1913 a Nardò ………………………………………………………………………………………………………. 185
Elio Ria, Piazza Salandra, un esempio di piazza italiana. ……………………………….. 193
Maurizio Geusa, Uno sconosciuto fotografo di Nardò al servizio dell’Aeronautica Militare ……………………………………………………………………………………………………… 199
Pino De Luca, Histoire d’(lio)……………..…………………………………………………………. 227
Letizia Pellegrini, Scritture private e documenti.
L’archivio privato di Salvatore Napoli Leone (1905-1980) ………………………………… 231
Massimo Vaglio, Olio e ulivi del Salento ………………..………………………………………. 257
Maurizio Nocera, Diario di un musico delle tarantate. Luigi Stifani di Nardò …………263
Valentina Esposto – Daniele Librato, L’archivio storico del Capitolo
della Cattedrale di Nardò. Inventario (1632-2010) ……………………..……………………. 289
Mino Presicce, Edizioni a stampa della tipografia Biesse di Nardò (1984 – 2015) …377
Pippi Bonsegna, Ricordo di Totò Bonuso una vita per il lavoro… e non solo

 

Deportati salentini leccesi nei lager nazifascisti

cover patiluceri

di Gianni Ferraris

Dopo l’otto settembre 1943, l’armistizio di Cassibile l’esercito italiano si ritrovò sbandato, senza più ordini. Il Re e Badoglio fuggirono vilmente a Brindisi lasciando l’Italia intera senza guida. I militari avevano due possibilità: aderire alla Repubblica di Salò e rimanere alleati dei nazisti, oppure prendere altre strade, ribellarsi, sbandarsi, salire in montagna con i partigiani. La stragrande maggioranza decise di abbandonare la sciagura della guerra e l’infamia del nazifascismo, solo il 10% accettò l’arruolamento nella bande di Mussolini e Hitler, molti si aggregarono ai partigiani, chi riuscì tornò a casa, moltissimi vennero disarmati e considerati dai nazisti “prigionieri di guerra”.  Per loro era valida la Convenzione di Ginevra, i nazisti, nella loro viltà, decisero di non rispettarla chiamando i prigionieri IMI (Internati Militari Italiani) e deportandoli nel lager, la Germania di Hitler aveva bisogno forza lavoro a costo zero. Infami nell’infamia.

Quanti furono gli IMI italiani ce lo dice uno studio di  Pamieri e Avagliano:

«In pochi giorni i tedeschi disarmarono e catturarono 1.007.000 militari italiani, su un totale approssimativo di circa 2.000.000 effettivamente sotto le armi. Di questi, 196.000 scamparono alla deportazione dandosi alla fuga o grazie agli accordi presi al momento della capitolazione di Roma. Dei rimanenti 810.000 circa (di cui 58.000 catturati in Francia, 321.000 in Italia e 430.000 nei Balcani), oltre 13.000 persero la vita durante il brutale trasporto dalle isole greche alla terraferma. Altri 94.000, tra cui la quasi totalità delle Camicie Nere della MVSN, decisero immediatamente di accettare l’offerta di passare con i tedeschi.

Al netto delle vittime, dei fuggiaschi e degli aderenti della prima ora, nei campi di concentramento del Terzo Reich vennero dunque deportati circa 710.000 militari italiani con lo status di IMI e 20.000 con quello di prigionieri di guerra. Entro la primavera del 1944, altri 103.000 si dichiararono disponibili a prestare servizio per la Germania o la RSI, come combattenti o come ausiliari lavoratori. In totale, quindi, tra i 600.000 e i 650.000 militari rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi »

E il Salento leccese come è stato interessato dai deportati IMI? Finalmente c’è materiale di studio, Ippazio Antonio Luceri con una colossale opera di 600 pagine ha elencato nomi, schede e numeri della sciagura. “Deportati Salentini Leccesi nei lager nazifascisti”  restituisce memoria e dignità a questi patrioti, i numeri impressionanti.

cover patiluceri - Copia

La dettagliata presentazione di Maurizio Nocera inquadra storicamente gli eventi, mette in fila le date della sciagura del ”secolo più violento” il ‘900. In particolare ci ricorda come la storia dei campi di concentramento non fosse stata solo nazista, ma riguardò l’Italia. Estrapolo il passaggio di Nocera in proposito:

“…5 settembre 1938, R.d.l. n. 1390, Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista;

23 settembre 1938, Rdl. n. 1630, Istituzione di scuole elementari per fanciulli di razza ebraica;

17 novembre 1938, Rdl. n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana;

15 novembre 1938, Rdl. n. 1779, Integrazione e coordinamento in un unico testo delle norme già emanate per la difesa della razza nella scuola italiana;

9 febbraio 1939, Rdl. n. 126, Norme di attuazione relative ai limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale e commerciale per i cittadini di razza ebraica.

4 settembre 1940, Mussolini emana il decreto definitivo che istituiva i primi 43 campi di internamento per gli ebrei, gli antifascisti, i rom e i sinti, gli omosessuali e i minorati. Furono immediatamente recuperati differenti luoghi di detenzione, spesso dei reclusori isolati dalle città e dai luoghi di vita civile. È superfluo descrivere com’erano fatti questi luoghi di confinamento, perché la letteratura in merito è molto ricca e basta fare un semplice clic su internet per leggere l’abnorme livello di miseria e di abbandono. In Italia furono alcune decine di migliaia gli internati nei 400 campi di concentramento prima di venire spediti nei lager nazisti tedeschi.

Alcuni di questi campi sono ormai noti e su di essi non mancano gli studi di approfondimento specifici. Eccone qui elencati alcuni: Agnone, Aosta, Alberobello, Ariano Irpino, Bagni di Lucca (Lucca), Bagno a Ripoli, Bioano, Calvari di Chiavari, Campagna (Salerno), Casacalenda (solo femminile), Casoli, Castel di Guido (Roma), Città Sant’Angelo (Pescara), Civitella della Chiana (Arezzo), Civitella del Tronto, Colfiorito di Foligno (Perugia), Corropoli, Fabriano, Farfa Sabina (Rieti), Ferramonti di Tarsia (Cosenza), Ferrara, Fertilia (Sassari), Forlì, Fraschette di Alatri (Frosinone), Gioia del Colle (Bari), Isernia (Campobasso), Isola del Gran Sasso, Istonio (Chieti), Lama dei Peligni, Lanciano (Chieti) (due campi, uno maschile e l’altro femminile), Lipari (Messina), Manfredonia (in un ex mattatoio), Montalbano (Firenze), Montechiarugolo (Parma), Monteforte Irpino, Nereto, Notaresco, Piani di Tonezza (Vicenza), Petriolo (Macerata) (solo femminile), Pisticci (Matera), Pollenza (solo femminile), Ponticelli Terme (Parma), Roccatederighi (Grosseto), Sassoferrato (Ancona), Scipione di Salsomaggiore, Solofra (Avellino) (solo femminile), Servigliano (Ascoli Piceno), Sforzacosta Sondrio, Tollo (Teramo), Tortoreto, Tossicia, Treia (solo femminile), Trieste, Tremiti (Foggia), Urbisaglia (Macerata), Ustica (Palermo), Vinchiaturo (Campobasso) (solo femminile), Verona, Vo’ Vecchio (Padova). Il più noto fra tutti questi campi fu la famigerata Risiera di San Sabba a Trieste, in un primo momento classificato come campo di polizia e di transito, dove si perpetrarono torture, esecuzioni capitali e lo sterminio di ebrei e comunisti (oltre 5000) infornati e cremati nel forno di cui era provvisto quell’impianto industriale. Altri campi di polizia e di transito verso la Germania furono quelli di Fossoli, Gries e Bolzano e provincia, attraverso i quali transitarono più di 11 mila deportati italiani”

E così Ippazio Antonio (Pati per gli amici) elenca un rosario che pare infinito:

7158 nomi, cognomi, schede compilati da Pati.

581 deceduti fra questi

421 in prigionia nei campi di concentramento nazisti,

156 morti nei naufragi delle navi: Petrella, Donizetti, Oria, Sinfra partite dai porti di Rodi, Creta, Cefalonia, Leros, Scarpantos, Coo. 4 vennero fucilati mentre tentavano la fuga,

6 morti al loro ritorno in patria per malattie contratte a causa della

Queste ricerche hanno impegnato Pati per lunghi anni, ha spulciato archivi storici, Istituti Storici della Resistenza, Archivi Vaticani ecc.  e questo è suo il terzo volume dedicato agli antifascisti, partigiani, combattenti e deportati salentini.

Come si evince dai numeri siamo di fronte ad una vera e propria sciagura, una strage perpetrata con metodo. Gli IMI vennero ignorati per molto tempo, anzi, in molti casi, al loro ritorno in Patria,  vennero definiti “imboscati” come dice  Luceri nella prefazione, invece, secondo l’autore, erano:

“RESISTENTI, a tutto tondo, pur essendo stati etichettati come “imboscati”, per molto tempo, con affermazioni a dir poco umilianti, offensive, ancora una volta disumane, soprattutto quando ci si accorgeva che, per molti ma soprattutto per il potere costituito, il loro sacrificio era stato inutile, come ha ben documentato il Lazzero Ricciotti. Che non avevano collaborato con i nazifascisti ma non avevano nemmeno impugnato un’arma per combatterli e continuo, sempre con il Ricciotti, “I partigiani parlano nelle piazze di combattimenti e di nemici sterminati. Gli scampati, invece, parlano soltanto della fame che li ha sterminati”.

Un libro importante per la memoria, dedicato a quanti nel mondo stanno soffrendo la galera, le torture per una società equa. Fra questi Luceri cita nella presentazione: “…  i nomi di BIASCO Rocco di Alliste, COSTA Alberto di Alezio, COSTA Umberto di Matino ed ELIA Pantaleo di Vernole. Sono i nomi di quelli che non ce l’hanno fatta, essendo stati scoperti e pertanto fucilati, durante il tentativo d’evasione…”

 

Ippazio Antonio Luceri – Deportati Salentini Leccesi nei lager nazifascisti – Grafiche Giorgianni pagg. 600

 

Per quanto riguarda il prezzo il discorso è apertissimo, Pati Luceri vuole diffondere e divulgare, scrive nella prefazione:

“il libro si aggira intorno alle 600 pagine e il prezzo per un libro di tal formato e dimensioni, nelle librerie si aggira intorno alle 100 euro.

Ho ricevuto un contributo di 2800 euro e ciò mi permette di abbassare i costi di 28 euro. Ma la mia ricerca non è finalizzata a lucrare su chi ci HA DONATO la LIBERTÁ e pertanto lo diffonderò a prezzo politico. Mi si dia – come dico SEMPRE – quello che si può e si vuole dare e se qualcuno non può permetterselo e ci tiene a farlo divulgare, LO CHIEDA GRATUITAMENTE: (questo è il mio numero telefonico: 339.8277593).”

Gli altri volumi di Pati Luceri:

Partigiani, antifascisti e Deportati di Lecce e Provincia

Partigiani e antifascisti in Terra D’Otranto

Giuseppe Libertini, uno dei più attivi personaggi del Risorgimento salentino

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di Maurizio Nocera

 

Si è celebrato il 140° anno della morte di Giuseppe Libertini, noto personaggio del Risorgimento salentino, insieme a Sigismondo Castromediano, Bonaventura Mazzarella, Epaminonda Valentino, Antonietta de Pace ed altri illustri uomini di stampo liberale.

Giuseppe nacque a Lecce il 2 aprile 1823 da Luigi, ricco proprietario terriero, e da Francesca Perrone. Sin da studente si distinse per i suoi pensieri libertari che gli costarono gridate e punizioni a scuola. Ultimati gli studi inferiori, rimase per qualche tempo nella sua città natale ed ebbe modo di conoscere, frequentando il caffè Persico e la legatoria Bortone, alcuni noti esponenti liberali leccesi, come il medico Gennaro Simini, Gaetano Madaro, Pasquale Persico, Salvatore Stampacchia, Domenico Lazzaretti, Epaminonda Valentino, Carlo D’Arpe e Bonaventura Forleo. In questi luoghi, in verità non molto sicuri, i liberali leccesi discutevano della politica asfittica dei Borbone e dei fermenti liberali provenienti da varie nazioni europee, in particolar modo dalla Gran Bretagna e dalla Francia. Si leggevano e si commentavano i proclami e le epistole di Giuseppe Mazzini, che, erano per buona parte condivise.

Nel 1844 il giovane liberale si trasferì a Napoli e frequentò, senza grande profitto, le lezioni di Economia all’Università. Data la sua intensa attività politica, uscì fuori corso e finì per abbandonare gli studi.  Dopo aver conosciuto il De Sanctis, lo Spaventa e il d’Ayala, Giuseppe compose un dramma a sfondo patriottico, ma le autorità non gli concessero la diffusione e la rappresentazione teatrale. Tornato a Lecce nel 1847, Giuseppe riprese i contatti con gli esponenti del liberalismo salentino.

A fine gennaio 1848, Re Ferdinando II concesse finalmente la tanto invocata Costituzione. In ogni parte del Meridione furono organizzate in pompa magna feste in onore del grandioso evento. A Lecce fu proprio Giuseppe a promuovere l’iniziativa il 21 febbraio in Piazza Sant’Oronzo, che per l’occasione era gremita da una marea festosa di salentini. Ma le promesse del Re, però, per buona parte furono osteggiate dai nobili e dai vari funzionari dell’amministrazione statale. La situazione cominciò a degenerare e i rapporti tra costituzionalisti liberali e i monarchici andarono sempre più inasprendosi. Ciò nonostante, furono indette le elezioni per la costituzione della Camera dei Deputati. Il clima era teso in tutto il Regno perché si temevano eventuali brogli elettorali. Infatti fu proprio Giuseppe uno dei firmatari della protesta presentata al ministero dell’Interno contro alcune irregolarità riscontrate nelle votazioni da parte di alcuni ufficiali della Guardia Nazionale.

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Il clima si fece rovente ed incerto. Il Re tentennava ed era mal disposto a concedere alcune riforme costituzionali ai deputati liberali. Per questo motivo Giuseppe, insieme a Bonaventura Mazzarella, Achille Dell’Antoglietta, Antonietta de Pace ed altri liberali, si recò nella capitale a seguire da vicino l’incerta evoluzione del momento.

All’alba del 15 maggio 1848, non avendo il Re concesso quanto richiesto dai deputati, scoppiò la scintilla della rivoluzione. Le vie intorno al Palazzo Reale furono sbarrate da barricate erette dai liberali, soprattutto in via Toledo e via S. Brigida. La sommossa durò alcune ore, ma i rivoltosi, inferiori per numero e per armamento, furono costretti ad abbandonare le postazioni e a darsi alla fuga. Le guardie svizzere, in modo particolare, si macchiarono di orrendi delitti nei confronti anche della gente inerme. Alla fine rimasero sul terreno i corpi senza vita di quasi mille persone. Giuseppe e i suoi compagni, che avevano combattuto con estremo coraggio sulle barricate, rimasero fortemente scossi da simili efferatezze e giurarono vendetta.

Rientrati a Lecce, i salentini non intesero perdere l’appena nata Costituzione e fondarono immediatamente il Circolo Patriottico provinciale, al fine di tutelare l’ordine pubblico e difendere le libertà conquistate. A presidente fu eletto Bonaventura Mazzarella, mentre a segretario Sigismondo Castromediano. Giuseppe fu tra i promotori, insieme ad altri influenti cittadini salentini

Il 12 giugno dal circolo partì un atto di Protesta (da alcuni storici l’atto è attribuito allo stesso Libertini e, forse anche, a Carlo D’Arpe e Pasquale Persico) in cui si dichiarava “illegittima, incompatibile, vergognosa la dominazione di Ferdinando II” e si affermava il diritto della nazione di affidare il governo a un comitato provvisorio.

Il 25 giugno 1848, insieme con Giuseppe Simini, Libertini prese parte, come delegato della città di Lecce, all’adunanza convocata dal Circolo costituzionale lucano per promuovere una sorta di federazione fra la Lucania e le province di Salerno, Foggia, Bari e Lecce.

Alla fine della seduta fu redatto un Memorandum (anche questo è attribuito al Libertini), in cui si invocava il mantenimento del regime costituzionale e s’insisteva su un’interpretazione progressiva e dinamica della costituzione. Dopo un infruttuoso peregrinare in alcune province della Calabria e della Lucania, Giuseppe tornò a Lecce, dove organizzò una dimostrazione popolare (15 agosto 1848) in favore della repubblica democratica. Il tentativo non determinò alcun effetto positivo, anzi fu l’inizio della fine. Le truppe borboniche entrarono a Lecce ed arrestarono alcuni noti esponenti liberali salentini, tra cui Sigismondo Castromediano e Epaminonda Valentino. Quest’ultimo morrà di crepacuore nelle fredde prigioni leccesi, dopo qualche mese di detenzione.

Giuseppe fuggì e venne ospitato da alcuni amici, che rischiarono di grosso.

Tornato a Napoli, visse in clandestinità, finché il 16 novembre 1849 fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Potenza con l’accusa di “cospirazione per distruggere o cambiare il Governo e di eccitare i sudditi e gli altri abitanti del Regno ad armarsi contro l’Autorità Reale, in maggio, giugno e luglio 1848“.

Venne processato dalla Gran Corte speciale di Potenza e difeso efficacemente dall’avvocato Bodini, tanto che fu assolto. Il successivo e fortuito rinvenimento di documenti compromettenti portò tuttavia a un nuovo processo per cospirazione (febbraio – marzo 1854), che si concluse con la condanna a sei anni di reclusione, commutati in seguito nella pena del confino.

Relegato nell’isola di Ventotene, Giuseppe diede vita in maniera fortunosa e rocambolesca a un lungo carteggio con il vecchio amico Silvio Spaventa (allora detenuto, insieme con Carlo Poerio, nella vicina isola di Santo Stefano) al quale scriveva una volta la settimana sui fatti che accadevano a Napoli e nel Regno. A sua volta lo Spaventa gli forniva altre importanti notizie.

Ottenuta la grazia nel 1856 e fatto ritorno a Lecce, il Giuseppe non tardò a prendere contatto con il comitato napoletano, di ascendenza mazziniana, guidato da G. Fanelli e L. Dragone. Ebbe così modo di svolgere un ruolo importante nella spedizione di Carlo Pisacane a Sapri. Anzi, fu proprio il Libertini a farsi carico di garantire l’appoggio da parte delle province del Salento e della Basilicata, assicurando che “al momento dell’azione diecimila e forse più saranno in campo“. Però gli eventi si svolsero in altro modo e Giuseppe non poté mantener fede alla promessa. La polizia borbonica trovò addosso al Pisacane l’epistola del Libertini, nella quale il nostro esprimeva il pieno appoggio alla causa comune di liberare il Meridione dai Borbone.

Giuseppe fu costretto a fuggire e a rifugiarsi a Corfù (settembre 1857) sotto il falso nome di Enrico Barrè.

Prima di andar via, stipulò un compromesso con il fratello Vincenzo, il quale assunse l’impegno di inviargli 40 ducati al mese, impegno che non fu sempre onorato. Infatti, nei mesi di esilio greco, per poter sopravvivere Giuseppe si barcamenò tra mille difficoltà finanziarie.

Nel marzo 1858, si trasferì a Malta, e qui Nicola Fabrizi, dopo averlo spronato a scrivere un opuscolo sulla situazione politica nel Sud d’Italia, lo spinse ad andare a Londra per incontrare Giuseppe Mazzini. Giunto in Inghilterra nel luglio del 1858, incontrò l’eroe genovese, che lo nominò redattore del periodico Pensiero e azione. Nel primo numero (settembre 1858), Libertini pubblicò l’articolo “I nostri a Salerno”, in cui si scagliava contro i giudici che avevano condannato alla pena capitale i superstiti della spedizione di Sapri.

Molto efficace fu anche un blocco di articoli, pubblicati tra febbraio e marzo 1859, sull’imminente conflitto dei Franco-Piemontesi contro l’Austria.

Nell’agosto 1859, Giuseppe Libertini, insieme a Rosolino Pilo e Alberto Mario, fece finalmente ritorno in Italia, con l’obiettivo di suscitare un movimento rivoluzionario insurrezionale nel Mezzogiorno, ma senza ottenere alcun esito. Il nostro fu costretto a rientrare in Inghilterra in quanto la sua presenza in Italia era a forte rischio. Nell’isola rimase per poco tempo, dopo le buone notizie che giungevano dall’Italia sul felice progetto di Garibaldi. Nell’agosto 1860 si trasferì a Napoli, stavolta da uomo libero, poiché Re Francesco II gli aveva concesso l’amnistia, cancellandogli la condanna all’ergastolo, inflittagli dalla Corte speciale di Salerno per i fatti di Sapri.

Agendo di concerto con Garibaldi, Giuseppe organizzò e coordinò diversi gruppi d’azione insurrezionali in Puglia, Basilicata e Calabria, in appoggio alle truppe garibaldine. In seguito, costituì con G. Pisanelli (settembre 1860) il Comitato unitario nazionale, che s’interessò, dopo la fuga di Francesco II a Gaeta, di governare per poche ore Napoli sino all’arrivo di Garibaldi (7 settembre 1860). Il dittatore, per ricompensa, gli affidò la conduzione del Banco di Napoli. Il nostro, però, rifiutò senza troppo pensare, asserendo che il suo impegno era dettato esclusivamente dall’amor patrio.

Qualche mese dopo, fondò insieme a Ricciardi, Nicotera ed altri, l’Associazione Unitaria Italiana, i cui fondamenti programmatici erano l’Unità nazionale e Roma capitale, da conseguire mediante l’azione rivoluzionaria e non quella diplomatica. Anche questo intento fallì miseramente e, addirittura, Giuseppe fu arrestato, ma dopo pochi giorni fu rimesso in libertà.

Il 27 gennaio 1861 Libertini venne eletto deputato al Parlamento nazionale per il collegio di Massafra. Si schierò con la sinistra, ma non prese mai parte attiva ai lavori, anche perché limitato da una leggera balbuzie. Nei primi anni successivi, Giuseppe riversò il suo interesse all’azione extraparlamentare.

Fu uno dei più abili ed efficaci organizzatori dell’impresa garibaldina di Aspromonte (agosto 1862), che, però, non sortì l’effetto sperato. Accettò il ruolo di intermediario nei rapporti segreti intercorsi nel 1863-64 fra Mazzini e Vittorio Emanuele II, in vista di una possibile azione per la liberazione del Veneto, ma anche questo impegno non conseguì alcun effetto positivo. Per questo motivo, Giuseppe rassegnò le dimissioni da deputato e si ritirò a Lecce insieme alla moglie Eugenia Basso.

Da quel momento abbandonò poco per volta la politica, interessandosi di fatti prettamente provinciali.

Nel 1864 fondò la loggia massonica “Mario Pagano” e ne diventò il Gran Maestro Venerabile. Da questo momento in poi s’impegnò con ogni energia a diffondere l’importanza della massoneria in Terra d’Otranto e riuscì a creare una rete articolata di logge massoniche, tanto che nella pubblicistica locale si cominciò a parlare, sempre più convintamente, di “Terzo partito” repubblicano, dopo quello liberale moderato e quello dei neri, filoborbonico e clericale.

A partire dal 1868 Libertini e i suoi incontrarono la durissima opposizione del prefetto Antonio Winspeare, inviato in provincia proprio per combattere il suo potere o quanto meno sminuirlo. Ma invano.

All’inizio degli anni settanta Libertini, un po’ malandato e svuotato d’ogni entusiasmo, soprattutto per la morte del suo caro Mazzini, si chiuse in se stesso e in un silenzio che lo accompagnò sino alla morte, che lo colse all’età di soli 51 anni. Tutti i leccesi si strinsero attorno alla sua bara in un corteo di migliaia di persone, a testimonianza dell’amore e della stima a lui riservata. Attestazioni che arrivarono non solo da parte di amici, ma anche di coloro che gli furono i rivali politici più accesi.

Oggi il grande risorgimentista è ricordato a Lecce con un monumento, eretto nella piazza a lui intitolata, sita alle spalle del castello Carlo V. Anche altri paesi salentini gli hanno dedicato strade e piazze.

La radice massonica da lui costituita e, soprattutto, fatta crescere e sviluppare oggi conta sul territorio varie diramazioni.

 

Devo molte di queste notizie al libro di Mario De Marco (discendente del Libertini per parte di madre) intitolato Giuseppe Libertini. Patriota e Fondatore delle Logge Massoniche in Terra d’Otranto/ Testi e Documenti (Lecce, Edizioni del Grifo, 2009, pp. 704)

 

Pubblicato su “Il filo di Aracne”

Gianni Ferraris e Maurizio Nocera a colloquio. Per parlare di partigiani

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di Gianni Ferraris

Il 3 aprile 2014 ANPI Lecce ha inaugurato la sede cittadina. La lotta di liberazione è sempre stata vissuta come qualcosa di lontano, che riguardava il nord. In realtà la Resistenza combattuta era lassù, il meridione era terra già liberata dallo sbarco in Sicilia in avanti. Qui si viveva l’altra Italia, a Brindisi arrivò anche il fuggiasco eccellente con tanto di corte e cortigiani. Tuttavia, faceva notare Maurizio Nocera, segretario provinciale ANPI Lecce, l’apporto dei meridionali è stato incredibilmente elevato. Dall’otto settembre molti sbandati a nord si unirono ai partigiani e prima ancora furono molti i salentini e i pugliesi che andarono ad affiancare gli jugoslavi nella lotta partigiana. Inoltre, sempre dopo l’otto settembre, numeri molto consistenti di soldati rimasti fedeli al re vennero deportati nei lager nazisti. Patrioti anche loro, non seguirono la famigerata repubblica di Salò e non si piegarono ai nazisti, rimasero fedeli al giuramento anche nonostante l’infame fuga della corte a Brindisi. Abbiamo parlato con Maurizio Nocera che, oltre alla carica ricoperta nell’ANPI, è poeta, storico, scrittore.

 

Come nasce l’ANPI di Lecce?

 

Praticamente l’Anpi di Lecce nacque all’indomani della fine della seconda guerra mondiale e alla fine della Resistenza partigiana. Uno dei promotori, che poi diverrà presidente del Comitato provinciale fino al 1993, fu Enzo Sozzo, che come partigiano operò nella zona di Imperia. All’inizio la sezione Anpi si occupò prevalentemente dell’assistenza ai partigiani e ai patrioti della guerra di Liberazione che rimpatriavano chi dai fronti di lotta, chi dai campi di lavoro e di sterminio nazisti. Successivamente, l’Anpi si occupò di tenere viva la memoria di quei salentini leccesi coinvolti nei vari fronti resistenziali. Numerosi furono gli interventi per dedicare strade e piazze ai Caduti leccesi della Resistenza.

 

La Resistenza come patrimonio del Nord, si è creduto per troppo tempo, ora però le ricerche ci dicono altro, qual è stato l’apporto del Salento leccese alla lotta di liberazione?

 

È vero, quando io sono entrato nell’Anpi negli anni ’70, era opinione comune, all’interno della stessa Anpi nazionale, che la Resistenza fosse stata solo un evento accaduto nel Nord Italia. E questo è vero perché al Nord si sono effettivamente sviluppati gli scontri e i conflitti contro i nazifascisti. Ma in quel momento nessuno aveva considerato il fatto che all’interno delle brigate partigiane vi fossero oltre a uomini e donne del Nord, anche uomini e donne del Sud. Fu Aldo Moro, membro d’onore dell’Anpi nazionale, che nel 1975, in un memorabile discorso tenuto al Petruzzelli di Bari, che fece capire a tutti che la Resistenza era stata un evento che aveva coinvolto l’intero paese, in quanto alla lotta antinazifascista avevano partecipato molti uomini e donne del Sud. Si trattava spesso di militari che, dopo l’8 settembre 1943 (armistizio tra gli alleati e la monarchia sabauda) rimasti senza comandi superiori e quindi allo sbando, avevano dismesso la diviso e si erano aggregati alla bande partigiane per combattere e ridare all’Italia quell’onore che Mussolini e la monarchia avevano gettato nel fango.

 

Di tutto questo non si è parlato per moltissimi anni, solo ora vengono fuori storie, numeri e nomi. Come mai questa reticenza?

 

Sì, è vero, in parte si è trattato di una ritardata presa di coscienza da parte della stessa Anpi, ma sostanzialmente il non riconoscimento del contributo dato dal Sud alla lotta di Liberazione fu dovuto al subdolo comportamento del partito egemone in Italia dopo la seconda guerra mondiale, cioè la Dc, il cui governo si protrasse per circa 50 anni, che, succube degli interessi imperialisti degli Stati Uniti e della Nato, e per una supposta paura di una ipoteca invasione sovietica del Paese, impedì quella presa di coscienza di cui sopra. In sostanza quel partito volle tenere ancora il Sud schiacciato alla sua condizione di subalternità al Nord, cosa che si era determinata sin dall’Unità d’Italia, che costò al Mezzogiorno un costo elevatissimo di sofferenze e sacrifici umani ed economici.

 

L’Anpi nazionale sta dedicando studi e ricerche ai patrioti del Meridione. Un primo convegno c’è stato a Torino. Non era meglio dare un segnale forte e farlo a sud? 

