La “mattra” e il suo albero genealogico

di Armando Polito

Oggi è un oggetto di antiquariato, soprattutto nella sua versione “estesa”, la mattrabbanca; fino a cinquanta anni fa era un mobile che non mancava nell’arredo delle case signorili come delle più umili, data la sua versatilità soprattutto nella preparazione del pane e della sua conservazione dopo la cottura.

Detto che mattrabbanca è composto da mattra e bbanca (sinonimo di tavolo, da banco), soffermeremo la nostra attenzione sul primo componente.

Mattra è dal greco maktra (=madia, colino, bara), a sua volta dalla radice (mag-) di masso (=impastare), secondo una collaudata tecnica di formazione: per esempio, masso ha dato vita oltre che a maktra anche a maktèr (sempre col significato di madia), come fylàsso (=custodire) ha dato vita con la sua radice fulak-, oltre che a fylax (=guardiano, protettore, difensore), anche a fylaktèr con lo stesso significato, come prasso (=fare) ha dato vita con la sua radice prag– a praktèr (=esecutore), a praktikòs (= pratico, utile) e, per chiudere in bellezza…, a praktès (=traffichino).

Dalla radice mag– si è formato in latino màgida (=specie di piatto di grandi dimensioni), secondo la definizione che ce ne ha lasciato Marco Terenzio Varrone Reatino (I secolo a. C.) quando nel De lingua Latina (V, 25) fornisce un elenco di contenitori per cibo: Vasa in mensa escaria: ubi pultem aut iurulenti quid ponebant, a capiendo catinum nominarunt, nisi quod Siculi dicunt katinon ubi assa ponebant; magidam aut langulam alterum a magnitudine alterum a latitudine finxerunt (= Vasellame da tavola: chiamarono catino da càpere (=prendere, contenere) il recipiente dove mettevano la farinata o il brodo, ma i Siciliani chiamano catino quello in cui mettono l’arrosto; crearono le voci magida o lancula (alla lettera piccola bilancia) l’una dalla grandezza, l’altra dalla larghezza). Màgida continua nel latino medioevale con lo stesso significato.

Dal suo accusativo (màgidam) è derivato l’italiano madia [trafila: màgida(m)>màida>màdia] e da questo l’osoleto madiello (=bacile quadrato di legno) che, in percorso a ritroso non raro nella lingua, ha ridimensionato quello che potremmo definire un esempio di elefantiasi semantica.

Come dimenticare, in chiusura, il proverbio Sparàgna la farina/quandu la mattra è cchina!/Cce sserve lu sparagnàre/quandu lu fundu pare? (Risparmia la farina quando la madia è piena! Che serve il risparmiare quando si vede il fondo?).

Se anche i banchieri (banca e banco, ironia del destino, hanno la stessa etimologia di bbanca) lo avessero tenuto in conto, non ci troveremmo ora con le banche vuote e con la barca che affonda…

Simboli e credenze sulla madia (mattra), indispensabile attrezzo per le famiglie salentine di un tempo

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO DI FINE OTTOCENTO

QUELLA BENEDETTA MATTHRA
– simboli e credenze sulla madia –

Il rapporto pane-matthra non era soltanto di ordine allocativo (matthra-dispensa), ma si concretizzava in termini che oseremmo definire fecondativi, tenendo presente come in campo semantico ogni madre di famiglia tendesse a creare una continua simbiosi fra matthra e grembo

“Salento ottocentesco”, archivio di Nino Pensabene (Riproduzione vietata)

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

  

     (…) Nominare la matthra* equivaleva a rifarsi all’archetipo dell’economia popolare, imprigionata nei termini del necessario alimentare e quindi calcolabile – per realtà materiale e per immedesimazione psicologica – in base alla disponibilità del pane, conservato appunto nella matthra. Il rapporto pane-matthra, però, non erasoltanto di ordine allocativo (matthra-dispensa), ma si concretizzava in termini che oseremmo definire fecondativi, tenendo presente come in campo semantico ogni madre di famiglia tendesse a creare una continua simbiosi fra matthra e grembo.

