Calcare e calcinari nell’Arneo


di Fabrizio Suppressa

La calce, come affermano le fonti antiche di Vitruvio e di Plinio il Vecchio, fu scoperta molto probabilmente per caso a seguito dello spegnimento di un forte incendio di un edificio costruito in pietra calcarea[1]. Già dal IV secolo a.C. era conosciuta da Greci e Fenici che la diffusero attraverso le loro rotte mercantili in tutto il Mediterraneo.

Dagli scavi archeologici risulta che anche i Messapi utilizzarono la calce, sotto forma di malta, per la realizzazione delle proprie abitazioni; anche se per l’edificazione delle cinte murarie a difesa delle polis preferirono impiegare a secco enormi blocchi in calcarenite locale. E’ però con l’ascesa dei Romani che la calce assunse una qualità maggiore, per la realizzazione di infrastrutture ad ampia luce e di edifici mai realizzati fino ad allora. Nel nostro ambito territoriale, la calce, assieme al tufo, estratto nelle tagghiate, costituisce un connubio perfetto che ancora riesce a caratterizzare l’architettura salentina, sia essa aulica o rurale.

 

ph Fabrizio Suppressa

 

La calce e le calcare

La calce viva si ricavava, fino a pochi decenni or sono, in fornaci tradizionali chiamate calcare o meglio carcare nel vernacolo salentino. Queste primitive attività industriali erano localizzate in aree che avevano due caratteristiche imprescindibili: la presenza di boschi o di macchie per la fornitura di combustibile, come legna da ardere e carbone, e la giusta pietra calcarea per la cottura. Quest’ultima doveva essere, tra tutte le rocce del Salento, quella con formazione cristallina tipo pietra viva e dai

MASSERIA “SANTU LASI” (SAN BIAGIO): UN’ARCHITETTURA IN MINIATURA

di Vincenzo Cazzato

 

La masseria occupa il punto più elevato dell’estrema propaggine delle serre salentine – 102 metri sul livello del mare – ed è ubicata in una posizione intermedia fra la costa ionica e l’abitato di Salve.

Da un vialetto si accede in un primo recinto con alti muri a secco, alcune mangiatoie ricavate nello spessore murario, una rientranza per il ricovero del calesse; la vegetazione è costituita da mandorli, fichi d’India, melograni e piante aromatiche. In asse con il viale è il palmento, coperto con tetto a doppio spiovente; all’interno, lungo una parete, sono i resti di un apiario.

Attraversato questo primo recinto si perviene nel cortile sul quale prospetta la masseria vera e propria. Perfettamente orientata secondo i punti cardinali, occupa uno dei lati dello spazio di forma pressoché quadrata sul quale si affaccia anche una piccola torre cilindrica. Al centro è una cisterna, rialzata rispetto al piano di calpestìo, il cui orientamento differisce di poco rispetto a quello dei muri di recinzione.

Il fabbricato della masseria, in tufo e pietrame, databile al secolo XVI con aggiunte del XVIII, occupa un lato della corte; è a due piani con caditoie in corrispondenza degli ingressi.

Al pianterreno due arcate, precedute da colonne in pietra destinate a un pergolato, sostengono un balcone continuo al quale si perviene mediante una scala esterna che occupa un altro lato della corte e che, ramificandosi, consente di raggiungere anche il primo piano della torre colombaia.

Il piano inferiore era in origine destinato al massaro e alle funzioni produttive, quello superiore a residenza stagionale del proprietario.

I due ambienti a pianterreno, entrambi voltati a botte al pari di quelli superiori – presentano una originale pavimentazione in pietrame, nicchie scavate nella muratura, un camino con mensole, un angolo per la lavorazione del formaggio.

Il primo piano ripropone l’impianto planimetrico del pianterreno e ha una pavimentazione in battuto, un camino di fattura più raffinata, nicchie e finestre che si aprono su ampie visuali: da un lato verso il mare, dall’altro verso la campagna, i comuni limitrofi e la cappella di Santu Lasi.

Una scala a una sola rampa dà accesso al terrazzo sul quale è un monolite a terminazione piramidale, punto di riferimento trigonometrico e ora satellitare.

La torre cilindrica (1577), in uno degli angoli del recinto, presenta in alto una fascia di archetti che si alternano a mensole con decorazioni a motivi geometrici. L’ambiente a pianterreno, di forma pressoché rettangolare, è a botte; quello al piano superiore, circolare, ha una copertura cupoliforme. La torre ha assolto nel tempo a varie funzioni: torre colombaia e torre di difesa. La prima destinazione è denunciata dalla presenza all’interno di tufi disposti in modo da consentire l’alloggiamento dei colombi; la seconda da tracce di una caditoia sul versante che guarda il cortile.

Su un altro lato del recinto è un ambiente adibito in origine a mangiatoia, con pavimentazione a “chianche” di differenti forme e dimensioni, tetto a una falda con copertura a tegole.