 

Anche questo è vero. Finalmente l’Anpi nazionale, con i suoi migliori studiosi e storici, sta finalmente colmando il vuoto che si era creato e molti stanno dedicando ricerche e studi specifici per quantificare il contributo dato dagli uomini e dalle donne del Sud alla Liberazione del Paese dal nazifascismo. È stato fatto un primo convegno a Torino, ma altri sono in programma non solo al Nord, ma anche qui da noi. A Lecce, per esempio, il prof. Pati Luceri, con il sostegno dell’Anpi di Lecce, ha iniziato una laboriosa ricerca per compilare gli elenchi dei Caduti, dei partigiani, delle staffette, dei patrioti, degli antifascisti, dei collaboratori, degli internati nei campi di lavoro e di sterminio nazisti. Questa sua ricerca ha visto già la pubblicazione di ben tre edizioni in volume, e tuttavia non è ancora ultima, perché ancora non sono consultabili alcuni archivi. Al momento, dalla ricerca di Luceri e della stessa Anpi di Lecce si evince che oltre 8500 sono stati gli uomini e le donne di questa provincia che hanno dato il loro contributo alla Resistenza. Come vede, si tratta di una cifra incredibile perfino a noi stessi che operiamo all’interno dell’associazione.

 

Fra pochi giorni è il 25 aprile, stiamo vivendo un periodo molto strano, il Presidente nazionale dell’ANPI ha stigmatizzato allarmato l’incontro del Presidente Napolitano con Silvio Berlusconi, condannato in via definitiva. Il governo Renzi vuole cambiare la Carta Costituzionale con i voti di parlamentari nominati e nonostante il fatto che la Corte Costituzionale abbia stabilito che il sistema elettorale con il quale sono stati eletti è anticostituzionale.  Era questa l’Italia che volevano i patrioti e i padri costituenti?

 

Quello che tu dici è l’incredibile paradosso del momento che viviamo. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, uomo i cui ideali sono di indubbia fedeltà ai valori della Resistenza e della Carta costituzionale, costretto a incontrare un personaggio squallido qual è il signor Silvio Berlusconi, uomo indegno che ha disonorato l’Italia negli ultimi 20 anni, e che ha rappresentato la continuità con l’odioso regime fascista mussoliniano. Dietro questo personaggio, arricchitosi con varie ruberie ai danni del popolo, c’è sempre stata la mano del peggiore sistema capitalista nostrano e mondiale, i cui interessi, soprattutto economico-militari, sono riconducibili alla Nato e all’imperialismo Usa. A questa parte del potere mondiale non è mai piaciuta la democrazia italiana sancita dalla Costituzione, scritta, non bisogna mai dimenticarlo, da circa tre quarti (partigiani) dei membri del comitato dei 72. Non voglio disprezzare nessuno e lungi da me dal credere che un evento di qui possa essere migliore di un evento accaduto in altre parti del pianeta, rifletto solo su una lettura fatta delle differenti Carte costituzionali dei diversi Paesi e Nazioni del mondo. Ebbene, la Carta costituzionale dell’Italia repubblicana è uno di quei fondamenti sociali più avanzati al mondo, perfino più avanzata di quella tanto decantata Carta costituzionale statunitense, ancorata ancora a ideali prerivoluzionari 1789 in Francia. È doloroso sapere oggi che anche i governi, che si sono succeduti all’odioso regime neofascista berlusconista, continuino sulla stessa strada tracciata dal sig. Berlusconi, cioè quella di voler stravolgere gli articoli fondamentale della Carta. Credo comunque che si tratti di tentativi, perché il disegno piduista, di cui il Berlusconi stesso era albero e radice, non è ancora del tutto andato in porto. Contro questo ennesimo tentativo, per di più proposto anche dall’ultimo arrivato sulla poltrona di Palazzo Chigi (Renzi), si è levata alta la voce del presidente nazionale dell’Anpi, Carlo Smuraglia, il quale ha affermato che cambiare la Costituzione oggi in senso autoritario significa tradire quei valori per i quali hanno combattuto contro il nazifascismo e sono morti i partigiani.

 

In questo quadro, qual è, secondo te, il ruolo di un’associazione come l’ANPI?

R. Primo: non far dimenticare quello straordinario patrimonio di lotta e di cultura libertaria e democratica sviluppatosi con la Resistenza. I partigiani e le staffette, i patrioti della guerra di Liberazione, e i tanti, moltissimi, che hanno sofferto la dittatura nazifascista con privazioni, sofferenze, carcere e campi di lavoro e di sterminio, non possono essere dimenticati sull’abisso dell’ignoranza di chi in questo momento domina il mondo.

Secondo: l’Anpi non è un’associaizone di privati cittadini/e dediti all’hobby del contare le stelle (contro cui personalmente non ho nulla da obiettare), ma un’associazione viva nel corpo sociale e politico del Paese. Pur essendosi dichiarata sempre apartitica, l’Anpi che, non bisogna dimenticare è stata la prima associazione della Repubblica ad essere riconosciuta Ente morale dello Stato (1946), è però un’associazione politica antifascista che interviene su ogni evento che accade a proposito degli assetti statutari dell’Italia come, ad esempio, sta facendo in questo momento, difendendo l’integrità della Carta costituzionale.

Il rapporto con la Terra, l’Arte e il Paesaggio

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di Ezio Sanapo

“ Quando gli uomini hanno grossi problemi, devono rivolgersi ai bambini, sono loro ad avere il sogno e la libertà”  

( F. Dostoevskij )

Ricominciare dalla Scuola

E’ il percorso che io e Maurizio Nocera in collaborazione con “LE STANZIE Agriturismo” stiamo facendo, a cominciare dall’Istituto comprensivo di Supersano che comprende anche i comuni di Nociglia, Botrugno e S.Cassiano.

I temi che porteremo all’attenzione degli  studenti delle scuole elementari, medie ed insegnanti sono:

 Il rapporto con la Terra, l’Arte e il Paesaggio.

La Terra come matrice della nostra esistenza, l’Arte come regolatrice delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti e il paesaggio come testimonianza della nostra identità e della nostra storia.

Queste tre importanti e indispensabili componenti della nostra vita sono sottoposte, in questi ultimi decenni all’abbandono e al degrado.

Lo scopo è rimodulare con esse un rapporto nuovo, partendo dai bambini che, oltre ad essere più sensibili e ricettivi, hanno più di ogni altro la possibilità di coinvolgere gli adulti.

Chiunque può unirsi all’iniziativa e contribuire ad allargarla per coinvolgere tutto il nostro territorio.

Maurizio Nocera, LE STANZIE” ed io ringraziamo le ditte di artigiani che su nostro invito si sono unite per eseguire gratuitamente la pitturazione dei locali della scuola in occasione della manifestazione.

 

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ISTITUTO COMPRENSIVO

(Botrugno – Nociglia – S. Cassiano- Supersano)

IL MONDO CHE VORREI

Terra- Arte- Paesaggio

L’umanità sa, l’ha sperimentato sulla propria pelle, che un mondo ideale, perfetto, luminoso, nella realtà non esiste, come pure sa che esso è difficilmente raggiungibile. Tuttavia, essa sa pure che un tale mondo ideale irraggiungibile possa essere ugualmente perseguibile, e per questo s’impegna quotidianamente e vive nella speranza di un domani migliore.

Oggi sappiamo che il pianeta sul quale viviamo non è più in buone condizioni fisiche, molti acciacchi lo tormentano e, purtroppo, la causa di questi suoi mali è dovuta a scelte sbagliate fatte da noi stessi umani.

Qualcuno oggi si è accorto di tutto questo e cerca con infinita umiltà di correre ai ripari, rimodulando il suo rapporto con la TERRA, col PAESAGGIO e con l’ARTE, partendo proprio da quello che è sempre stato (ed è) l’humus vivo della stessa umanità: i giovani, gli studenti e tutti coloro che amano sentirsi partecipi di un nuovo processo di rivitalizzazione del pianeta Terra.

All’interno di questa progettualità, l’ISTITUTO COMPRENSIVO di SUPERSANO (Scuole Elementari e Medie),  LE STANZIE e l’artista EZIO SANAPO, hanno pensato bene di proporre una serie di eventi per dare il loro contributo alla rivitalizzazione del proprio territorio e del Salento.

20 dicembre 2013

-SUPERSANO-

Aula Magna

                    ISTITUTO COMPRENSIVO SUPERSANO

Ore 9,00: Presentazione del Progetto:

IL MONDO CHE VORREI

L’intento dell’incontro è assegnare la tematica IL MONDO CHE VORREI agli studenti per un loro elaborato (tema, poesia, disegno e altro frutto della creatività dell’età evolutiva) da consegnare entro il primo marzo 2014. Una giuria di esperti valuterà gli elaborati e, ai migliori classificati, il 22 marzo, inizio della primavera e Giornata Mondiale della Poesia, indetta dall’Unesco, assegnerà dei Premi-Libro.

 

Ore 10,00:Inaugurazione Mostra di

EZIO SANAPO

Interventi:

Prof.ssa Caterina SCARASCIA ( Preside),

Maria BONDANESE (Consigliera alla Cultura),

Franco CONTINI (Docente Accademia di Belle Arti di Lecce),

Alessandro LAPORTA (Direttore Biblioteca Provinciale),

Francesco PASCA (Critico d’Arte).

 

Ore 11,00-13,00: Convegno

LA TERRA NOSTRA GRANDE MADRE:

SALENTO DA AMARE

Interventi:

dott. Roberto DE VITIS, (Sindaco di Supersano, Saluto),

Ing. Gianni CARLUCCIO, (Proiezione diapositive su Salento da amare).

Prof. Giovanni INVITTO, (Salento Terra d’Ospitalità).

Dott. Agr. Gigi SCHIAVANO (Comitato “La notte verde Ritorno alla Terra” di Castiglione)

Coordina: Maurizio NOCERA.

 

LE STANZIE:

Ore 13,30-15,00 Ristoro ( buffet con panini e vino)

Intermezzo musicale di WALTER DELLA FONTE

Ore 15,00: Convegno

IL PAESAGGIO NOSTRO ORIZZONTE DI VITA

Dr. Giovanni GIANGRECO (Sovrintendenza Prov.),

“Il territorio urbano rurale del Salento”

Interventi:

Raffaele BAGLIVI (Architetto),

Lorenzo CAPONE (Editore),

Antonio CARLINO (Impiegato),

Mario CAZZATO (Architetto),

Ada DONNO (Presidente AWMR-Italia),

Nunzio PACELLA (Giornalista),

Vincenzo RUGGERI (Giuggianello),

Salvatore SCIURTI (Architetto),

Nello SISINNI (Architetto),

Alessandro TURCO (referente Fondazione Tonino Guerra)

altri.

Conclusioni:

Dr. Salvatore BIANCO (Ispettore Sovrintendenza Provincia di Lecce).

Coordina: Simona VARRAZZA (Portavoce “Le Stanzie”)

DI MICHELE SAPONARO …E DELLA SUA TERRA D’ORIGINE

di Maurizio Nocera

Michele_Saponaro
«Michele Saponaro – afferma Antonio Lucio Giannone, ordinario di Letteratura italiana contemporanea presso la Facoltà di Lettere  e Filosofia dell’Università del Salento, dalle cui pubblicazioni trarrò molte delle notizie sullo scrittore contenute in questo scritto – è stato uno degli scrittori di maggior successo in Italia nella prima metà del Novecento”.

I suoi libri sono stati pubblicati dagli editori più importanti del secolo passato e venivano  continuamente ristampati, ottenendo sempre un grande favore presso il pubblico dei lettori. La sua firma compariva sui principali quotidiani e su riviste prestigiose. Per oltre mezzo secolo insomma Saponaro è stato al centro della società letteraria italiana.

[…] Direi che Saponaro merita di essere letto ancora oggi perché aveva doti di autentico scrittore, al di là dell’immagine di narratore “di consumo”, che proprio il convegno [di San Cesario, marzo 2010] ha definitivamente rifiutato» (v. G. Virgilio, “Lo scrittore ritrovato”, in «il Paese nuovo», 1 aprile 2010, p. 6).

Questo giudizio su Michele Saponaro, espresso in occasione del Convegno di studi nel Cinquantenario della morte dello scrittore, tenuto a San Cesario di Lecce il 25-26 marzo 2010, è del massimo esperto in Salento sulla vita e l’opera del sancesariano. Effettivamente la produzione letteraria di Michele Saponaro, che scrisse e pubblicò anche con lo pseudonimo di Libero Ausonio, è stata vastissima, oserei dire impressionante: molti i romanzi, le biografie romanzate, i reportage, i saggi, le opere teatrali, gli articoli, e tra le tante anche delle liriche, raccolte postume in un libro del 1963. Si calcola che abbia pubblicato 42 titoli, molti dei quali con la casa editrice Mondadori, ma pubblicò anche con altri editori, tra cui Bideri di Napoli, Amalia Bontempelli di Roma, Puccini di Ancona, Vitagliano e Ceschina di Milano, sicuramente con altri ancora. Ecco perché, a guardare la sua imponente produzione scrittoria, sembra di trovarsi davanti a un autore che abbia svolto gran parte della vita scrivendo. L’amore per la letteratura e la scrittura sicuramente gli venne dalla continua frequentazione degli ambienti dei libri (biblioteche e librerie) e dalle redazioni di prestigiosi giornali e riviste. È risaputo che lo scrittore fu inizialmente impiegato bibliotecario a Catania e, successivamente, a Brera; fu redattore e giornaliste di testate come «La Tavola Rotonda» (1906-9), sulla quale pubblicò il “Manifesto del Futurismo” (14 febbraio 1909), quando ancora questo importante documento non era stato pubblicato dal quotidiano parigino «Le Figaro»; fu direttore della «Rivista d’Italia» (1918-20), giornalista di «Sera» (1924-8), «Corriere della Sera», «Stampa», «Giornale d’Italia», «Resto del Carlino», «La Gazzetta del Popolo», «Nuova Antologia», «Rassegna Contemporanea». Importante fu anche la sua partecipazione, come collaboratore (1908-9), alla rivista «Poesia», dove conobbe e frequentò Filippo Tommaso Maria Marinetti.

Come si vede, si tratta di una molteplice attività letteraria, che egli svolse per buona parte dei suoi 74 anni di vita e che, indiscutibilmente, è un dato che lo pone fra i più importanti scrittori della prima metà del Novecento.

Michele Saponaro era nato a San Cesario di Lecce il 2 gennaio 1885 e morì a Milano il 28 ottobre 1959.  Si era laureato in Giurisprudenza all’Università di Napoli nel 1906 ma, senza ombra di dubbio, il suo primo e più grande amore fu scrivere e, infinitamente, gli piacque stare nel mondo dei libri.

Col suo vero nome e, prima ancora, con lo pseudonimo di Libero Ausonio, firmò alcuni libri di un indubbio successo editoriale, quali: “Novelle del verde” (Napoli 1908) con prefazione di Luigi Capuana; “Rosalocci” (Ancona 1912); “La vigilia” (Roma 1914); “Il peccato” (Milano 1919); “Amore di terra lontana” (Milano 1920); “La perla e i porci” (Milano 1920); “Le ninfe e i satiri” (Milano 1920); “La casa senza sole” (Milano 1920); “Nostra madre” (Milano 1920); “Fiorella” (Milano 1920); “L’idillio del figliol prodigo” (Milano 1921); “L’altra sorella” (Milano 1923); “Un uomo: l’adolescenza” (Milano 1924-25); ripubblicato col titolo “Adolescenza” (Galatina 1983) a cura di Michele Tondo; “Inquietudini” (Milano 1926); “Un uomo: la giovinezza” (Milano 1926-27); “La bella risvegliata” (Milano 1928); “Io e mia moglie” (Milano 1928, 1929, 1930); “Paolo e Francesca” (Milano 1930); “Avventure provinciali” (Milano 1931); “Zia Matilde” (Milano 1934); “La città felice” (Milano 1934); “Bionda Maria” (Milano 1936); “Il cerchio magico” (Milano 1939); “Prima del volo” (Milano 1940); “L’ultima ninfa non è morta” (Milano 1948); “Racconti e ricordi” (Torino 1957/8); “Il romanzo di Bettina” (Milano 1959).

Importante la sua produzione di commedie e tragedie: “Mammina” (Milano 1912, premio naz. Sonzogno); “Sogno” (1922); “Filippo” (Milano 1954); “Andromaca” (Milano 1957); “Antigone” (Milano 1958).

Come importante fu anche la sua produzione di biografie di grandi personaggi della storia: “Vita amorosa di Ugo Foscolo” (Milano 1939); “Carducci” (Milano 1940); “Leopardi” (Milano 1941); “Mazzini” (Milano 1943-4, due tomi); “Michelangelo” (Milano 1947); “Gesù” (Milano 1949); “I discepoli” (Milano 1952, 1954).

Sua è la firma della prima guida Touring “Attraverso l’Italia. Puglia” (Torino 1937). Dall’editore Ceschina di Milano, fu pubblicato postumo il suo “Diario 1949-1959” (Milano 1962), che dà la dimensione vera dello scrittore e delle sue sconfinate relazioni letterarie.
Intensa fu la sua corrispondenza con gli autori più noti in quel momento in Italia, come Luigi Capuana, Benedetto Croce, Salvatore Di Giacomo, Giovanni Gentile, Arnaldo Momigliano, Eugenio Montale, Ada Negri, Luigi Pirandello, Giovanni Verga e altri.

I suoi numerosi carteggi li sta studiando il prof. Antonio Lucio Giannone sulla base del «prezioso Archivio dello scrittore, donato dai figli Giovanni e Silvia attraverso la mediazione di Tondo, […all’Università del Salento e conservato] presso la Biblioteca del Dipartimento di Filologia, linguistica e letteratura».

Michele Saponaro non disdegnò la politica e il fare politico, svolti sempre in un ambito democratico repubblicano e socialdemocratico (ad una delle legislatura degli anni ’50, fu candidato per il partito di Giuseppe Saragat), attento ai movimenti culturali e, quando fu il tempo dannato del fascismo, non si appiattì sulle problematiche del regime. Anzi, fu uno dei firmatari del Manifesto antifascista di Benedetto Croce. Certo fu uno scrittore amato soprattutto dalla piccola e medio borghesia illuminata prevalentemente del nord Italia, ma egli, da buon figlio del Meridione, non si fece influenzare dai costumi e dai modi di vita di quella classe, anche se non li escluse del tutto ma, al contrario, fu invece lui ad iniettare in essa molti dei sentimenti e della condizione psicologica della gente del Sud. Per questo Saponaro viene spesso indicato come l’autore di romanzi e novelle, al cui interno i personaggi sono indagati dal punto di vista esistenziale con un’attenzione quasi sempre autobiografica, che poi noi sappiamo qual era la sua condizione di figlio del Sud.

«Per il gusto naturalistico, per la tematica fortemente ancorata alla terra d’origine – scrive A. L. Giannone – i testi sono vicini ai maestri del verismo, Verga e Deledda; per il linguaggio letterariamente sostenuto paiono risentire dell’influenza di Carducci e D’Annunzio. […] Ci sono vari aspetti dell’attività […] dello scrittore che meritano di essere riscoperti. Ce ne sono almeno tre principali e altri secondari. Innanzitutto ovviamente c’è l’aspetto del narratore. Saponaro è autore di numerosi romanzi e racconti che rientrano quasi tutti […] nella categoria della narrativa d’intrattenimento, [… tuttavia] anche questa produzione di carattere più commerciale presenta notevoli motivi di interesse perché permette di conoscere concezioni, valori, ideali che si sono affermati nella società italiana, o in determinati gruppi sociali, in un preciso momento storico. […] Ma soprattutto occorre individuare il nucleo più genuino e valido della sua opera e verificarne la tenuta ai nostri giorni, perché Saponaro ebbe anche indubbie qualità letterarie che si rivelano, in modo particolare, in certi romanzi a sfondo autobiografico, nei quali è costantemente presente il motivo della terra d’origine.

Sulla tesi della sua terra d’origine come personaggio principale delle opere di Michele Saponaro, Giannone ritornerà ancora rispondendo ad una domanda dell’intervistatrice Serafino: «Il ricordo del Salento riecheggia sempre nella scrittura di Saponaro sin dal suo primo romanzo “Vigilia”, del 1914. […] A Saponaro si deve il merito di aver inserito, per la prima volta, il Salento nella geografia letteraria del Novecento» (v. Pamela Serafino, “Michele Saponaro, un raffinato narratore”, in «EspressoSud», settembre 2010, p. 27).

È una tesi questa confermata recentemente anche dallo studioso Ginò Pisanò che dello scrittore-poeta, rileggendo la sua ode “Su lo Jonio” (canto per Gallipoli), scrive: «Correva l’anno 1906 quando un giovane poeta salentino, ormai lontano dalla sua terra, la rievocava in versi sospesi fra dolente nostalgia e vitalistica coscienza» (v. G. Pisanò, “Gallipoli in un’ode barbara di Michele Saponaro”, in «Anxa news» (settembre-ottobre 2010, p. 11). Pisanò coglie bene il senso profondo dell’operare letterario di Michele Saponaro, soprattutto per quanto riguarda la sua poesia. Ecco perché, qui, mi piace chiudere proprio con un riferimento al suo libro “Poesie” (Laterza, Bari 1963), introdotto dalla bellissima presentazione di Mario Sansone e Michele Tondo, due suoi meritevoli amici, che scrivono: «Questi versi […] ripropongono i temi di affetto, di memoria, di disincanto che appaiono nella sua narrativa: un gusto autobiografico che si scioglie lentamente dalle tentazioni del moralismo e dell’ironia o di certa satira un po’ indispettita, per salire ad un timbro idillico, originale nella dosatura del sentire e del colore: un patire quieto ed accettato, ma con una sua dignità e forza, un idillismo che, se mai, trova il suo limite nelle pretese reattive e pungenti, non nell’invocato oblio della vita e delle sue responsabilità» (p. 5).

Un gusto autobiografico spesso dolente e vibrante come si effonde dalla seguente lirica: «Terra dammi le tue linfe,/ perché il mio corpo riviva/ nei tronchi, nelle radici,/ nei rinascenti germogli/ della foresta profonda./ Ecco, disteso nel solco,/ la fronte rivolta al cielo,/ sento il mio peso carnale/ solversi nella natura./ Cielo, dammi le tue ali,/ perché il mio cuore riviva/ nelle nuvole, nei venti,/ e nelle innumeri stelle/ del firmamento infinito.// (novembre 1946)» (p. 35).

 

pubblicato su Il Filo di Aracne

 

Maurizio Nocera e la contrada del poeta

caffè

di Paolo Vincenti

 

Ritorno sulla figura e le opere di Maurizio Nocera, docente, ricercatore, scrittore e operatore culturale, di cui mi sono già occupato nel mio libro del 2008 “A volo d’arsapo. Note bio-bibliografiche su Maurizio Nocera” (Il Raggio Verde Editore) e più recentemente in “Nocerancora. Postille bio-bibliografiche su Maurizio Nocera”, e-book interamente pubblicato su www.spigolaturesalentine.it, ora www.fondazioneterradotranto.it.

Questa volta prendo in esame la produzione poetica del noto intellettuale salentino. “La contrada del poeta. Più altri poemetti e poesie sparse”(Il Raggio Verde Edizioni, 2009) è una raccolta in versi che ci offre una preziosa testimonianza su una temperie culturale – che l’autore conosce bene-  ed alcuni dei suoi protagonisti che potremmo definire i “Selvaggi del Salento”, prendendo a prestito una definizione data dallo stesso Nocera.

Mi riferisco, prima di tutto, ad Antonio Verri, ma anche all’ “Excelsus Magister” Edoardo De Candia, al “fratello indio magliese” Salvatore TotòFranz Toma, e a buona parte di quella avanguardia culturale salentina che, fra gli Anni Ottanta e i Novanta, rivoluzionò il nostro quasi atrofizzato ambiente letterario (pensiamo, solo per citarne alcuni, ad Antonio Massari, insieme alla sorella Anna Maria, a Rina Durante, a Mauro Marino e Piero Rapanà, a Francesco Saverio Dodaro), attraverso la poesia, la prosa, la pittura e la scultura, le varie sperimentazioni visive e sonore, fino alle più bizzarre ed allora impensabili forme di comunicazione, creando un movimento di uomini e di donne, difficilmente ripetibile.

Una sorta di “libero cantiere culturale”, insomma, che in qualche modo ruotava intorno alla figura di Antonio Leonardo Verri, non a caso definito “battistrada storico delle avanguardie culturali salentine”, e che portò, complice e protagonista di spicco lo stesso Maurizio Nocera, ad una letteratura militante, distante e distinta da quella accademica, ad una letteratura della strada, potremmo dire, germinata da una sensibilità nuova, per certi aspetti originale, figlia dell’ ardita ma stimolante compenetrazione fra studio e vita vera. Alcuni dei protagonisti di quella generazione meravigliosa e di una stagione culturale che ha dato ottimi frutti, oggi sono scomparsi ma ne tiene viva la memoria Nocera, anche grazie a questo fastello  di versi ispirati e sinceri, come profumati fiori di campo, che compongono la presente silloge.

A partire dalla prima poesia “I tuoi capelli sono stelle filanti”, dedicata “ad A.”, probabilmente la sua compagna di vita e di lettere, Ada Donno, i cui capelli vengono paragonati a”stelle filanti, cascatelle del cielo”. La seconda poesia è “Antonio Habanero”, dedicata ad Antonio Verri “uomo dei curli e dei sibili lunghi”. E’ Cuba ad offrire l’ambientazione per questo testo, in cui Maurizio sceglie come ideale compagno di viaggio il suo grande amico scomparso, “MenhirAntonio” Verri,  e con lui intreccia un ideale dialogo, in una sorta di diario di viaggio in cui riporta impressioni, sogni, fascinazioni, incontri con negre betisse con le quali ballare una tarantella, confondendo la conga o la rumba con la salentina pizzica de core, con le gigantografie di Che Guevara che da ogni angolo guarda e scruta la vita isolana, con i locali di L’Avana vecchia, frequentati da artisti e intellettuali da ogni parte del mondo, ecc.  E non potevano mancare, fra il fumo di un sigaro e un sorso di mojto ristoratore,  non importa se veri o immaginari, gli incontri  con Gregorio Fuentes, l’amico pescatore di Ernest Hemingway, con il poeta Nicolàs Guillèn, nemico della dittatura di Battista, con quell’altro rivoluzionario del “Granma” Camilo Cienfuegos,  e con  Julio Antonio Mella, fondatore del PCI cubano e compagno di Tina Modotti. “Fuoco Odoacre, fuoco!” è dedicata al pittore leccese Edoardo De Candia “che visse una vita d’inferno e che ora se la ride in Paradiso, ma anche a Francesco Saverio Dòdaro suo complice”, così come al vichingo pittore santo bevitore è dedicata “Fintotontopazzo”, che l’autore chiama “Odoacre”, con il nome che venne usato per lui da Vittorio Pagano, la prima volta, negli anni Cinquanta, e poi da Antonio Massari nel suo libro “Edoardo” (Edizioni D’Ars, del 1998). Questo testo venne pubblicato nella raccolta  “Locandine letterarie”, edita dal Raggio Verde nel 2005, mentre il testo successivo, “Edoar Edoar”, sempre incentrato sulla figura del pittore scomparso, “l’eccessivo leccese amato”,  fu oggetto di una specifica pubblicazione edita nel 2006. Edoardo De Candia, poeta bohemien, stravagante artista del pennello, “il vichingo di Via Sabotino”, come lo definì il suo grande amico e “scopritore” Antonio Verri, per via della sua bionda chioma e della sua smisurata mole, ebbe una vita non facile. La sua città, Lecce, da vivo non lo comprese e non lo amò.

Salvatore Toma
Salvatore Toma

Nel testo, Nocera parla della di lui passione per la bottiglia, inseparabile compagna di tutta la vita, del suo abituale disincanto, della dolorosa esperienza del manicomio; e soprattutto della sua arte, dei suoi paesaggi, dei suoi nudi di donna. Purtroppo oggi Edoardo, “un cavaliere senza terra”, altra definizione data da Verri in un suo bellissimo scritto del 1988 apparso su “Sud Puglia”, non c’è più. Come non c’è più Antonio Verri e non c’è più  un altro appassionato promotore dell’arte di De Candia, Salvatore Toma, “The Great Poet”, come egli stesso amava firmarsi, a cui Nocera dedica il testo successivo “Tu sapevi del nostro atroce destino”. In questo poemetto, la figura del “pellerossa di Maglie”, l’Indio Totò “Fiore del Salento”, viene rievocata in versi che parlano di poesia, di derelitti ed emarginati, del mare salentino, di valli di profumi e acque mielate, di declari infiniti, di sibili sotterranei e colosse Betisse.

Questi versi parlano di diavoli, di briganti e odalische, di streghe, di maghi, di sauri e gufi, di civette cornute, di sigarette in bocca e sorrisi beffardi, il tutto per “Totò Franz, altrimenti detto Totò Toma”. Bellissima e struggente è anche l’altra poesia dedicata ad Antonio Massari, “La contrada del poeta”, nella quale la figura del grande pittore leccese (“il meccanico delle acque”, secondo la nota definizione di Pierre Restany) si intreccia con quella di un altro Antonio, de Sant Exupèry, autore del “Piccolo Principe”, opera molto amata da Massari.

