Gli Imperiale e le loro residenze in Terra d’Otranto (prima parte)

Veduta di Francavilla (Carlo Francesco Centonze, 1643, disegno su carta, Napoli, Archivio di Stato)

 

di Mirko Belfiore

 

In Terra d’Otranto l’estensione dei possedimenti feudali durante l’età moderna raramente raggiunse dimensioni paragonabili a quelle godute nelle altre province del regno di Napoli, con una significativa eccezione rappresentata dalla signoria degli Imperiale, principi di Francavilla e marchesi d’Oria e Casalnuovo.

Tramite un’attenta e oculata strategia di compravendite, quest’ultimi seppero realizzare una delle aree di potere fra le più estese del Meridione, secondo alcune stime il quarto per ordine di grandezza. In origine fu David “eroe della battaglia dei tre Imperi”, giovane orfano di Andrea Imperiale, il quale dopo aver liquidato le pendenze con gli altri rami della famiglia a Genova e stipulato con il demanio spagnolo un pactum de retrovendendo, entrò in possesso delle terre di Oria, Francavilla e Casalnuovo insieme ai feudi di Paretalto, San Vito, li Mauri, Motunato e Comunale in aggiunta ai casali di San Giorgio ed Erchie.

Si tratta dunque, ed è qui che troviamo la rarità della vicenda, di un passaggio immediato all’investimento feudale senza le trafile militari dei Grimaldi e dei Doria o burocratiche degli Squarciafico, da parte di un figlio di banchieri che divenuto soldato e proprietario di galee si presenta dinanzi al Vicerè Cardinal Granvelle, esclusivamente per acquistarsi una proprietà. L’atto fu redatto il 18 marzo 1572 e il Re di Spagna Filippo II rinunciò ai diritti su quest’area per una cifra di poco inferiore ai cinquantamila ducati, un deposito di centoventicinquemila ducati per il feudo di Oria e uno di quattromila per la dogana di Puglia concedendo all’Imperiale il titolo di Marchese mentre in compensazione a una vecchia concessione, lo stesso David riconobbe al precedente feudatario il Cardinale Federico Borromeo una somma di dieci mila ducati.

Con questa operazione finanziaria, David garantì per sé e i suoi successori una sicura rendita economica su cui fondare la fortuna della dinastia e un punto di partenza per proseguire nel progetto di allargamento dei confini del feudo. Poco tempo dopo, durante la prima metà del XVIII secolo, il nipote Carlo incrementò i possedimenti familiari tramite l’acquisto del feudo di Latiano (1641), baronia che non rimase a lungo nelle sue mani perché la rivendette al fratello Giovan Battista (1654) e da cui prese vita uno dei rami cadetti.

3. Ritratto di Michele III Imperiali Seniore (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, Francavilla Fontana, Castello-residenza).

 

Michele II, quarto Marchese d’Oria e primo Principe di Francavilla, portò avanti il progetto acquistando la cittadina di Massafra (1661) mentre a Michele III seniore si deve l’acquisizione dei feudi di Avetrana (1666), Maruggio, Sava, Modunato e Uggiano Montefusco (1715) e, qualche anno più tardi, delle terre di Carovigno e Serranova (1736). Agli Imperiale di Latiano, infine, si deve nel 1791 l’acquisto del feudo di Mesagne.

Tutti questi possedimenti riconfluirono nel Demanio alla morte senza eredi di Michele IV juniore (1782) il quale lasciò i suoi averi al cugino di terzo grado Vincenzo il quale da subito dovette affrontare in tribunale il Regio Fisco e quel Bernardo Tanucci, ministro delle finanze, intenzionato a eliminare quanto più possibile quella schiera di baronati locali ancora presenti nel Regno delle Due Sicilie e che secondo la sua visione impedivano pieno controllo territoriale al potere centrale di Napoli sulle province più periferiche come quella della Terra d’Otranto.

(continua)

Maruggio: una colonna e una stampa

di Armando Polito

Comincio dalla colonna, che, secondo quanto leggo in Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Maruggio) sarebbe (il condizionale è mio perché manca qualsiasi riferimento ad ubno straccio di fonte),  tutto ciò che rimane dell’antica Cappella della Misericordia, edificata nel 1744, quasi di fronte alla Chiesa Madre , per volere di Costantino Chigi, allora commendatore di Maruggio.

