Un’Annunciazione salentina: sarà pure una crosta, ma fino ad un certo punto …

di Armando Polito

Sull’affresco e sulla fabbrica rinvio al pregevolissimo, anche per la documentazione, post di Massimo Negro  (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/21/lecce-masseria-papaleo-li-ove-dimorano-le-fate/), del quale mi son permesso di utilizzare due foto (a cominciare da quella di testa) per qualche riflessione che mi piace esternare e del cui spessore chiedo anticipatamente scusa a chi per preparazione specifica e sensibilità artistica (altro che separazione delle due culture!…) sarebbe più autorizzato di me a dire la sua.

Quello dell’Annunciazione è certamente uno dei temi religiosi più trattati in pittura e, proprio per questo, molto pericoloso, nel senso che è difficile per qualsiasi artista inventarsi qualcosa di nuovo e resistere all’influsso, magari inconscio, dei predecessori. Qui l’anonimo autore ha dribblato secondo me brillantemente l’ostacolo e, pur senza essere un Raffaello, è riuscito a trasmettere un messaggio di speranza (cos’è in fondo l’Annunciazione se non questo?) sfruttando un tema antico con un linguaggio che certamente è legato, come vedremo, alla visione del mondo predominante nei suoi tempi; ma proprio da questa mediazione nasce quel palpito di sentire universale che accomuna espressioni artistiche lontane nel tempo e nello spazio. Insomma, non c’è futuro trascurando il passato ed il presente; altro che con la cultura non si mangia!, affermazione blasfema, oltre che idiota, in nome della quale si tenta di giustificare tutto, cementificazione, cattedrali nel deserto ed opere incompiute comprese!

Riporto l’episodio biblico nella narrazione di Luca (I, 26-38):

Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo.

L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?».

Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Ho volutamente immesso nel testo tre spazi perché chi legge comprenda più facilmente come le battute presenti nelle tre sezioni così create si adattino perfettamente ed indifferentemente, singolarmente prese, a ciò che si vede nell’affresco, anche se quelle della terza sezione sembrano, direi volutamente, più calzanti (in realtà è l’inverso: è l’artista che le ha rese più calzanti al testo e non credo che ci sia casualità in questa sottolineatura definitiva). Che sotto questo punto di vista il nostro anonimo pittore abbia superato l’esame a pieni voti mi pare evidente dando una rapida scorsa a termini di confronto famosi.

Giotto (1267 c.-1337), Cappella degli Scrovegni, Padova
Giotto (1267 c.-1337), Cappella degli Scrovegni, Padova
Beato Angelico (1395 c.-1455), Museo del Prado, Madrid (dettaglio)
Beato Angelico (1395 c.-1455), Museo del Prado, Madrid (dettaglio)
Pinturicchio (1452 c-1513) Cappella Baglioni in Santa Maria Maggiore, Spello
Pinturicchio (1452 c-1513) Cappella Baglioni in Santa Maria Maggiore, Spello
Lorenzo Lotto (1480/1557), Pinacoteca comunale, Recanati
Lorenzo Lotto (1480/1557), Pinacoteca comunale, Recanati
Carracci (1555-1619), Chiesa di S. Domenico, Bologna
Carracci (1555-1619), Chiesa di S. Domenico, Bologna

In estrema sintesi possiamo dire che il tema attraverso tre secoli di pittura presenta un progressivo affievolirsi di alcuni dettagli legati al concetto del divino (secondo me l’acme di tale processo è raggiunto dal Lotto con la presenza del gatto il cui  dinamismo non è da meno di quello degli altri due protagonisti), sicché in Carracci, rispetto al quale il nostro anonimo, come vedremo, è contemporaneo, la tonalità scura  fa quasi confondere le ali dell’Angelo con le nuvole, mentre l’aureola è assente in lui e nella Vergine, anche se in quest’ultima sembra sfumare e confondersi con il cappuccio del manto.