La cifra stilistica che connota la produzione poetica noceriana consiste nel fatto che nei suoi testi, spesso abbastanza lunghi, i versi hanno una certo voluta caduta prosastica e l’inserimento di neologismi o di termini presi dal parlato quotidiano nonché di lessemi ed anche costruzioni tipicamente dialettali  spezza la loro cantabilità, ne interrompe la metodicità. “Mommens: angelo normanno” è dedicata “a Norman Mommens e Patience Gray, angeli di Spigolizzi-Presicce”. “Claudia Mesar Lì” ci porta un bellissimo e commovente ritratto della poetessa leccese Claudia Ruggeri, scomparsa prematuramente qualche anno fa. “Il fanalista d’Otranto”  è il frutto di una lunga gestazione che ha portato il suo autore  a rivedere il testo più e più volte prima di pubblicarlo in un volume, edito nella collana “I poeti de L’uomo e il mare”, diretta da Augusto Benemeglio, nel 2002. “Ho scritto questi versi”, affermava l’autore in quel libro, “perché da anni, nelle lunghe e silenziose notti invernali, quando il freddo trafigge le carni, faccio un sogno dentro al quale numerose sono le immagini del Salento; esse a volte mi svegliano di soprassalto e mi spingono a ‘volare’ ad occhi aperti su quel tratto di costa denominato Palascìa, tra Otranto e Porto Badisco. Questo è un luogo caro alla memoria, perché per lungo tempo l’ho frequentato assieme ad Antonio L.Verri, ed anche assieme a Salvatore Toma. Verri aveva paura di salire sulla torre, a Salvatore, invece, quell’unica volta che venne con noi, gli interessò solo guardare il mare.” “Crepuscolo nel mare di Gallipoli”, tolta dal libro omonimo pubblicato da Maurizio nel 2004 , per la collana “I poeti de L’uomo e il mare’”, è dedicata “ad Anxa messapica prima che romana, ad Augusto Benemeglio che la vide come ‘isola della luce’ e ad Ernesto Barba che l’amò sempre”.

Questo testo costituisce una grande dichiarazione d’amore nei confronti di Gallipoli, poiché il tugliese Nocera ha trascorso molta parte della sua infanzia -adolescenza nella città jonica, da cui proveniva la sua famiglia. Ed anche oggi, egli che vive a Lecce, rimane legatissimo alla “città bella”.

Il richiamo delle sirene gallipolitane ha  sempre esercitato una attrazione irresistibile per il poeta Nocera  ed i ritorni a Gallipoli sono sempre forieri di belle novità, di piacevoli incontri, di proficui scambi e di ottime ispirazioni. Balenano, nella notte gallipolina, fra il borgo vecchio e la città nuova, fra il Grattacielo e il mare, fra la Fontana Greca ed i bastioni, fra le mura ed il porto, lampi di genio, magiche alchimie che solo gli animi più sensibili riescono a percepire, e sembra che il destino, quel fato stravagante che avvolge la città di Gallipoli con il suo notturno mistero, abbia in serbo chissà quali nuove e coinvolgenti esperienze . Tutto ha un canto a Gallipoli, e Nocera lo avverte fra i palazzi nobiliari e le strette stradine del borgo, fra i vicoli, le corti e i bassi della città vecchia, sulla spiaggia della Purità o su quella della Baia Verde, fra le scuole ed i mille ristoranti,  fra i negozi di Corso Roma e Punta Pizzo, o sulle paranze al largo. “Mattanza di pini! Bambini” è una poesia incentrata sull’abbattimento voluto dall’Amministrazione Comunale di Lecce nel 2003 dei pini secolari che si trovavano sul Viale dell’Università, oggi ribattezzato dall’autore “Viale dei pini recisi”, e le immagini della orrenda mattanza si intrecciano, nel testo, con quelle dei bombardamenti anglo-americani in Iraq, in una sequenza quasi cinematografica in cui Lecce e Baghdad diventano teatro di identici eccidi.

“Figli, vostro padre uccidete/ La lama del tenente” è un poemetto di Maurizio Nocera ispirato  al noto capolavoro teatrale di William Sheakspeare, “Giulio Cesare”.  In questo testo, già pubblicato nel libro omonimo edito nella collana “I quaderni del Bardo” (2004), Nocera si rifà al grande Bardo del Seicento ed al suo famoso dramma, mutuandone temi ed accenti, per svolgere, traendola dalla storia romana, una trama che invece ha del moderno e dell’universale. Il tema è quello della tirannia che, da sempre, nega all’uomo il  bene più prezioso, vale a dire la libertà, e quindi del tirannicidio, visto come unica via per restituire ai cittadini i loro più elementari diritti , cancellati dall’oppressione dittatoriale. Solo che, come nell’alto modello di riferimento di Nocera, il tirannicidio, in questo caso, è anche parricidio,  ed assume quindi  una doppia valenza, fortemente simbolica, colorando con tinte ancora più fosche un quadro già di per sé tetro che, con pennellate forti e decise, l’autore del libro ha saputo comporre.

“Tu figlia non eri ancora nata” è dedicata a Tuglie, l’ameno borgo natìo del poeta. “Gocce di rugiada” e “Illuminato a Galatina” sono testi più brevi, dedicati rispettivamente a “Ciccio e Tore Pappalardi”, protagonisti di un drammatico fatto di cronaca nera avvenuto a Gravina di Puglia qualche anno fa, e a Carlo Caggia, valente intellettuale galatinese, in occasione della sua scomparsa. C’è spazio ancora per “Donna meticcia che dona amore”, “Non poesia per Carmelo Bene”, figura fondamentale e grande passione letteraria di Maurizio, che al genio salentino del teatro  dedica anche la successiva “L’arsapo che volò”; ultima poesia,  “Terra d’ulivi a Casarano”, dedicata ad un incontro occasionale con una rom di nome Maria. A fine libro, dopo le Note, si trova una Postfazione di Antonietta Fulvio.  Maurizio Nocera, “questo vivace Sant’Antonio salentino”, come lo ha definito Mario Lunetta, ci ha saputo regalare un gioiello di sintesi ed alta espressività lirica di cui mi è piaciuto riferire in questa nota.

 

in “Presenza Taurisanese”, aprile 2013

 

W Garibaldi!

Garibaldi entra a Messina
Garibaldi entra a Messina

di Maurizio Nocera

Perché Garibaldi, fondatore dello stato moderno italiano, viene oggi tanto attaccato ed oltraggiato da figuri antistorici e da forze politiche organizzate, soprattutto del Nord? Che cosa c’è sotto questo ostracismo?
La risposta ormai la conoscono tutti: ci sono forze politiche di destra neomonarchiche (sabaude e borboniche, questa volta alleate, ognuna per la sua parte di territorio geo-politico a sé spettante) che fanno di tutto per
risorgere dal fondo dove la storia giustamente le ha relegate. Attaccando la figura e l’opera di Giuseppe Garibaldi, intendono con ciò minare l’impianto unitario dello stato moderno italiano. Sperano di gettare a mare l’Eroe dei Due Mondi e con esso l’Unità d’Italia.

Però, hanno fatto male i loro conti, perché ad essere rigettate a mare saranno proprio loro. Ed è alquanto paradossale pensare che, ancora una volta, a farle restare in quei bui meandri della reazione antistorica e antiumana sarà ancora proprio lui, Giuseppe Garibaldi, sarà il suo mito leggendario, il suo spessore
storico, la sua proverbiale e grande umanità, che, di tanto in tanto, quando c’è il bisogno, ritorna come l’araba fenice.

giuseppe_garibaldi

Giuseppe Garibaldi fu un personaggio importante per il nostro paese, lottò a difesa dei deboli, degli umili, degli sfruttati. La sua epopea è grande, perché fu Lui un grande del secolo XIX. Per questo sarà proprio un po’ difficile ribaltare il giudizio storico attraverso una sequela di stupide falsificazioni.

Abbiamo verificato che ogni qualvolta vi è una falsificazione, essa dura esattamente quanto il soffio di una formica, poi l’urto della verità rimonta e la travolge.

Garibaldi, ancora una volta, dopo essere stato l’effigie del Risorgimento, dopo essere stato l’icona dell’intera riunificazione dello stato, dopo essere stato il vessillo delle forze partigiane, che liberarono l’Italia dal nazifascismo, ancora una volta, scrivevo, ritornerà ad essere la nuova bandiera che sconfiggerà questi ipocriti prezzolati secessionisti del Nord. Ha ragione Andrea Camilleri quando afferma (l’Infedele, La7, 26 aprile 2010) che oggi ci troviamo nelle condizioni di dover ripensare ad una nuova spedizione dei Mille,
questa volta però non dal Nord al Sud, da Quarto alla Sicilia, ma viceversa, dal Sud verso Nord, dal Meridione ad Arcore, perché è lì che si è accumulato un incredibile grumo di inciviltà.

Garibaldi fu uomo d’azione di levatura nazionale ed internazionale. Il suo nome fu simbolo e bandiera dei popoli in lotta per la libertà, la democrazia, l’indipendenza nazionale e la sovranità dei popoli. Chi, nei 150 anni dall’Unità d’Italia ad oggi (1860-2010), lottò contro la reazione, l’oppressione, la dominazione, l’assolutismo, lo fece anche in nome e sotto la sua bandiera. Egli non lottò per una sola parte della penisola, per questa o per quell’altra regione, ma per l’intero paese, dalle Alpi alla Sicilia, alla Sardegna, alle
altre isole minori, per l’intero popolo italiano e non solo per i siciliani o i piemontesi. Egli non fu solo un rivoluzionario umanitario esperto in fatti d’armi, ma fu anche uomo politico attento soprattutto alla società. Nel 1871, dopo le note vicende latinoamericane (partecipazione diretta alle guerre anticolonialiste e a favore della libertà dei popoli), con gratitudine guardarono a lui i leggendari comunardi delle barricate di Parigi. La più famosa Comune della storia sentì forte la comunanza di ideali con Giuseppe Garibaldi. In quell’occasione egli scrisse: «Ciò che spinge i parigini alla guerra è un sentimento di giustizia e di dignità umana».
A lui guardarono pure i primi internazionalisti che fecero propria la sua affermazione passata ormai alla storia come «l’Internazionale è il sole dell’avvenire». Uno di essi, Fredreric Engels, facendo la cronaca dei successi dell’impresa dei “Mille” in Sicilia, in un articolo di fondo, pubblicato il 22 giugno 1860 sulla «New York Daily Tribune», scrisse: «Si tratta […] di una delle più stupefacenti imprese militari del nostro secolo, impresa che sembrerebbe quasi inconcepibile se non fosse per il prestigio che precede la marcia di un generale rivoluzionario trionfante». E, qualche decennio dopo, lo stesso autore, in un articolo successivo alla morte di Garibaldi, pubblicato sulla «Neue Zeit», scrisse: «Garibaldi […] con mille volontari (…) mise sottosopra tutto il regno di Napoli, unificò di fatto l’Italia, spezzò l’abile rete della politica bonapartista. L’Italia era libera e in sostanza unificata, ma non per gli intrighi di Luigi Napoleone, bensì grazie alla rivoluzione…» garibaldina.

Anche Antonio Gramsci, il politico filosofo più innovativo del Novecento italiano, nei suoi scritti sul Risorgimento, sottolineò il sincero patriottismo unitario e la carica ideale umanitaria profusa da Garibaldi.
Il nome di Giuseppe Garibaldi godette e gode di grande ammirazione da parte del popolo italiano, per questo egli, come d’altronde la sua leggendaria Camicia Rossa, sono divenuti simboli di movimenti e di forze politiche e sociali di libertà, di democrazia e tendenti sempre all’azione umanitaria. Egli visse l’intera vita (era nato a Nizza nel 1807) onestamente, combattendo per i grandi ideali di Patria e Giustizia sociale e morì quasi povero nella sua isola sarda (Caprera) nel 1882. Appena due anni dopo la morte, un suo compagno d’arme, il garibaldino Luigi Castellazzo (1827 – 1890), anch’egli patriota sin dal maggio 1848, che aveva preso parte alle campagne militari per l’Unità d’Italia del 1859 e del 1860 come ufficiale delle Camicie Rosse, su un biglietto scrisse: «Se Garibaldi rivivesse, Egli, nella sua magnanima e fiera natura di Patriota e di Eroe, imprecherebbe a questa Italia degenerata, che 1o commemora a parola, gli erige monumenti di pietra, ma non sa imitarne le virtù, proseguire l’opera e compierne i sublimi ideali».

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

CODICE “C” COME CARTESIO CODEX CAMILESS

di Maurizio Nocera

Nell’ottobre scorso Lecce ha visto nascere una nuova casa editrice, la “léndaro g. càmiless &dizioni clandestine” con un originalissimo logo: una spirale impressa a secco con i caratteri del nome dello stesso artista poeta fondatore. Il primo libro editato – codice “C” (Galatina, 2011) – è una preziosità bibliofilica sia nel formato (cm 15,5 x 29, ¼ mezzo quadrato) sia nei contenuti (testi + immagini).

L’autore, Léndaro G. Càmiless, ha lavorato alla produzione dei testi, suoi e dei “privilegiati” coinvolti, per tre anni (2009/11) partendo dalla pubblicazione di un «libro-progetto speciale – singhiozzo francese / pause cartesiane [n. b.: deliberatamente l’autore ha scritto tutte le iniziali in minuscolo e, qualche volta, a cascata] – formato in-8° medio, brossura: in prima di copertina c’è un disegno […] che raffigura una carta stropicciata, sulla quale si intravedono alcune mezze parole e lettere sparse che richiamano il titolo del libro; in quarta di copertina c’è uno dei ritratti classici di René Descartes, il cui volto è stato sezionato a finestra, nella quale si vede il teschio, mentre la parte staccata, quella vera (frangetta, occhi e naso) è spostata più in basso».

Di questo libro-progetto speciale, stampato su carta pergamenata, facsimilare del famoso Discorso sul Metodo cartesiano, è stata fatta una tiratura di soli cinquanta esemplari numerati e dedicati ad personam «con il privelegio di: Giorgio Antinori – Antonio Basile – Fernando Bevilacqua – Toti Carpentieri – Manuel Blazquez – Alberto Buttazzo – Giacinto Cargnoni – Giorgio Celli – Franco Contini – Mauro De Giosa – Marcello Diotallevi – Tiziana Dollorenzo Solari – Nunzio Fiore – Giovanni Laforge – Alessandro Laporta – Gabriella Larinà – Giuseppe Lisi – Doriano Longo – Grazia Manni – Federico Martino – Luigi Mastromauro – Maurizio Nocera – Michele Provenzano – Giampiero Quarta – Massimo Quarta – Teresa Romano – Autore Sconosciuto – Donatella Stamer – Enrico Tallone – Giovani Turria».

In una prima introduzione (scritto, cancellato e scritto di nuovo), l’autore scrive che «rené descartes è il nostro convitato di pietra. […] il mio viaggio è iniziato leggendo e osservando le immagini contenute nel discours de la methode, una rieditata pubblicazione anastatica del filosofo francese, un breve trattato del 1637./ ho percorso tutta l’opera, cancellato alcuni periodi, nascosto altri, evidenziato alcuni passi, commentato periodi adottando a volte la forma poetica che mi è propria, e redatto pagine utili a stimolare la creatività dei “privilegiati” coautori».

È interessare sapere com’è nato CODICE “C”. Scrive Càmiless: «tutto ha inizio con un’asta pubblica e l’acquisto da parte di un privato per due milioni di dollari, di un libro di preghiere medievale, scritto in greco nel 1229 forse a gerusalemme: la vendita avvenne il 29 ottobre 1998. il testo dal titolo “euchologion” si compone di 174 “fogli” di pergamena e nelle mani di un gruppo di esperti si scopre presto che sotto queste preghiere si intravede un testo originariamente cancellato o meglio raschiato. una pratica molto diffusa nel medioevo per riutilizzare un supporto non facilmente reperibile. il testo in questione (quello cancellato) da ben otto anni viene studiato con mezzi altamente sofisticati e tramite un intenso fascio fluorescente a raggi X di imaging – generati presso l’acceleratore lineare della stanford university – si scopre la presenza di una documentabile serie di trattati del matematico [Pitagora] di samo. Scritto come già ho detto in greco e risalente a tre secoli prima della datazione delle preghiere, ovvero nella seconda metà del X° secolo, appunti vergati certamente a costantinopoli. sette sono i trattati pitagorici che figurano: […] nel 1998 l’opera venne chiamata semplicemente palinsesto […] praticamente dal semplice riusco del supporto e della superficie nacque nell’anno 1229 il nuovo testo composto da numerose preghiere medievali e l’amanuense inserì persino due immagini a colori illustranti scene liturgiche. questa riscrittura non è così invasiva rispetto la precedente e tramite l’attuale tecnologia, molto sofisticata, è stato possibile recuperare questi trattati pitagorici cancellati e risalenti al X° secolo. con la riproposizione digitale ancora una volta s’è riscritta una pagina che si pensava perduta. le analogie non sono poche con l’operazione curata nel mio “singhiozzo francese”: recupero un testo originale e una sua riproduzione anastatica, cancello e riscrivo alcuni brani e in digitale ripropongo il tutto su un nuovo supporto cartaceo. un saggio che si specchia nella pratica degli antichi manoscritti, i cosiddetti “volumen” (pergamena o papiro), e se successivamente copiato dai monaci medievali lo immagino scritto su “fogli” (ancora animali o vegetali) ma che chiamerò “codex”, utili ad ospitare la scrittura sia sul verso che sul recto./ credo oramai sia palese l’esistente relazione fra “euchologion”, “palimsestos” e il neo “codice”. è con la lettera C che si rafforza il comune denominatore: Cartesio Codex Càmiless». Questa la radice di codice “C”. Dell’autore e del suo “singhiozzo francese” ho scritto, dei suoi “privilegiati” coinvolti ho citato i nomi. Aggiungo solo che stupenda è la parte relativa all’immaginario, con un ruolo importante svolto dall’artista Donatella Stamer, della quale è stata allegata per ogni testo e per ogni “privilegiato” un’incisione originale intitolata “stegobium paniceum”.

In Canto (“Fatti di dolore” di Maurizio Nocera)

Edgar Degas (1834-1917)

di Paolo Vincenti

“Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio”: in questi versi della dantesca preghiera alla Vergine di San Bernardo si concentra una delle espressioni più alte, nella storia del pensiero mondiale, dell’amore che l’uomo abbia saputo esprimere in  poesia nei confronti dell’alma madre, la Madonna. Mala storia della letteratura di tutti i tempi è ricchissima di autori che, in prosa o in versi, si sono rivolti alla propria madre per  cantarne la dolcezza, lamentarne l’assenza o vivificarne la presenza,  piangerne la partenza, per sublimarne il volto e l’immagine o per cullarne il ricordo, per scrivere della propria nostalgia, dei propri rimpianti  e travagli, di contrasti ormai sanati, di inquietudini e conflitti pacificati.

Così fa Maurizio Nocera, l’arsapo che continua a volare alto nei cieli della cultura salentina e che ogni tanto ha bisogno di ritornare al nido, là dove la sua avventura è cominciata, per ripararsi dalle intemperie della vita, per far riposare le ali e per cercare nel conforto materno quel caldo che aiuta a riprendere il volo. E quel  nido per l’arsapo-angelo Maurizio è Tuglie, borgo avito, dove sono i suoi ricordi di infanzia e adolescenza, il porto-quiete dove

Una noterella “esterna” su Girolamo Comi poeta e bibliofilo

di Armando Polito

Nel suo recente post sull’argomento1 Maurizio Nocera cita ampiamente un breve saggio di Alessandro Laporta con riferimento particolare a due testi antichi dal Comi posseduti e dal Laporta analizzati. A dire il vero, però, il Laporta nel suo lavoro prende in esame solo uno dei due testi, dichiarando espressamente: “E non mio tratterrò sulle Imagines illustrium ex Fulvii Ursini bibliotheca a Theodoro Gallaeo expressae edite ad Anversa dal Plantin nel 1606 (libro che meriterebbe una diversa attenzione e sul quale forse ritornerò in altro momento)”.

Sicuramente con minore competenza del Laporta tenterò di farlo io con il rammarico di non aver potuto avere tra le mani l’esemplare posseduto dal Comi. La rete, però, anche se il processo di digitalizzazione delle fonti cartacee in Italia è appena agli albori, offre possibilità fino a qualche decennio fa impensabili anche per un topo di biblioteca. Così, per entrare in medias res, ecco il frontespizio del testo in questione e, di seguito, la sua “traduzione”. Chi poi volesse leggerlo integralmente e/o registrarlo nel suo archivio personale potrà scaricarlo dal link:

 http://books.google.it/books?id=aoBjwYmZ3PcC&printsec=frontcover&dq=imagines+illustrium&hl=it&sa=X&ei=6VMiUaP5K-iE4gSs2oC4DA&ved=0CFcQ6AEwBw

 

1

 

(Commento di Giovanni Fabro Barbegense medico romano alle immagini di uomini famosi dalla biblioteca di Fulvio Orsini stampate ad Anversa da Teodoro Galleo. All’Illustrissimo e Reverendissimo Don Cinzio Aldobrandini Cardinale di S. Giorgio e c. Anversa Dalla tipografia plantiniana Presso Giovanni Moreto 1606).

Qualche notizia sui personaggi appena nominati: l’autore del commento fu Prefetto dell’Orto pontificio e membro dell’Accademia dei Lincei fin dalla sua fondazione nel 1603; Fulvio Orsini (1529-1600) fu uno dei massimi esponenti della filologia antiquaria italiana ed espertissimo collezionista; Teodoro Galleo (XVI-XVII secolo) fu uno dei più rinomati incisori del suo tempo. Cinzio Passeri Aldobrandini (1551-1610) era un po’ abituato alle dediche in quanto il Tasso, riconoscente della protezione avutane, gli aveva dedicato la Gerusalemme conquistata e il dialogo Delle imprese. Christophe Plantin (1520-1589) fu tipografo, editore e libraio, attivo dal 1555 al 1589; quando questo libro fu stampato aveva già ceduto l’attività al genero Giovanni Moreto. La marca della tipografia plantiniana raffigurava una mano con un compasso ed il motto Labore et constantia (Con la fatica e con la costanza).

Il libro consta di una prima sezione (pagg. 1-151) testuale contenente i commenti alle immagini delle personalità prese in esame in ordine alfabetico; segue una parte non numerata dedicata agli indici (il primo per categoria di appartenenza, il secondo dei nomi) e subito dopo, in ordine alfabetico, dopo un secondo frontespizio, per così dire, interno, in basso riprodotto e “tradotto”, la sezione finale, anche questa non numerata, quella delle immagini.

2

 

Illustrium imagines ex antiquis marmoribus, nomismatibus, et gemmis expressae, quae extant Romae, maior pars apud Fulvium Ursinum. Editio altera aliquot imaginibus et I. Fabri ad singulas commentario, auctior atque illustrior. Theodorus Gallaeus delineabat Romae ex Archetypis incidebat Antuerpiae MDXCIIX Antuerpiae Ex officina Plantiniana MDCVI

(Immagini di (uomini) illustri tratte da sculture, monete e gemme che si trovano a Roma, la maggior parte presso Fulvio Orsini. Seconda edizione accresciuta e più illustrata da parecchie immagini e dal commento di Giovanni Fabro a ciascuna. Teodo Galleo disegnava a Roma dagli antichi modelli, incideva ad Anversa nel 1598. Anversa Dalla tipografia platiniana 1606).

Ecco la prima (Marco Emilio Lepido) e l’ultima (Marco Tullio Cicerone) delle immagini:

3

 

Ogni libro è testimone anche di una storia supplementare ricavabile da tutto ciò che vi fu aggiunto manualmente dopo la sua uscita.

Nel nostro nel frontespizio subito dopo la prima riga si legge aggiunto a mano:  Colleg. Lugd. SS. Trin. Soc. Jesu Catal. Inscript. 1688 (Collegio di Lione della SS. Trinità Società di Gesù Iscrizione nel catalogo 1688). La primitiva appartenenza al collegio sarebbe confermata dal bollo apposto a sinistra ove si legge EX BIBLIOTH(ECA) PUB(LICA) COLLEG(II) LUGDUN(ENSIS), mentre gli altri due in cui si legge BIBLIOTEQUE DE LA VILLE LYON (Biblioteca della città di Lione) si riferirebbero ad un successivo passaggio.

Anche la foderina anteriore ha qualcosa da dire con l’etichetta che vi risulta incollata e nella quale si legge:

4

 

Reverendus Pater Franciscus de la Chaize Societatis Jesu, Ludovico XIV Regi Christianissimo à Confessionibus hoc munere, ex regia munificentia, Bibliotecam Collegii Lugdunensis Sanctissimae Trinitatis Societatis Jesu auxit

(Il reverendo Padre Francesco de la Chaize della Società di Gesù con questo dono [proveniente] dalle confessioni al cristianissimo re Luigi XIV dalla regia generosità incrementò la biblioteca del Collegio di Lione della SS. Trinità della Società di Gesù).

Questo esemplare, dunque, fu un dono di Luigi XIV (nell’etichetta Ludovico XIV), re di Francia dal 1675 fino alla morte avvenuta nel 1715,  al suo confessore, il gesuita  François d’Aix de la Chaise (1624-1709), il quale, a sua volta, lo donò al collegio lionese della SS. Trinità, quasi sicuramente nel 1688 come riporta nel frontespizio l’aggiunta manuale, una vera e propria nota di ingresso, già esaminata).

Questo è quanto son riuscito ad ascoltare con le mie modeste orecchie da questo esemplare. Chissà cosa ha da dire il gemello di casa Comi a timpani molto più raffinati e sensibili dei miei …

__________

1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/02/20/girolamo-comi-poeta-e-bibliofilo/ 

 

 

 

GIROLAMO COMI POETA E BIBLIOFILO

di Maurizio Nocera

 

L’argomento Comi Bibliofilo l’ha affrontato già Alessandro Laporta, direttore della biblioteca provinciale “N. Bernardini” di Lecce il quale, nel bel saggio su Studiae Humanitatis. Scritti in onore di Elio Dimitri (Barbieri, Manduria 2010, pp. 223-228) per la cura di Dino Levante, individua l’attributo ‘bibliofilo’ usato per il Comi come «attento e oculato nelle sue scelte, che ama le raccolte già complete, […] ma che sa anche metterle insieme da sé, volume per volume» in uno libro di Marinella Cantelmo dal titolo Girolomo Comi prosatore (Capone, Cavallino 1990).

Anche per me vale quella sua affermazione messa come incipit dell’introduzione al saggio quando scrive: «Quanto su Comi è stato scritto da Valli e dagli altri offre una tale idea di completezza che è difficile trovare qualche sentiero inesplorato, qualche itinerario nuovo da proporre all’attenzione del lettore» (p. 223). Tuttavia, con il saggio Comi bibliofilo, Laporta trova ancora qualche piccolo sentiero tutt’ancora da sondare, soprattutto nell’indicare un inedito Comi bibliofilo riferito ai libri che il poeta possedeva nella sua rifornita biblioteca lucugnanese consistente per la maggior parte di un nucleo forte di autori francesi. In particolare Laporta cita due libri antichi presenti nel fondo Comi precisando che altri volumi anch’essi di pregio e datati, dopo la ristrutturazione del palazzo, non sono stati più reperibili.

I due libri antichi da lui indicati e analizzati sono:

Imagines illustrium ex Fulvii Ursini biblioteca a Theodero Gallaeo expressae, edito ad Anversa dal Plantin nel 1606;

Le thresor des vies de Plutarque, Lyon, chez Pierre Rigaud, 1611. In particolare, di quest’ultimo volume, il Laporta fa una dettagliata descrizione bibliofilica mettendo il luce la nota di possesso del libro risalente al 1794, e cioè prima che lo stesso volume divenisse proprietà del Comi. Il volume apparteneva a «Ant. Aug. Renouard, autore entrato ufficialmente nella storia del libro per i suoi ancora oggi fondamentali lavori su Manuzio. [… Fu anche] estimatore ed imitatore di Bodoni» (p. 226).

Laporta conclude il suo saggio affermando che, per le note su riportate, sicuramente si può dare a Comi il titolo di bibliofilo e, secondo me, non ha torto, perché è sufficiente andare a vedere la biblioteca del poeta nel palazzo di Lucugnano per accorgersi dell’amore che il poeta riservava per i libri antichi o a lui coevi.

Ma non solo per il motivo indicato dal direttore della biblioteca provinciale, noi possiamo definire bibliofilo Girolamo Comi anzi, secondo me, egli è bibliofilo, e per di più grande, soprattutto per la fattura dei suoi libri e della rivista «L’Albero» che il poeta, in quanto vate dell’Accademia salentina con sede a Lucugnano, fece stampare spesso, per non dire sempre, a sue spese, divenendo, per questo, da benestante che era a un povero in canna.