(immagine e dettaglio  tratti ed adattati da GoogleMaps)

 

Il titolo di commendatore aveva a quei tempi una valenza ben diversa da quella di oggi per alcuni sostanziali motivi, sui quali mi piace soffermarmi. Era un beneficio  concesso a un cavaliere di un ordine cavalleresco militare, oggi è un semplice riconoscimento  concesso  ad un cittadino distintosi in un’attività particolare.  Allora poteva pure capitare che la commenda toccasse a qualche militare indegno (oggi si direbbe un criminale di guerra), oggi molto spesso si scopre, dopo qualche tempo, che il beneficiario era, solo per fare un esempio, un evasore fiscale … Qualche volta l’etimologia ha in sé qualcosa di premonitorio: commendatore è da commendare  (sinonimo di approvare o raccomandare) e questo dalla stessa voce latina commendare (con gli stessi significati che oggi ha la voce italiana), formata da cum=insieme e mandare=inviare. Sorge spontanea la domanda: Cosa o chi si inviava, insieme con chi o con che cosa e, infine, a chi? Comincio dall’ultimo, che è il più facile e che è l’anello forte della catena: il potente di turno. Cosa si inviava era la lettera contenente i meriti del candidato al beneficio; poi, siccome abbondare è meglio, è presumibile che in qualche caso il latore della missiva (chi si inviava) fosse anch’esso un personaggio importante, meglio ancora se ancora più importante del destinatario. Riassumendo: si mandava  (la lettera) con (qualcuno) o si mandava (qualcuno) con (la lettera). Nel primo caso con ha un valore strumentale, nel secondo di unione. Tuttavia, dato per scontato che la lettera dovesse essere inviata non tramite posta elettronica, potrò essere tacciato di furbizia dicendo che il complemento di unione poteva essere costituito da un bel regalo di fulminante impatto psicologico condizionante? E questa volta verrebbe fuori: mandare (la lettera con qualcuno)  con (un regalo-acconto). Avrete notato come in tutta questa disquisizione la parola merito è assente; eppure, il primo significato della voce latina era proprio quella di approvare, cioè di riconoscere il giusto o il valido.

Non è finita. Commendatore è dal latino commendatore(m) che vuol dire protettore, si suppone di certi valori o, dato per scontato che anch’egli lo faccia,  delle persone che per quei valori hanno rispetto. Questo spiega perché commendatore, quando ci saremmo aspettato che il destinatario della commenda (questo era il nome tecnico del beneficio) si chiamasse commendato o commendatario. Comunque, commendato o commendatore o commendatario che sia, le sue responsabilità non erano di poco conto e investivano tanto la sfera temporale che quella religiosa: nominava il capitano (poi governatore) della collettività  per l’amministrazione della giustizia e le altre funzioni legate all’ordine pubblico, sceglieva gli amministratori locali tra quelli designati dal popolo; nominava il vicario generale, l’arciprete della Chiesa Madre e i cappellani delle altre chiese, nonché il sostituto (luogotenente) del capitano in caso di sua assenza. Il commendatore, perciò, doveva essere persona capace, dotata di “fiuto” e provata dirittura, una sorta  di meritevole (per via dell’esempio dato) paladino del merito. Mi vien da pensare, per contrasto, ai tanti commendati di oggi (e anche ai commendanti …) che continuano a fregiarsi del titolo (per quel che vale … ma per certi personaggi ogni titolo costituisce metaforicamente la pietra del proverbio salentino ogni ppetra azza parete=ogni pietra leva il muro; quello del fumo con cui annebbiano la vista degli ingenui) pur essendo stati condannati penalmente una o più volte. Lascio a chi legge ogni ulteriore considerazione … in merito.

Preferisco, infatti, tornare al passato, nonostante le sue ombre non dovute certo soltanto al trascorrere del tempo …,, proprio con Costantino Chigi. Già il cognome è tutto un programma, trattandosi di una delle più potenti casate; e poi, a proposito di … programma e di potere (che oggi non è certo sinonimo di potenza, come autorità non lo è di autorevolezza) basta pensare a Palazzo Chigi …

Non molte sono le notizie che son riuscito, nel breve tempo di due o tre giorni,  a reperire su di lui, a parte, nella scheda di Maruggio su Wikipedia al link segnalato, l’intervallo di tempo (1733-1774) in cui sarebbe stato commendatore della cittadina salentina.