Sul retro della masseria sono altri ambienti destinati al ricovero degli animali con mangiatoie, una “porticina” per l’ingresso delle pecore, un forno. La muratura è costituita da pietrame a secco rafforzato da colonnine di tufo.

Tutt’intorno sono vari recinti destinati al gregge e un frutteto, nel quale è un monolite; un vialetto bordato da grandi pietre si conclude con una cisterna nella quale confluiscono le acque del “chiancaro”, segnato da canali. In un terreno adiacente, accanto a una pajara, in un punto del Basso Salento particolarmente ventilato, sono due aie di forma circolare: una scavata nella roccia; l’altra posta su un terrapieno artificiale.

Con decreto del Ministero per i beni e le attività culturali del 12 maggio 2008 la Masseria Santu Lasi è stata dichiarata “bene di interesse culturale particolarmente importante”.

 

 

Bibliografia:

C. Daquino, P. Bolognini, Masserie del Salento, Capone, Cavallino di Lecce 1994.

A. Costantini, Le masserie del Salento: dalla masseria fortificata alla masseria-villa, Congedo, Galatina 1995.

A. Costantini, Guida alle masserie del Salento, Congedo, Galatina 1999.

Masserie: living & hosting, fotografie di Walter Leonardi, Congedo, Galatina 2007.

Salve. Santu Lasi e il restauro “leggero”

di Corrado Cazzato


Masseria Santu Lasi è un cantiere aperto di “pratica” di restauro rurale, per le continue cure di manutenzione ordinaria e straordinaria che periodicamente richiede, necessarie alla sua salvaguardia.

L’ampio e vario repertorio di forme, di materiali e di tecniche costruttive si lega strettamente al paesaggio circostante e alle trasformazioni antropiche di cui il luogo è stato oggetto nei vari periodi sino al giorno d’oggi.

Questa simbiosi ha agevolato il recupero di ogni sua parte; a partire dai muri a secco che, ove diruti, sono stati ricostruiti da mani sapienti con le stesse pietre informi che l’aratro ha rimosso per bonificare il terreno vegetale e con le stesse tecniche costruttive che ne assicurano la statica, mediante la sovrapposizione a incastro del pietrame e la rastremazione della sezione verso l’alto.

La “pratica” del muretto a secco ha consentito non solo il recupero dei recinti, ma anche quello dei paramenti murari – alcuni dei quali in materiale informe sistemato con malta a base di bolo argilloso (voliu), calce, coppi frantumati e paglia – risarciti nei giunti (dopo aver scarnito, rinzeppato con scaglie di pietra e sigillato le connessure con malta di tufina e calce) e poi scialbati, a tre passate di calce, che, come nel passato, assicura, all’interno come all’esterno, protezione, igiene e pulizia degli ambienti. Solo pochi elementi in pietra sono stati lasciati a vista: fasce di coronamento, antiche caditoie e alcuni motivi decorativi.

Frequente è stato il reimpiego di materiali – conci di tufo, pietrame informe e piromafu (pietra calcarea refrattaria) – allettati con malta di calce stilata sottosquadro nei giunti, senza ausilio di cemento.

In alcuni ambienti, come le stalle e l’ovile, particolare attenzione è stata riservata al recupero, funzionale alle attuali necessità abitative, di nicchie e mangiatoie; nel palmento l’antico apiario è stato trasformato in una semplice e discreta fonte di luce naturale.

Se per le coperture a falda delle stalle e del palmento la manutenzione ha richiesto inevitabilmente la rimozione e la sostituzione di puntoni e arcarecci e la riparazione del manto di copertura, per quelle a volta della torre e della masseria ci si è limitati alla revisione dei lastrici solari.

Con la stessa attenzione si è guardato alle pavimentazioni, mediante la posa in opera nelle stalle di basolato calcareo di recupero, il mantenimento del coccio pesto nel corpo principale, la ricerca all’esterno delle quote originarie di calpestìo in pietra affiorante, integrata con terreno vegetale o con ghiaia di varia pezzatura.

Per gli impianti si è optato per soluzioni e materiali rispondenti alle esigenze odierne ma, al tempo stesso, non invasivi; per il riscaldamento degli ambienti sono stati recuperati gli antichi camini. Per gli infissi, ove possibile, si è proceduto al restauro di quelli esistenti.

Masseria Santu Lasi è un piccolo, semplice ma chiaro esempio dell’amore e del rispetto che bisogna avere per la cultura di un luogo, specie se è la propria Terra.

Sentire il dovere di proteggerla; osservarla, in ogni momento, di notte e di giorno, con la pioggia e con il sole, con la tramontana e lo scirocco, in ogni stagione…

Riconoscente, con la sua antica saggezza, questa Terra ricambierà le attenzioni e si prodigherà per aiutare quanti sono interessati a quelle azioni di tutela e di salvaguardia di un territorio, che conferiscono dignità a una comunità e ne arricchiscono la sua storia.