Mi limiterò quindi a descrivere solo dei libri a firma del poeta che io ho sulla mia scrivania, anche se è noto che i volumi degli altri suoi amici poeti e prosatori soci dell’Accademia hanno tutti le stesse caratteristiche da lui dettate. Ad eccezione della rivista, di cui dirò poi, i libri di Comi che prendo in considerazione sono:

Cantico del Tempo e del Seme, Edizioni Al Tempo della Fortuna // Colophon: «A cura di alcune personalità,/ sotto l’insegna “Al Tempo/ della Fortuna” di questa/ opera – terminata di stampare/ il 25 maggio 1930 presso l’Of-/ ficina Cuggiani in Roma – sono stati tirati: 5 esemplari su carta/ “vélin Marais” numerati da/ 1 a 5; 495 esemplari su carta/ “vergé Fabriano” numerati/ da 6 a 500»;

Spirito d’armonia, Edizioni dell’«Albero» Lucugnano (Lecce) // Colophon: «Finito di stampare il 20 maggio 1954 per i tipi della S. E. T., Bari». Questo libro è interessante perché include in appendice una Notizia Bibliografica (a cura di Vittorio Pagano) con le citazioni di tutti i recensori e commentatori della poesia del Comi;

Canto per Eva (prima edizione, 60 pp.), Edizioni dell’«Albero», Colophon: «Edizione di 432 esemplari/ firmati dall’autore. // Finito di stampare il 20 luglio 1955 per i tipi della S. E. T. – Bari».

Inno eucaristico, Edizioni dell’«Albero», «Colophon: Edizione fuori commercio/ di 500 esemplari/ per gli amici dell’Albero. // Stampato il 30 giugno 1958 per i tipi della tipografia Pajano & C., Galatina»;

Canto per Eva [seconda edizione, 104 pp., con due punte d’argento di Alberto Gerardi (pp. 17 e 33) e una nuova pagina esplicativa dello stesso Comi], Edizioni dell’«Albero», Colophon: «Edizione di 375 esemplari/ firmati dall’autore. // Finito di stampare per i tipi dello Stabilimento Pajano & C., Galatina il 31 luglio 1958».

La descrizione (Titolo, Casa editrice, Stamperia e Colophon) dei quattro libri su indicati dà già l’idea di trovarci davanti a volumi particolari, perché appunto corredati da colophon di cui solo un attento bibliofilo conosce l’importanza; tuttavia a ciò va aggiunto ancora qualche altro elemento per avere l’idea della personalità bibliofilica del Comi. In primo luogo tutti i volumi descritti sono stampati in-16° (20,5 x 14,5 cm) su carte speciali (nel caso del Cantico del Tempo e del Seme sono indicate) del tipo uso-mano o rosa-spina; i bordi quasi sempre non sono rifilati ma intonsi; le copertine sono sempre di cartoncino avoriato spesso e bugnato. Ma la caratteristica fondamentale sono le architetture dei frontespizi e delle copertine: si tratta di calici o coppe perfette quasi sempre composte sulla base di misure auree. Per di più, nel libro Cantico del tempo e del Seme, la composizione delle indicazioni di copertina è inscritta in una doppia e bella cornice rossa. Questo libro è interessante anche per una serie di xilografie che corredano le pagine poetiche. Ma occorre dire che tutte le pagine dei libri di G. Comi hanno un’architettura austera e aurea, esigenza tipica di ogni bibliofilo.

Altro dato importante, che fa di Comi un bibliofilo, è la scelta dei caratteri di stampa usati per i suoi libri. Di solito la scelta dei tipi è dovuta allo stampatore, almeno così era un tempo, cioè quando ancora non esisteva il computer col suo font. Tuttavia non tutti i tipografi sapevano farlo. Interveniva così l’autore, sempre ammesso che egli fosse un esperto in tal senso. Nel caso di Comi, e almeno per i libri a cui io mi riferisco, non ci sono dubbi sul fatto che egli era un esperto anche di caratteri di stampa. Tanto da scegliere il Caslon per il libro Cantico del Tempo e del Seme; il Perpetua Light Titling per il libro Inno Eucaristico; il Baskerville per il libro Spirito d’armonia; ancora il Baskerville per Canto per Eva.

Per quanto riguarda la rivista «L’Albero» non c’è migliore definizione di quella data dalla sua prima e unica segretaria dell’Accademia di Lucugnano, cioè Maria Corti la quale, nella premessa all’Antologia (1949-1954) (Bompiani, 1999) curata da Gino Pisanò, scrive: «è una rivista salentina che ebbe una lunga vita dal 1949 al 1988 […] A Lucugnano, in provincia di Lecce, il barone Girolomo Comi aveva creato il 3 gennaio 1948 nel suo bel palazzo neoclassico un’Accademia Salentina, istituzione aperta e ospitale, che fu subito un richiamo per intellettuali in tutta Italia» (p. XI).

Ma qui, in questo contesto, l’aspetto che ci interessa è quello bibliofilico e, per l’occasione, prendo in esame solo alcuni numeri della rivista. Il primo numero (gennaio-marzo 1949) presenta una splendida copertina con caratteri maiuscoli Bodoniani, al centro campeggia un bellissimo disegno di Vincenzo Ciardo, disegno che, come marchio dell’Accademia salentina, rimarrà impresso sulla copertina per il seguito di tutti i numeri. Fondatore della rivista e primo direttore responsabile è lo stesso Girolamo Comi, la registrazione viene fatta presso il Tribunale di Lecce e risulta essere contrassegnata dal n. 9 del 2 maggio 1949; la stampa e della Tripografia Raeli di Tricase. Nel colophon del primo numero, Comi scrive: «È nelle nostre speranze e nei nostri desideri che ogni “Albero” sorga e cresca come per generazione spontanea e che porti – possibilmente in tutti i rami – il segno e il respiro della necessità e della ricchezza della nostra ansia di operare e di sopravvivere» (p. 79).

Ma ancora più suggestiva è la poesia che lo stesso Comi pubblica come incipit della rivista: «Armonia numerosa: la presenza/ dell’albero nell’alba che lo veste:/ (figura e dono del tempo terrestre/ se il cuore trema di riconoscenza…)// Slancio di un seme che si ricompone/ nella pienezza d’una tessitura/ d’aliti di germogli: carnagione/ di frutto antico e di linfa futura;// dalla radice all’apice, il respiro/ che ogni sua nuova primavera emette/ sazia la zolla e sfiora lo zaffiro// dell’aura delle più tenere vette:/ fremito d’una crescita che vuole/ diventare canto nei cori del sole» (p. 5).

Nulla cambia nei numeri successivi salvo la tipografia, che da Tricase passa a Bari alla Società Editrice Tipografica (fino al n. 19-22 del 1954); poi da Bari ritorna in Salento, a Galatina, prima presso la Tipografia Pajano (fino al n. 30-33 del 1957), quindi presso l’Editrice Salentina (fino al n. 34-35 del 1960); a partire dal n. 36-40 (1962) a stamparla sarà la Scuola Tipografica A. Mele Tarantini di Lecce. Girolamo Comi muore nel 1968 e i numeri successivi della rivista che saranno stampati usciranno come numeri di una nuova serie.

 

Note bio-bibliografiche

Girolamo Comi (poeta) nacque a Casamassella il 23 novembre 1890 e morì a Lucugnano il 3 aprile 1968. Suo padre Giuseppe era di Lucugnano mentre la madre Costanza era sorella di Antonio De Viti De Marco, il noto economista e politico salentino degli inizi del XX secolo. Per i suoi studi, Comi frequentò in un primo momento il liceo “Capece” di Maglie, poi il liceo “Palmieri” di Lecce e, dopo la prematura morte del padre (1908), proseguì gli studi superiori in Svizzera (Ouchy-Losanna) dove frequentò la cattedra del filosofo Rudolf Steiner. È di questo periodo la sua prima raccolta poetica, Il Lampadario (Losanna 1912), successivamente da lui stesso rinnegata. Fu obiettore di coscienza ante litteram, rifiutando di partecipare come milite alla prima guerra mondiale; tuttavia, dopo essere stato catturato, fu costretto ad andarci e, in un primo momento venne inviato persino in prima linea, dalla quale però lo congedarono perché divenuto, secondo le perizie mediche, “matto”. A partire dal 1920 tornò a Lucugnano, ma cominciò anche a frequentare Roma, dove risiedeva lo zio Antonio De Viti De Marco. Nella capitale conobbe altri scrittori e altri poeti, che da quel momento gli divennero amici e frequentatori anche della sua casa salentina a Lucugnano. Fra questi Arturo Onofri, Giuseppe Bonaiuti, Alfonso Gatto, Giovanni Papini, Iulus Evola. In questo momento la sua è una poesia spiritualista e intimistica e tutte le sue iniziative come intellettuale si muovono in un ambito di esaltazione nichilista e niezschiana. Non a caso collaborò alle riviste «Ur», «Krur», «La Torre», «Diorama Filosofico» e fu molto vicino alle idee fasciste sulla concezione dell’essere superiore.  Ad un certo punto della sua vita però avvenne una sorta di conversione/resurrezione, una presa di coscienza potremmo dire oggi, con la quale rivide il suo pensiero iniziale e sentì rinascere in lui una nuova consapevolezza: si avvicinò al movimento simbolista e al fauvismo in pittura, ritornando alle stampe, tra cui una nuova raccolta poetica, alla quale dette il titolo di quella rinnegata, Lampadario (Lucugnano 1920). Seguiranno altre poesie, come I Rosai di qui (Roma 1921). Si tratta di cinque liriche chiaramente ispirate al pittore romano Rosai, nelle quali l’uso delle parole in versi forma sinfonie per musica e pittura con il tutto che sembra ispirato anche al movimento futurista di Tommaso Filippo Marinetti.

Ritorna alle stampe con nuove raccolte poetiche: Smeraldi (Roma 1925), Boschività sotterra (Roma 1927), Cantico dell’albero (Roma 1928), l’antologia Poesia 1918-1928 (Roma 1929), Cantico del Tempo e del Seme (Roma 1930), Nel grembo dei mattini (Roma 1931) con la quale inizia il suo ritorno ad una nuova forma di religiosismo; Cantico dell’argilla e del sangue (Roma 1933). Con Adamo-Eva (Roma 1933), liriche che indagano il peccato originale, si ha il suo pieno ritorno al cattolicesimo; una nuova antologia è Poesia 1918-38 (Roma 1939). Nel 1946, Girolamo Comi fa definitivo ritorno a Lucugnano, dove fonda (3 gennaio 1948) l’Accademia Salentina assieme a Mario Marti, Oreste Macrì, Maria Corti, Michele Pierri, Walter Binni, Luigi Corvaglia, Vincenzo Ciardo, Luciano Anceschi, molti altri intellettuali. L’Accademia ha una sua rivista che, per espresso desiderio di Comi, si chiamerà «L’Albero». Fino al 1968 sarà sotto la direzione dello stesso Comi, successivamente la responsabilità passa a Donato Valli, che di Casa Comi e della sua biblioteca è l’erede spirituale. Da Lucugnano Girolamo Comi ricomincia la pubblicazione di nuove raccolte poetiche: Spirito d’Armonia (due edizioni, una a Lucugnano 1954, con la quale vince il premio Chianciano, e l’altra, postuma, a Trento nel 1999). Altre sue raccolte poetiche sono: Piccolo idillio per piccola orchestra (Lucugnano 1954), Canto per Eva (Lucugnano 1955), Inno Eucaristico (Lucugnano 1958), Sonetti e Poesie (Milano 1960). La sua ultima raccolta è Fra lacrime e preghiere (Roma 1966).

Oltre alle raccolte poetiche, Comi scrisse anche prosa, fra cui una Lettera a Giovanni Papini (Lucugnano 1920); Vedute di economia cosmica (Roma 1920); Riposi festivi (Roma 1921); Poesia e conoscenza (Roma 1932); Commento a qualche pensiero di Pascal (Lucugnano 1933); Necessità dello stato poetico (tentativo di un diario esistenziale) (Roma 1934); Aristocrazia del Cattolicesimo (Modena 1937); Bolscevismo contro Cristianesimo (Lucugnano 1938); Dramma senza dramma (scherzo o giuoco scenico-letterario) (a cura di Donato Valli, Lecce 1971).

Moltissimi sono gli autori che si sono interessati del pensiero e della poesia di Girolamo Comi; l’elenco è molto lungo. Occorre dire che non c’è stato scrittore, poeta, pittore, scultore e tanto altro nel Salento che, nel suo lavoro da intellettuale, non abbia avuto a che fare con l’opera di Girolamo Comi, il quale, per la mole di lavoro fatto ed anche per lo strano caso della sua vita, si erge ad essere monumento letterario della salentinità poetica.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Gallipoli e il suo castello

gallipoli-vincenzo-gaballo
ph Vincenzo Gaballo

di Maurizio Nocera

Ci fu un tempo in cui il luogo che noi oggi chiamiamo Gallipoli, veniva ancora indicato col nome di Anxa, parola che può ritenersi di origine messapico-cretese. Con tale nome la indicò pure Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis historia” [Storia della Natura], pubblicata nell’anno 77 della nostra era, dove scrisse: «… in ora vero Senonum Gallipolis, quae nunc est Anxa» [… inoltre sul litorale dei Sènoni Gallipoli, che ora è Anxa]. A sua volta, Pomponio Mela,  nella sua opera “De Situ Orbis” [Del luogo della Terra], scrisse: «Urbs Graia  Kallipolis» (Città Greca Gallipoli), dove “Kallipolis” sta per “Kalé Polis”, che in greco significa appunto Bella Città.

da Wikipedia, sotto la licenza Creative Commons

Ancora prima dei due scrittori latini, i padri della poesia e della storia
dell’antica Grecia, fra cui Esiodo (VIII sec. a. C.), Ecateo di Mileto (VI sec.
a. C.), ed Erotodo (V sec. a. C.), nelle loro opere scrivono anch’essi della
Iapigia-Messapia. Nelle sue “Storie”, Erodoto, a proposito dello sfortunato
viaggio del cretese Minosse il quale, una volta giunto in «Sicania» (Sicilia),
perì di morte violenta, narra di un conseguente viaggio di numerosi cretesi che  lasciarono la loro isola navigando alla volta della Sicilia per riprendersi la salma del loro re. Erodoto scrive: «Quando, durante la navigazione, si
trovarono presso la costa iapigia, una violenta tempesta li avrebbe sorpresi e sbattuti contro terra: sicché, essendosi spezzate le navi, e non vedendosi più alcuna via di ritornare a Creta, fondata in quel luogo la città di Iria, ivi
rimasero e divennero Iapigi-Messapi […] invece di Cretesi, e continentali da
isolani che erano. Da Iria, dicono, fondarono le altre colonie…» [cfr.
Erodoto, “Storie” (a cura di Luigi Annibaletto), Mondadori marzo 2007, I
Classici Collezione Greci e Latini, volume secondo, libro VII, 171, p.
1297].

Sulla Iapigia-Messapia, più particolari ci vengono forniti anche dall’altro
padre della storia greca antica, Tucidide (V sec. a. C.) il quale, nella sua
monumentale opera “La guerra del Peloponneso”, a proposito delle traversie marinare della flotta atenietese diretta a Siracusa, narra di un evento che è lecito interpretare come collegato al luogo Anxa-Gallipoli. Scrive Tucidide:
«Ma i Siracusani, in seguito allo scacco subito con i Siculi, si trattennero
dall’attaccare subito gli Ateniesi; intanto Demostene ed Eurimedonte, dato che le truppe raccolte da Corcira [Corfù] e dalla terraferma erano ormai pronte, attraversarono con tutto quanto l’esercito lo Ionio fino al capo Iapigio; partiti di lì presero quindi terra alle isole Cheradi, in Iapigia, dove
imbarcarono sulle navi dei tiratori iapigi, circa centocinquanta, appartenenti alla stirpe messapica, e rinnovarono con Arta – che aveva tra l’altro procurato loro i tiratori, in qualità di dinasta del luogo – un certo vecchio patto di amicizia, per poi ripartire verso Metaponto, in Italia» (cfr. Tucidide, “La guerra del Peloponneso”, a cura di Luciano Canfora, Mondadori, I Classici Collezione Greci e Latini, Mondadori, giugno 2007, volume secondo, libro VII, 33, p. 969).

Si conoscono le frontiere entro cui era circoscritta l’antica Iapigia-
Messapia, più o meno inscritte nel periplo della costa della punta del tacco d’
Italia, con il confine a Nord-Est, verso l’attuale Bari, non oltre Egnazia, e
il confine a Nord-Ovest, verso Taranto, non oltre Manduria. Le isole Cheradi di cui parla Tucidide non possono non stare che entro questi confini, tanto che al di sopra o al di là di essi, sarebbe stato impossibile al navarchi ateniesi Demostene e Eurimedonte imbarcare i centocinquanta tiratori di «stirpe
messapica», come sarebbe stato impossibile incontrare il dinasta Arta, capo dei curioni dei Messapi, in quel momento residente nella potente città di Alyzia [l’ attuale Alezio], situata nel più vicino entroterra all’approdo marittimo Anxa-Gallipoli. Da ciò è possibile dedurre che le isole Cheradi citate da Tucidide altro non possono essere che le isole dell’arcipelago gallipolino, formato dalla città-isola Anxa-Gallipoli, dall’isola di Sant’Andrea e dagli isolotti Campo e Piccioni; nel tempo antico, accanto a queste isole citate esistevano altri isolotti affioranti, successivamente risommersi dalle acque del mare.

Dopo queste importanti indicazioni il nome di Anxa come pure il nome di Kalè Polis scomparvero per secoli e l’isolotto-città, dopo la definitiva vittoria dei Romani sui Messapi e l’imposizione della nuova lingua latina nella Iapigia, cominciò a chiamarsi – e da allora continua ad essere così –  soltanto col nome di Gallipoli.

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La pubblicazione in due versioni de “Il Libro Rosso di Gallipoli” [quella
curata da Amalia Ingrosso con prefazione di Benedetto Vetere (Galatina, Congedo 2004), e quella curata da Elio Pindinelli (Gallipoli 2003)], con documenti che risalgono fino al XIII-XIV secolo, ci dà l’idea di quanto fosse importante, nel tempo antico, l’isola-città-fortezza di Gallipoli, per cui sono veramente tante le citazioni del suo nome, e in particolare del suo Castello.

Dell’importanza del Castello nei secoli, se n’era reso conto lo studioso
Ettore Vernole, tanto che fu uno dei pochi a visionare e attingere fonti certe
dal “Libro Rosso di Gallipoli”; libro che sicuramente avrà visto anche l’
umanista Antonio De Ferraris, detto Galateo, il quale, il 12 dicembre 1513,
scrisse una stupenda lettera – “Callipolis descriptio” [Descrizione di
Callipoli] – a Pietro Summonte, suo sodale nell’Accademia Pontaniana di Napoli, dicendo che l’isola-città nella quale egli risiedeva in quel momento, aveva «tratto il nome dalla sua bellezza e non senza ragione. Fu città greca: ignoro donde Plinio abbia appreso che qui si fossero stanziati i Galli Sénoni. Questa città, invece, non si chiama Gallipoli, ma Callipolis come recano antichi codici» (cfr. Antonio De Ferraris Galateo, “Lettere”, nella traduzione e commento di Amleto Pallara, Conte editore, Lecce 1996, p. 97). E poco oltre il Galateo continua la sua epistola descrivendo l’ingresso della città: «Davanti al castello, che si erge sulla città, c’è un ponte che lascia congiungere i due tratti di mare, i quali rendono Callipoli non una penisola ma una vera e propria isola. Da quel punto la terra si riallarga a tondo, assumendo la forma di una padella. Il perimetro della città non è molto ampio; a occhio e croce non supera dieci stadi. Callipoli all’epoca in cui fu distrutta non era sufficientemente difesa né da mura né da macchine da guerra né da guarnigione.
Ora, invece, è validamente fortificata e dalla terraferma e dal mare offre di
sé una vista superba, fiera e bellissima per la quale io penso che la
chiamarono Callipoli gli antichi Greci» (op. cit., p. 98).

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Oggi, guardando le antiche piante cartografiche (mi riferisco in particolare a
quelle pubblicate nel libro dello storico gallipolino Federico Natali,
Gallipoli nel Regno di Napoli. Dai Normanni all’Unità d’Italia” (Galatina,
Congedo 2007), inserto iconografico tra le pagine 256-257), alcune della quali  risalgono più o meno allo stesso periodo del Galateo, si vede come fosse Gallipoli nel ‘500-600. Le piante dell’isola-città prese in considerazione sono tratte da antichi dipinti conservati nelle chiese di Alezio e  Gallipoli, che qui cito:
1. Particolare della tela ad olio di “S. Pancrazio”, del pittore Giandomenico
Catalano, dipinta nel XVII secolo ed esposta nella Chiesa di S. Maria della
Lizza ad Alezio;
2. Particolare della tela ad olio de “Il Vescovo Capece implora la protezione
di S. Carlo Borromeo su Gallipoli”, anche questa tela è del pittore
Giandomenico Catalano, dipinta nello stesso secolo ed esposta nelle stessa
chiesa ad Alezio;
3. Particolare della tela ad olio della “Vergine e i Santi Eligio e Menna”,
dello stesso pittore e dello stesso secolo, esposta nella sacrestia della
Cattedrale di S. Agata a Gallipoli;
4. Particolare della tela ad olio di “S. Domenico”, dello stesso pittore e
secolo, esposta nella chiesa di S. Maria del Rosario a Gallipoli;
5. Veduta dell’antico abitato di Gallipoli, dipinta dal pittore Luigi
Consiglio nella seconda metà dell’800, attualmente esposta nel museo di
Gallipoli.

Tutte queste tele hanno in comune un particolare: lo sguardo del pittore che
dipinge è dalla parte del borgo nuovo, per cui l’abitato dell’isola-città
evidenzia  sempre e di primo acchito il Rivellino col Castello in contiguità,
quindi il perimetro delle mura turrite con i fortini, i baluardi, i bastioni e
i torrioni. In questi dipinti altro particolare interessante sono i ponti, non
uno che congiunge la terraferma all’isola-città, ma due, il primo che va verso la città e il secondo che collega la terraferma al solo Rivellino. Un’altra
pianta, sempre leggibile sulle stesso libro del Natali (tra le pagine 128-129)
è quella denominata “Scenografia prospettica della città di Gallipoli” della
fine del XVI secolo (tratta dal Coronelli): in questa veduta a volo d’uccello è
visibile la struttura dell’isola-città-fortezza con i quattro torrioni del
Castello, qui collegato attraverso una terrazza al Rivellino, quindi il
perimetro delle grandi mura turrite intervellate dai fortini di “San Benedetto” e “San Giorgio”; i baluardi di “Santa Vennardia”, “San Domenico o Dell’ Annunziata” e “San Francesco”; le torri di “San Luca”, “Quartararo o degli Angeli”, “Sant’Agata”, “Purità”, “San Francesco di Paola o dello Scorzone” e “Bombarda o San Giuseppe”. Altro particolare interessante, su questa tela il pittore ha dipinto anche lo «Scoglio grande» più altri scoglietti, allora esistenti, oggi non più.

Tutto ciò sta a documetare l’esistenza del castello gallipolino sin da tempi
antichi; sull’isola-città nel IV sec. a. C. vi abitò per un certo periodo anche
il potente Archita, grande curione di Taranto e discepolo prediletto ed erede ideale del vate Pitagora.
Di tutte le antiche e moderne vicende del Castello di Gallipoli, ampiamente ne parla il libro di Ettore Vernole con freschezza di scrittura e di una
straordinaria attualità, soprattutto nella descrizione dello stato del maniero.
Nell’ultimo capitolo, il XIII, Vernole scrive: «Dal 1857 il Castello aveva
socchiuso gli occhi ad un letargo inonorato ch’ebbe apparenze di morte, al
punto che, dopo il Sessanta [Unità d’Italia], per poco non fu venduto a privati per trenta o quaranta mila lire. […] Ma fu di quei primi decenni
l’abbattimento dei baluardi e delle cortine della Cinta bastionata, nelle
strutture elevantisi sul livello della strada perimetrale […] si volle
giustificare la demolizione della Cinta bastionata che oggi (se ancora
esistesse) sarebbe stata un Museo Storico, unico più che raro, pel turismo
moderno. Ma non vuol essere, questa mia, una sentenza di condanna. / Il
Castello, entrato nel Demanio patrimoniale dello Stato, sotto l’Amministrazione del Ministero delle Finanze, fu destinato a sede di Uffici Finanziari: vi si installarono man mano il Magazzino delle Privative, la Dogana, la Regia Guardia di Finanza, poi l’Ufficio del Registro, l’Ispezione Demaniale, l’Agenzia delle Imposte, e fra le mura che risuonarono di armature biascicaron le cifre burocratiche. / Abbattute le muraglie e i baluardi, con l’aria pura marina penetrarono in Città anche i miasmi del malcostume politico. […] Ultimo bagliore di opera durevole fu, nel terzo decennio dopo il Sessanta, la costruzione della galleria del Mercato Coperto sul canale-fosso che separava il Castello dalla Città: fu una di quelle opere necessarie nelle quali non sai trovare il punto di demarcazione tra la lode e la critica, fatto sta che essa formò un sipario dietro il quale la facciata solenne del Castello è nascosta al godimento dei nostri occhi. /

Des Prez - Gallipoli

Contemporanea, verso il 1886, fu la demolizione dell’ultima cortina superstite fra i baluardi Santa Vennardia e San Domenico, e la demolizione dei Fortini San Giorgio e San Benedetto e della Porta Civica: i blocchi ciclopici di calcestruzzo, ricavati da quelle demolizioni, furon
gettati per formare la scogliera protettiva di ponente che in pochi anni fu
inghiottita dal mare».

Altre negative vicende narra poi l’autore, e tutte a sfavore del vecchio
maniero, tanto che egli, rivogendosi alle autorità dell’epoca, le implora
affinché si prodighino per «la restaurazione del Castello “ad pristinum”, con
la destinazione a Sedi che sien degne di un Monumento Storico così insigne».
Fin qui Ettore Vernole e il suo libro “Il Castello di Gallipoli”, pubblicato
nel 1933. A partire da questa data, appena qualche anno fa, nel 2003, a
Gallipoli si è costituita l’Associazione “Anxa” on-lus col suo organo di stampa «Anxa news», sul cui primo numero, il direttore Luigi Giungato apre il suo articolo di fondo con un titolo a tutta pagina: “L’agonia del Castello di
Gallipoli”. Scrive: «Perché il Castello di Gallipoli non deve vivere come
avviene, invece, per gli altri castelli pugliesi, quali quello di Copertino o
il “Carlo V” di Lecce? Sino ad ora, oppresso dall’incuria inflittagli dalle
Autorità preposte e dalla trasformazione in caserma della Guardia di Finanza, è stato relegato a svolgere il pesante ruolo d’ingombrante immobile nel contesto  incantevole della “Città Vecchia”. Eppure è uno dei più antichi castelli dell’ Italia meridionale ricco di momenti storici esaltanti e decisivi per molte vicende della nostra terra». E poco oltre, sempre con tono pacato, il direttore di «Anxa-news», alquanto perplesso, afferma: «Un tempo strano il nostro! A Gallipoli si pavimentano con costoso mosaico i marciapiedi del Corso Roma e non si mostra interesse al recupero funzionale ed alla valorizzazione di una struttura essenziale per un efficiente sviluppo turistico e per una presenza più efficace nel panorama artistico-culturale di Terra d’Otranto, specie ora che è stato liberato dall’utilizzo come caserma della Guardia di Finanza».

Ma il clou dell’articolo di Giungato lo troviamo nel punto in cui fa la
proposta della necessità di «ripristinare la memoria storica e prendere
coscienza dell’importante ruolo [del Castello] vissuto nei secoli. Per
realizzare ciò, bisognerà procedere all’eliminazione del Mercato, alla
valorizzazione e ripristino del fossato o vallo del Castello, ideato dai
Veneziani nel 1484 ed eseguito dagli Aragonesi, evidenziando l’antico
quadrilatero staccato dalle mura civiche e collegato con la Città attraverso un ponte, come nel passato».

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L’appello del prof. Giungato non è stato un fuoco di paglia, no, perché al suo
primo intervento ne sono seguiti altri di gallipolini e anche di fuori. Da quel
momento in poi, e fino ad oggi che scriviamo, sulle pagine di «Anxa-news» ma anche su altri periodici locali e non, alta è stata sempre l’attenzione verso il vecchio maniero gallipolino. Ed anche prima di adesso, tanto che, ancora nel dicembre 1978, un’altra autorevole voce – quella di Antonio Perrella – si era levata alta dalle colonne di un periodico per dire: «I castelli in genere, e quelli di Puglia in particolare, sono stati in passato considerati come manufatti edilizi ingombranti, anacronistici e persino stridenti in un
paesaggio assolato e tranquillo. Invece di essere amati, accolti per lo meno
quali fatti di casa facenti parte a buon diritto dell’ambiente, hanno
rappresentato il simbolo di un medioevo oscuro ed opprimente come il tallone dei conquistatori stranieri che scorrazzavano nel sud. Sono stati considerati testimoni di fosche tragedie e scenari da romanzo nero ed infine degnati di attenzione solo a fini di utilizzo senza cura per le offese che il tempo ad essi riservava. Così, spesso, fenomeni di degrado sono diventati irreversibili (cfr. Antonio Perrella, “Sulla destinazione e l’uso del Castello di Gallipoli”, in «Nuovi Orientamenti», anno IX, Gallipoli, sett.-dic. 1978, n. 52-53, pp. 15-18).