Il nostro anonimo si spinge oltre: la Vergine che appare è di fatto una dama rinascimentale e l’Angelo (in cui la tonalità scura delle ali ha la stessa funzione già vista nel Lotto e nel Carracci ma l’esito appare poco felice perché troppo contrastante col chiaro dello sfondo) è quasi un paggio, cui non manca neppure la nota “sexy” dello spacco che scopre una gamba, mentre entrambi i piedi, di rozza fattura come la mano sinistra della Vergine, appaiono congelati in una posizione che forse nelle intenzioni dell’autore doveva evocare una sorta di atterraggio. Da notare ancora che l’Angelo impugna il giglio non con la sinistra ma con la destra, scelta obbligata a causa della conformazione della porzione di parete a disposizione. La colomba è nella stessa posizione della tela del Carracci, al quale per la composizione della scena l’anonimo potrebbe essersi ispirato.

Ne vien fuori, al di là dei limiti formali evidenziati (… forma non s’accorda/molte fiate all’intenzion de l’arte…), una rappresentazione tutta laica (stavo per dire pagana) del tema ma, secondo me, l’essenza universale del messaggio rimane intatta, anche se  questa rappresentazione, agli occhi di chi si attiene ai canoni consueti, potrebbe sembrare blasfema e dissacrante.

Una conferma a questa lettura mi pare che la dia il contesto: l’affresco lì dove si trova (non credo la collocazione sia stata casuale) è come una pala d’altare; solo  che per guardarla bisogna levare lo sguardo più in alto del solito. Ed ecco entrare in scena un secondo componente del contesto: la scala.

Essa nel suo duplice percorso diventa metafora dell’uomo composto di corpo e animo (anche anima, per chi ci crede) sospeso, perciò, tra terra e cielo (anche in senso metaforico, sempre per chi ci crede): salendo è improbabile che ci sia una sosta su qualche gradino e che ci si giri a contemplare l’affresco, mentre una volta giunti in vetta è naturale che lo sguardo vi si posi e  che la retta immaginaria che unisce ortogonalmente lo sguardo all’affresco rappresenti il frutto dell’avvenuta ascesa.

Nel percorso inverso lo sguardo può in qualsiasi momento (attenzione a non cadere! …) rivolgersi all’affresco ma quella linea da ortogonale diventerà sempre più obliqua finché, giunti sugli ultimi gradini tornerà perpendicolare … alla porta: siamo tornati, in tutti i sensi, a terra e il cielo metaforico è lontano, anzi non è più visibile, mentre basta varcare la soglia per contemplare quello reale …

Molto probabilmente al di sotto della lunetta contenente l’affresco vi era un’apertura, in seguito murata, con la funzione di illuminarlo dal basso,  oppure un secondo affresco trafugato chissà quando.

Che gli affreschi fossero due (il mancante di sapore più terreno rispetto al superstite?) o uno, è certo che il committente doveva avere una cultura raffinata e che l’anonimo pittore eseguì fedelmente le sue direttive che, senza rinnegare il passato, erano perfettamente in linea con la temperie del tardo Cinquecento.

E, a proposito di date, quella che appare in basso a destra e che di seguito riproduco in dettaglio mi pare essere il 1585 e non il 1518, come altri (http://www.salogentis.it/2012/05/23/il-ninfeo-delle-fate-nella-masseria-papaleo/) ha creduto di leggere.

Per concludere: anche una presunta (fra l’altro da me!) crosta del passato può avere un valore incommensurabile.

Lecce. Masseria Papaleo. Lì ove dimorano le Fate.

di Massimo Negro

 

Se le fate sono esistite non potevano che vivere in un luogo incantato come questo. Prima che gli sfregi dell’uomo, i segni del tempo e dell’abbandono le facessero allontanare da noi. Ma prima di andar via hanno voluto lasciare un segno della loro presenza, affinché ce ne ricordassimo. Per lungo tempo non l’abbiamo fatto, dimenticando la loro dimora, lasciando che questo splendido luogo fosse alla mercé di vandali e devastatori. Ma forse le loro speranze non erano state poi così inutilmente riposte in noi. Infine il loro ricordo è nuovamente riaffiorato. Ma di questo scriverò in seguito nelle conclusioni.