Lecce. Masseria Papaleo. Lì ove dimorano le Fate.

di Massimo Negro

 

Se le fate sono esistite non potevano che vivere in un luogo incantato come questo. Prima che gli sfregi dell’uomo, i segni del tempo e dell’abbandono le facessero allontanare da noi. Ma prima di andar via hanno voluto lasciare un segno della loro presenza, affinché ce ne ricordassimo. Per lungo tempo non l’abbiamo fatto, dimenticando la loro dimora, lasciando che questo splendido luogo fosse alla mercé di vandali e devastatori. Ma forse le loro speranze non erano state poi così inutilmente riposte in noi. Infine il loro ricordo è nuovamente riaffiorato. Ma di questo scriverò in seguito nelle conclusioni.

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Bisogna svuotare la mente, occorre dimenticare il mondo che attualmente ci circonda con le sue frenesie e isterie. Un bel respiro e ci si immerge nell’ocra della pietra, nelle macchie di verde intenso, in un mondo sospeso tra l’oggi e ieri, tra terra e cielo.

Ed è questa la prima impressione che si ha nel guardare la grande Masseria Papaleo. L’antica azione dei cavatori, che hanno lasciato le loro profonde tracce incise nella roccia, ha reso visibile questa sensazione di sospensione.

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Che risulta ancor più evidente se ci si sposta sul retro del complesso. Si ha quasi l’impressione che la Masseria sia stata poggiata da chissà quali forze sovraumane sul blocco di pietra calcarea su cui si erge. Pare quasi che da un momento all’altro possa sollevarsi e scomparire quasi fosse il Castello errante di Howl.

Un gioco di archi dalle grandezze e altezze variabili, mantenuti ancora in piedi grazie a chissà quale miracolo, ci conduce all’interno del complesso, dinanzi alla lineare e imponente facciata dell’edificio. Le decorazioni esterne sulle architravi delle tre porte di accesso al piano nobile fanno intuire, con pochi dubbi, l’importanza del luogo.

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Da segni ormai non più visibili, ma giunti sino a noi da chi nei primi decenni del secolo scorso visitando il luogo ha voluto lasciar memoria per iscritto della propria visita, si pensa che sia appartenuta a Scipione de Summa, che governò nella Terra d’Otranto dal 1532 al 1542. Siamo nel periodo in cui, grazie a Carlo V, si iniziava la progettazione e costruzione del maestoso Castello di Lecce. E’ evidente che la stessa attuale denominazione di masseria potrebbe essere impropria, trattandosi quindi di un vero e proprio palazzo nobiliare.

Ma il complesso ha molto probabilmente origini che potrebbero andare poco più indietro nel passato. Infatti, giunti dinanzi alla scalinata che conduce all’esterno, sul lato sinistro del complesso, ove molto probabilmente sorgeva un giardino, in alto sulla lunetta vi è un affresco rappresentante l’Annunciazione, e in basso (forse) si legge 1518 [?]. L’affresco è rovinato ma grazie all’altezza non a subito danni ancora maggiori.

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La scalinata anzidetta conduce all’esterno, alla base del blocco calcareo su cui poggia il grande complesso. Dopo pochi passi è ben visibile una piccola porta. A guardarla oggi, con sguardo superficiale e veloce, sembra una normalissima entrata. Una di quelle che possono condurre in qualche locale di servizio, in qualche scantinato. Ma basta porre un minimo di attenzione per rendersi conto che non è un accesso come tanti altri.

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Il tempo e lo sfarinamento della pietra leccese ha ormai reso irriconoscibili i dettagli di una architrave che doveva essere di particolare pregio.

Francesco Tummarello che visitò il posto, nel 1925 (1) ci ha lasciato questa descrizione:

“Appena si mette piede nel giardino, si è richiamati da un grande bassorilievo su l’architrave d’una porta -della murata a destra del caseggiato soprastante. Tale bassorilievo, intagliato sulla pietra leccese, e formante l’architrave, è quasi tutto corroso, ma vi si scorgono ancora due grandi angioli che sostengono una targa con una logora e indecifrabile iscrizione, la quale principia colla seguente parola: NIMPHIS ET…. POMO…. in carattere lapidario romano. Poco al disopra, sono intagliati due piccoli scudi colle insegne attaccati alla cornice; in uno dei quali scorgonsi due torri e un leone rampante.”

Oggi di quello che vide il Tummarello resta ben poco. E’ visibile ancora l’angioletto di destra; di quello di sinistra si intuisce che vi era dai contorni sgretolati della pietra. Dell’iscrizione non resta praticamente nulla. Una pietra particolarmente delicata (non tutta la pietra leccese è uguale in quanto a resistenza e sfarinamento) e nel tempo non curata purtroppo ha fatto giungere ben poco sino a noi.