E ancora, appena qualche anno dopo l’intervento del geometra Perrella, un’
altra personalità salentina, lo storico Aldo de Bernart, interveniva sullo
stesso periodico, affermando: «Tra i tanti monumenti di cui Gallipoli va fiera, il Castello angioino merita senz’altro il primo posto. Carico di anni e di
storia, sfila severo a fianco del turista che si accinge ad attraversare il
ponte che congiunge il borgo all’isola. / Abbandonato, dopo gli ultimi sussulti di gloria del ‘500 e gli ultimi aneliti di sfarzo del ‘700, e mortificato dalle costruzioni addossategli nel corso dei secoli, il Castello di Gallipoli,
proprio nel suo declino, ha avuto il suo massimo cantore, scrupoloso e
puntuale, in Ettore Vernole. È stato proprio il Vernole, intorno al 1931, a
mettere piede per primo, dopo anni di abbandono, nella sala poligonale che oggi è l’ambiente più emblematico e più fascinoso dell’antico maniero» (Cfr. Aldo De Bernart, “La Sala Poligonale del Castello di Gallipoli” (cfr. «Nuovi
Orientamenti”, anno XIII, Gallipoli, nov.-dic. 1982, n. 77, pp. 9-12).

Quanta passione, quanto amore per un edificio che rappresenta un passato
secolare di una comunità umana. Meglio di ogni altro sono sentimenti espressi dal canto melodioso di un poeta gallipolino, Luigi Sansò, che li fissò nei seguenti versi: «Il Castello // Nella grommata sua tinta vetusta / sovra l’onde tranquille si riflette / fiero il Castello: di sua luce augusta / indora il
sole al torrion le vette. / Ogni memoria, d’almi fati onusta, / ne’ fossati è
sepolta: da vedette / fan dei secoli l’ombre: la venusta / mantiglia azzurra il
ciel sopra vi mette / come drappo di gloria. E par che dica, / come un dì,
l’ampia mole – Non si varca / l’agil ponte da quei che con nemica / mente
s’accosti. Se anche d’anni carca / risorge a un cenno in virtù mia antica / e
contro l’invasor dura s’inarca».

Oggi, finalmente, dopo più di 70 anni, rivede la luce “Il Castello di
Gallipoli”, pubblicato nel 1933 da Ettore Vernole. La nuova edizione, editata da “Il Frontespizio” di Brindisi, ha il pregio di essere stampata da una tra le
più note Stamperie italiane ed europee, la Valdonega di Verona, che nella sua storia vanta pubblicazioni importantissime, fra cui l’edizione nazionale dell’opera di Gabriele D’Annunzio in 49 tomi, stampata personalmente con il torchio a mano dal grande stampatore Giovanni Mardersteig.
Questo libro, “Il Castello di Gallipoli” del Vernole, ha un frontespizio
stupendo con il suo “calice” perfetto, stampato con due colori (rosso e nero).
In fondo al libro, altro pregio straordinario, il suo colophon, che qui riporto
integralmente: «Composto nel carattere Garamond / vesione Val, questo volume è stato impresso / dalla Stamperia Valdonega di Verona / nel mese di luglio 2008 per conto / de “Il Frontespizio” editore / di Brindisi».

La guerra d’Otranto del 1480/81

turchi a otranto

di Maurizio Nocera

Gennaio 2011: il presidente del Circolo “Athena” di Galatina, prof. Rino Duma, mi dona un opuscolo che cito per intero: “Salvatore Panareo, Trattative coi Turchi durante la guerra d’Otranto (1480-81)”.

Oggi, più o meno, sappiamo quasi tutto sulla guerra di Otranto, e questo grazie alle Memorie di studiosi che si sono interessati e continuano ad interessarsi di quegli eventi. La cronologia essenziale della guerra d’Otranto ci dice che dall’11 agosto 1480 al 10 settembre 1481, gli ottomani tennero occupata la città. Finora gli studiosi ci hanno fatto sapere le stragi e le violenze che essi compirono in Otranto, ma pochi sono stati quelli che si sono posti domande del genere: “Cosa fecero gli ottomani, stando dentro le mura della città? E dopo la tremenda strage degli Ottocento, che tipo di rapporto s’instaurò fra gli abitanti e gli occupanti? Il vettovagliamento come fu organizzato?”.

Salvatore Panareo, nell’opuscolo sopracitato, si pone tali domande precisando che, «malgrado gli sforzi per terra e per mare delle armi cristiane, bisognò tollerare la presenza degl’invasori» (p. 1). Inoltre, egli spiega qual è il motivo della sua indagine: cercare di conoscere quali furono i «tentativi di pace col Turco avvenuti durante la guerra e sulle trattative svoltesi alla fine per il ricupero della città» (p. 3).

Egli ne cita una, questa: «Re Ferrante, allora in Foggia, che, malgrado qualche promessa e qualche sussidio, si vedeva isolato, si aggrappò allora a un disegno che più volte gli s’era affacciato alla mente, quello cioè di ottenere dal Turco pacificamente la restituzione di Otranto» (p. 6).

Furono diversi gli stratagemmi a cui il re ricorse, primo fra tutti quello di servirsi di un ambasciatore ferrarese, che, sia pure conalterne vicende, riuscì ad incontrare, nell’aprile 1481, in Albania (Saseno e Valona), Achmet Pascià e parlargli, magari, come scrive il Panareo, «offrirgli una somma di denaro» come riscatto per la liberazione della città, ma alla fine, tutto sommato, la missione fallì. Questo accadeva prima dell’estate 1481. Dalle cronache, sappiamo che in agosto ci furono gli assalti dell’esercito del duca Alfonso d’Aragona per il ricupero di Otranto, ma senza grandi risultati, che invece arrivarono dopo un altro incontro diplomatico, di cui re Ferrante si servì attraverso tal Dalmaschino, un turco «ritenuto prudentissimo e discreto e fornito anche del privilegio d’intendere e parlare la lingua italiana» (p. 12).

Ci furono ancora altre trattative, alla fine però, scrive il Panareo, ciò che fece precipitare la situazione a favore di Otranto, fu la morte del Sultano Maometto II. Scrive: «Gli assedianti, quantunque avessero i mezzi di resistere ancora qualche mese, pensarono allora a mantenere fedelmente i patti stabiliti e restituirono la città il 10 settembre» (p. 14). Era il settembre 1481, e gli ottomani avevano occupato Otranto per 54 settimane. Oltre che tenere militarmente occupata la città, oltre alle scorrerie fuori dalle mura per rubare e approvvigionarsi dei generi alimentari, cos’altro fecero al suo interno?

Al momento, gli studiosi non hanno approfondito tale tematica, per cui non si conosce molto di quel che accadde durante i 13 mesi dopo il sacco della città. Qualcosa possiamo leggere in alcuni saggi di studiosi stranieri presenti al convegno di Otranto del 1980, le cui relazioni furono pubblicate nel 1986 dall’editore Congedo di Galatina in due tomi intitolati “Otranto 1480. Atti del Convegno internazionale di studio promosso in occasione del V Centenario della caduta di Otranto ad opera dei Turchi (Otranto, 19-23 maggio 1980)”, a cura di
Cosimo Damiano Fonseca. A parere di molti, quello fu il convegno che segnò una svolta negli studi della guerra otrantina del 1480 perché, per la prima volta nella storia, vi presero parte due studiosi turchi, i proff. Sakiroglu e Nejat Diyarberkirli. Dei due, però, conosciamo solo il saggio del secondo, cioè quella del prof. turco Nejat Diyarberkirli, “Les Turcs et l’Occident au XVème siècle”. In essa ci sono alcuni passaggi importanti che ci fanno comprendere da parte turca qual era la situazione politico-militare nel Canale d’Otranto. Eccone alcuni di quei passaggi, ovviamente sommariamente tradotti: «Nel 1479 finalmente, la pace fu segnata tra i Veneziani e gli Ottomani, ma lo stesso anno cominciò la campagna di Otranto da parte degli Ottomani [che] l’11 agosto 1480» (p. 22) assediano la città sotto il comando del’ammiraglio turco Gédik Ahmet Pascià.

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Dopo avere fatto una ricognizione storica sugli avvenimenti collaterali alla guerra di Otranto, Diyarberkirli presenta un percorso che vede «Gedik Ahmed Pascià, prima di mettersi alla testa di questa spedizione [quella di Otranto], conquista le isole di Zacinto, Cefalonia e Aya-Mavra, appartenenti alla famiglia dei Tocco intervenendo così negli affari interni del regno di Napoli. L’anno successivo; Gedik Ahmet Pascià, incaricato di conquistare l’Italia del Sud, vale a dire il regno di Napoli, lascia Valona il 26 luglio 1480 con una forza di 18.000 uomini e 132 navi e arriva l’11 agosto sulle coste della Puglia impadronendosi di Otranto. Costringe poi il principe Alfonso, erede del regno di Napoli, a ritirarsi» (p. 24).

Sostanzialmente, la tesi di Diyarberkirli è che la presa di Otranto da parte degli Ottomani fu il frutto di uno scellerato scambio bellico tra alcuni stati italiani dell’epoca, quali il Vaticano, Venezia e Firenze. Ma oltre a ciò, lo studioso turco nulla aggiunge a quanto già sapevamo dell’occupazione ottomana della città.

Qualcosa in più riusciamo a sapere dalla relazione tenuta quello stesso giorno del convegno dal prof. Charles Verlinden, “La presence turque a Otranto (1480-1481) et l’esclavage”, dalla quale veniamo a sapere qualcosa sul numero degli otrantini ridotti a schiavi e dispersi nell’impero turco. Il dato che a noi interessa è quello che una volta occupata Otranto, ripulite le strade delle centinaia e centinaia di militari e civili morti nella difesa
della città (gli 800 martiri verranno invece ammazzati sul colle della Minerva e lì lasciati a decomporsi), gli occupanti, agli ordini di Achmet Pascià, riducono allo stato di schiavitù i cittadini che si erano salvati. Secondo lo studioso francese in Otranto, all’epoca della tragica guerra, «la popolazione […] non doveva superare le 5.000 – al massimo – 6.000 persone. In effetti, Nicola Sadolet, ambasciatore d’Ercole d’Este a Napoli, informò, attraverso il segretario del re di Napoli, […] che il 16 agosto 1480, Otranto contava 1.000 fuochi e poteva contenere 1.500 uomini armati. Lo stesso Sadolet, dieci giorni più tardi, annota “hanno mandato ala Valona, in una nave più de 500 anime cristiane”. Un altro informatore, Montecatino, parla, il 24, di “dove etiam li
haveno conducte mille anime”. Ammettendo che egli ordinò due invii di prigionieri, ridotti in schiavitù, a Valona e all’interno dello Stato turco e soprattutto verso la sua capitale, complessivamente si arriva ad un totale di 1.500 schiavi. Questa sembra una cifra abbastanza credibile, tenendo conto che ad essa vanno aggiunti gli 800 decapitati e gli uomini uccisi durante i combattimenti e massacrati immediatamente dopo l’ingresso dei Turchi, si arriva sicuramente ad un totale situato tra 2.500 e 3.000 “anime”. […] D’altra parte,
una località di 1.000 fuochi probabilmente si avvicina di più ad una popolazione di 5.000 piuttosto che di 6.000 anime, come dimostra la maggioranza dei dati sui fuochi conosciuti dalla demografia storica, questo sta a dire che i Turchi deportarono ugualmente un certo numero di giovani uomini e donne – sicuramente quelli meglio dotati fisicamente (pp. 148-149).

Secondo me, cogliendo le intuizioni e le domande che si pose a suo tempo Salvatore Panareo nell’opuscolo citato, quasi l’intera popolazione di Otranto del 1480/81 fu estirpata dalla propria città: chi massacrato sotto i colpi delle sciabole ritorte dei giannizzeri; chi invece ridotto alla stato di schiavo e trasferito prima nella città albanese di Valona e dintorni e chi, infine, disperso nel vasto impero ottomano.

Molto probabilmente, all’indomani della partenze degli occupanti, nella città di Otranto non rimase che qualche abitante più la moltitudine dei militari aragonesi. La ricostruzione dei fuochi abitativi di Otranto avvenne sulla base di un sostrato demografico di nuovo e inedito impianto, sicuramente importato da altre zone limitrofe della stessa Terra d’Otranto oppure da altre regioni del regno di Napoli.

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

NELLA CASA DI NOSTRA SIGNORA DEI TURCHI

A dieci anni dalla scomparsa di Carmelo Bene

 

NELLA CASA DI NOSTRA SIGNORA DEI TURCHI

 

di Maurizio Nocera

«Non sono nato per essere nato … L’indecenza della vita mi ha frequentato assidua fin dalla prima infanzia. Malattie d’ogni sorta e degenze, convalescenze continue; ambulatori diagnostici: coronarografie, biopsie, gastroendoscopie, scintigrafie, risonanze magnetiche; astanterie d’ospedali e sale operatorie, broncopolmoniti, paradontologie, odontoprotesi, epatopatie, infarti, accidentacci vertebrali, discopatie, disfunzioni gastrointestinali, anestesie complesse, interventi chirurgici logoranti, disfunzioni oculari, emicranie intollerabili, irriducibili insonnie, complicazioni delle vie urinarie. Non c’è brano di carne che Esculapio non abbia tralasciato».

(Carmelo Bene, Autobiografia di un ritratto, 1995)

Marzo 2012. Il Salento tutto è per Carmelo Bene (Campi Salentina 1 settembre 1937 – Roma 16 marzo 2002). Non solo il Salento però, perché il Maestro viene celebrato anche nel resto d’Italia. L’occasione è dovuta al 10° anniversario della scomparsa. Su di lui quanto non si è detto, quanto non si è scritto. Non pochi intellettuali hanno sentito il bisogno di intervenire per ricordarlo, per omaggiarlo. Non poteva accadere altrimenti e non hanno avuto ragione coloro che si sono lamentati che intorno al suo nome, forse, c’è stato troppo chiasso. Si può forse evitare a qualcuno di dire la sua in fatto di teatro, di letteratura, di poesia, di cinema, di televisione, di altro ancora? Quanto l’umanità non ha sofferto per le tante censure, troppe che, piuttosto che farla crescere, l’hanno condannata ad una perenne peregrinazione e a salti cangureschi?

Una delle iniziative celebrative si è tenuta appunto il 16 marzo a Lecce, nei locali della Tipografia del Commercio, dove il titolare Alberto Buttazzo ha ristampato per l’occasione una cartella contenente una grafica intitolata Gregorio, l’opera teatrale che Carmelo Bene, in un primo momento col titolo Gregorio, cabaret dell’800, e in un secondo tempo col titolo Addio porco, rappresentò a Roma (Ridotto dell’Eliseo) e a Lecce (Teatro Apollo) nel 1961. Di essa, è lo stesso Maestro che ci ha lasciato una testimonianza diretta in Vita di Carmelo Bene, autobiografia scritta assieme a Giancarlo Dotto nel 1998 per la Bompiani, nella quale precisa: «Nella prima parte si facevano a pezzi versacci di libretti d’opera dell’Ottocento. Nella seconda si passava a una specie d’afasia e, quindi, all’ammutolimento generale, ingurgitando cartaccia. Si usava la bocca solo per mangiare, ruttare e deglutire. Quasi sempre si mangiava in scena […] il finale di Addio porco. C’era una tavola apparecchiata, di quelle da osteria. Lui [l’attore Manlio Nevastri, in arte Nistri] faceva da mangiare in scena, in tempo reale, senza dar confidenza (la spesa la faceva il mattino al mercato di San Cosimato) e senza rinunciare al frac e alle ghette, le camicie, mezze maniche sommate. Ci mettevamo così tutti a tavola. Antipasto, primo e secondo. C’era chi mangiava, chi dialogava, chi leggeva un giornale, un altro ruttava./ Succedeva questo. Quelli in platea aspettavano di capire dove andasse a parare. Quale fosse il messaggio» (v. op. cit., II edizione 2006, pp. 125-127). Anche Tonino Caputo ha ricordato in che cosa consistesse lo spettacolo, precisando che finora «nessuno [lo] ha mai nominato nei recenti convegni su Carmelo. Era un delizioso collage di brani poetici tra fine ‘800 ed inizi ‘900, recitati in maniera molto libera e talmente movimentata che alcuni degli attori li proponevano dall’alto di una altalena, il cui dondolio si spingeva sino in testa al pubblico, per poi tornare indietro. Il tutto con i relativi problemi per l’incolumità degli spettatori, ai quali come minimo era assicurato un torcicollo».

Per evitare gli errori del passato, questa volta, gli organizzatori dell’evento di Lecce hanno pensato bene di far intervenire uno dei pochi amici dell’adolescenza del Maestro, fortunatamente ancora in vita: il pittore Tonino Caputo, leccese ma che da decenni vive un po’ nel resto del mondo. Gli altri amici rimasti in vita e che facevano parte della primitiva comitiva, che quasi quotidianamente s’incontrava sulla mansarda dei Bene in via dell’Antoglietta a Lecce, sono Antonio Massari e Ugo Tapparini. Tutti assieme questi amici di Carmelo hanno già scritto una loro testimonianza che figura in un libretto dal titolo Carmelo Bene, i primi passi da gigante (Kurumuny-teatro, Calimera 2004).

È quasi superfluo scrivere della genialità e del talento di questo straordinario figlio del Salento, indubitabilmente un rivoluzionario del teatro, riuscendo a trasformare l’essenza della macchina attoriale, ci preme piuttosto capire qui il suo percorso e, soprattutto quello iniziale attraverso il quale egli si formò. Ed è su questa traccia che si è articolata la memoria di Tonino Caputo, descrivendo un Carmelo Bene inedito per i più, di una sua amicizia durata circa una decina d’anni, in particolare dal 1960 agli inizi degli anni ’70, quando ancora Carmelo Bene non era il Carmelo Bene che noi oggi tutti conosciamo e che, quando nei primi tempi del suo trasferimento a Roma, per vivere decentemente, si dovette appoggiare alla casa del pittore salentino Caputo, il quale ha ricordato: «con Carmelo Bene c’è stato un sodalizio che è durato per alcuni anni. Personaggio geniale, […] ma con una vena di lucida follia e un elevato senso del proprio ego./ L’ho conosciuto a Lecce che aveva circa 16 anni. Mi attraeva quella sua estrema volontà, quel piglio prepotente che metteva nel voler sciogliere, in un corretto italiano, l’accento leccese./ Aveva ricavato un piccolo laboratorio di “posa” dalla lavanderia di famiglia e in quell’antro provava e riprovava al registratore, un piccolo “Geloso”, gli esercizi di dizione. Carmelo è un personaggio che pochi conoscono veramente, lui era un cantante lirico fallito. Noi leccesi nasciamo che vogliamo subito cantare: essere tenori, bassi, baritoni, ma quasi sempre ci scontriamo con la realtà vocale e così uno ci rinuncia. Lui invece non rinunciò e in seguito, anche quando recitava, ha continuato a cantare in prosa. Il suo recitare è il melodramma, che poi in realtà è l’unica forma di teatro vera esistente in Italia dopo la commedia dell’arte. Con il suo genio ha saputo trasferire queste forme artistiche in recitazione. Dopo le frequentazioni giovanili ci perdemmo di vista. In seguito venne a Roma per fare l’Accademia di Arte drammatica. Si trasferì a Genova e Firenze dove fece i primi spettacoli. Nel capoluogo toscano si innamorò di una donna più anziana di lui, l’unica che è riuscita a menare Carmelo e l’unica donna che lui ha amato veramente e con la quale ha avuto un figlio, morto giovanissimo. La sua violenza, anche verbale, si trasformava in bontà assoluta quando vedeva un bambino, un animale. Mentre l’astio verso i preti proveniva dall’aver studiato, in gioventù, presso i “Padri Scolopi”./ Nel 1962 ci ritrovammo a Lecce mentre era in corso un suo spettacolo [Gregorio] e tornammo assieme a Roma. Da quel momento venne a vivere con me aggiungendosi alla schiera dei molti che ospitavo» (per queste notizie più altre v. Caputo/ L’itinerario artistico di un pittore nomade, a cura di Michele Berardo, Canova 2004, Treviso).

Un’altra interessante testimonianza di Caputo l’abbiamo ascoltata quando ci ha detto questo: «vorrei innanzitutto chiarire che per Carmelo Bene, io non ho mai creato nessuna scenografia. Ho fatto invece molte pitture di scena, oltre i murales che decoravano l’intera sala del Beat 72 ed, in particolare, per Nostra Signora dei Turchi, il rosone che a fine spettacolo prendeva corpo sul fondale della scena, grazie ad una luce alogena. A parte, per sei spettacoli, ho disegnato ed inciso una serie di locandine. In ordine cronologico furono: Manon (al teatro Arlecchino, oggi Flaiano), Faust (al teatro dei Satiri), Nostra Signora dei Turchi, Salomè, Amleto (al Beat 72), ed infine Arden of Favershan (al teatro Carmelo Bene) Non di rado quelle locandine, opportunamente messe in vendita, risolvevano in qualche sera particolarmente difficile, la cena della compagnia. Quando gli spettatori variavano dalle 5 alle 10 unità, e non ancora le centinaia del teatro Argentina, tre locandine acquistate da veri appassionati, ci davano la possibilità di riempire lo stomaco, che alla fine di uno spettacolo non era di certo soddisfatto come lo spirito».

Mi piace chiudere questo breve ricordo di Carmelo Bene riportando una poesia di Antonio L. Verri, che gli dedicò pubblicandola nella raccolta Il pane sotto la neve (Lecce 1981): «(A Carmelo Bene)// Otranto ha gustosissimi grumi di neve/ un lungo discorrere della memoria/ vuota silenzio invernale nella mia mano/ bianca di turco spolpato.// È lontano ricordo anche l’aria/ che penetra tutto che tutto riempie/ è ricordo il mare che guarda masse/ corpi d’abbandono, memoria ancora/ – cristalli morbidi mutanti … -/ scrostata pazienza di casucce di storia».

È questo uno straordinario Antonio Verri, interamente versato nell’incanto favolistico di Carmelo Bene.

NdR: Pubblicato nel 2012 su Il Filo di Aracne.

Garibaldi e il Salento


di Maurizio Nocera

Il Salento, l’ottocentesca Terra d’Otranto, è stata una terra dove grandi e dure sono state le lotte per il conseguimento dell’Unità d’Italia. Qui, agirono figure di livello nazionale, come Bonaventura Mazzarella, Sigismondo Castromediano, Luigi Libertini, Antonietta De Pace, altri ancora. Fra di essi, sicuramente va annoverato anche Emanuele Barba, patriota e uomo insigne di Gallipoli, che ebbe relazioni con Giuseppe Garibaldi, Victor Hugo e altri scienziati e patrioti dell’epoca.

Fu soprattutto con Garibaldi che il Barba di Gallipoli tenne buoni e lunghi rapporti, rilevabili ancora oggi da documenti dell’epoca conservati nell’archivio romano dei Barba, tra cui Eugenio Barba, il famoso regista dell’Odin Teatret danese. Per lo più si tratta di manoscritti e materiale iconografico facente parte di una collezione di «ricordi garibaldini» che il Barba si era proposto di raccogliere a partire dal l882, anno della morte di Garibaldi e che chi qui scrive, nel 1982, anno del centenario della morte dell’Eroe dei Due Mondi, ebbe modo di studiare e trarre da essi alcune riflessioni, in parte poi pubblicate su «Il Corriere Nuovo» di Galatina (anno V, n. 5-6, 1982), diretto allora dal compianto Carlo Caggia.
Garibaldi e il Salento

Qui nel Salento è noto che il Barba fu un sincero patriota e che per tutta la vita rimase fedele agli ideali del Risorgimento. Egli, nel maggio 1848, aveva partecipato ai moti insurrezionali dando un non secondario contributo alla costituzione del Circolo patriottico gallipolino, sezione coordinata del Circolo patriottico leccese.

Per questa sua attività fu perseguitato e più volte incarcerato dalla polizia borbonica.

Fino a che non vide l’Italia unita, lottò sempre, partecipando a tutte le iniziative che nel Salento e nella Puglia vennero  prese a favore della liberazione dell’Italia del sud dal governo dei Borboni. Fu garibaldino della
prima ora, nel senso che si prodigò qui, nella sua terra, a propagandare e sostenere le azioni militari e politiche ispirate o dirette dal generale Garibaldi. La prima volta che manifestò pubblicamente l’ammirazione per Giuseppe
Garibaldi fu in occasione della prima “Festa patriottica”, svoltasi a Gallipoli all’indomani dell’unità nazionale. Sotto la statua dell’Italia turrita fece appendere la seguente epigrafe: «A Garibaldi unico/ l’Italia una.// La sua vita fu olocausto/ il suo nome/ sarà/ simbolo della libertà/ dei popoli».Questa targa marmorea, della quale non c’è più traccia nella città ionica, fu apposta a ricordo del grande contributo dato da Garibaldi alla causa dell’Unità d’Italia. Emanuele Barba, infatti, non dimenticò mai le numerose iniziative che l’Eroe dei Due Mondi più volte intraprese, soprattutto per liberare il Sud dai Barboni.

Nel 1860 Garibaldi, alla testa dei Mille, dopo aver sconfitto l’esercito borbonico ed aver conquistato la Sicilia, aveva reso possibile l’unità nazionale, non riuscendo però a liberare Roma ancora sotto governata dallo
stato pontificio. L’obiettivo del generale, però, piuttosto che quello di Camillo Benso, conte di Cavour, e di Casa Savoia, era quello di vedere Roma capitale dell’Italia unita; per questo, nel 1862, egli  intraprese nuovamente, ripartendo dalla Sicilia, un’azione militare, questa volta però interrotta sull’Aspromonte dalle truppe regolari del nuovo regno d’Italia governato da Torino dai Savoia. È noto che, in quella impresa, lo stesso generale, nel corso di quella operazione, fu ferito e fatto prigioniero. Nelle sue “Memorie” è lo stesso Garibaldi che così ricorda quegli avvenimenti: «dopo marce disastrose, per sentieri quasi impraticabili, l’alba del 29 agosto 1862 ci trovò sull’altipiano di Aspromonte, stanchi ed affamati […]. Giunsero i nostri avversari, e ci caricarono con una disinvoltura sorprendente […]. Noi non rispondemmo. Terribile fu per me quel momento. Gettato nell’alternativa di deporre le armi come pecore, o di bruttarmi di sangue fraterno! […]. Io ordinai non si facesse fuoco, e tale ordine fu ubbidito, meno da poca gioventù bollente alla nostra destra, agli ordini di Menotti […]. La posizione nostra nell’alto, con1e spalle alla selva, era di quelle da poter tenere dieci contro cento. Ma che serve, non difendendosi, era certo che gli assalitori dovevano presto raggiungerci. E siccome succede quasi sempre, essere fiero chi assale, in ragione diretta della poca resistenza dell’avverso, i bersaglieri che ci marciavano sopra, spesseggiavano [replicavano] maledettamente i loro tiri, ed io che mi trovavo tra le due linee per risparmiare la strage, fui regalato con due palle di carabina, l’una all’anca sinistra, e l’altra al malleolo interno del piede destro» (cfr. G. Garibaldi, “Memorie”, Avanzini e Torraca editore, Roma 1988, pp. 452-53).

A causa di questa ferita Garibaldi, dopo essere stato condotto a Varignano (forte militare nei pressi de La Spezia) fu condotto a Pisa, dove gli fu estratta la pallottola. Quindi, per evitare altre inconvenienze,  contrastanti con la monarchia sabauda, fu costretto a rifugiarsi a Caprera laddove, «dopo tredici mesi – scrive ancora nelle sue “Memorie” – cicatrizzò la ferita del piede destro, e sino al ’66 condussi vita inerte ed inutile» (cfr. Op. cit., pag. 454).

Però, occorre dire che proprio inerte ed inutile la vita trascorsa in quell’occasione da Garibaldi a Caprera non fu, in quanto il pensiero della liberazione di Roma rimase in lui più vivo che mai. Della liberazione di Roma, in quegli anni, si occuparono molti altri patrioti. Già il IX° Congresso delle Società Operaie (Firenze, settembre 1861) aveva deliberato, a conclusione dei suoi lavori, il massimo rafforzamento e la più ampia estensione dei Comitati di Provvedimento per Roma e Venezia, sorti dalla trasformazione dei preesistenti Comitati di soccorso a Garibaldi per Napoli e Sicilia, che avevano svolto un ruolo determinante prima e durante la lotta per fare unità l’Italia.

A Gallipoli, l’anima propulsiva di tali Comitati fu indiscutibilmente anche quella del dottor Emanuele Barba. Da molto tempo, infatti, egli si dedicava alla raccolta di fondi, tramite sottoscrizioni pubbliche, che periodicamente inviava all’organizzazione centrale. Di questa attività rivoluzionaria, dà notizia egli stesso su «Il Gallo», giornale popolare gallipolino, del 22 maggio 1862, da lui fondato e diretto con lo pseudonimo di Filodemo Alpimare. Scrive:
«Il nostro Comitato di Provvedimento per Roma e Venezia, il quale da 15 mesi [era stato costituito nel febbraio 1860] ha dato opera allo installamento di altri Comitati filiali in molti paesi del Circondario, in men di due alla distribuzione di più migliaia di Azioni pel Fondo Sacro, ha iniziato nella nostra Città una soscrizione» (cfr.  «Il Gallo», anno 1, n. 1, Stabilimento Tipografico, Lecce 1862, quarta pagina).