Comincio dalle fonti letterarie:
Lo scuoprimento di Giuseppe a’ fratelli rappresentato nelle vacanze del Carnevale 1721 da’ Signori Convittori delle camere Piccole del nobil Collegio Tolomei, dedicata  all’Illustrissimo  Signor Marchese  Vincenzo Riccardi, Stamperia del Pubblico, Siena, 1721, s. p. :

 

Il Sentiero della gloria. Accademia di Lettere, e d’Armi dedicata Alla Serenissima Altezza Elettorale di Massimiliano, Duca dell’Alta e Bassa Baviera, etc. Conte Palatino  etc. Elettore del Sacro Romano Imperio da’ Signori Convittori del Nobil Collegio Tolomei di Siena, Stamperia del Pubblico, Siena, 1722, p. 9:

 

Tributi d’onore prestati alla Memoria dell’Altezza Reale di Cosimo III Granduca di Toscana Accademia d’Armi e di Lettere tenuta da’ Signori Convittori del Nobil Collegio Tolomei e da essi dedicata all’Altezza Reale  del Gran Duca Giovanni Gastone,  Stamperia del Pubblico, Siena, 1724, p. 27:


Catalogo della Biblioteca del sagro militar ordine di S. Giovanni Gerosolimitano oggi detto di Malta compilato da Fra Francesco Paolo De Smitmer, Commendatore dello stesso Ordine, e Canonico della Chiesa Metropolitana di Vienna in Austria, s. n., s. l. 1781, p. 80:

Se le prime tre testimonianze sono riferibili agli anni giovanili di Costantino in quanto convittore del Collegio dei Tolomei  e in esse il titolo di cavaliere è una costante che sottintende gerosolimitano (nell’ordine potevano essere accolti anche minori, come più avanti documenterò), l’ultima non solo ha lasciato il titolo dell’unica opera, pur rimasta manoscritta, conosciuta del nostro3, ma  attesta inequivocabilmente la sua appartenenza ai cavalieri di Malta, nel cui ordine era entrato nel 1719.4

E lo conferma, aggiungendo altri preziosi dettagli,  l’epigrafe (oggi traslata e murata nel portico De Cateniano a Brindisi) del 1572 che ricorda la ricostruzione della chiesa di San Giovanni, sempre a Brindisi, distrutta dal terremoto del 20 febbraio 1743:

TEMPLUM HOC PRAECURSORE  MAGNO HIEROSOLYMITANO  DICATUM VETUSTATE AC TERRAEMOTU COLLAPSUM SUPPELECTILIBUS SACRIS ETIAM VIDUATUM FR COSTANTINUS CHISIUS EX MARCHIONIBUS MONTORUS EQUES HIEROSOLYMITANUS ET IAM PRAEFECTUS TRIREMIBUS  CAMERAEQUE MAGISTRALIS TERRAE MARUBII NULLIUS COMMENDATARIUS UT BRUNDUSINORUM VOTIBUS ANNUERET NON ALIO UT PAR ERAT SED CENSU SUO RESTAURAVIT COLUIT ORNAVIT A. D. 1752

(Questo tempio, dedicato al grande precursore gerosolimitano1 , crollato per l’età e per il terremoto, privato pure dei sacri arredi, Costantino Chigi dei marchesi di Montorio, cavaliere gerosolimitano e già prefetto alle triremi e commendatario della Camera magistrale2 di Maruggio terra di nessuno, per accondiscendere al desiderio dei Brindisini non a spese altrui, come sarebbe stato in suo potere fare, ma sue, ricostruì,  curò, ornò nell’anno del Signore 1752).

Apprendiamo dall’epigrafe che alla data del 1752 il nostro da tempo (già) era prefetto alle triremi;  Quel generico già può assumere connotati cronologici più precisi sulla scorta di quanto (Capitano di Galera) è riportato nel Ruolo generale de’ Cavalieri gerosolimitani  (compilazione fatta da Bartolomeo Del Pozzo fino al 1689. integrata da Roberto Solaro fino al 1713 e con un’ultima aggiunta, senza il nome dell’autore, fino al 1738), Mairesse, Torino, 1738, p. 292:

Dunque, alla data del 1738 il nostro era già Capitano di galera, grado che ritengo senza dubbio equivalente al Praefectus triremibus dell’iscrizione). Ho voluto,inoltre,  riportare buona parte dell’intera pagina perché di minore età risultano essere molti inclusi nell’elenco dei cavalieri gerosolimitani, come prima abbiamo visto anche per il convittore cavaliere Costantino, che era entrato nell’Ordine nel 17195.