Ma quello che lascia intuire la porta di accesso è ben poca cosa rispetto a quello che appare una volta entrati. Basta fare un passo all’interno, pochi secondi che la vista si abitui alla penombra e si viene colti da un evidente sensazione di incredulità. Grandi figure femminili sembrano prender vita dalle pareti.

Le fate del Ninfeo di Masseria Papaleo.

Il Tummarello, preso anch’egli da evidente emozione, nel suo scritto riporta quanto segue:

“Vedesi, non una grotta, ma un gran salone a soffitto piano, colle pareti adorne di statue dentro nicchie :ad arco circolare. Le nicchie sono 12, sei per ogni lato, una rimpetto all’altra. Le figure femminili, in alto rilievo, grandi al vero, sono 6, tre per ogni parete e alternate a nicchie vuote di forma emicilindrica con una grande conchiglia bene intagliata nella parte emisferica superiore. — Ecco le Fate! delle quali una è col capo coronato di fiori!

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Peccato che sono quasi tutte mutilate alle braccia, al petto e al viso; pur non pertanto si intravede una certa grazia nelle movenze e nell’insieme delle vesti eleganti, e la fantasia anima quei visi deformati, scorgendovi anche delle bellezze giovanili. E si pensa davvero alle Belle Fate !… Alle Fate Buone e benefiche!…  Ma la meraviglia si aumenta, osservando meglio, quando cioè si vede che tanto le statue che le intiere pareti e le nicchie, come il soffitto a piattabanda, sono cavate e scolpite nel vivo sasso, formando un grandioso blocco di pietra leccese.”

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Quanto scorge il Tummarello è sostanzialmente in linea con quanto giunto sino a noi. Le figure femminili sono mutilate e rovinate così come lui le descrive, ma il loro stato non far venir meno quel senso di meraviglia che ti coglie entrando nella sala sotterranea. Sembra quasi che volgano il loro sguardo nel controllare chi entra nei loro “domini”.

C’è solo un’evidente elemento di discontinuità rispetto alla visita dei primi del ‘900. Il Tummarello nel suo scritto scrive di un gran salone e di sei nicchie per i due lati. Oggi non vi è un gran salone ma un muro, forse posticcio, ha diviso in due stanze il grande ambiente.

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In un altro passo, il Tummarello scrive di una cavità sotterranea nella quale era possibile accedere dalla stanza delle Fate. Oggi si notano nel pavimento i parziali contorni di un’apertura. Se quello è l’accesso, la cavità è completamente interrata.

Nella seconda stanza ricavata dal muro posticcio, lungo le pareti continuano ad essere presenti altre figure femminili, intervallate da nicchie decorate. Sia nella prima che nella seconda stanza si può notare che le pareti sono state rinfrescate (chissà quando) con una brutta tinta azzurra. Incluse le Fate.

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Tornando nella prima stanza si nota una porta che conduce verso una stanza attualmente priva di aperture. Per cui nell’entrare si resta immersi nell’oscurità e l’unica luce che vi entra è quella proveniente dalla porta di accesso.

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“ …. una stanza rotonda a volta sferica. Questa costituisce il vero Ninfèo o sala da Bagno, di forma cilindrica, con un bel sedile attorno e colla cupola a calotta sferica, nel cui centro sta un lucernario, attualmente chiuso. In essa, alla perfezione geometrica, si accoppia l’ornamentale cornicetta dentellata a mensolette, su cui poggia la cupola. In questa Rotonda, doveva osservi la vasca da bagno, ora sparita.”

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I ninfei hanno origini antiche. In origine si identificava un edificio sacro a una ninfa, in genere posto presso una fontana o una sorgente d’acqua. Nella civiltà greco-romana con ninfeo si indicavano dei “luoghi d’acque”, ossia strutture presentanti vasche e piante acquatiche presso i quali era possibile sostare, adibire banchetti e trascorrere momenti di ozio.

Si dice che anche il luogo dove sorge il ninfeo delle fate era in origine segnato da stagni, poi prosciugati nell’operazione di bonifica delle “tagghiate”.

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Ovviamente un luogo come questo non poteva sfuggire alla narrazione di leggende e racconti di tesori (acchiatura). In una rivista di culturale edita dalla Banca Popolare Pugliese, nel 1989 compariva un articolo di Fiocco e Zellino in cui vi era riportato:

“Qualcuno racconta che anche oggi escono dal ninfeo – specie di notte – e che talvolta bussano alle porte delle case spaventando la gente, che possono impietrire con uno sguardo. Queste donne ultraterrene sono apparse talvolta in vaporosi abiti bianchi, talaltra nude e affascinanti: “mezze nute”, ci diceva un contadino. Possono cambiare aspetto a loro piacere, divenire alte come palazzi, rendersi invisibili o tramutarsi in animali. Una signora ci ha narrato così di avere visto un giorno un animale fantastico balzar fuori al tramonto dal canneto vicino al ninfeo in un gran polverone, e di essere fuggita spaventata. Colei che abita la masseria si dice abbia visto un giorno una fata, vestita di bianco; seduta al tavolo di casa sua, e dopo poco sparita.