Il 4 novembre 1863, una delle tante somme raccolte dal Barba venne personalmente inviata a Giuseppe Garibaldi ancora in ritiro a Caprera per i postumi della ferita subita sull’Aspromonte. Dalla sua isola, l’Eroe dei Due Mondi rispose, ringraziandolo così: «Caprera, 12 novembre 1863. Signor Dottore Emanuele Barba. Ho ricevuto il vaglia di L. 287.39 pel fondo sacro Roma e Venezia e la prego ringraziarne per me i generosi oblatori.  Suo G. Garibaldi».
Due anni dopo, nel 1865, si costituì nuovamente un altro organismo simile al primo, il Comitato Unitario Costituzionale, questa volta con 1’obiettivo di sostenere, nelle elezioni parlamentari, i deputati della Sinistra. Su proposta del Barba, che in Gallipoli in quel momento assumeva l’incarico di vicepresidente dell’Associazione Elettorale Italiana, il Comitato locale venne intestato a Giuseppe Garibaldi.

Sul finire di quello stesso anno,  il Barba, con l’apporto di altri suoi compatrioti, fondò la Società Operaia di Mutuo Soccorso ed Istruzione della città, della quale divenne segretario a vita e compilò uno dei primi Statuti e Regolamenti delle società operaie e di mutuo soccorso di tutta Terra d’Otranto.

Anche in questa occasione, Emanuele Barba dimostrò di essere un fervente garibaldino. Agli operai e ai patrioti di Gallipoli, riunitisi il 4 dicembre 1865 per la fondazione della società, disse: «Fratelli Operai, confortati dagli esempi splendidissimi di altre città italiane, voi volete costituirvi in società di mutuo soccorso ed istruzione, del cui statuto e regolamento vi piacque commettermi la compilazione. Ebbene a ringraziarvi per tant’onore e fiducia vi dirò poche e franche parole, quali si addicono a leale operaio in libera terra. A me pare che col volervi affratellare in questa maniera, mostrate di essere capaci e degni di ogni bene, perché volete onestamente usare dei due primi e più antichi diritti dell’uomo, che sono la libertà e l’associazione. Io spero ancora che voi conseguirete ogni bene, perché volete compiere i due primi doveri dell’uomo sociale, che sono lo scambievole soccorso e l’istruzione. Io anzi affermo che voi già possedete i due maggiori beni che possono avere quaggiù gli operai cristiani, cioè la volontà di perseverare nel lavoro, il quale è l’origine più santa di ogni proprietà, la fine di ogni miseria, e il desiderio di uscir dall’ignoranza, la quale è il più funesto retaggio delle classi laboriose, la cagione precipua d’ogni loro sciagura. Voi dunque potete andare alteri d’imitare in ciò l’eroe più caro d’Italia nostra, Giuseppe Garibaldi» (cfr. “Statuto e Regolamento della Società Operaia di Mutuo Soccorso-Istruzione di Gallipoli”,  Tip. A. Del Vecchio, Gallipoli, 1866).

Di questo periodo della vita del Barba, dei suoi rapporti con Gariba1di, in modo più preciso e dettagliato riferisce anche l’avv. Stanislao Senape-De Pace, che scrisse queste parole:«Scettico in politica dopo il ’60, sentì ancora fremere potentemente il sentimento patriottico al 1866, quando tutta Italia sorgeva animosa a pugnare pel riscatto dell’antica martire delle Lagune, quando Garibaldi gridava: “A Vienna, a Vienna” e ricorrendo al Comitato per la liberazione di Roma e Venezia, che fu uno dei primi a costituirsi in Gallipoli, mandò all’esule di Caprera il contributo dei nostri conterranei. E sotto il governo italiano, ebbe ancora 1’onore d’essere sospettato di troppo liberalismo, tanto che dopo Aspromonte, ricevè varie perquisizioni domiciliari, perché si temeva, ed era vero, che facesse parte del Comitato per 1’arruolamento dei Garibaldini». (cfr. “Albo ad Emanuele Barba”, Tip. G. Campanella, Lecce 1888, p. 85).

Un’altra prova di ammirazione per l’Eroe dei Due Mondi, Emanuele Barba lo manifestò pubblicamente nel 1873 quando, assieme ad alcuni amici poeti, fra i quali Forleo-Casalini, Forcignanò, Prudenzano, Adele Lupo, Minervini ed altri ancora, pubblicò un opuscolo di poesie e racconti brevi, sul quale fece stampare un suo componimento poetico, dal titolo “Garibaldi su la tomba di Ugo Foscolo nel 21 aprile 1864”: «Sotto ciel nebuloso e brulla terra/ Giace lung’ora, ahimè! colui che s’ebbe/ Da ignari e da tiranni eterna guerra:/ Di quei che in Grecia nato Italo crebbe/ Le sacre ossa ignota gleba serra:/ Chi di Pindo e Valchiusa al fonte bevve,/ Chi combattèa dei despoti le brame,/ Dei “Sepolcri il cantor” moria di fame!// Volgon più lustri – e l’Anglica nazione / Plaude festante al Forte di Caprera;/ Muto ristà dei liberi il campione/ All’aurà popolar – Ei tutto spera/ In un pensier di patria religione/ Che rifulge qual Sol che non ha sera:/ E colui che i due mondi onoran tanto/ D’Ugo il sepolcro confortò di pianto.// E dopo il pianto con pietosa mano/ Depone una corona in su l’avello;/ Poi togliendo al divin Carme un brano/ Di suo pugno lo incide su di quello;/ E alla tomba del Pindaro italiano/ Esclama alfin, Macedone novello:/ Ad Ugo al generoso al grande al forte/ Giusta di glorie dispensiera è morte.// E quel grido ripetesi da un’eco/ Che alla voce risponde degli eroi;/ Si ripercuote il grido in ogni speco,/ Quel grido già commove il petto a noi/ Che di Foscolo il genio italo-greco/ Ereditammo, perché figli suoi;/ E… Italia grata omai alzi una voce:/ Ugo riposa eterno in Santa Croce» (cfr. E. Barba, in  “Strenna del giornale «L’Araldo Gallipolino» per l’anno 1873”, p. 63).

Appena due anni dopo, Emanale Barba, nel commemorare a Gallipoli il 19° Anniversario dell’Unità d’Italia, dedicò un nuovo componimento poetico – “Un sospiro di Garibaldi nella festa nazionale del 1875” – con versi che ovviamente riflettono lo stato d’animo di quei patrioti desiderosi di vedere Roma capitale
d’Italia.
Questi stessi versi, scritti su un foglio volante e distribuito in Gallipoli come un volantino, Emanuele Barba li inviò anche a Garibaldi, che così gli rispose: «Prof. Emanuele Barba – Gallipoli. Grazie per la vostra lettera del 7 luglio e per i vostri bei versi. Vi stringo la mano e sono Vostro G. Garibaldi. Frascati, 10 – 7 – 75».
Era il 1875, Garibaldi aveva 68 anni e, la maggior parte del suo tempo, lo trascorreva a Caprera. L’Italia era ormai unita e Roma ne era la capitale. Anche Emanuele Barba non era più il giovane rivoluzionario risorgimentalista del 1848 e la sua vita (ha 56 anni) trascorreva prevalentemente fra i libri della Biblioteca Comunale di Gallipoli, della quale era stato nominato bibliotecario a vita, Le sue preoccupazioni maggiori erano rivolte ad arricchire di libri gli scaffali della biblioteca e, nello stesso tempo a dare corpo a quella splendida istituzione da lui stesso creata e che a tutt’oggi è il Museo naturalistico gallipolino, una delle istituzioni pubbliche più importanti dell’intero Salento. Questi suoi interessi, però, non gli impedirono di continuare ad avere come faro della sua azione l’Eroe dei Due Mondi. Quando Garibaldi morì a Caprera, il 2 giugno 1882, Emanuele Barba dedicò un nuovo componimento poetico, intitolato “Il Forte di Caprera”, VI° Canto dell’ “Album di dolore sulla tomba di G. Garibaldi”, pubblicato a cura dell’amico patriota Luigi Forcignanò.

Ad avvisarlo della morte dell’Eroe erano stati il garibaldino Timoteo Riboli e l’amica Antonina Ceva-Altemps, sposata Stampacchia, due personaggi importanti della prima Italia unita. Timoteo Riboli (1808-1895) era medico e patriota di Colorno, fedelissimo di Garibaldi il quale, nella prefazione alle sue “Memorie”, lo ricordò con queste parole: «Ai cari D.ri Prandina, Cipriani, Riboli, io devo pure una parola di gratitudine, siccome al D.re Pastore. Il D.re Riboli in Francia, chirurgo capo dell’esercito dei Vosges, fu contrariato da indisposizione seria ed accanita. Così stesso, egli non mancò di prestar opera utilissima» (cfr. G. Garibaldi, “Memorie”, Op. cit., pag. 39).

Il Riboli, che fu pure massone come Sovrano Commendatore della Giurisdizione italiana del Supremo Consiglio del Rito scozzese antico e accettato, ebbe anche il delicato compito, affidatogli da Garibaldi, di collocare il manoscritto de “I Mille” presso un editore. Corrispose con Emanuele Barba sin dal 1880. Antonina Ceva-Altemps Stampacchia era la moglie del patriota salentino e medico di Casa Savoia Gioacchino Stampacchia.

Entrambi questi due amici del Barba, dopo la morte dell’Eroe, continuarono ad informarlo di tutte le iniziative organizzate in Italia nel nome di Garibaldi.  Per anni gli inviarono lettere e fotografie del generale, con le quali il Barba iniziò a formare quella collezione di «Ricordi garibaldini» (oggi conservata a Roma nel ramo della famiglia Barba colà stabilitasi), alla quale rimase affezionato per il resto della vita. Egli aveva formato un piccolo faldone di carte, chiuso con un biglietto inviatogli dall’amico Luigi Castellazzo (1827 – 1890), patriota e garibaldino sin dal maggio ’48, che aveva preso parte alle campagne militari per l’Unità d’Italia del 1859 e del 1860 come ufficiale di Giuseppe Garibaldi. Il Castellazzo fu pure deputato, e cominciò a corrispondere col Barba a partire dal 1884.
Sul biglietto, che chiude il falcone, c’è scritto un pensiero, secondo me di estrema attualità. Eccolo: «Se Garibaldi rivivesse, Egli, nella sua magnanima e fiera natura di Patriota e di Eroe, imprecherebbe a questa Italia degenerata, che lo commemora a parola, gli erige monumenti di pietra, ma non sa imitarne le
virtù, proseguire l’opera e compierne i sublimi ideali».

NdR: Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per la concessione

Il castello di Corigliano d’Otranto (Lecce)

di Maurizio Nocera

 

Il Castello di Corigliano d’Otranto (Lecce, Edizioni del Grifo 2009, pp. 290, euro 28), a firma di Giuseppe Orlando D’Urso e Sabrina Avantaggiato.

Si tratta del primo volume della collana Helios, diretta da Harvé A. Cavallera. Il libro come prodotto in sé è ben confezionato con numerose illustrazioni ed una copertina cartonata stampata, “vestita” da una sovraccoperta similare. La grafica editoriale e la copertina sono di Federico G. Cavallera, mentre le immagini provengono dalla Foto Video Serra di Corigliano d’Otranto. Hanno patrocinato l’edizione: la Sezione di Maglie, Otranto e Tuglie della Società di Storia Patria per la Puglia, della quale il D’Urso è socio; e la Cartolibreria di Gino Giannachi di Corigliano d’Otranto.

Chi sono i due autori? Giuseppe Orlando D’Urso, «attivo e presente nella vita e sociale del territorio […] ha animato diversi gruppi teatrali e culturali, per poi rivolgere la sua attenzione alla ricerca storica»  con diverse pubblicazioni, alcune con la stessa casa editrice, come “Corigliano d’Otranto. Memorie dimenticate” (2000); “Le strade del Signore sono ferrate. Corigliano d’Otranto 1901-2001. Significatività Sociale dell’Opera Salesiana” (2001); “Corigliano d’Otranto. L’Arco Lucchetti, il Castello, la Chiesa Matrice” (2005); mentre con la Casa editrice EditSantoro ha pubblicato “Corigliano d’Otranto. Famiglie (Comi-Maggio-Gervasi-Peschiulli”) (2005); “Gaetano Papuli e le Sette Antichità di Corigliano d’Otranto” (2005). Sabrina Avantaggiato invece è architetta ed è alla sua prima pubblicazione.

In quarta di copertina c’è l’abstract del volume che così commenta: «Con

Otranto e l’albero di Pantaleone

da Wikipedia

Dedicato a Don Grazio Gianfreda il volume «Note di storia e di cultura salentina» (2)

Nel volume «Note di Storia e Cultura Salentina» (Argo Editrice), annuario a cura di Fernando Cezzi, ed organo della Società di Storia Patria per la Puglia una miscellanea di Studi dedicati a Mons. Grazio Gianfreda. Il volume è introdotto da un ricordo di mons. Grazio Gianfreda di Maurizio Nocera riprodotto qui nella sua seconda parte.

« (…) il mondo basato sulle grandi visioni sintetiche e interculturali, come quelle raffigurate sul Mosaico, si è frantumato. / La programmazione informatica, da parte sua, più che mettere ordine in tale universo, rappresenta con i suoi archivi computerizzati solo una difesa disperata, mossa dalla consapevolezza che i frantumi sono diventati cocci, pezzi ormai inutili»

« (…) Nel Mosaico c’è l’incontro tra l’integrazione culturale di Alessandro il Grande, la romanizzazione dell’Impero Romano, l’arte e la cultura dell’Impero Arabo, la Rinascenza dell’Impero Bizantino e le culture dell’Europa Occidentale: nella Cappella degli 800 Martiri, invece, c’è il risultato dello scontro tra civiltà. L’incontro produce l’“opus insegne”; lo scontro rovina, distruzione, morte»

 
 
 
da Wikipedia

L’albero di Pantaleone

Maurizio Nocera

Altro libro che mi donò Don Grazio Gianfreda, sempre con dedica, fu la sua bella e agile “Guida di Otranto” (Edizioni del Grifo, Lecce 1993), nella quale riprende l’argomento della chiesa di San Pietro, confermando alcune affermazioni e precisando alcune datazioni.

Scrive: «la Chiesa bizantina di San Pietro risale al sec. IX. È tutta affrescata. Sulla cupola dell’altare è la “Annunciazione”; nella conca sottostante è

Gallipoli e il suo castello

di Maurizio Nocera

Ci fu un tempo in cui il luogo che noi oggi chiamiamo Gallipoli, veniva ancora indicato col nome di Anxa, parola che può ritenersi di origine messapico-cretese. Con tale nome la indicò pure Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis historia” [Storia della Natura], pubblicata nell’anno 77 della nostra era, dove scrisse: «… in ora vero Senonum Gallipolis, quae nunc est Anxa» [… inoltre sul litorale dei Sènoni Gallipoli, che ora è Anxa]. A sua volta, Pomponio Mela,  nella sua opera “De Situ Orbis” [Del luogo della Terra], scrisse: «Urbs Graia  Kallipolis» (Città Greca Gallipoli), dove “Kallipolis” sta per “Kalé Polis”, che in greco significa appunto Bella Città.

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Ancora prima dei due scrittori latini, i padri della poesia e della storia dell’antica Grecia, fra cui Esiodo (VIII sec. a. C.), Ecateo di Mileto (VI sec. a. C.), ed Erotodo (V sec. a. C.), nelle loro opere scrivono anch’essi della Iapigia-Messapia. Nelle sue “Storie”, Erodoto, a proposito dello sfortunato viaggio del cretese Minosse il quale, una volta giunto in «Sicania» (Sicilia), perì di morte violenta, narra di un conseguente viaggio di numerosi cretesi che  lasciarono la loro isola navigando alla volta della Sicilia per riprendersi la salma del loro re. Erodoto scrive: «Quando, durante la navigazione, si trovarono presso la costa iapigia, una violenta tempesta li avrebbe sorpresi e sbattuti contro terra: sicché, essendosi spezzate le navi, e non vedendosi più alcuna via di ritornare a Creta, fondata in quel luogo la città di Iria, ivi rimasero e divennero Iapigi-Messapi […] invece di Cretesi, e continentali da isolani che erano. Da Iria, dicono, fondarono le altre colonie…» [cfr.
Erodoto, “Storie” (a cura di Luigi Annibaletto), Mondadori marzo 2007, I Classici Collezione Greci e Latini, volume secondo, libro VII, 171, p. 1297].

Sulla Iapigia-Messapia, più particolari ci vengono forniti anche dall’altro padre della storia greca antica, Tucidide (V sec. a. C.) il quale, nella sua monumentale opera “La guerra del Peloponneso”, a proposito delle traversie marinare della flotta atenietese diretta a Siracusa, narra di un evento che è lecito interpretare come collegato al luogo Anxa-Gallipoli. Scrive Tucidide: «Ma i Siracusani, in seguito allo scacco subito con i Siculi, si trattennero dall’attaccare subito gli Ateniesi; intanto Demostene ed Eurimedonte, dato che le truppe raccolte da Corcira [Corfù] e dalla terraferma erano ormai pronte, attraversarono con tutto quanto l’esercito lo Ionio fino al capo Iapigio; partiti di lì presero quindi terra alle isole Cheradi, in Iapigia, dove imbarcarono sulle navi dei tiratori iapigi, circa centocinquanta, appartenenti alla stirpe messapica, e rinnovarono con Arta – che aveva tra l’altro procurato loro i tiratori, in qualità di dinasta del luogo – un certo vecchio patto di amicizia, per poi ripartire verso Metaponto, in Italia» (cfr. Tucidide, “La guerra del Peloponneso”, a cura di Luciano Canfora, Mondadori, I Classici Collezione Greci e Latini, Mondadori, giugno 2007, volume secondo, libro VII, 33, p. 969).

Si conoscono le frontiere entro cui era circoscritta l’antica Iapigia-Messapia, più o meno inscritte nel periplo della costa della punta del tacco d’Italia, con il confine a Nord-Est, verso l’attuale Bari, non oltre Egnazia, e il confine a Nord-Ovest, verso Taranto, non oltre Manduria. Le isole Cheradi di cui parla Tucidide non possono non stare che entro questi confini, tanto che al di sopra o al di là di essi, sarebbe stato impossibile al navarchi ateniesi Demostene e Eurimedonte imbarcare i centocinquanta tiratori di «stirpe messapica», come sarebbe stato impossibile incontrare il dinasta Arta, capo dei curioni dei Messapi, in quel momento residente nella potente città di Alyzia [l’ attuale Alezio], situata nel più vicino entroterra all’approdo marittimo Anxa-Gallipoli. Da ciò è possibile dedurre che le isole Cheradi citate da Tucidide altro non possono essere che le isole dell’arcipelago gallipolino, formato dalla città-isola Anxa-Gallipoli, dall’isola di Sant’Andrea e dagli isolotti Campo e Piccioni; nel tempo antico, accanto a queste isole citate esistevano altri isolotti affioranti, successivamente risommersi dalle acque del mare.

Dopo queste importanti indicazioni il nome di Anxa come pure il nome di Kalè Polis scomparvero per secoli e l’isolotto-città, dopo la definitiva vittoria dei Romani sui Messapi e l’imposizione della nuova lingua latina nella Iapigia, cominciò a chiamarsi – e da allora continua ad essere così –  soltanto col nome di Gallipoli.

La pubblicazione in due versioni de “Il Libro Rosso di Gallipoli” [quella curata da Amalia Ingrosso con prefazione di Benedetto Vetere (Galatina, Congedo 2004), e quella curata da Elio Pindinelli (Gallipoli 2003)], con documenti che risalgono fino al XIII-XIV secolo, ci dà l’idea di quanto fosse importante, nel tempo antico, l’isola-città-fortezza di Gallipoli, per cui sono veramente tante le citazioni del suo nome, e in particolare del suo Castello.

Dell’importanza del Castello nei secoli, se n’era reso conto lo studioso Ettore Vernole, tanto che fu uno dei pochi a visionare e attingere fonti certe dal “Libro Rosso di Gallipoli”; libro che sicuramente avrà visto anche l’umanista Antonio De Ferraris, detto Galateo, il quale, il 12 dicembre 1513, scrisse una stupenda lettera – “Callipolis descriptio” [Descrizione di Callipoli] – a Pietro Summonte, suo sodale nell’Accademia Pontaniana di Napoli, dicendo che l’isola-città nella quale egli risiedeva in quel momento, aveva «tratto il nome dalla sua bellezza e non senza ragione. Fu città greca: ignoro donde Plinio abbia appreso che qui si fossero stanziati i Galli Sénoni. Questa città, invece, non si chiama Gallipoli, ma Callipolis come recano antichi codici» (cfr. Antonio De Ferraris Galateo, “Lettere”, nella traduzione e commento di Amleto Pallara, Conte editore, Lecce 1996, p. 97). E poco oltre il Galateo continua la sua epistola descrivendo l’ingresso della città: «Davanti al castello, che si erge sulla città, c’è un ponte che lascia congiungere i due tratti di mare, i quali rendono Callipoli non una penisola ma una vera e propria isola. Da quel punto la terra si riallarga a tondo, assumendo la forma di una padella. Il perimetro della città non è molto ampio; a occhio e croce non supera dieci stadi. Callipoli all’epoca in cui fu distrutta non era sufficientemente difesa né da mura né da macchine da guerra né da guarnigione.
Ora, invece, è validamente fortificata e dalla terraferma e dal mare offre di sé una vista superba, fiera e bellissima per la quale io penso che la chiamarono Callipoli gli antichi Greci» (op. cit., p. 98).

Oggi, guardando le antiche piante cartografiche (mi riferisco in particolare a quelle pubblicate nel libro dello storico gallipolino Federico Natali, “Gallipoli nel Regno di Napoli. Dai Normanni all’Unità d’Italia” (Galatina, Congedo 2007), inserto iconografico tra le pagine 256-257), alcune della quali  risalgono più o meno allo stesso periodo del Galateo, si vede come fosse Gallipoli nel ‘500-600. Le piante dell’isola-città prese in considerazione sono tratte da antichi dipinti conservati nelle chiese di Alezio e  Gallipoli, che qui cito:
1. Particolare della tela ad olio di “S. Pancrazio”, del pittore Giandomenico Catalano, dipinta nel XVII secolo ed esposta nella Chiesa di S. Maria della Lizza ad Alezio;
2. Particolare della tela ad olio de “Il Vescovo Capece implora la protezione di S. Carlo Borromeo su Gallipoli”, anche questa tela è del pittore Giandomenico Catalano, dipinta nello stesso secolo ed esposta nelle stessa chiesa ad Alezio;
3. Particolare della tela ad olio della “Vergine e i Santi Eligio e Menna”, dello stesso pittore e dello stesso secolo, esposta nella sacrestia della Cattedrale di S. Agata a Gallipoli;
4. Particolare della tela ad olio di “S. Domenico”, dello stesso pittore e secolo, esposta nella chiesa di S. Maria del Rosario a Gallipoli;
5. Veduta dell’antico abitato di Gallipoli, dipinta dal pittore Luigi Consiglio nella seconda metà dell’800, attualmente esposta nel museo di Gallipoli.

Tutte queste tele hanno in comune un particolare: lo sguardo del pittore che dipinge è dalla parte del borgo nuovo, per cui l’abitato dell’isola-città evidenzia  sempre e di primo acchito il Rivellino col Castello in contiguità, quindi il perimetro delle mura turrite con i fortini, i baluardi, i bastioni e i torrioni. In questi dipinti altro particolare interessante sono i ponti, non uno che congiunge la terraferma all’isola-città, ma due, il primo che va verso la città e il secondo che collega la terraferma al solo Rivellino. Un’altra pianta, sempre leggibile sulle stesso libro del Natali (tra le pagine 128-129) è quella denominata “Scenografia prospettica della città di Gallipoli” della fine del XVI secolo (tratta dal Coronelli): in questa veduta a volo d’uccello è visibile la struttura dell’isola-città-fortezza con i quattro torrioni del Castello, qui collegato attraverso una terrazza al Rivellino, quindi il perimetro delle grandi mura turrite intervellate dai fortini di “San Benedetto” e “San Giorgio”; i baluardi di “Santa Vennardia”, “San Domenico o Dell’ Annunziata” e “San Francesco”; le torri di “San Luca”, “Quartararo o degli Angeli”, “Sant’Agata”, “Purità”, “San Francesco di Paola o dello Scorzone” e “Bombarda o San Giuseppe”. Altro particolare interessante, su questa tela il pittore ha dipinto anche lo «Scoglio grande» più altri scoglietti, allora esistenti, oggi non più.

Tutto ciò sta a documentare l’esistenza del castello gallipolino sin da tempi antichi; sull’isola-città nel IV sec. a. C. vi abitò per un certo periodo anche il potente Archita, grande curione di Taranto e discepolo prediletto ed erede ideale del vate Pitagora.
Di tutte le antiche e moderne vicende del Castello di Gallipoli, ampiamente ne parla il libro di Ettore Vernole con freschezza di scrittura e di una straordinaria attualità, soprattutto nella descrizione dello stato del maniero.
Nell’ultimo capitolo, il XIII, Vernole scrive: «Dal 1857 il Castello aveva socchiuso gli occhi ad un letargo inonorato ch’ebbe apparenze di morte, al punto che, dopo il Sessanta [Unità d’Italia], per poco non fu venduto a privati per trenta o quaranta mila lire. […] Ma fu di quei primi decenni l’abbattimento dei baluardi e delle cortine della Cinta bastionata, nelle strutture elevantisi sul livello della strada perimetrale […] si volle giustificare la demolizione della Cinta bastionata che oggi (se ancora esistesse) sarebbe stata un Museo Storico, unico più che raro, pel turismo moderno. Ma non vuol essere, questa mia, una sentenza di condanna. / Il Castello, entrato nel Demanio patrimoniale dello Stato, sotto l’Amministrazione del Ministero delle Finanze, fu destinato a sede di Uffici Finanziari: vi si installarono man mano il Magazzino delle Privative, la Dogana, la Regia Guardia di Finanza, poi l’Ufficio del Registro, l’Ispezione Demaniale, l’Agenzia delle Imposte, e fra le mura che risuonarono di armature biascicaron le cifre burocratiche. / Abbattute le muraglie e i baluardi, con l’aria pura marina penetrarono in Città anche i miasmi del malcostume politico. […] Ultimo bagliore di opera durevole fu, nel terzo decennio dopo il Sessanta, la costruzione della galleria del Mercato Coperto sul canale-fosso che separava il Castello dalla Città: fu una di quelle opere necessarie nelle quali non sai trovare il punto di demarcazione tra la lode e la critica, fatto sta che essa formò un sipario dietro il quale la facciata solenne del Castello è nascosta al godimento dei nostri occhi. /

Contemporanea, verso il 1886, fu la demolizione dell’ultima cortina superstite fra i baluardi Santa Vennardia e San Domenico, e la demolizione dei Fortini San Giorgio e San Benedetto e della Porta Civica: i blocchi ciclopici di calcestruzzo, ricavati da quelle demolizioni, furon gettati per formare la scogliera protettiva di ponente che in pochi anni fu inghiottita dal mare».

Altre negative vicende narra poi l’autore, e tutte a sfavore del vecchio maniero, tanto che egli, rivogendosi alle autorità dell’epoca, le implora affinché si prodighino per «la restaurazione del Castello “ad pristinum”, con la destinazione a Sedi che sien degne di un Monumento Storico così insigne».
Fin qui Ettore Vernole e il suo libro “Il Castello di Gallipoli”, pubblicato nel 1933. A partire da questa data, appena qualche anno fa, nel 2003, a Gallipoli si è costituita l’Associazione “Anxa” on-lus col suo organo di stampa «Anxa news», sul cui primo numero, il direttore Luigi Giungato apre il suo articolo di fondo con un titolo a tutta pagina: “L’agonia del Castello di Gallipoli”. Scrive: «Perché il Castello di Gallipoli non deve vivere come avviene, invece, per gli altri castelli pugliesi, quali quello di Copertino o il “Carlo V” di Lecce? Sino ad ora, oppresso dall’incuria inflittagli dalle Autorità preposte e dalla trasformazione in caserma della Guardia di Finanza, è stato relegato a svolgere il pesante ruolo d’ingombrante immobile nel contesto  incantevole della “Città Vecchia”. Eppure è uno dei più antichi castelli dell’ Italia meridionale ricco di momenti storici esaltanti e decisivi per molte vicende della nostra terra». E poco oltre, sempre con tono pacato, il direttore di «Anxa-news», alquanto perplesso, afferma: «Un tempo strano il nostro! A Gallipoli si pavimentano con costoso mosaico i marciapiedi del Corso Roma e non si mostra interesse al recupero funzionale ed alla valorizzazione di una struttura essenziale per un efficiente sviluppo turistico e per una presenza più efficace nel panorama artistico-culturale di Terra d’Otranto, specie ora che è stato liberato dall’utilizzo come caserma della Guardia di Finanza».

Ma il clou dell’articolo di Giungato lo troviamo nel punto in cui fa la proposta della necessità di «ripristinare la memoria storica e prendere coscienza dell’importante ruolo [del Castello] vissuto nei secoli. Per realizzare ciò, bisognerà procedere all’eliminazione del Mercato, alla valorizzazione e ripristino del fossato o vallo del Castello, ideato dai Veneziani nel 1484 ed eseguito dagli Aragonesi, evidenziando l’antico quadrilatero staccato dalle mura civiche e collegato con la Città attraverso un ponte, come nel passato».