Un’espressione tipica di tale rapporto la ritroviamo in occasione della panificazione casalinga, quando le donne, recandosi la sera presso un forno pubblico a prenotare àsciu ti ‘nfurnàta pi’ llu crài (spazio nel forno per l’indomani), dicevano al fornaio: “Cu lla ràzzia ti Ddiu àggiu ‘mprinàta la matthra” (“Con la grazia di Dio ho ingravidato la madia”), il che stava a significare che avevano crisciùtu lu lliàtu, cioè amalgamato la pallottola di pasta inacidita, conservata dalla precedente panificazione, ad un mucchietto di farina affinché questa, nel prolungato contatto con gli enzimi (una notte intera), si tramutasse in altrettanto lievito. Propagazione del processo fermentativo che, vista come atto d’avvio della panificazione, nel ribaltamento simbolico le portava a connaturarla con l’azione dello spermatozoo, meglio ancora con l’incontro dei due gameti (maschile + femminile = pasta inacidita + farina), motivo appunto primario nella fase generativa. Concetto di fecondità ribadito durante l’impasto, anche questo eseguito nel cavo della matthra – soprattutto se si trattava di pane d’orzo (il loro pane abituale), per la cui buona riuscita si doveva usare molta acqua e quindi impastare su un piano protetto da sponde.

Essendo tale impasto – e per l’apporto dell’acqua e per composizione peculiare della farina d’orzo – tanto vischioso da impiastricciare al massimo le mani della lavorante, questa aveva bisogno di un’aiutante che le versasse gradatamente l’acqua occorrente e, al termine della lavorazione, spargesse nella matthra la farina necessaria per avvoltolare le pagnotte, altrimenti

La Puglia parla alla Padania con un suo dialetto

Lingua e dialetto

 di Armando Polito

Non è trascorso nemmeno un anno dalla richiesta avanzata dalla Lega che i professori fossero sottoposti ad un test per dimostrare la “conoscenza della storia, delle tradizioni e del dialetto della regione in cui intendono insegnare”. A suo tempo trovai scandalosa la proposta e perché faceva passare in secondo piano il titolo di studio “spesso comprato” e per il suo taglio inequivocabilmente razzista, ma ancor più scandaloso il quasi silenzio da parte della scuola e quello pressoché totale degli intellettuali autolegittimatisi a parlare di problemi scolastici senza aver messo mai piede in un’aula, neppure vuota.

So che è da ignoranti, anzi da idioti, parlare della superiorità di una cultura su un’altra1 e, perciò, di una lingua sull’altra, dal momento che proprio la lingua è il principale strumento di espressione e trasmissione di una cultura.

Queste poche note sono dedicate (si fa per dire) a chi crede teoricamente (teoria ineccepibile) che ogni cultura è di per sé nobile e degna di essere protetta, conosciuta e valorizzata, ma in pratica ritiene che solo la cultura del suo territorio è degna di rispetto e da proteggere, anche con le maniere forti, da ogni contaminazione (nell’era della globalizzazione!). Qui è la Puglia che parla alla Padania con un suo dialetto (il neritino)2 e mette in campo, tra i tanti,  Greci e Latini nel suo confronto con la lingua nazionale, senza gonfiare i muscoli, in attesa dell’arrivo dei Celti…

Se ne sconsiglia, tuttavia, la lettura a Bossi padre e a Bossi figlio non perché non siano all’altezza per capire, ma solo perché sarebbero distratti dalla loro azione di governo, di cui tutto il paese non può permettersi il lusso di fare a meno.

àstricu= lastrico; dal latino medioevale àstracu(m)=terrazzo fatto con cocci, che è dal greco ta òstraka=i cocci, con indebolimento della vocale postonica (-a->-i-). L’italiano lastrico rivela l’influsso di lastra o l’ erronea agglutinazione dell’articolo (l’astrico>lastrico>il lastrico).

bàsciu= fune che legava il giogo al collo dei buoi; dal greco pàghion=fermo, stabile, aggettivo neutro sostantivato da paghe, da pègniumi=fissare.   In italiano rimane come confisso tecnico-specialistico nella sola voce craniopago= feto malformato bigemino in cui i feti sono uniti tra loro a livello del cranio

càulu=cavolo; dal latino tardo càulu(m), dal classico càulis.  L’italiano cavolo presenta epentesi di –v-.