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Nel ninfeo era nascosta l’acchiatura delle fate ed è per questo che fino a qualche anno fa non vi si faceva entrare nessuno. Ora si dice che il contadino che lavorava il fondo circostante abbia trovato, nascosta in una nicchia, l’acchiatura e che egli sia protetto dalle fate: in una notte di tempesta esse lo salvarono da un fulmine che lo sfiorò, bruciacchiandogli i calzoni, senza fargli male. Egli ci ha detto di non credere alle fate, che chiama con espressione poetica “illusione di vita”, e di non averle mai viste. Ma non è forse vero che chi riceve favori dalle fate o intrattiene rapporti con loro non deve farne parola con nessuno?”

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Ma queste non sono le uniche leggende che si narrano. Si racconta di una ragazza che aveva un intenso e inesaudito desiderio di maternità. Purtroppo il non poter aver figli, con il tempo, condusse la poveretta quasi alla follia. Ogni giorno si recava nelle stanze del ninfeo recando con se un ramo di un albero, cullandolo proprio come se fosse un bambino. Le fate nel vedere la disperazione della ragazza decisero di intervenire. Fu così che, si racconta, si compì un incredibile miracolo. Il ramo si tramutò in un bambino e il desiderio della povera ragazza venne così esaudito.

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Ma la suggestione di questo luogo non è solo racchiusa in queste splendide stanze sotterranee. Uscendo all’esterno e volgendo i miei passi verso il retro del grande complesso mi trovo dinanzi ad un gioco di aperture e scale tutte profondamente intagliate e ricavate dalla roccia.

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E in alto i fregi sul balcone e sull’architrave dei fasti del passato.

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In questo luogo ci sono giunto grazie alle indicazioni dell’amico Marco Piccinni (2) che in una sua nota aveva segnalato lo stato di degrado e di abbandono del sito.

Fortunatamente questo luogo e le cave che vi sono attorno, note come cave di Marco Vito, rientrano in un complesso e vasto intervento di recupero progettato dal Comune di Lecce e finanziato dalla Regione Puglia.

La terza fase dell’intervento  prevede il recupero di Masseria Tagliatelle (come altrimenti è chiamata Masseria Papaleo) e del Ninfeo delle Fate, che diventerà “la Casa del Parco” a disposizione della città.

Nell’attesa che le Fate possano nuovamente tornare tra noi, spero che l’intervento di recupero non snaturi questo splendido luogo.

 

http://massimonegro.wordpress.com/2013/01/15/lecce-masseria-papaleo-li-ove-dimorano-le-fate/

_____________

(1) Tummarello, Francesco: Il ninfeo delle fate a Lecce, Fede – rivista quindicinale d’Arte e di Cultura. – a. III, n. 2 (15 gennaio 1925)

(2) Marco Piccinni. Il ninfeo delle fate nella masseria Papaleo. Su Salogentis.it
http://www.salogentis.it/2012/05/23/il-ninfeo-delle-fate-nella-masseria-papaleo/

Calcare e calcinari nell’Arneo


di Fabrizio Suppressa

La calce, come affermano le fonti antiche di Vitruvio e di Plinio il Vecchio, fu scoperta molto probabilmente per caso a seguito dello spegnimento di un forte incendio di un edificio costruito in pietra calcarea[1]. Già dal IV secolo a.C. era conosciuta da Greci e Fenici che la diffusero attraverso le loro rotte mercantili in tutto il Mediterraneo.

Dagli scavi archeologici risulta che anche i Messapi utilizzarono la calce, sotto forma di malta, per la realizzazione delle proprie abitazioni; anche se per l’edificazione delle cinte murarie a difesa delle polis preferirono impiegare a secco enormi blocchi in calcarenite locale. E’ però con l’ascesa dei Romani che la calce assunse una qualità maggiore, per la realizzazione di infrastrutture ad ampia luce e di edifici mai realizzati fino ad allora. Nel nostro ambito territoriale, la calce, assieme al tufo, estratto nelle tagghiate, costituisce un connubio perfetto che ancora riesce a caratterizzare l’architettura salentina, sia essa aulica o rurale.

 

ph Fabrizio Suppressa

 

La calce e le calcare

La calce viva si ricavava, fino a pochi decenni or sono, in fornaci tradizionali chiamate calcare o meglio carcare nel vernacolo salentino. Queste primitive attività industriali erano localizzate in aree che avevano due caratteristiche imprescindibili: la presenza di boschi o di macchie per la fornitura di combustibile, come legna da ardere e carbone, e la giusta pietra calcarea per la cottura. Quest’ultima doveva essere, tra tutte le rocce del Salento, quella con formazione cristallina tipo pietra viva e dai

La marzotica della masseria Bellimento in agro di Nardò

ph Franco Cazzella

di Massimo Vaglio

Sulla litoranea che da Sant’Isidoro porta a Santa Caterina, nei pressi dell’ormai famosa Palude del Capitano ultima appendice, ma non per importanza, dello stupendo Parco Regionale Porto Selvaggio-Palude del Capitano, sorge la masseria Bellimento, una masseria edificata alla fine dell’800 su terreni macchiosi e paludosi che sino ad allora erano stati destinati ad usi civici, ovvero, erano terreni ove gli abitanti di Nardò meno abbienti potevano esercitare liberamente il prelievo di legna da ardere, di erbe e di qualunque altra risorsa vi nascesse.