L’appello del prof. Giuntato non è stato un fuoco di paglia, no, perché al suo primo intervento ne sono seguiti altri di gallipolini e anche di fuori. Da quel momento in poi, e fino ad oggi che scriviamo, sulle pagine di «Anxa-news» ma anche su altri periodici locali e non, alta è stata sempre l’attenzione verso il vecchio maniero gallipolino. Ed anche prima di adesso, tanto che, ancora nel dicembre 1978, un’altra autorevole voce – quella di Antonio Perrella – si era levata alta dalle colonne di un periodico per dire: «I castelli in genere, e quelli di Puglia in particolare, sono stati in passato considerati come manufatti edilizi ingombranti, anacronistici e persino stridenti in un paesaggio assolato e tranquillo. Invece di essere amati, accolti per lo meno quali fatti di casa facenti parte a buon diritto dell’ambiente, hanno rappresentato il simbolo di un medioevo oscuro ed opprimente come il tallone dei conquistatori stranieri che scorrazzavano nel sud. Sono stati considerati testimoni di fosche tragedie e scenari da romanzo nero ed infine degnati di attenzione solo a fini di utilizzo senza cura per le offese che il tempo ad essi riservava. Così, spesso, fenomeni di degrado sono diventati irreversibili (cfr. Antonio Perrella, “Sulla destinazione e l’uso del Castello di Gallipoli”, in «Nuovi Orientamenti», anno IX, Gallipoli, sett.-dic. 1978, n. 52-53, pp. 15-18).

E ancora, appena qualche anno dopo l’intervento del geometra Perrella, un’altra personalità salentina, lo storico Aldo de Bernart, interveniva sullo stesso periodico, affermando: «Tra i tanti monumenti di cui Gallipoli va fiera, il Castello angioino merita senz’altro il primo posto. Carico di anni e di storia, sfila severo a fianco del turista che si accinge ad attraversare il ponte che congiunge il borgo all’isola. / Abbandonato, dopo gli ultimi sussulti di gloria del ‘500 e gli ultimi aneliti di sfarzo del ‘700, e mortificato dalle costruzioni addossategli nel corso dei secoli, il Castello di Gallipoli, proprio nel suo declino, ha avuto il suo massimo cantore, scrupoloso e puntuale, in Ettore Vernole. È stato proprio il Vernole, intorno al 1931, a mettere piede per primo, dopo anni di abbandono, nella sala poligonale che oggi è l’ambiente più emblematico e più fascinoso dell’antico maniero» (Cfr. Aldo De Bernart, “La Sala Poligonale del Castello di Gallipoli” (cfr. «Nuovi Orientamenti”, anno XIII, Gallipoli, nov.-dic. 1982, n. 77, pp. 9-12).

Quanta passione, quanto amore per un edificio che rappresenta un passato secolare di una comunità umana. Meglio di ogni altro sono sentimenti espressi dal canto melodioso di un poeta gallipolino, Luigi Sansò, che li fissò nei seguenti versi: «Il Castello // Nella grommata sua tinta vetusta / sovra l’onde tranquille si riflette / fiero il Castello: di sua luce augusta / indora il sole al torrion le vette. / Ogni memoria, d’almi fati onusta, / ne’ fossati è sepolta: da vedette / fan dei secoli l’ombre: la venusta / mantiglia azzurra il ciel sopra vi mette / come drappo di gloria. E par che dica, / come un dì, l’ampia mole – Non si varca / l’agil ponte da quei che con nemica / mente s’accosti. Se anche d’anni carca / risorge a un cenno in virtù mia antica / e contro l’invasor dura s’inarca».

Oggi, finalmente, dopo più di 70 anni, rivede la luce “Il Castello di Gallipoli”, pubblicato nel 1933 da Ettore Vernole. La nuova edizione, editata da “Il Frontespizio” di Brindisi, ha il pregio di essere stampata da una tra le più note Stamperie italiane ed europee, la Valdonega di Verona, che nella sua storia vanta pubblicazioni importantissime, fra cui l’edizione nazionale dell’opera di Gabriele D’Annunzio in 49 tomi, stampata personalmente con il torchio a mano dal grande stampatore Giovanni Mardersteig.
Questo libro, “Il Castello di Gallipoli” del Vernole, ha un frontespizio stupendo con il suo “calice” perfetto, stampato con due colori (rosso e nero).
In fondo al libro, altro pregio straordinario, il suo colophon, che qui riporto
integralmente: «Composto nel carattere Garamond / vesione Val, questo volume è stato impresso / dalla Stamperia Valdonega di Verona / nel mese di luglio 2008 per conto / de “Il Frontespizio” editore / di Brindisi».

Architettura contadina del Salento. Muretti a secco e pagghiari

Libri/ Rossella Barletta, Architettura contadina del Salento. Muretti a secco e pagghiari, Capone Editore

 

Pietra su pietra

di Maurizio Nocera

Perché interessarsi ancora (e sempre) dell’architettura rurale pugliese? Perché attraverso lo studio ed il recupero di questa realtà noi possiamo conoscere le origini, i costumi, le tradizioni di chi ci ha preceduto, di chi ha segnato questo territorio con il lavoro e con la speranza di lasciare testimonianze vive e utili alle generazioni che sarebbero venute. Ma anche per tentare, dopo decenni e decenni di abbandono, di progettare per dette aree un loro riutilizzo attraverso una riqualificazione ambientale, e così poter ritornare a rivivere e ad essere utili per i nuovi orizzonti turistico-culturali. Per fare tutto ciò, però, occorre avviare progetti e studi che identifichino e descrivano dettagliatamente le aree rurali, per le quali occorre poi tracciare le necessarie linee di intervento per la riqualificazione ed il loro recupero funzionale.

È importante quindi avere come obiettivo immediato il recupero dei trulli dell’area della Murgia brindisina, barese e tarantina, il recupero delle “pajare” e delle “caseddhe” del Salento, di quelle del foggiano e della Bat, infine occorre recuperare il vasto patrimonio dei muretti a secco che, per migliaia di chilometri, insistono in tutta la regione. Studiare le aree rurali pugliesi significa narrare la loro secolare storia; significa descrivere le loro caratteristiche costruttive; significa conoscere la differenza tra trullo primordiale e trullo evoluto, tra trullo e “pajara” o “furneddhu”, e tra questi e le “caseddhe”. Ciò è per noi importante per capire l’evoluzione della caratteristica struttura abitativa rurale dei pugliesi.

 

Lo “studio” di Giovanni Santini

Oggi però non iniziamo da zero. Nel passato ci sono stati studiosi che hanno dedicato non poche attenzioni al paesaggio rurale. Si pensi, ad esempio, a Luigi Maggiulli, Sigismondo Castromediano, Filippo Bacile di Castiglione, altri ancora. E non molto tempo fa, alla cultura e alle architetture del paesaggio rurale la Società di Storia Patria per la Puglia dedicò due convegni di importanza nazionale. Il primo, su iniziativa della stessa e in collaborazione col “Centro studi sui territori rurali” di Pavullo nel Frignano (Modena), intitolato “Storia e problemi della Montagna Italiana”, ebbe luogo a Pavullo il 21 e 23 maggio 1971; il secondo invece, organizzato sempre dalla Società di Storia Patria per la Puglia e dalla sua Sezione Dauna, con l’adesione della regione Puglia ed ancora del “Centro studi di Pavullo”, intitolato “Distretti rurali e città minori”, ebbe luogo a Lucera (col coinvolgimento anche dei sindaci e delle amministrazioni comunali di Troia e Monte Sant’Angelo) il 17-19 marzo 1974.

Cito questi due eventi perché in essi alcuni studiosi della materia tennero delle relazioni importanti per il loro carattere metodologici come, ad esempio, furono gli interventi di Giovanni Santini, all’epoca ordinario dell’Università di Bari il quale, nella relazione “Ipotesi di lavoro e ricerche interdisciplinari”, riferendosi al paesaggio “civile” italiano, individuò tre aree di “civiltà” storicamente vissute. La maggiore, che è quella dei grandi centri urbani come sono i capoluoghi di provincia. L’intermedia, che è quella caratterizzata dai centri urbani agglomerati del tipo Gallipoli, Ostuni, Martina Franca, Barletta, Manfredonia, ma anche territori rurali con una rilevanza storico-culturale del tipo Parchi letterari (ad esempio, quello intitolato al meridionalista Tommaso Fiore nell’area altamurana); infine, e siamo al dunque, le aree minori o “minime”, quelle cioè in cui Santini, sulla scia del March Bloch de “I caratteri originari della storia rurale francese” (Torino 1973) e del Fernand Braudel degli “Scritti sulla storia” (Milano 1973), individua come aree delimitate da confini ben precisi come, ad esempio, sono le corti, le pievi, i castelli e quant’altro sta nelle loro più immediate vicinanze. Per noi il concetto di aree “minime” vale per le zone rurali che hanno o hanno avuto un’omogeneità colturale e architettonica.

Lo studio del Santini aveva come obiettivo quello dell’integrazione delle aree “minime” con le intermedie e queste ultime, a loro volta, con i grandi centri urbanizzati. «Solo così – egli scrive nella sua relazione – con un grandioso sforzo collettivo di presa di coscienza del passato, potremo programmare il futuro dei territori rurali italiani nel rispetto delle loro tradizioni e della loro personalità storica, oltreché, naturalmente, delle esigenze del presente […]. In tal modo [… sarà possibile] veramente, una rinascita del mondo rurale, rendendolo protagonista del suo rinnovamento» (cfr. Atti del II Convegno “Distretti rurali e città minori”, SSPP, Bari 1977, p. 210). Lo studioso auspicava allora che, per procedere su questa strada, occorreva avviare una fase conoscitiva e scientifica e solo, dopo di essa, sarebbe stato possibile mettere in atto politiche e proposte fattibili capaci di rinnovare il territorio “minimo” raccordandolo e integrandolo col resto del paesaggio urbano e rurale. Sappiamo che da decenni, per non dire da qualche secolo, ciò non è stato fatto, un po’ per un’assurda visione dell’Italia unitaria e post-unitaria, nella quale doveva crescere economicamente solo il Nord, mentre il Sud doveva solo consumare la ricchezza prodotta; un po’ anche per l’incuria e la debolezza dello stesso personale politico-amministrativo dello stesso Meridione, per il quale era sufficiente vivere solo il presente senza preoccuparsi di quello che sarebbe stato il futuro, soprattutto quello delle generazioni che si sarebbero succedute, cioè i nostri figli.

Il recupero delle aree “minime”

Oggi occorre quanto prima tentare di colmare le lacune del passato cercando, sulla scia delle considerazioni del Santini ma anche su quelle di altri studiosi, di contribuire ad un progetto di recupero delle aree “minime”, con l’obiettivo della loro integrazione e raccordo con le aree urbanizzate e culturalmente più attrezzate della regione. Da subito va avviato il recupero dei muretti a secco e dell’architettura dei trulli, delle “pajare” e delle “caseddhe” con l’obiettivo immediato di intervenire per verificare il loro stato di conservazione, e là dove v’è urgenza di un intervento, metterlo in atto restaurando oppure consolidando le strutture dei manufatti. In questo ampio progetto di rivitalizzazione delle aree “minime” rurali pugliesi occorre coinvolgere tutti coloro che vivono in rapporto con la terra, e il riferimento va ai vecchi e nuovi lavoratori agricoli, ai piccoli e medi contadini, agli extra-comunitari e ai giovani italiani in cerca di lavoro, dando loro ovviamente dignità di retribuzione.

Il trullo

Importante è sapere com’è fatta la struttura del trullo, consistente nel “pinnacolo” (l’ultimo esile concio in verticale che si innalza al centro del tetto); la “carrazzola”, altrimenti detta anche “serraglia” (chianca o lastra di pietra circolare che chiude la copertura conica); le “chiancarelle” (mattoncini piatti che ricoprono il tetto costruito in forma di cono con inclinazione di circa 45 gradi); la “intercapedine” (spazio tra le chiancarelle esterne e la linea di pietre a secco che costituiscono la parete interna del trullo, in dialetto salentino chiamata anche “muraja”); la “cannella” (volta costruita ad anelli circolari con diametro decrescente verso l’alto); il “compluvio” (sistema di immissione della acque piovane nella cisterna); l’ “ingresso” (unica porta che permette l’entrata e l’uscita dal trullo); gli “settaturi” (sedili in pietra a ridosso dell’ingresso); il “soppalco” (utilizzato come deposito o posto letto); la “alcova” (parte della stanza contenente il letto e solitamente adibita a dormitorio); la “cisterna” (può essere interna scavata al di sotto delle fondamenta del trullo oppure scavata esternamente e affiancata ad esso). Quando il trullo è in forma trapezoidale (più rara) gli angoli sporgenti vengono costruiti con i cosiddetti “peducci”, che sono pietre più grosse rispetto alle altre usate per le pareti normali. Non poche volte, in Puglia, si incontrano trulli o “pajare” o “caseddhe” circondate da grandi mura perimetrali (“paritoni”) che delimitavano lo spazio dell’aia o degli animali da cortile.

“Pajare” e “caseddhe”

Il tipo di struttura del trullo vale anche per le “pajare” o “furneddhi”, più presenti nel basso Salento, il cui aspetto è in forma tronco-conica o tronco-piramidale (“tholos”) con pareti a secco spesso non intonacate. Nel libro “Ripari trulliformi in pietra a secco nel Salento” (Progeca, Tricase 2007), Francesco Calò scrive che «Le costruzioni trulliformi utilizzate come veri e propri ripari di campagna, sono particolarmente diffuse a sud, nel basso Salento, lungo le fasce costiere. Sono ripari stagionali costruiti interamente a secco» (p. 15), precisando che «un’evoluzione dei ripari trulliformi sono le “caseddhe” e le “liàme”, costruzioni in pietra a secco e a pianta quadrangolare, sempre rustiche, ma più stabili e più comode sul campo. Le prime, poco diffuse, hanno una copertura risolta a due spioventi di tegole di terracotta» (p. 38).

Calò nei primi capitoli del suo libro fa opportuni riferimenti storici sull’estensione europea del fenomeno dei ripari costruiti con pietre a secco, ed interessante è l’approfondimento che egli fa sulle origini della struttura architettonica rurale. Nel capitolo “Etimologia dei termini”, egli definisce e chiarisce specificamente termini come “pagliaro” o “pagghiara” e “pagghiarune”; “trullo” (sinonimo di “tholos”), o “truddhu” o “chipuru”, o “furnu” e “furneddhu”; “casella” o “caseddha” o “liàma” o “lamia”. Interessante è pure il capitolo “Procedimento costruttivo e struttura”, nel quale descrive come viene costruito un riparo con pietre a secco. Scrive: «i ripari trulliformi in pietra a secco sono generalmente costruzioni con struttura interna monocellulare, cioè dotate di un solo ambiente, e sono costruite in pietra a secco secondo il più volte citato principio delle “mensole aggettanti”, che permette di realizzare una varietà di pseudo-cupole, specialmente le tholos più classiche. Questo sistema per risolvere la copertura, apparentemente complesso, è in realtà molto semplice, poiché deriva dal sistema del triangolo di scarico, così come la cupola e la volta a botte sono derivate dall’arco a tutto sesto. Il contadino o l’esperto costruttore, dopo aver terminato l’approvvigionamento delle pietre, inizia il procedimento costruttivo scegliendo prima il sito. Successivamente, disegna la planimetria del riparo direttamente sul terreno, che può assumere due forme, quella circolare, più primordiale, o quardrangolare, più recente, differenziando, così, la parte inferiore del volume del riparo. La copertura è risolta solitamente a “tholos”, più raramente, a “piramide” o a “barca” rovesciata» (p. 55).

Il maestro costruttore Donato Pinzetta

Occorre quanto prima prendere coscienza dell’importanza delle architetture rurali pugliesi, soprattutto per un loro riutilizzo in funzione produttiva ed anche in quella turistico-culturale. E in primo luogo occorre attrezzarsi di una legislazione regionale tale che impedisca inutili sconvolgimenti dell’assetto territoriale agricolo, evitando episodi già accaduti che hanno visto distruggere o spostare tali architetture dai siti in cui da secoli e pure da millenni stavano, per trasportarle in ville o in luoghi che non hanno nulla a che vedere con la loro storia di pietre. Occorre seguire le indicazioni di chi sulla terra e tra le pietre di questa terra ci vive con amore e passione come, ad esempio, il maestro costruttore di muretti a secco Donato Pinzetta, di Tricase, e il geometra Antonello Palma, di Montesano, i quali, in un’illuminante intervista condotta da Paolo Palomba, pubblicata su «il Paese nuovo» (8 luglio 2009), hanno difeso con competenza le architetture a secco del Salento. Alla domanda posta dal giornalista Palomba [«Geometra Palma, quali strategie tecniche si sente di suggerire all’opinione pubblica, al fine di preservare tali opere architettoniche, viste come espressione importante della civiltà contadina?»], Palma ha risposto così: «è importante e doveroso che soprattutto il tecnico (geometra, ingegnere, architetto) sensibilizzi e stimoli l’opinione pubblica a prevenire qualsiasi alterazione delle costruzioni rurali; spesso, purtroppo, questi reperti del passato vengono modificati impropriamente, con materiali diversi da quelli originari. Più che il tufo o il cemento armato, deve essere garantita la struttura nativa di siffatto patrimonio dell’umanità, nonché espressione architettonico-culturale del Salento. Si tratta di “guardare il vecchio per fare il nuovo”, suggerendo la presenza di codici e regolamenti che tengano conto della memoria storica, in vista dell’emanazione di nuovi ed efficaci piani regolatori territoriali».

L’umanesimo della pietra

Comunque, sul terreno della difesa delle strutture architettoniche rurali, qualcosa è cominciato a muoversi. Nel 2000 fu Nico Blasi, studioso a quel tempo attivo nell’associazione martinese “Umanesimo della Pietra”, che si interessò dell’importanza delle costruzioni trulliforme rilasciando una intervista a «Quotidiano di Lecce» (14 luglio 2000), raccolta da Anita Preti. In essa, Blasi afferma che «Si può fare di tutto con i trulli. L’importante sarebbe conservare il tempo per amarli e rispettarli». E sull’appello del Blasi, non pochi studiosi e molti pugliesi innamorati del nostro paesaggio stanno oggi lavorando per ridare dignità alle antiche architetture rurali. Come di recente ha fatto Rossella Barletta, con la pubblicazione di un suo libro intitolato “Architettura contadina del Salento. Muretti a secco e pagghiari” (Capone Editore, Cavallino 2009, pp. 96, euro 8), che si presenta con due stupende immagini (entrambe scatti dell’archivio della Casa editrice) di copertina (in prima un “pajarone” e in ultima un muretto a secco dalle caratteristiche pietre ad incastro verticale-orizzontale-obliquo).

Il libro di Rossella Barletta

Di immagini bellissime è colmo l’intero libro, che è introdotto dalla Presidente dell’Istituto di Culture Mediterranee della Provincia di Lecce, Maria Rosaria De Lumè, che scrive: «L’architettura rurale […] è il frutto di una molteplicità di relazioni che hanno strutturato nel tempo un determinato luogo, esito visibile di numerosi fattori culturali […]. C’è un altro modo per definire l’architettura rurale: muretti a secco, “pajare”, “pagghiare”, “furneddhi”, fanno parte di quella che viene indicata ‘architettura vernacolare, con cui si intende quel tipo di costruzioni realizzate in sede locale da popolazioni che lavorano senza servirsi di professionisti, ma facendo ricorso esclusivamente a quanto appreso per tradizione orale e tecnica. È, per questo, un’architettura consolidata che non presenta segni rilevanti di sviluppo nel tempo, resa sicura dall’esperienza che ha contribuito a stratificare le conoscenze. Per questo, proprio perché è collegata all’ambiente, i materiali sono quelli del luogo, pietre su pietre, senza collanti. Muretti a secco, terrazzamenti, costruzioni a forma di capanna che assumono nomi diversi, masserie costituiscono un mare di terre e pietre, e non solo nostro. […]. L’architettura di pietre a secco nei paesi del Mediterraneo ha avuto certamente origini differenziate per quanto riguarda tempo e forse anche per gli usi. Non si esclude infatti che le costruzioni a cono richiamino strutture funerarie presenti in Grecia e nell’isola di Pantelleria. Sappiamo con certezza che l’architettura a secco delle nostre regioni è certamente più tarda di quella della Grecia o dell’Egitto. Ma il filo che lega le capanne che davano riparo ai contadini della Mesopotania già nel III millennio a. C. ai nostri trulli, “pagghiare”, ecc. è sempre il medesimo, un filo di pietra» (p. 5).

Il paesaggio e la pietra

Nel prologo, la Barletta fa riferimento al paesaggio salentino, affermando che a dominarlo è «l’albero d’ulivo così estesamente presente da infoltire autentiche foreste che si perdono a vista d’occhio», l’altro aspetto è dato dalla roccia calcarea, assai diffusa, tanto da far derivare da essa perfino alcuni giuochi che allietavano le nostre passate generazioni; e fa l’esempio del giuoco dei cinque sassolini (in dialetto salentino “tuddhri”, o “patuddhri”, “pituddhri”, paddhri”, e “vota manu”). Bello il riferimento che fa l’autrice alla forma della pietra. A p. 28, scrive: «A volte la pietra grezza si presenta con forme modellate senza alcun intervento dell’uomo, erose dal vento e dalla pungente salsedine portata dai venti di scirocco; nella maggior parte dei casi è stata assemblata dando vita ai “murieddhri”, muretti, dai contadini tenaci e caparbi, quando hanno conquistato un palmo di terra che, ripulito, ha accolto ortaggi, leguminose, filari di vite, piante di capperi oppure alberi d’ulivo, di fico, di carrubo o di mandorlo, organismi vegetali che resistono alla scarsa umidità del terreno, oppure sono servite per delimitare le proprietà terriere o i percorsi di campagna, separare appezzamenti della stessa masseria diversamente coltivati, stabilizzare le scarpate, sostenere i terrazzamenti che hanno interrotto l’acclività del terreno e, talvolta, hanno consentito di praticare le più idonee coltivazioni».

Tutto vero. Chi qui scrive è nato in uno di questi “furneddhi” posto al centro di un’estesa cava di tufo del Salento, delimitata sui suoi alti confini da muretti a secco aventi la funzione di circoscrivere protettivamente l’argine del precipizio. All’interno della cava, tutt’intorno appunto alberi di fico, ficodindia, allori, mirti, filliree, lentischi, corbezzoli, e timo a più non posso tra tufi e pietraglia disseminata un po’ ovunque.

I muretti a secco

La Barletta fa poi un’utile descrizione dei muretti a secco definendoli “pariti” o “parieti” utili a recingere un appezzamento di terreno; chiama “lu quataru” o “quadaru” il varco che, ad un certo punto, si apre per accedere nel campo; oppure chiama “jazzu”, “ncurtaturu” o “curtale” il muretto a secco che recinge un ovile; “paritone” o “limitone” chiama invece il muraglione, che aveva la «funzione esclusivamente difensiva […] composto da grossi massi informi sovrapposti a secco». A questo punto doverosi sono gli opportuni riferimenti che l’autrice fa agli studi di Antonio Costantini, uno dei massimi esperti del paesaggio rurale salentino e delle architetture in pietra a secco, nello specifico “limitoni” e “paretoni”.

Interessante è la tecnica di costruzione dei muretti a secco indicata da Rossella Barletta. Scrive: «Per costruire il muro è preliminare raggiungere il banco di roccia o lo strato di terreno più solido e compatto sul quale si traccia talvolta uno scavo, una specie di fondamenta, in gergo denominato “scarpa”, sulla quale si pongono due file parallele di pietre di grossa pezzatura, facendo combaciare il più possibile il profilo col terreno […]. Sulle prime pietre vengono poggiate le altre, di dimensione inferiore, a mano a mano che il muro sale verso l’alto; si allineano seguendo una guida costituita da due cordicelle annodate a pali mobili, posti all’esterno del muro, che si spostano come cresce il muro. Lo spazio che si crea tra le due file di pietre, in gerco “cassa”, viene colmato con pietrame informe» (p. 40-42). Vengono poi descritte varie dimensioni di muretti a secco e varie esecuzioni di chiusura degli spazi interstiziali come della copertura. Interessante il capitolo “Muretti con nervature litiche”, che tratta dei vari modi di rinforzo dei muretti a secco, facendo un escursus storico sulla loro origine; come interessati sono i riferimenti agli attrezzi (“li fierri”) utili al “patitaru” o “truddhraru” (costruttore) per costruire i muretti: “lu zzeccu”, o “zzoccu” o “zueccu” (piccone); le “puntazze” (chiodi grandi e rustici). Interessante è anche le denominazioni che l’autrice dà delle differenti costruzioni rurali, che qui, riprendendo anche quelle già citate, ritrascrivo: «“pagghiara”, “pajara”, “pajaru”, “tuddhru”, “suppinna”, “furnu”, “furnieddhru”, “càvalaci”, chipùru” (questi ultimi due usati prevalentemente nei centri della Greca), “caseddhra”, “liama”, “ruddo” (nella campagna di Muro Leccese e Santa Cesarea Terme), “umbracchiu”, dal latino “umbraculum”, riparo, riposo (p. 63). Ad ognuna di queste denominazione corrisponde un’area entro cui essa viene usata dai locali come, ad esempio, «“caseddhri” (termine preferito dagli abitanti» della costa ionica.

Le architetture di supporto

Il libro della Barletta si conclude con i capitoli relativi agli architetti delle costruzioni rurali e alle architetture di supporto, quali: l’aia (“aiara”), il pozzo (“puzzu”), il pollaio (“puddhraru”), la pila (“pileddhra”), la cisterna (“matrìa”). L’autrice infine si auspica che venga istituita una «”strada della pietra” che colleghi i luoghi dove prevalgono muretti e casolari in pietra o, ancora meglio, l’istituzione di uno specifico eco-museo che fornisca ai cittadini […] consapevolezza di questo patrimonio paesaggistico-storico-culturale, perché comprendano la tenace ostinazione di chi continua a volere vivere a contatto della pietraia ed a volere custodire la propria autonomia e […] perché prendano atto che i manufatti in pietra […] assumono una funzione di straordinaria attualità» (p. 93).

Alle pp. 80-81 è possibile vedere le differenti immagini (scatti del foto-scrittore Lorenzo Capone) delle tipologie delle “pajare” e di alcune loro architetture di supporto, tra le quali una sola immagine appare animata (la n. 11). Tra i testi allegati, è possibile leggere la poesia “Sono uno di loro” (p. 22) di Ennio Bonea; “Opus incertum” (p. 37-38) di Alfonso Acocella; “Muri a secco” (pp. 45-46) di Riccardo Venturi; e la poesia “Contadine del Capo” (p. 68) di Donato Moro.

( da Paese nuovo del 26/2/2010)

Romanzo “brigante”

 
(da wikipedia)

1861-2011 – 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, Brigantaggio e secessionismo (3.)

di Maurizio Nocera

Se «si vuole comprendere veramente il “brigantaggio”, è proprio nel “quotidiano” dei contadini del Sud che bisogna scavare, immergendosi nell’atmosfera dei tempi, dei luoghi e dell’umanità che li percorse: bisogna – in altri termini – tentare un approccio al fenomeno che non sia preconcetto e partigiano, ma storico e antropologico»

La “miseria” del Mezzogiorno era “inspiegabile” storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di citta-campagna, cioè che il Nord concretamente era una “piovra” che si arricchiva alle spese del Sud e che il [suo] incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale»

Romanzo “brigante”

di Maurizio Nocera

Ancora un appunto su un altro importante riferimento storico. Spesso i borbonici, quando parlano o scrivono di brigantaggio, richiamano una frase che Antonio Gramsci avrebbe scritto sul suo settimanale torinese «L’Ordine Nuovo» del 1920. È strano che costoro che citano Gramsci non diano mai le giuste indicazioni bibliografiche. Non riprendo qui la frase gramsciana di cui costoro si servono per richiamare il giudizio sullo Stato unitario, perché significherebbe per me, ancora una volta, falsificare la verità storica. Antonio Gramsci, in qualità di segretario generale del Partito comunista d’Italia, ha scritto tutt’altre frasi.

La supremazia del Nord

Conosco bene gli scritti di Gramsci su quel suo settimanale. Egli scrisse solo due editoriali di carattere, diciamo così, istituzionale: “Lo Stato italiano” (cfr. «L’Ordine Nuovo», 7 febbraio 1920, p. 282; e “Stato e libertà” (cfr. «L’Ordine Nuovo», 10 luglio 1920, p. 65). In questi articoli Gramsci denuncia le mostruose disparità economiche tra Nord e Sud, senza fare alcun accenno al brigantaggio, ma solo alle masse contadine meridionali costrette dai governi della Destra, primo fra tutti quello di Cavour, a

Amedeo Curatoli pittore

 

 

di Maurizio Nocera

Nel febbraio 2006, l’Assessore agli Affari Sociali del Comune di Napoli, Raffaele Tecce, nel Catalogo “Disegni” Mostra personale di Amedeo Curatoli (Napoli,La Città del Sole, 2006) scriveva: «È con grande gioia ed orgoglio che ho accolto l’invito dell’amico e Maestro Amedeo Curatoli a scrivere di lui e della sua Mostra “Disegni”, patrocinata dal mio Assessorato e da me sostenuta con enorme impegno./ Mi onora poter esprimere, in un momento tanto importante, tutta la stima e l’affetto che nutro per Amedeo, per la sua passione per la lotta e per la politica che in maniera così viva, traspare dalla sua arte».