Nulla si oppone, dunque, a credere che nel 1744, un anno dopo il ricordato terremoto proprio il commendatario  Costantino abbia riedificato a Maruggio  la Cappella della Misericordia inglobando la colonna superstite del vecchio tempio,  ma, come ho detto all’inizio, per il crisma della certezza è necessario un riscontro documentale (una visita pastorale, un’epigrafe, una memoria contenuta in una cronaca dell’epoca, o simili).

È, dopo quello della la colonna,  è il momento  della stampa, un’incisione di Freicenet su disegno di Jean Barbault (1718-1762), custodita nell’Istituto Max Planck a Firenze. La didascalia  è divisa in tre sezioni. Quella a sinistra reca il titolo: Veduta della Piazza di Spagna  1 Fontana detta la Barcaccia, Architettura del Cavalier Bernino  2 Scalinata, che conduce sul Monte PIncio  3 Chiesa della SS. Trinità de’ Monti  4 Collegio de Propaganda Fide   5 Strada Paolina. La centrale contiene la dedica da parte degli editori:  ALL’ILLUSTRISSIMO SIGNORE IL SIG. CAVALIERE FRA’ COSTANTINO CHIGI  Commendatore della gran commenda di Maruggio ec. ec. Da Suoi Umiliss. Devotiss. Obligatiss. Servitori Bouchard e Gravier. Nella sezione a destra si legge la traduzione in francese del testo della prima: Vue de la Place d’Espagne  1 Fontaine appelée la Barcaccia, Architecture du cavalier Bernin   2 Scalier qui conduit  sue le mont Pincius  3 Eglise de la SS. Trinité sur le dit mont  4 College de Propaganda Fide  5 Rue Paoline

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1 Ordine religioso cavalleresco istituito nel secolo XI sotto la protezione di san Giovanni di Gerusalemme, denominato in seguito Ordine dei Cavalieri di Rodi e attualmente dei Cavalieri di Malta.

2 Sulle prerogative della Camera magistrale vedi Codice del sacro ordine gerosolimitano, Stamperia del palazzo di S. A. E. per fra’ Giovanni Mullia suo stampatore, Malta, 1782, pagina 329 e seguenti.

3 Brevi cenni biografici su Marcantonio Zondadari, ma senza alcun riferimento alla sua biografia manoscritta del nostro, sono in Notizie di alcuni Cavalieri  del sacro Ordine Gerosolimitano  illustri per Lettere e per Belle Arti raccolte dal Marchese di Villarosa, Stamperia e cartiere del Fibreno, Napoli,  1841, p. 346; Costantino, inoltre, non compare tra i cavalieri ricordati in quest’opera. Il suo nome compare, invece, con quello di altri membri della sua famiglia,senza cenno alcuno,però, alla commenda di Maruggio,  in

4 Francesco Bonazzi, Elenco dei cavalieri del S. M. Ordine di san Giovanni di Gerusalemme ricevuti nella veneranda lingua d’Italia dalla fondazione dell’Ordine ai nostri giorni, parte seconda (dal 1714 al 1907), Libreria Detken & Rocholl, Napoli, 1907, p. 48:


La data del  1719 è confermata, con indicazione anche di altri dati importanti come l’anno di nascita, in Ruolo delli Cavalieri Cappellani Conventuali, e serventi d’armi ricevuti nella veneranda lingua italiana della sacra religione gerosolimitana e distinti nelli rispettivi priorati, Stamperia del Palazzo di S. A. E. per Fra Giovanni  Mallia suo Stampatore, Malta, 1789, p. 3:

Dalla scheda apprendiamo pure, in conformità con la spiegazione delle abbreviazioni date nella pagina precedente,  che al momento della ricezione era Paggio (Pa.) mentre Frate (F.) allude al fatto che era professo,cioè aveva preso i voti. Nell’ultima colonna  Commendatore (Comm.) Priorato di Venezia (V.) e 24 è il numero progressivo della carica, secondo quanto riportato a p. 45:

In testa l’indicazione toponomastica della commenda , nella seconda colonna la motivazione (Cabimento, voce di origine portoghese che significa opportunità, convenienza)  del conferimento della carica, nella terza la data del conferimento.