Il bianco caseggiato, ora fiancheggiato da alberi, sino a qualche decennio addietro si ergeva con minimalista semplicità in una steppa a dir poco brulla, senza un albero che occultasse la sagoma vagamente arabeggiante, un gregge misto di pecore di razza Moscia e di rustiche capre autoctone, insieme a qualche bovino di “razza” Prete costituivano la dote di questa masseria condotta al tempo da patrunu Mario, padre degli attuali proprietari, indimenticabile figura di uomo saggio, di amico e di padrone di casa. Tutte le attività che vi si svolgevano erano condotte con estrema semplicità o come diremmo oggi a basso impatto ambientale, gli animali si alimentavano solo con quello che l’ambiente circostante offriva: frasche della macchia ed erbe sferzate dai salsi dai venti marini. Il caccamo della merce, ossia la caldaia del latte, era alimentato esclusivamente con sterpi di Cisto di Montpellier secchi e di altre essenze neglette, raccolti quotidianamente nella gariga circostante. I semplici, quanto buoni formaggi che venivano prodotti, stagionavano nello stesso ambiente su tavole imbiancate da decenni d’essudazioni saline, ove spesso acquisivano involontariamente pure una blanda affumicatura. Anche qui, l’attrezzatura era a dir poco primordiale, una caldaia di rame stagnato, un tavolo, un ruotolo d’alaterno, un po’ di fiscelle di giunco, una schiumarola e un telaietto con un paio di stamigne. Niente termometri o altre diavolerie tecnologiche, pochi semplici gesti e il coinvolgimento di tutti i cinque sensi nello svolgimento di routinarie quanto semplici operazioni. Il cambio del suono del càccamo, battuto con il ruotolo, avvisava che la ricotta stava per flocculare candida come fiocchi di neve, e che bisognava allontanava il

Giudice Giorgio, regina delle masserie del neritino

di Marcello Gaballo

Il territorio del comune di Nardò è straordinariamente ricco di strutture masserizie, tra le più variegate per tipologia ed estensione rispetto ad altri territori a vocazione contadina del Salento e della Puglia.

Il territorio del secondo comune della provincia si affaccia sul mare, nel tratto di costa ionica di circa 22 Km. compreso tra Torre del Fiume e Punta Prosciutto, estendendosi per circa 2000 ha. anche nell’ interno, arrivando ad ovest sino al confine provinciale Lecce-Taranto.

Il suolo è pianeggiante con qualche ondulazione che, nella parte Sud, si eleva in collinette che fanno parte del sistema orografico delle Serre Salentine, propaggine delle Murge, abbassandosi con varia pendenza verso il mare.

Il cuore del territorio neritino è rappresentato dall’Arneo, che fino a qualche decennio addietro ha rappresentato la zona più importante dal punto di vista economico-agricolo, caratterizzata dal latifondo e dal bracciantato, il quale, nel primo e secondo dopoguerra, ha occupato buona parte di quelle fertili terre, con scontri sociali che hanno scritto le pagine più accorate della storia contemporanea del Salento.

L’ amenità dei luoghi e la fertilità dei terreni, un tempo occupati da foresta e macchia mediterranea, ha spinto i diversi proprietari a realizzarvi, nel corso dei secoli, insediamenti produttivi come le masserie, spesso fortificate per frequenza delle incursioni piratesche dalla costa.
Molte masserie dell’Arneo si impongono per la bellezza architettonica, la varietà delle tipologie, l’imponenza delle dimensioni, l’alto livello degli elementi fortificativi, il raccordo con le vie di comunicazione e la compiutezza delle espressioni collegate all’attività produttiva agricola e pastorale.
Fra tutte ritengo che una in particolare meriti il titolo di regina, la masseria Giudice Giorgio, una delle masserie strategicamente più importanti, sulla strada statale 164, Nardò-Avetrana (da secoli denominata strada tarantina, a circa 10 km dal centro abitato di Nardò.

la torre cinquecentesca

Caratterizzata dall’imponente torre cinquecentesca a pianta quadrata, a tre piani, dei quali l’inferiore, cui si accede attraverso un artistico portale bugnato, leggermente scarpato, fu adibito un tempo al deposito e alla lavorazione delle olive. È collegata a vista con le masserie Bovilli e Roto Galeta, che tuttavia non possono competere con essa in altezza e particolarità architettoniche.