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Bisogna svuotare la mente, occorre dimenticare il mondo che attualmente ci circonda con le sue frenesie e isterie. Un bel respiro e ci si immerge nell’ocra della pietra, nelle macchie di verde intenso, in un mondo sospeso tra l’oggi e ieri, tra terra e cielo.

Ed è questa la prima impressione che si ha nel guardare la grande Masseria Papaleo. L’antica azione dei cavatori, che hanno lasciato le loro profonde tracce incise nella roccia, ha reso visibile questa sensazione di sospensione.

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Che risulta ancor più evidente se ci si sposta sul retro del complesso. Si ha quasi l’impressione che la Masseria sia stata poggiata da chissà quali forze sovraumane sul blocco di pietra calcarea su cui si erge. Pare quasi che da un momento all’altro possa sollevarsi e scomparire quasi fosse il Castello errante di Howl.

Un gioco di archi dalle grandezze e altezze variabili, mantenuti ancora in piedi grazie a chissà quale miracolo, ci conduce all’interno del complesso, dinanzi alla lineare e imponente facciata dell’edificio. Le decorazioni esterne sulle architravi delle tre porte di accesso al piano nobile fanno intuire, con pochi dubbi, l’importanza del luogo.

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Da segni ormai non più visibili, ma giunti sino a noi da chi nei primi decenni del secolo scorso visitando il luogo ha voluto lasciar memoria per iscritto della propria visita, si pensa che sia appartenuta a Scipione de Summa, che governò nella Terra d’Otranto dal 1532 al 1542. Siamo nel periodo in cui, grazie a Carlo V, si iniziava la progettazione e costruzione del maestoso Castello di Lecce. E’ evidente che la stessa attuale denominazione di masseria potrebbe essere impropria, trattandosi quindi di un vero e proprio palazzo nobiliare.

Ma il complesso ha molto probabilmente origini che potrebbero andare poco più indietro nel passato. Infatti, giunti dinanzi alla scalinata che conduce all’esterno, sul lato sinistro del complesso, ove molto probabilmente sorgeva un giardino, in alto sulla lunetta vi è un affresco rappresentante l’Annunciazione, e in basso (forse) si legge 1518 [?]. L’affresco è rovinato ma grazie all’altezza non a subito danni ancora maggiori.

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La scalinata anzidetta conduce all’esterno, alla base del blocco calcareo su cui poggia il grande complesso. Dopo pochi passi è ben visibile una piccola porta. A guardarla oggi, con sguardo superficiale e veloce, sembra una normalissima entrata. Una di quelle che possono condurre in qualche locale di servizio, in qualche scantinato. Ma basta porre un minimo di attenzione per rendersi conto che non è un accesso come tanti altri.

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Il tempo e lo sfarinamento della pietra leccese ha ormai reso irriconoscibili i dettagli di una architrave che doveva essere di particolare pregio.

Francesco Tummarello che visitò il posto, nel 1925 (1) ci ha lasciato questa descrizione:

“Appena si mette piede nel giardino, si è richiamati da un grande bassorilievo su l’architrave d’una porta -della murata a destra del caseggiato soprastante. Tale bassorilievo, intagliato sulla pietra leccese, e formante l’architrave, è quasi tutto corroso, ma vi si scorgono ancora due grandi angioli che sostengono una targa con una logora e indecifrabile iscrizione, la quale principia colla seguente parola: NIMPHIS ET…. POMO…. in carattere lapidario romano. Poco al disopra, sono intagliati due piccoli scudi colle insegne attaccati alla cornice; in uno dei quali scorgonsi due torri e un leone rampante.”

Oggi di quello che vide il Tummarello resta ben poco. E’ visibile ancora l’angioletto di destra; di quello di sinistra si intuisce che vi era dai contorni sgretolati della pietra. Dell’iscrizione non resta praticamente nulla. Una pietra particolarmente delicata (non tutta la pietra leccese è uguale in quanto a resistenza e sfarinamento) e nel tempo non curata purtroppo ha fatto giungere ben poco sino a noi.