ddha 1=quella; dal latino illa(m), con aferesi di –i– e consueto passaggio –ll->-ddh-.  L’italiano quella, invece, è da  *(ec)cum illa(m)=ecco quella. Stessi fenomeni in ddhu=quello [da ill(u)m]/quello [da *(ec)cum illu(m)] e in ddhi=quelli; quelle  (la voce, che è plurale del maschile ddhu, vale pure per il plurale del femminile ddha, costituendo un esempio, questa volta dialettale, del maschilismo presente, com’era naturale (per motivi storici e culturali), anche nella lingua (infatti, per il femminile, da un singolare ddha 1, ci saremmo aspettati un plurale ddhe, presente in altri territori del Salento, ma non a Nardò).

ddha 2 là, dal latino  latino illac, con aferesi di i-, consueto passaggio –ll->ddh– e caduta della consonante finale. L’italiano presenta invece, oltre alla caduta della consonante finale, l’aferesi di il-.

facce=faccia; dal latino fàcie(m)=aspetto. La voce italiana faccia suppone un latino volgare *fàcia(m).

iddhu=lui; da un latino *ìllui (classico illi) dativo singolare maschile di ille=egli, rifatto sul modello di cui. L’italiano lui è per apocope da *ìllui.

issìre uscire; dal latino exìre, composto da ex=fuori e ire=andare. L’italiano uscire presenta la  sovrapposizione di uscio [dal latino tardo ùstiu(m), dal classico òstium=entrata, da os=bocca].

letu sporco. il corrispondente italiano è laido, dal francese antico laid=sgradevole, dal francone *laid. Etimologia: direttamente dalla pronuncia della voce francese (led), con passaggio –d->-t– e regolarizzazione della desinenza.

mattra mobile di legno, generalmente a forma di cassone rettangolare, usato tradizionalmente in campagna per impastare il pane, conservare farina, lievito e altri generi alimentari; direttamente dal greco mactra=madia, da masso=impastare.  Il corrispondente italiano è madia, dal latino màgida(m)=specie di grande piatto, dal greco maghìda, accusativo singolare di maghìs=focaccia, recipiente usato per impastare, dal citato masso.

‘ngegna congegno per attingere l’acqua dal pozzo; dal latino ingènia (plurale collettivo di ingènium)=, ingèniu(m)=indole, ingegno, trovata ingegnosa, composto da in=dentro e gènere, forma arcaica di gìgnere=nascere. In italiano la voce formalmente corrispondente è ingegno (in neritino ‘ngegnu), ma il termine semanticamente più vicino al neritino ‘ngegna sarebbe congegno. La ‘Ngegna era un toponimo che designava una località fuori dalle mura, caratterizzata, evidentemente, dall’esistenza di uno o più pozzi.

pòlice pulce; dal latino pùlice(m); l’italiano pulce presenta sincope di –i-.

quatàra caldaia; dal latino calidària(m)=che scalda, da càlidus=caldo, da calère=essere caldo; derivati (indicano recipienti progressivamente più piccoli): quataròttu e quataruttièddhu. Corrispondente italiano: caldaia.

rispicàre andare in cerca di ciò che rimane dopo il raccolto principale; da un latino *respiculàre, dal classico re– (prefisso che indica ripetizione) e *spiculàre, da spìculu(m)=punta, diminutivo di spicu(m) o spica(m)=spiga.  L’italiano spigolare ha fatto a meno del prefisso re-.

sanitàte salute; dal latino sanitàte(m), da sanus=sano. Il corrispondente italiano è il letterario sanitàte, da cui, per apocope, sanità.

tùminu misura di capacità e di superficie; dall’arabo tumn=un ottavo, con epentesi di –i– per motivi di pronuncia e con regolarizzazione della desinenza.  Il corrispondente italiano è tomolo. Come misura di superficie era pari a circa 6300 mq.; un tomolo era formato da 8 stuppièddhi (lo stuppièddhu era pari, come misura di liquidi,  a circa sette litri e di superficie a circa 9 are) ed era anche una misura per derrate come olive e mandorle e corrispondeva alla capacità di un apposito contenitore. Le due misure avevano nomi uguali perchè per seminare un tomolo di terra serviva all’incirca un tomolo di grano.