Il pianterreno, voltato a botte ed assai più antico rispetto al resto, era collegato al primo piano da una scala a pioli  che portava alla scala in muratura impostata a circa

Ambiente/ Lettera aperta al Sindaco di Cursi

Comunicato stampa di GenerAzione Cursi

 

Lettera aperta al Sindaco di Cursi

 

Cursi conto alla rovescia della fine! Una sciagura eolica senza precedenti pende sulla testa di ogni cittadino: 14 mega-torri eoliche mastodontiche ben più alte di 100m!

Il Sindaco con un manifesto informa gli ignari ed inermi cittadini!

Ma il Sindaco e la sua giunta cosa stanno facendo per fermare davvero questa catastrofe in coerenza con le dichiarazioni che aveva rilasciato contro questo “impianto della vergogna e dell’oppressione” solo alcuni mesi or sono ?

 

Masseria Marrugo, la morte della poesia, della vita, della felicità

 

E’ stato un fulmine a ciel sereno!  Sui muri della Città di Cursi un manifesto  a firma del Sindaco Edoardo Santoro  informa in questi giorni i cittadini, con burocratica nonchalance, della totale fine del suo paese , della fine del

Li Cursàri, un toponimo che potrebbe indurre a pensar male…

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Le torri, quale in buona salute, quale meno, quale ridotta ad un rudere, visibili lungo le nostre coste sono la testimonianza dell’appetito che la nostre terre hanno sempre suscitato in genti straniere; solo che quelle fabbriche sono un indizio della paura nutrita contro un pericolo ben più grave della colonizzazione che questo lembo d’Italia ha conosciuto, pur tra vicende inevitabilmente sanguinose, per millenni; esse erano, com’è noto, il primario strumento di difesa (l’avvistamento) contro le scorrerie dei Turchi. E la torre, avente la stessa funzione, era il componente essenziale delle cosiddette masserie fortificate.

Spesso le parole pirata e corsaro vengono utilizzate come sinonimi, ma non è così. Il pirata è a tutti gli effetti un criminale che esercita la sua attività predatoria contro chiunque gli capiti a tiro; il corsaro è una sorta di predatore legalizzato, nel senso che può esercitare la sua attività col beneplacito, cioè la complicità e la connivenza (per gli interessati autorizzazione) di un governo nazionale solo a danno dei nemici, anche di sola fede.

Impropriamente, perciò, si parla di pirati barbareschi con riferimento agli incursori (nel nostro caso turchi) che nel XVI° secolo terrorizzarono le nostre coste: più correttamente si dovrebbe parlare di corsari barbareschi.

Come non pensare d’acchito a loro di fronte al toponimo Li  Cursàri, indicante, oltre la zona, una masseria? Le cose, invece, come ben sanno gli addetti ai lavori, stanno diversamente e bisogna andare a ritroso nel tempo, precisamente un secolo prima.

La prima attestazione del toponimo risale al 20 luglio 14431:

massariam unam, dictam de li Cursari…possidetur ad presens per supradictum Antonium Cursarum…(…una masseria detta dei Corsari … attualmente è in possesso del prima nominato2 Antonio Corsaro) …item clausorium unum, nominatum la Longa, iuxta clausorium dictum de li Cursari…(…parimenti un luogo recintato chiamato la Longa, presso il luogo recintato detto dei Corsari…)…usque ad locum qui vocatur Salparea et vadit per massariam Sancti Ysideri, inclusive, usque ad turrim Sancti Ysideri, que est fundata  et constructa super territorio dicti pheudi, et deinde currit per viam que dicitur Carbasio, usque ad clausorium olivarum Carbasii, inclusive, et massariam Nicolai Cursari, que fuit Iohannis de Thoma de Neritono…(…fino al luogo che si chiama Sarparea e procede attraverso la masseria di Sant’Isidoro, comprendendola, fino alla torre di Sant’Isidoro che è costruita sul territorio di detto feudo3, e  poi  corre attraverso  la  via chiamata Carbasio, fino all’oliveto di Carbasio, comprendendolo, e alla masseria di Nicola Cursaro, che fu di Giovanni Toma di Nardò…).

Il secondo documento comprovante la persistenza di interessi della famiglia nella stessa zona è del 1500 [C. G. Centonze, A. De Lorenzis, N. Caputo, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Congedo, Galatina, 1988, pag. 208]:

…et dicto limite curre per diricto verso lo ieroccho per la via per la quale se va da Nerito alla Spondorata, quale via e per la via de le olive de Munti di sanbiasi nominato Curano et al presente lo possede Filippo de Castello et de lo dicto lemitune de ierocco, ad ponente colla cum le terre de Sancto Luigi de li Filieri nominato la Perrusa et curreno fim ad Monte Milo et de Monte Milo curreno fino alle chesure de Cola Cursaro, al presente le possede Beatrice Cursara, et de lo cantene de dicte chesure curreno de la via chi vene de santo isidero ad Nerito…

Insomma, l’onomastico ha dato vita al toponimo (in linea con altri appartenenti a masserie) e, una volta tanto, gli avventurieri, con o senza coperture, non hanno nessuna colpa…

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1 Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardò (1292-1508), Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981 pgg. 117, 118, 120 e 121, passim.