5 I Cavalieri di Malta governarono Maruggio dal 1317 (il primo commendatore fu Nicola De Pandis) al 1801 (l’ultimo fu Giuseppe Caracciolo).

Dopo il “saccufàe” e il “cazzamèndule” è la volta del “cacamargiàle”.

di Armando Polito

1

 

I tre nomi virgolettati del titolo rappresentano un esempio eloquentissimo della icasticità del dialetto, proprio come succedeva un tempo con i soprannomi affibbiati alle persone, sicché il loro vero cognome aveva un valore puramente anagrafico.  Del saccufàe e del cazzamèndule ho già parlato e siccome,  essendo una spia del rincoglionimento dovuto all’età (e non solo …) il ripetere sempre le stesse cose, non voglio correre il rischio di diagnosi anticipatamente (?) infondate (?), fornisco a chi si è perso il mio sublime e irripetibile (dagli altri, naturalmente …) intervento il link relativo:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/25/cazzamendule-furmicaluru-saccufae-irduleddha-falaetta-e-ciciarra-chi-li-ha-visti/

 

Cacamargiàle è il nome dialettale salentino dell’uccello il cui nome italiano è saltimpàlo e quello scientifico Saxicola torquatus L.; famiglia: Muscicapidae.

Saltimpalo è connesso con la sua abitudine di saltare sui rami per osservare gli insetti di cui si nutre. La locuzione saltare di palo in frasca per passare da un argomento ad un altro che non presenta connessioni logiche con il primo è stata ispirata dal nostro uccello che più di una volta sarà pure saltato non di palo in palo ma di palo in frasca? Le attestazioni più antiche che sono riuscito a trovare risalgono tutte al XVI secolo: Caterina de’ Ricci: Così ha fatto il mio padre astuto; saltato di palo in frasca, ha dato due calci in un pugno, come si dice …1; Agnolo Firenzuola: Oh ve, come salta di palo in frasca!2; Giovammaria Cecchi: … noi siamo saltate, come dir, di palo in frasca …3; … Salta pur ben di palo in frasca.4; …ma tu sei saltato, come s’usa di dire, di palo in frasca …5; Benedetto Varchi: Quando alcuno entra d’un ragionamento in un altro, come pare che abbiamo fatto noi, si dice: tu salti di palo in frasca, o veramente, d’Arno in Bacchillone.6

Il palo risulta sostituito col ramo ne Il Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi (XVII secolo): e mi convien saltar di ramo in frasca7.

Possono però essere considerate antenate della locuzione in oggetto la testimonianza di Guido Orlando (XIII secolo) contenuta in un sonetto scritto in risposta ad uno inviatogli da Guido Cavalcanti :  Amico, i’ saccio ben che sa’ limare/con punta lata maglia di coretto,/di  palo in frasca  come uccel volare,/con grande ingegno gir per loco stretto …8 e il petrarchesco (XIV secolo) Così di palo in frasca pur qui siamo9.

In base soprattutto alla penultima testimonianza credo che il nostro modo di dire tragga origine proprio dal comportamento degli uccelli e che, perciò, siano da respingere le altre proposte avanzate in rete,  tra cui la più cervellotica mi sembra quella che scomoda l’araldica: il palo sarebbe l’insegna nobiliare e la frasca quella dell’osteria, per cui passare di palo in frasca significherebbe metaforicamente fare qualcosa di insensato.

Ritorno al nostro saltimpalo e al suo nome scientifico per dire che saxicola ricorre in latino solo una volta e precisamente in Paolino Nolano (IV-V secolo) con il significato di idolatra10.  Linneo nel dare il nome all’uccello non poteva certo fare riferimento ad improbabili tendenze religiose dello stesso ma tenne conto delle due componenti della voce latina e del significato che còlere ha, oltre che di onorare, anche di abitare, per cui saxicola all’allude all’ambiente sassoso in cui l’uccello ama vivere. Torquatus  significa ornato di una collana, allusione al cerchio bianco di piume che il maschio presenta alla sommità del collo.