ulutàre rivoltare; dal latino volutàre=voltolare, iterativo di vòlvere=far girare, con aferesi di v-.3 L’italiano voltare presenta sincope di –u-. Sorprende che uno studioso del calibro del Rohlfs faccia derivare la voce neritina dal latino volitàre=svolazzare, intensivo di volàre.

Abbiamo notato attraverso i pochi esempi proposti come il neritino, rispetto alla lingua nazionale,  non sia incorso in un errore (àstricu/lastrico), abbia conservato l’autonomia della voce di origine che, invece, in italiano ha dato vita solo a dei composti (bàsciu/craniopago), abbia conservato tal quale la forma originaria, cui l’italiano, invece, ha aggiunto un fonema (càulu/cavolo) o l’ha sottratto (pòlice/pulce, ulutàre, voltare), abbia sottoposto la voce originale a delle modifiche comunque meno invasive di quelle presenti in italiano (ddha 1/quella e ddha 2/), abbia conservato traccia della declinazione di origine laddove l’italiano ha proceduto ad una regolarizzazione della desinenza (facce/faccia), abbia evitato la sovrapposizione con altra radice in cui è incorso l’italiano (issìre/uscire), abbia adottato una parola straniera trascrivendone la pronuncia e non la grafia (letu/laido) o, comunque, una forma più fedele rispetto all’italiano (tùminu/tomolo), abbia conservato la voce greca laddove l’italiano ha utilizzato il più recente intermediario latino (mattra), abbia sfruttato tutte le possibilità formali e semantiche offerte dalla declinazione dell’originario latino mentre l’italiano è dovuto ricorrere all’aggiunta di un prefisso (‘ngegnu, ‘ngegna/ingegno, congegno), abbia conservato il vocalismo originario (omu/uomo), abbia sviluppato rispetto all’italiano più derivati (quatàra, quataròttu, quataruttièddhu/caldaia, calderotto), abbia utilizzato un prefisso che meglio esprime il significato del lemma (rispicàre/spigolare), abbia conservato forme che l’italiano limita all’uso letterario (sanitàte/sanitate).

I pochi fenomeni rilevati per qualcuno potrebbero essere sufficienti a dimostrare che una lingua può essere più nobile di un’altra, che il dialetto (nella fattispecie il neritino, ma vale per tutti) è (accetterei, tutt’al più, “potrebbe essere in alcuni casi”) addirittura più corretto (più ricco si sapeva) della lingua nazionale. Continuo a non crederci, anche perché qui mi sono divertito a raccogliere le prove che depongono a favore del dialetto e continuerò ancora di più quando esibirò quelle a sfavore. Ma, per farlo, è necessario che i lettori manifestino il loro gradimento. Via al televoto!4

________

1 L’etnologia, però, ha creduto di mettersi la coscienza a posto con la dicitura ambigua “popolazioni cosiddette primitive”, quasi scaricandone su altri la paternità.

2 Ogni lemma proposto consente un’agevole comparazione fonetica e semantica col corrispondente italiano; per motivi di spazio ho analizzato un solo lemma per ogni lettera dell’alfabeto (la v e la z non presentano casi degni di considerazione).

3 È un fenomeno frequentissimo in latino la nascita di una forma iterativa o intensiva dal supino di un verbo: per esempio, dal supino captum di càpere=prendere è derivato captàre=tentare di afferrare; da pressum, supino di prèmere=premere, pressàre=premere intensamente; nel nostro caso da volùtum, supino di vòlvere=far girare, volutàre=far girare ripetutamente.

4 Sono perfettamente consapevole che con questa espressione mi sono giocato almeno il 50% dei voti che presumibilmente avrei racimolato. Invito, perciò, l’unico lettore che si accinge a votarmi, a ripensarci… Chiedo scusa, ma io mi diverto soprattutto così.

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