Ma quello che lascia intuire la porta di accesso è ben poca cosa rispetto a quello che appare una volta entrati. Basta fare un passo all’interno, pochi secondi che la vista si abitui alla penombra e si viene colti da un evidente sensazione di incredulità. Grandi figure femminili sembrano prender vita dalle pareti.

Le fate del Ninfeo di Masseria Papaleo.

Il Tummarello, preso anch’egli da evidente emozione, nel suo scritto riporta quanto segue:

“Vedesi, non una grotta, ma un gran salone a soffitto piano, colle pareti adorne di statue dentro nicchie :ad arco circolare. Le nicchie sono 12, sei per ogni lato, una rimpetto all’altra. Le figure femminili, in alto rilievo, grandi al vero, sono 6, tre per ogni parete e alternate a nicchie vuote di forma emicilindrica con una grande conchiglia bene intagliata nella parte emisferica superiore. — Ecco le Fate! delle quali una è col capo coronato di fiori!

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Peccato che sono quasi tutte mutilate alle braccia, al petto e al viso; pur non pertanto si intravede una certa grazia nelle movenze e nell’insieme delle vesti eleganti, e la fantasia anima quei visi deformati, scorgendovi anche delle bellezze giovanili. E si pensa davvero alle Belle Fate !… Alle Fate Buone e benefiche!…  Ma la meraviglia si aumenta, osservando meglio, quando cioè si vede che tanto le statue che le intiere pareti e le nicchie, come il soffitto a piattabanda, sono cavate e scolpite nel vivo sasso, formando un grandioso blocco di pietra leccese.”

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Quanto scorge il Tummarello è sostanzialmente in linea con quanto giunto sino a noi. Le figure femminili sono mutilate e rovinate così come lui le descrive, ma il loro stato non far venir meno quel senso di meraviglia che ti coglie entrando nella sala sotterranea. Sembra quasi che volgano il loro sguardo nel controllare chi entra nei loro “domini”.

C’è solo un’evidente elemento di discontinuità rispetto alla visita dei primi del ‘900. Il Tummarello nel suo scritto scrive di un gran salone e di sei nicchie per i due lati. Oggi non vi è un gran salone ma un muro, forse posticcio, ha diviso in due stanze il grande ambiente.

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In un altro passo, il Tummarello scrive di una cavità sotterranea nella quale era possibile accedere dalla stanza delle Fate. Oggi si notano nel pavimento i parziali contorni di un’apertura. Se quello è l’accesso, la cavità è completamente interrata.

Nella seconda stanza ricavata dal muro posticcio, lungo le pareti continuano ad essere presenti altre figure femminili, intervallate da nicchie decorate. Sia nella prima che nella seconda stanza si può notare che le pareti sono state rinfrescate (chissà quando) con una brutta tinta azzurra. Incluse le Fate.

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Tornando nella prima stanza si nota una porta che conduce verso una stanza attualmente priva di aperture. Per cui nell’entrare si resta immersi nell’oscurità e l’unica luce che vi entra è quella proveniente dalla porta di accesso.

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“ …. una stanza rotonda a volta sferica. Questa costituisce il vero Ninfèo o sala da Bagno, di forma cilindrica, con un bel sedile attorno e colla cupola a calotta sferica, nel cui centro sta un lucernario, attualmente chiuso. In essa, alla perfezione geometrica, si accoppia l’ornamentale cornicetta dentellata a mensolette, su cui poggia la cupola. In questa Rotonda, doveva osservi la vasca da bagno, ora sparita.”

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I ninfei hanno origini antiche. In origine si identificava un edificio sacro a una ninfa, in genere posto presso una fontana o una sorgente d’acqua. Nella civiltà greco-romana con ninfeo si indicavano dei “luoghi d’acque”, ossia strutture presentanti vasche e piante acquatiche presso i quali era possibile sostare, adibire banchetti e trascorrere momenti di ozio.

Si dice che anche il luogo dove sorge il ninfeo delle fate era in origine segnato da stagni, poi prosciugati nell’operazione di bonifica delle “tagghiate”.