Muscicapidae è formazione moderna dai classici musca=mosca e dalla radice di càpere=prendere, con riferimento, questa volta, alle abitudini alimentari.

Rimane cacamàrgiale, voce composta da una prima parte che non ha bisogno di traduzione e da margiàle che nel dialetto salentino è il manico in legno di attrezzi come martelli e zappe. E proprio il margiale della zappa è il luogo preferito dal nostro uccellino per soddisfare i suoi bisogni, almeno secondo la logica contadina che certamente gli appioppò quel nome, perché credo che per lui non ci sia differenza tra un manico di zappa, un palo o una frasca.

Ho lasciato per ultimo l’etimo di margiale nella speranza che all’improvviso si accendesse la famosa lampadina. Il Rohlfs non propone alcuna etimologia dopo aver riportato i significati di manico di zappa, piccone o scure e la locuzione farsi lu margiàli usata nel Tarantino a Sava come sinonimo di masturbarsi.

Nella nota 3 di un post di qualche tempo11 fa il lettore troverà cosa sull’etimo di margiàle a suo tempo proposi. Nel frattempo altro è venuto fuori (forse ad accrescere i dubbi che già non erano pochi …) ed ecco le tappe che mi hanno consentito di raggiungere un risultato non certo eclatante ma neppure, credo, da buttar via.

Sinonimi siciliani di cacamargiàle sono pigghiamùschi, cacasipàli, cacapàlu e cacamarrùggiu. Lasciando da parte pigghiamùschi che è la traduzione di Muscicàpida (singolare del Muscicapidae già esaminato) analizziamo gli altri nomi: cacasipàli è formato da un primo componente già più che noto e sipàli, voce che è usata tal quale (il singolare è sipàle12) nel nostro dialetto col significato di siepe; cacapàlu non ha bisogno di commento; per cacamarrùggiu mi soffermerò (s’era capito …) su marrùggiu.

Ecco quanto si legge nel Vocabolario siciliano etimologico italiano e latino di Michele Pasqualino, Dalla Reale St amperia, Palermo, 1789, v.III, pag. 116

2

 

Secondo il Pasqualino, dunque, marrùggiu (che semanticamente corrisponde al nostro margiàle) deriva dal latino manùbrium=manico, che, aggiungo io, è a sua volta da manus=mano, secondo la stessa tecnica di formazione seguita per ludìbrium=scherno, che è da ludus=gioco. Se la semantica non fa una piega è, invece, la fonetica molto traballante perché non si spiega come -rr- sia nato da -n-.

Molto prima di me, però, l’aveva già notato Giacomo De Gregorio il quale considera la voce derivata da marra. Ecco quanto si legge in Studi glottologici italiani, Loescher, Torino, 1899, v.I, pag. 125: marra. Oltre all’italiano marra, marrone (non però nel senso di “castagna”), etc, abbiamo l’italiano “marrano”, zotico, villano, sp. “marrano”, messin. “marrabèliu”, badile, piccone, sfr. “marrabieu”, sic. “marruggiu”, manico della zappa. L’italiano “marrone”, sbaglio, non appartiene a questa famiglia (v. marrjan).

E nel v. VII uscito nel 1920, a pag. 225: marrubium (da marra), manico della zappa. Sic. “marruggiu”, manico della zappa. È un derivato da “marra” che già segnalai in St. gl. it. I, 125. Per giustificare ciò debbo aggiungere che non puossi sostenere l’etimo “manubrium”, additato da Pasq. Perché il “-rr-“ non può provenire da “-n-“ e perché la uscita “-uggiu” ci conduce a “-ubium” (o anche “-uvium”). Per bi+voc in “g” palatino (“ggi”) cfr. “raggia”, rabies, “aggiu”, habeo.   