Ebbene, in questa sintesi è enucleata l’intera avventura umana dell’artista

A 530 anni dalla guerra di Otranto (1480/81-2011) (II parte)

 

1480/81-2011 – 530° Anniversario della guerra di Otranto

 

LA GUERRA DI OTRANTO DEL 1480

di Maurizio Nocera

… Ma vediamo ora la scansione temporale della cronologia essenziale della guerra di Otranto:

– il 28 luglio la flotta navale (130/150 navi), comandata dal navarca Achmet Pascià Keduk, sbarcò i suoi uomini (dalle 10 alle 15 mila unità) più 400/600 cavalli ai Laghi Alimini (8 Kma Nord di Otranto). In quel luogo costruirono il loro campo;

– il 9 agosto cominciò il primo assalto, respinto dagli otrantini;

– il 10 agosto il secondo assalto, anch’esso respinto;

– l’11 agosto il terzo, e fu quello che conquistò la città, subito dopo messa a sacco;

– il 18 agosto il Pascià Achmed inviò un ultimatum di arresa alle città di Lecce e di Brindisi, che resistettero. La flotta ottomana allora inseguì il suo obiettivo di espansione spingendosi sulle coste baresi e su quelle della Capitanata. Dalle popolazioni native fu organizzata una prima controffensiva degli eserciti e della flotta navale del re Ferrante d’Aragona, che:

– il 25 settembre fece giungere nelle acque del Canale d’Otranto la flotta napoletana;

– la prima settimana di ottobre gli Ottomani cominciano a ritirarsi dentro le mura di Otranto. Una parte dei militari vennero rinviati a Valona (Albania); in Otranto rimasero all’incirca 6.500 fanti e 500 cavalieri;

– il 7 febbraio 1481, presso Minervino di Lecce, avvenne uno scontro frontale tra i militari ottomani e un piccolo esercito organizzato da Giulio Acquaviva, conte di Conversano, luogotenente generale del duca di Calabria Alfonso d’Aragona. Com’è risaputo, l’Acquaviva rimase ucciso assieme ad altri suoi 700 soldati;

– in aprile, i militari ottomani presenti in Otranto vennero ridotti a circa 4.000. Il Pascià Achmed era andato via; le cronache dicono che era ritornato a Istanbul per chiedere rinforzi;

– il 2 maggio, al comando di Alfonso d’Aragona, l’esercito napoletano-aragonese si posizionò davanti a Otranto, molto probabilmente sull’altopiano,

Per non dimenticare Antonio Verri

di Paolo Vincenti

Fate fogli di poesia, poeti, vendeteli per poche lire!”.

Quella di Antonio Verri è una figura centrale nel panorama della cultura salentina degli ultimi anni. Personaggio eclettico, brillante ed attivissimo sul fronte della promozione culturale, animatore instancabile di varie iniziative, voce dissonante, personaggio “contro”, per usare una espressione forse abusata, poiché Verri non era “contro”, ma, se mai, “ a favore” della cultura e della rinascita salentina, attraverso la poesia, la scrittura, l’arte in genere.

Era nato a Caprarica di Lecce, nel 1949, e fin da giovanissimo aveva manifestato un grande amore per la sua terra ed al tempo stesso una certa insofferenza per la cultura accademica, per i circoli asfittici di quegli intellettuali aristocratici che intendono la cultura come “elitaria”, riservata a pochi eletti.Verri odiava quella immagine quasi macchiettistica che si dava del Salento con i suoi riti, usi e costumi, che da folklorici diventano folkloristici, ed odiava quella operazione di marketing con cui si voleva e si vuole vendere il nostro Salento ai turisti, con poca anima e poca attenzione alla nostra storia ed identità vere. Egli non accettava che la letteratura diventasse anch’essa merce di scambio, sottoposta alle regole della domanda e dell’offerta, alla legge del profitto, insomma. Per questo si diede da fare, autofinanziandosi, con iniziative che potevano sembrare folli, ma che folli non erano. Stampò da solo i suoi primi volumi e fece dei volantini con le sue poesie, senza nessun tornaconto economico ma, anzi, rimettendoci, come purtroppo assai spesso, oggi,  accade a chi voglia fare promozione culturale nel Salento.

Antonio Verri fu poeta, giornalista, romanziere ed editore. Molto forte il suo legame con Parabita, anche e soprattutto grazie all’amicizia con Aldo D’Antico, il quale, con la sua casa editrice “Il Laboratorio”, pubblicò, nel 1988, I trofei della città di Guisnes, e più volte ebbe Verri ospite a casa sua o alle varie manifestazioni culturali parabitane organizzate  dallo stesso D’Antico.

Verri spendeva tutto se stesso nelle iniziative in cui credeva  e,  purtroppo, un tragico incidente stradale lo ha  prematuramente portato via. Ebbe l’idea di distribuire, in numerose città italiane, un “Quotidiano dei Poeti”, che durò solo quindici giorni, e, vera rarità bibliografica, fece distribuire delle cartelle di cartone, chiuse solo dallo spago, in parte diverse l’una dall’altra,  contenenti fogli di poeti, pittori, giornalisti, fotografi, musicisti.

Fondò e diresse riviste, come “Caffè greco”, “Pensionante dè Saraceni”, che divenne anche un centro di cultura ed una casa editrice, e collaborò con la rivista “Sud Puglia”. Diresse la rivista “On Board” e aderì al Movimento Genetico di Francesco Saverio Dodaro, una delle linee portanti del Salento europeo, insieme alla pittura di Edoardo De Candia, alla poesia di Salvatore Toma,  alle esperienze musicali di Cosimo Colazzo, estetiche di Salvatore Colazzo, letterarie di Carlo Alberto Augieri e teatrali di Fabio Tolledi.

Nel 1983, pubblicò  Il pane sotto la neve; nel 1985,  Il fabbricante d’armonia, trasmesso dalla Rai Puglia nel maggio dello stesso anno; nel 1986, La cura dei Tao, nel 1987,  La Betissa, da cui Fabio Tolledi ha tratto una versione teatrale.

Verri era molto legato ai suoi compagni di viaggio: Maurizio Nocera, autore di  Antonio Antonio- O dell’amicizia, poetico omaggio all’amico scomparso, pubblicato nel 1998 e poi ripubblicato nel 2003 proprio dal “Laboratorio” di Aldo D’Antico, Rina Durante, giornalista e scrittrice, il poeta Bruno Brancher, l’archeologo Cosimo Pagliara, docente dell’Università di Lecce, Antonio Errico, valente critico letterario, Vittorio Pagano,  grande poeta e traduttore, al quale Verri ha dedicato il volume Per Vittorio Pagano contenuto in “Pensionante de Saraceni”, Aldo De Jaco, scrittore e giornalista, i fratelli Cosimo e Salvatore Colazzo, Vittore Fiore, che ha definito Verri “battistrada storico dell’avanguardia culturale salentina”, ed altri.

Verri curò le collane “Spagine-scrittura infinita”, con F.S.Dodaro, “Abitudini-cartelle d’amore”, con M. Nocera, “Compact Type:Nuova narrativa”, “Diapoesitive-Scritture per gli schermi”, sempre con Dodaro e “Mascheroni”.

Nel 1988, pubblicò I trofei della città di Guisnes, nel 1990  Ballyhoo, Ballyhoo,  nel 1991, E per cuore una grossa vocaleIl naviglio innocente. A Cursi, istituì il Fondo internazionale contemporaneo “Pensionante dè Saraceni”, eccentrica ma preziosa biblioteca composta da più di tremila volumi, riviste, manoscritti, cataloghi, spartiti e audiovisivi.

“Mi sembrano così idiote queste mie rane, tirano e tirano, girano e girano, fino a scoppiare, sono davvero così idiote… Guizzano e non sono che abbozzi di parole, spettri, apparenze, birbe verdastre, non sentono l’arsura e corrono tutto il guscio, e si arrotondano; balenotteri sembrano, ballerine di fila, subrettine.” (da  I trofei della città di Guisnes).

Queste sono le parole, per Antonio Verri: incanti magici, lisce, ruvide, significanti e significati, elastiche, infinite.

Una scrittura continua, quella di Verri, che ricorda, per certi versi, lo “stream of consciousness”, il “flusso di coscienza” di joyciana  memoria. Burle, frottole buttate lì, gialle, nere, rosse, lanciate al galoppo. Come dice Antonio Errico, “motivi che si presentano, scompaiono, si ripresentano con valenza semantica accentuata. L’intenzione e l’ansia di trasmettere alla frase il proprio respiro, di far coincidere strutture profonde e strutture superficiali, il suono e il senso, i tempi della vita con i tempi del testo. E poiché la vita non ha niente di finito, niente di finito c’è nel testo.

Ogni frase, ogni parola, ogni fantasma, è sempre un ritorno ad altre frasi, altre parole, altri fantasmi, oppure rinvia ad un declaro. Il testo, insomma, è un ponte tra il già fatto e ciò che si deve ancora fare.” Verri somiglia al suo diavolo Zèbel in  Guisnes, “è come un camaleonte, sa così bene simulare, chiacchera a vanvera, splende. Oggi per lui va bene girare su se stesso, è così leggero, crede di vedere nell’invisibile, sa entrare in un corpo e ripetersi all’infinito… Il mondo è una immensa replica, è un libro in cartisella!”.

Verri morì nel 1993. La sua eredità artistica ed umana è stata raccolta, tra gli altri, da Mauro Marino, grafico e poeta, e Piero Rapanà, fondatore della compagnia teatrale Teatro Bliz, i quali, con il “Fondo Verri- Libero Cantiere”, portano avanti la grande lezione dello scrittore di Caprarica. E sul solco dell’esperienza del banco letterario che Verri inaugurò con “Caffè greco” e con “Pensionante de Saraceni”, ogni anno, a maggio, nel cortile del Convento dei Teatini a Lecce, si tiene la mostra mercato “Gran Bazar”, ovvero “Il libro in tasca, banco dell’editoria e della poesia salentina”, evento culturale organizzato dal Fondo Verri e dalla Libreria Icaro, che ottiene, ad ogni nuovo appuntamento, un crescente successo. Vi si tengono  presentazioni di libri, incontri con gli autori, readings letterari e concerti musicali; uno spazio aperto alla consultazione e alla ricerca, come del resto è il Libero Cantiere, con la sua collezione di circa 1500 libri, patrimonio di chiunque voglia approfondire ed esplorare, tendendo un filo fra l’esperienza letteraria e la realtà contemporanea, sempre più esposta al disagio e alle difficoltà sociali.

… Per non dimenticare chi era Antonio Verri.

Pubblicato su “NuovAlba”,  luglio 2005 e poi in “Di Parabita e di Parabitani”, di Paolo Vincenti, Il Laboratorio Editore, 2008.

25 Aprile. Il contributo dei Salentini alla liberazione dell’Italia dal Nazifascismo

 

di Maurizio Nocera*

Ricorre quest’anno il 64° anniversario della promulgazione della Carta Costituzionale, entrata in vigore l’1 gennaio 1948. Si tratta di una data storica per il popolo italiano, che ancora una volta si vede costretto a dover lottare per difenderla da chi la vorrebbe stravolger  e deturpare. Per avere un’idea del periodo incredibile che stiamo vivendo, si pensi, ad esempio, all’ultima assurda proposta di un disegno di legge da parte di cinque dissennati parlamentari del partito di Berlusconi, che avrebbero voluto depennare la XII norma finale della Costituzione, che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista.

C’è chi crede che basti rivedere e cambiare qualche titolo ad un libro di storia oppure raccontare una favola in più nel tanto chiassoso, fastidioso, retorico e continuo apparire in pubblico, per stravolgere il significato di eventi storici così grandi e così alti nella coscienza civile degli italiani. Coloro che intendono stravolgere i significati profondi della nostra storia e i principi sacrosanti della Carta fondamentale dello Stato si sbagliano, perché la lotta di Liberazione e la Resistenza partigiana, condotte  con spirito di abnegazione da centinaia di migliaia di uomini e donne in ogni parte d’Italia, a volte fino all’olocausto della propria vita, sono tuttora valide,

In Canto (“Fatti di dolore” di Maurizio Nocera)

Edgar Degas (1834-1917)

di Paolo Vincenti

“Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio”: in questi versi della dantesca preghiera alla Vergine di San Bernardo si concentra una delle espressioni più alte, nella storia del pensiero mondiale, dell’amore che l’uomo abbia saputo esprimere in  poesia nei confronti dell’alma madre, la Madonna. Mala storia della letteratura di tutti i tempi è ricchissima di autori che, in prosa o in versi, si sono rivolti alla propria madre per  cantarne la dolcezza, lamentarne l’assenza o vivificarne la presenza,  piangerne la partenza, per sublimarne il volto e l’immagine o per cullarne il ricordo, per scrivere della propria nostalgia, dei propri rimpianti  e travagli, di contrasti ormai sanati, di inquietudini e conflitti pacificati.

Così fa Maurizio Nocera, l’arsapo che continua a volare alto nei cieli della cultura salentina e che ogni tanto ha bisogno di ritornare al nido, là dove la sua avventura è cominciata, per ripararsi dalle intemperie della vita, per far riposare le ali e per cercare nel conforto materno quel caldo che aiuta a riprendere il volo. E quel  nido per l’arsapo-angelo Maurizio è Tuglie, borgo avito, dove sono i suoi ricordi di infanzia e adolescenza, il porto-quiete dove

Libri/ Sulle tracce di IT 113942

IL DOVERE DELLA MEMORIA

di Paolo Vincenti 

Sulle tracce di IT 113942, per non dimenticare l’orrore della guerra, di ogni guerra che, in ogni tempo ed in ogni luogo, devasta le coscienze, spegne la speranza, sottrae giovani vite  all’amore dei propri cari e della propria terra, nega loro  il futuro, cancella ogni  più elementare diritto e spazza via tutto quanto, lasciando solo il vuoto della morte.

Sulle tracce di IT 113942, di Luigi Cataldo, è un piccolo volume edito dal Laboratorio di Aldo D’Antico (2007), in cui l’autore, che dedica il libro alla cara memoria di Rocco Cataldi, ripercorre l’avventura umana e dolorosissima di un suo parente, il parabitano Cesario Cataldo, zio di Luigi, morto giovanissimo durante la seconda guerra mondiale.

L’orrore dei lager nazisti, ancora una volta, ci scuote dalla nostra quotidiana indolenza  e ci costringe a pensare alle aberrazioni cui la belva umana può arrivare. Questa bestia furiosa, dagli occhi di fuoco e dalla bocca schiumante, provoca terrore, miseria, disordini, violenza, si arrotola nell’ odio, prima di bruciare, in uno spasmo infernale, nel fuoco della sua stessa rabbia.

Quello di Luigi Cataldo è un cammino di dolore, alla ricerca dello zio scomparso, che egli ha conosciuto soltanto attraverso i racconti della nonna, che continuava a maledire la guerra che le aveva portato via un figlio così giovane, e del padre, fratello di Cesario, che in gioventù aveva potuto conoscere ed amare il proprio congiunto, prima che questo fosse portato via dal cruento conflitto bellico.

Attraverso le sue  faticose ricerche, l’autore del libro è riuscito infine a ricostruire la storia di Cesario, fatto prigioniero dai tedeschi e internato, dopo il suo rifiuto di diventare collaborazionista, nei campi di concentramento, prima a Bolzano, in via Resia, e poi in Germania, a Mauthausen e a Ebensee, dove, sottoposto ai lavori forzati, il nostro eroe

Antonio Buttazzo (1905-1957) tipografo leccese

ODORE DI INCHIOSTRO

(ANTONIO BUTTAZZO TIPOGRAFO LECCESE)

 

di Paolo Vincenti

Quando si parla dell’arte della stampa, il pensiero corre veloce a Johann Gutenberg, universalmente ritenuto il primo stampatore della storia (per quanto i cinesi avessero già prima di lui sperimentato delle tecniche lavorative in questo settore). E al mitico fondatore della stampa sono oggi intitolate mostre, fiere di settore, librerie e chi più ne ha più ne metta, nella variegata “galassia Gutenberg”, sebbene  una menzione speciale andrebbe anche  a coloro che aiutarono Gutenberg in quell’ intrapresa, vale a dire i misconosciuti Johann Fust, il banchiere che finanziò l’opera, e Peter Schoffer, l’amanuense che ci mise del suo, in termini di “olio di gomito”, grazie ai quali venne stampata a Magonza nel 1454 la famosa Bibbia.

Ma il nostro pensiero va anche a chi importò in Italia questa invenzione, cioè a quell’Aldo Manuzio, veneziano, che pubblicò i primi libri tascabili, gli enchiridia , classici latini senza note e senza commento, realizzati con un nuovo carattere corsivo disegnato da Francesco Griffo. Così la nostra mente viaggia veloce attraverso il Settecento, con i vari Baskerville,  Didot e soprattutto l’italiano Bodoni.

Ovviamente, l’arte tipografica ha subito varie modifiche  nel corso degli anni e dei secoli, evolvendosi  secondo le mutate esigenze del pubblico e le innovazioni, se non vere e proprie rivoluzioni, apportate dalla tecnica. Pensiamo alla prima pressa piano-cilindrica a vapore, realizzata nel 1814 da Koenig e utilizzata nella stamperia del “Times” di Londra e, pochi anni dopo,  sempre al “Times”, l’introduzione della macchina “a quattro cilindri” verticali realizzata da Applegath e Cowper, in grado di far aumentare sensibilmente la produzione dei giornali. Poi, sempre nell’Ottocento, l’invenzione della rotativa e della quadricromia, che si devono all’italiano Ippolito Marinoni; quindi, con quella che ormai era divenuta una produzione industriale,  l’ introduzione della composizione meccanica, con la “Linotype” e la “Monotype”,  e, per venire ai giorni nostri, l’introduzione della stampa off-set nel 1960. E non ci avventuriamo nella descrizione dei grandi cambiamenti avvenuti a livello tipografico in questi ultimi anni con l’introduzione del computer, perché il discorso sarebbe davvero vasto.

Fra gli eredi di tanto prestigiosa tradizione, nel nostro Salento,  Antonio Buttazzo, titolare di quella che oggi si chiama “Tipografia del Commercio”.  Il

Nikos Bletas Ducaris, poeta greco di casa nel Salento

di Paolo Vincenti

Che cosa unisce Eduardo De Filippo, nume tutelare del teatro italiano, Nikos Bletas Ducaris, uno dei più importanti poeti greci contemporanei, Maurizio Nocera e Pierpaolo De Giorgi, due dei più noti operatori culturali salentini , Sergio Vuskovic Rojo, filosofo e politico cileno, e infine l’editore galatinese Mario Congedo? La risposta si può avere  leggendo Rondini dell’Oriente. Dedicato a Eduardo De Filippo, un volume edito nel2009, a cura di Pierpaolo De Giorgi, da Congedo,  per conto del Crsec Le/43 di Maglie col patrocinio della Regione Puglia.

Un progetto importante e articolato che vede la luce grazie al concorso di più fattori, primo fra tutti l’amicizia. La grande amicizia che univa il curatore del libro De Giorgi, etnomusicologo noto in tutta Italia e leader dei Tamburellisti di Torrepaduli, storico gruppo musicale di riproposizione della pizzica, e

Maurizio, Nocera e Maurizio (e altri Arsapi volanti)

di Paolo Vincenti

Maurizio Nocera continua a scrivere e ad “agire” cultura, non solo in Salento, ma in tutta Italia, e le sue pubblicazioni sono sempre preziose per tutti quelli che, come me, hanno a cuore la cultura salentina che, nel caso di Maurizio, diventa cultura universale. La bibliografia da me compilata nel precedente libro (di cui scrivo sopra) si fermava a settembre-ottobre 2007. Altri tre anni di produzione sono stati intensi e prolifici per Nocera. Questo mi ha spinto a ritornare sulla materia, ossia su quel lavoro che, essendo scritto su un personaggio vivente e in attività, non può essere conchiuso, ma anzi è un “work in progress”.  Così ho pensato bene di aggiornare la bibliografia, con tutte le uscite che ci sono state  nel 2008-2009-2010.

Un  triennio importante,  per l’autore, oggetto e protagonista di questa trattazione. So benissimo, come lo sapevo per il primo libro, che il rischio dell’agiografia, dell’adulazione, è dietro l’angolo. Io corro questo rischio, pubblicando questa plaquette sul Nostro, come l’ho corso quando ho fatto altrettanto con Aldo de Bernart, in occasione del suo 82° compleanno, e quando ho tracciato le bibliografie degli amici  Ortensio Seclì e Mario Cala, due importanti studiosi parabitani, nel libro Di Parabita e di Parabitani ( Il Laboratorio Editore, Parabita 2008) e più  recentemente, dell’amico Ermanno Inguscio.

Dirò, a mia discolpa, che io non ho nessun interesse a captare la benevolenza del Nocera o degli altri e niente mi aspetto da loro in cambio. E,’ il mio, un atto d’amore nei confronti della cultura salentina, e vuole essere anche un servizio, sincero e disinteressato, che spero di poter rendere alla comunità  tutta dei cultori di studi salentini, seguendo in ciò l’esempio  del grande Ennio Bonea, il quale si occupava di tutto quello che veniva pubblicato in Salento e sul Salento ed anche di autori minori, se non minimi, ai quali non faceva mai mancare un suo piccolo scritto, una recensione, una semplice segnalazione, un incoraggiamento. Non sono d’accordo con coloro che, dopo l’uscita di A volo d’arsapo, hanno osservato che  un saggio come il mio dovrebbe essere necessariamente pubblicato post mortem, cioè una volta che il personaggio trattato sia passato a miglior vita.

Quella di Maurizio Nocera è una figura che io amo molto e che mi riporta alla lezione dell’Umanesimo, quel movimento culturale che, fra il Quattrocento e il Cinquecento, rivoluzionò il nostro Paese, riportando l’uomo al centro dell’Universo; quell’uomo che riprende in mano il proprio destino e si sente libero di autodeterminarsi, quell’uomo che, secondo la definizione di Leonardo Bruni, “è epilogo, sintesi perfetta di corpo e mente”, di “spirito e natura”,  e riflette in sé la perfezione della creazione divina. E le lettere diventano il terreno ideale sul quale confrontarsi e nel quale esplicare la propria libertà.

Questa idea dell’uomo come libero creatore di sé stesso, che partecipa alla bellezza divina, è un tema fondamentale della filosofia neoplatonica che si sviluppa grazie ad autori come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, ecc.. La filosofia neoplatonica, come dice il suo stesso nome, voleva riportare in auge il pensiero del grande Platone. E la stessa filosofia platonica ispira l’opera e gli studi di un importante pensatore cileno contemporaneo: Sergio Vuskovic Rojo, grande amico di Nocera. Le humanae litterae,dunque,costituivano, in quell’epoca storica, attraversata da una renovatio culturale, un dialogo perenne fra gli uomini e un mezzo di comunicazione spirituale. Senza questa nuova concezione di humanitas, che si deve proprio all’Umanesimo e al Rinascimento, non ci sarebbero stati il pensiero e le opere dei grandi autori venuti dopo, dal Seicento fino ai giorni nostri. Nel Quattrocento vengono superati tutti gli steccati fra le varie discipline, che fino ad allora erano stati dei compartimenti stagni, e il sapere diventa partecipato, condiviso. Le varie arti e competenze entrano in contatto e dialogano fra di loro, in un reciproco e proficuo scambio.

Maurizio Nocera mi ricorda proprio questa figura di homo novus, di intellettuale, libero artefice del proprio destino, che abbatte tutti gli steccati fra le varie materie del sapere e si occupa di tutto, dalla  prosa alla poesia, dall’esegesi critica dei testi alla produzione di testi propri, dalla promozione culturale all’editoria, dal magistero del suo insegnamento all’impegno politico, dal giornalismo alla fotografia, ecc., ecc.. Egli mi sembra il tipo dell’uomo universale, alla Leonardo Da Vinci. L’intellettuale come Nocera, attraverso questo esercizio quotidiano di libertà, acquisisce più piena consapevolezza della propria dignità e del proprio ruolo sulla terra, della propria funzione nella società odierna, e questa consapevolezza lo rende forte e al tempo stesso impaziente verso tutte le forme di repressione, lo rende intollerante verso la prevaricazione e i pregiudizi e verso tutte le vecchie oppressioni.

Nella carriera di Maurizio Nocera, in questi tre anni, si può notare un grande impegno nella promozione del libro, inteso come oggetto, spesso opera d’arte, e nella promozione e valorizzazione dell’antica arte tipografica, che lo ha portato a intrecciare rapporti con alcuni fra i maestri stampatori più importanti d’Europa, come, ad esempio, i Tallone di Alpignano. Ma potrei citare anche la sua fruttuosa collaborazione con l’editore milanese Mario Scognamiglio, che lo ha portato a pubblicare suoi scritti di varia bibliofilia sulla prestigiosa rivista “L’Esopo”.

Un altro polo attrattivo per Maurizio è stata la poesia. E sempre più spesso la poesia per Nocera si lega indissolubilmente ad un nome: quello di Pablo Neruda. L’amore per Neruda lega Maurizio ad un altro grosso personaggio, il già citato filosofo cileno Sergio Vuskovic Rojo, e questo ci porta a quella vocazione multinazionale o “transfrontaliera”, come  ho  già avuto modo di definirla,  dell’intellettuale Nocera.  Da sempre egli pubblica opere proprie e degli altri, organizza presentazioni, promuove incontri, sinergie, progettualità. Come dicevano gli umanisti, “excelsum et divinum quiddam cum colloquimur inter nos”: quando gli studiosi dialogano tra loro, fanno qualcosa di eccelso, quasi divino, perché attraverso questi incontri, possiamo davvero fare cultura e possiamo ritrovare noi stessi e gli altri diversi da noi e a noi uguali. In particolare, in questi ultimi tempi, metà privilegiata dei viaggi di Maurizio e delle sue divagazioni letterarie è il Cile, patria di Neruda e Rojo, soprattutto Valparaiso, “porto mondiale della pace e della poesia”.

In Cile, il nome di Maurizio è molto conosciuto e  apprezzato. L’altro centro di interessi, non trascurato in questi anni, è la promozione culturale in Salento, il che lo porta a patrocinare tante e tante pubblicazioni che vedono la luce nei nostri paesi salentini e a partecipare a tantissime manifestazioni culturali che si svolgono da un capo all’altro di questo tacco d’Italia. Come non parlare della politica, primo e mai rinnegato amore di Nocera, e quindi della passione civile che muove e ha mosso tante sue iniziative; c’è tanta solidarietà sociale nel cuore, che batte sempre a sinistra,  di Maurizio Nocera, e tanto amore per gli umili, gli emarginati, tanto rispetto per le minoranze e le diversità, tanto libero e laico cercare corrispondenze nel suo quotidiano apostolato culturale. C’è ancora, in lui, l’amore per l’insegnamento, che lo porta a ricoprire due cattedre: oltre a quella di Filosofia presso l’istituto Magistrale “Siciliani” di Lecce, anche quella di Antropologia Culturale presso l’Università degli Studi del Salento.

Molto fitta e intensa è stata la collaborazione con le pagine culturali del quotidiano leccese “Il Paese Nuovo”, ma anche puntuale è stata la presenza della sua firma sulle ormai storiche riviste salentine “Anxa News”, “Il Bardo”, “Il filo di Aracne” e “Presenza Tuarisanese”. Nocera continua a coltivare le sue relazioni, si pensi ai Tallone, oppure a Oliviero Diliberto, al già citato Mario Scognamiglio, a Gianfranco Dioguardi, a Gianni Cervetti, a Ignazio Delogu, ad Antonio Massari; e in questo è sempre appoggiato dalla consorte Ada Donno, donna intelligente e intellettuale coltissima e raffinata, al pari dell’irrequieto consorte, ma sicuramente più schiva. Ma non voglio annoiare i pazienti lettori e lascio spazio al resto dell’eterogeneo materiale che compone questo libro, nonché, last but not least, alla bibliografia noceriana.

Tratto dal libro di Paolo Vincenti  Nocerancora  (Postille Bio-Bibliografiche Su Maurizio Nocera), di imminente pubblicazione.

Nocerancora (postille bio-bibliografiche su Maurizio Nocera)

di Paolo Vincenti

PREMESSA

“L’assassino torna sempre sul luogo del delitto”.  Il libro A volo d’arsapo. Note-bio-bibliografiche su Maurizio Nocera, pubblicato con “Il Raggio Verde” nel 2008, ha segnato una tappa importante della mia breve carriera letteraria. Il primo scritto di quel libro si intitolava “Io e Maurizio Nocera” e il fatto che io parlassi anche di me, ovvero della mia formazione letteraria e politica, oltre che del poeta e scrittore Nocera, oggetto della trattazione, colpì molto coloro che recensirono il libro, per la particolarità di quello scritto. Con il libro A volo d’arsapo, per la prima volta pubblicavo qualcosa di compiuto, con una vera e propria casa editrice; la mia precedente prova letteraria, L’orologio a  cucù (Good times) (I poeti de “L’uomo e il Mare”, Tuglie 2007), sorta di informe massa di appunti sparsi,  raccolti negli anni, era stata autoprodotta con tanto entusiasmo quanta improvvisazione, come gli innumerevoli refusi presenti in quel libro confermano, nonostante la buona volontà del bravo tipografo Giuseppe Miggiano da Tuglie.

Con il libro su Maurizio Nocera, mi presentavo ad un pubblico molto più vasto di quello che era stato il mio fino ad allora. Questa grande platea era composta

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