2 Come proprietario della masseria Fortucchi.

3 Si tratta del feudo di Ignano citato in una parte precedente a quella del documento riportata.

Li Càfari: un’etimologia apparentemente complicata

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Siamo alle prese con un altro toponimo neretino. Preliminarmente diremo che quelli riferentisi al territorio extraurbano (o ex extraurbano) in alcuni casi (la maggior parte) sono legati al nome del proprietario, in altri a dettar legge è la specie vegetale più diffusa  e in altri ancora una caratteristica fisica del territorio.

I documenti più antichi su quello oggi in esame sono piuttosto scarni e non contengono indicazioni utili a collegare oltre ogni ragionevole dubbio l’attuale territorio con quello oggetto del passato possesso1. Un Bartholomeus Cafarus compare come testimone in un atto del 12 maggio 13632; Petrus Cafarus compare come già deceduto in un atto del 31 dicembre 14273; ancora più lapidarie (compaiono solo come testimoni) le presenze di Iohannes Cafarus in un atto del 19 febbraio 14034 e di Ioannes Cafarus in un atto del 1 febbraio 15185 col titolo di artium et medicine doctor, mentre Antonellus Caffarus nel 1500 risulta proprietario di una casa nel vicinio della chiesa di S. Barbara nel pittaggio di San Paolo6 e  Iohannes Cafarus compare come testimone in un atto del 23 maggio 15007.

Prezioso, invece, perché fa riferimento alla fabbrica e, comunque, con riferimenti topografici inequivocabili coincidenti con l’attuale ubicazione, è un atto del 15818 in cui i figli di Bartolomeo Cafaro vendono la masseria per 220 ducati al barone Francesco Antonio Carignani. Essa consiste in sei curti, una casa lamiata, terre fattizze e macchiose et uno paro altro de curti et una chesurella vicino S.to Stefano cum servitute carolenorum octodui cisterne alli Larghi di Carignano et aliis membris suisiuxta bona beneficialia ecclesie S.ti Stefani, iuxta terras dotales Jacobi Ingusci, iuxta terras dotales Jo: Antonii Nicolai de lo Abbate, iuxta olivas Ven.li monasterii S. Clarae, iuxta maxariam nuncupatam delli Nucci et alios.

Quanto fin qui detto consente di datare il fabbricato nella sua conformazione più antica che si conosca  almeno alla metà del secolo XVI°, di collegare il toponimo al nome del proprietario e di escludere, di conseguenza,  che esso abbia un’origine legata alla presenza significativa (fra l’altro non è detto che essa continui ai nostri tempi) di un’essenza. Avrebbe potuto indurlo a pensare  il nesso tumu càfaru usato a Muro Leccese per designare una specie di timo nano9; quanto alla sua etimologia (il Rohlfs non si pronuncia) tra mille dubbi (e forse suggestionati dal calabrese càfaru=friabile) penseremmo ad un adattamento latino del greco karfalèos10=arido; e questo, a complicare la situazione, avrebbe messo in ballo pure la terza possibilità teorica (caratteristica fisica del territorio).

Ma, come abbiamo visto, conta la parola, anzi lo scritto del notaio…

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1 In rete si legge che l’attuale masseria, trasformata in struttura ricettiva (foto di testa), risale al XVIII° secolo.

2 Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardò (1292-1508), Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981 pg. 32.

3 Angela Frascadore, op. cit., pg. 83: …iuxta vin(eam) heredum domini Petri Cafari (presso la vigna degli eredi di don Pietro Cafaro).

4 Angela Frascadore, op. cit. pag. 77.

5 Angela Frascadore, op. cit. pag. 176.

6 C. G. Centonze, A. De Lorenzis, N. Caputo, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Congedo, Galatina, 1988, pag. 174: …intus dicta civitate Neritoni…in dicto loco in vicinio ecclesie Sancte Barbare…est domus una…iuxta domum donni Antonelli Caffari…(nella detta città di Nardò nel luogo già detto [pittagio di San Paolo] nel vicinio della chiesa di S. Barbara…c’è una casa…presso la casa di don Antonello Caffaro).

7 Michela Pastore, Le pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò, Centro di studi salentini, Lecce, 1984, pag. 88.

8 ASL, Atti del notaio Cornelio Tollemeto di Nardò, 66/2 1581, cc. 164-166v.

9 Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976, v.III, pag. 902. Cafari era una contrada, oggi quartiere, di Cutrofiano.

10 Probabile trafila: karfàleos>càrfalus>càfalus[(la caduta di –r– può essere stata indotta dalla successiva liquida (-l-)]>càfaru.

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