Il De Gregorio mi sembra, però, alle prese con una coperta troppo corta: dopo aver sistemato con marra il problema fonetico suscitato da manubrium, lascia scoperta, cioè irrisolta, la questione di –uggiu che suppone, come lui stesso dice, un latino ubium o uvium. Si tratterebbe di un suffisso (aggettivale?). Tuttavia, non è attestato in latino un solo esempio in cui tale segmento appaia come suffisso e non è difficile smontare anche esempi molto suggestivi come il latino tardo quadrùvium (variante del classico quadrìvium (composto da un derivato di quattuor=quattro+via=strada) che ha dato vita al lombardo caròbi (crocicchio) italianizzato poi in carrobbio o carrugio. Dopo questo smontaggio appare evidente che il segmento finale (-ùvium) non è un suffisso ma ciò che resta della vocale finale del primo componente (-u– da –i-) + la radice del secondo componente (vi-) + il suffisso (questo sì) aggettivale –um.

Non so se in base a queste considerazioni o ad altro è stata formulata la soluzione, prospettata (come di solito avviene in questi casi, procurandomi un senso di fastidio, in modo non dubitativo) in Manlio Cortellazzo-Carla Marcato, I dialetti italiani: dizionario etimologico, 1998, pag. 273: marrùggiu, s. m. (siciliano; calabrese; anche “marùggio”), Manico, di zappa, scure, o altri strumenti. Da un incrocio tra il latino “marra”, strumento per radere il terreno superficialmente e “manubrium”, manico.

Il lettore noterà come questa soluzione sia diplomatica, nel senso che dà ragione in un colpo solo, sia pure parzialmente, all’ipotesi più antica (Pasqualino) e alla successiva (De Gregorio), delle quali costituisce, a tutti gli effetti la contaminazione. Peccato che essa non spieghi come foneticamente si sia passati da –ùbrium a –ùggiu.

Partendo dalla convinzione  che margiàle sia etimologicamente connesso con il siciliano marrùggio Giovanni Colasuonno in Storie di parole pugliesi, lessico etimologico grumese aggiunto e corretto, saggio lessicale dei dialetti baresi, s. n, s. l., 1980, pag. 47 considera la nostra voce forma sincopata da marruggiàle.  Aggiungo che bisognerebbe supporre un doppio scempiamento (*marruggiàle>*maruggiàle>*marugiàle>margiàle) e faccio notare che, comunque, rimane irrisolto il problema dell’etimo di marrùggio.

A questo punto al lettore sarà venuto in mente il toponimo Maruggio (in provincia di Taranto).  Non credo che ci sia collegamento con la voce siciliana e, quindi, col margiàle e neppure con marrùbbiu, altra voce siciliana di origine ignota, che indica una rapida e lieve variazione del livello del mare causata dal vento e dalla pressione atmosferica (in italiano marròbbio o marrùbbio); può darsi, invece, come succede spesso nella toponomastica, che Maruggio sia connesso con il marrùbio o marròbbio (questa variante non ha nulla a che fare con il precedente legato al mare), dal latino marrùbium, erba che proprio nel Tarantino (a Lizzano e a Manduria) ha il nome di marrùbbiu, o, come vuole una recente ipotesi, con i Mori.

Il fatto poi che il marrubio in siciliano sia marròbiu esclude che bersaglio dell’uccellino possa essere quest’erba e non il manico della zappa, come pure poteva indurre a pensare il sinonimo cacasipàli, anche perche è difficile immaginarsi una siepe di marrubio, dal momento che la pianta non supera i quaranta cm. di altezza.

Quanta voglia di conoscenza e quanti dubbi suscitati dalla semplice cacca di un uccellino! Forse l’unica gradevole certezza sarebbe apprendere che esso è ancora presente nelle nostre campagne e l’unico che ci possa fornire qualche notizia in merito è un mio attento lettore, Giuseppe Cesari, che ringrazio anticipatamente. Che il Signore ce la mandi bona!, come da qualche decennio sono solito dire e, non so perché, mi viene subito in mente Manuela Arcuri. Una battuta da osteria? Si, ma solo nel senso che, per restare in tema, come il nostro uccellino son saltato pure io di palo (nonostante l’idea della nobiltà di sangue mi faccia venire l’orticaria e il vomito) in frasca …

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1 Da una lettera, purtroppo senza data. Cito il testo da: Cesare Guasti, Le lettere spirituali e familiari di S. Caterina de’ Ricci, Guasti, Prato, 1861, pag. 81.