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Ovviamente un luogo come questo non poteva sfuggire alla narrazione di leggende e racconti di tesori (acchiatura). In una rivista di culturale edita dalla Banca Popolare Pugliese, nel 1989 compariva un articolo di Fiocco e Zellino in cui vi era riportato:

“Qualcuno racconta che anche oggi escono dal ninfeo – specie di notte – e che talvolta bussano alle porte delle case spaventando la gente, che possono impietrire con uno sguardo. Queste donne ultraterrene sono apparse talvolta in vaporosi abiti bianchi, talaltra nude e affascinanti: “mezze nute”, ci diceva un contadino. Possono cambiare aspetto a loro piacere, divenire alte come palazzi, rendersi invisibili o tramutarsi in animali. Una signora ci ha narrato così di avere visto un giorno un animale fantastico balzar fuori al tramonto dal canneto vicino al ninfeo in un gran polverone, e di essere fuggita spaventata. Colei che abita la masseria si dice abbia visto un giorno una fata, vestita di bianco; seduta al tavolo di casa sua, e dopo poco sparita.

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Nel ninfeo era nascosta l’acchiatura delle fate ed è per questo che fino a qualche anno fa non vi si faceva entrare nessuno. Ora si dice che il contadino che lavorava il fondo circostante abbia trovato, nascosta in una nicchia, l’acchiatura e che egli sia protetto dalle fate: in una notte di tempesta esse lo salvarono da un fulmine che lo sfiorò, bruciacchiandogli i calzoni, senza fargli male. Egli ci ha detto di non credere alle fate, che chiama con espressione poetica “illusione di vita”, e di non averle mai viste. Ma non è forse vero che chi riceve favori dalle fate o intrattiene rapporti con loro non deve farne parola con nessuno?”

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Ma queste non sono le uniche leggende che si narrano. Si racconta di una ragazza che aveva un intenso e inesaudito desiderio di maternità. Purtroppo il non poter aver figli, con il tempo, condusse la poveretta quasi alla follia. Ogni giorno si recava nelle stanze del ninfeo recando con se un ramo di un albero, cullandolo proprio come se fosse un bambino. Le fate nel vedere la disperazione della ragazza decisero di intervenire. Fu così che, si racconta, si compì un incredibile miracolo. Il ramo si tramutò in un bambino e il desiderio della povera ragazza venne così esaudito.

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Ma la suggestione di questo luogo non è solo racchiusa in queste splendide stanze sotterranee. Uscendo all’esterno e volgendo i miei passi verso il retro del grande complesso mi trovo dinanzi ad un gioco di aperture e scale tutte profondamente intagliate e ricavate dalla roccia.

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E in alto i fregi sul balcone e sull’architrave dei fasti del passato.

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In questo luogo ci sono giunto grazie alle indicazioni dell’amico Marco Piccinni (2) che in una sua nota aveva segnalato lo stato di degrado e di abbandono del sito.

Fortunatamente questo luogo e le cave che vi sono attorno, note come cave di Marco Vito, rientrano in un complesso e vasto intervento di recupero progettato dal Comune di Lecce e finanziato dalla Regione Puglia.

La terza fase dell’intervento  prevede il recupero di Masseria Tagliatelle (come altrimenti è chiamata Masseria Papaleo) e del Ninfeo delle Fate, che diventerà “la Casa del Parco” a disposizione della città.

Nell’attesa che le Fate possano nuovamente tornare tra noi, spero che l’intervento di recupero non snaturi questo splendido luogo.

 

http://massimonegro.wordpress.com/2013/01/15/lecce-masseria-papaleo-li-ove-dimorano-le-fate/

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(1) Tummarello, Francesco: Il ninfeo delle fate a Lecce, Fede – rivista quindicinale d’Arte e di Cultura. – a. III, n. 2 (15 gennaio 1925)

(2) Marco Piccinni. Il ninfeo delle fate nella masseria Papaleo. Su Salogentis.it
http://www.salogentis.it/2012/05/23/il-ninfeo-delle-fate-nella-masseria-papaleo/

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