2 Trinunzia, atto II, scena V; cito il testo dall’edizione Capurro, Pisa, 1816, tomo III, pag. 74.

3 Lo sviato, atto II, scena I; cito da Commedie di Giovammaria Ricci, a cura di Gaetano Milanesi, Le Monnier, Firenze, 1856, v. II, pag. 416.

4 L’esaltazione della croce, atto V, scena I; cito il testo dall’edizione uscita a Firenze nel 1589 per i tipi di Bartolomeo Sermartelli, pag. 88.

5 La stiava, atto I, scena IV; cito il testo dall’edizione uscita a Firenze nel 1585 per i tipi di Giunti, pag. 6.

6 L’Ercolano; cito dall’edizione uscita a   Milano nel 1804 per i tipi della Società tipografica de’ classici italiani (v. I pag. 187, v. VI delle opere). Il Bacchillone è un fiume del Vicentino e l’espressione che qui lo riguarda è tratta da Dante (Inferno, XV, 112).

7 Canto X, ottava 32, verso 3.

8 Cito il testo da: Guido Cavalcanti, Rime, a cura di D. De Robertis, Einaudi, Torino, 1986.

9 È il verso 85 di una frottola del Petrarca tratta dal libro VI del v. I delle Lettere di Pietro Bembo indirizzate a M. Felice Trofimo, arcivescovo teatino, pubblicate da Gualtero Scoto nel 1552; cito il testo da Parnaso classico italiano, Dalla libreria all’insegna di Pallade, Firenze, 1821, pag. 90.

10 Poemata, XIX, 168: … saxicolis polluta diu cultoribus … (… a lungo insozzata da devoti adoratori di pietre); traduco alla lettera con adoratori di pietre (cioè idolatri) saxicolis che è composto da saxum=sasso+la radice di còlere=onorare. Cito il testo latino dal v. 61, pag. 525, della Patrologia latina del Migne.

11 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/10/01/il-sentimento-e-la-tecnologia/

12 Per l’etimo: https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/23/sempre-caro-mi-fu-questermo-collee-questa-siepe/

Emilio Marsella e Le donne di Maruggio

di Paolo Rausa

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A Maruggio non fa freddo, a Milano sì. Maruggio, ora in provincia di Taranto a due km dal mareIonio sulla direttiva di Manduria, ricco entroterra agricolo della piana salentina, è il paese natale di Emilio Marsella. La zona Lorenteggio di Milano, dove abita ed esercita le sue arti, era periferica sicuramente quando ci è arrivato Emilio, durante il militare, decantata da Gaber come pullulante di trani, le osteriacce popolari dove veniva mescito il forte vino pugliese, detto m(i)ero, schietto.

Sta in questi due luoghi la vita e l’arte di Emilio Marsella, classe 1929, che ha trascorso la fanciullezza a Maruggio in una famiglia di contadini, privato a 8 anni della madre per una malattia, ed educato dalla nonna, che parlava “la lingua dell’orto”. Appena terminati gli studi inferiori, il padre lo sostiene economicamente e lo manda al Ginnasio-Liceo di Martina Franca, all’interno della Valle d’Itria, oggi famosa per il Festival di Teatro e della Lirica. Non riesce a terminare gli studi perché due mesi prima degli esami è costretto alla interruzione per una malattia.

Questi brevi cenni biografici di Emilio Marsella definiscono già gli elementi essenziali, culturali e umani, della sua avventura artistica e letteraria. Innanzitutto la campagna tarentina, caratterizzata da casupole rurali onnipresenti nei quadri dipinti da Emilio, i campi, i prodotti della terra e le figure di donne, evocate nella loro presenza costante della sua vita – la saggezza della nonna innanzitutto – e nella assenza – la madre -, che lascia un vuoto incolmabile nell’animo del poeta, un vuoto che trova significativa espressione in queste teorie di donne che stanno sempre in vigile attesa. Ritratte per lo più dalle spalle o dal fianco, mai di fronte, esse costituiscono le presenze/assenze in dimensioni notevoli, con gli abiti tipici della cultura contadina, specie di chitoni che coprono la testa in segno di omaggio e di rispetto nei confronti del miracolo della natura che si reifica sotto i loro occhi, rappresentato dagli elementi vegetali o da una insenatura marina con la discreta presenza umana di una o due barchette in riposo sulla riva.

Accanto alle donne ormai mature, forse anziane, delle giovanette alle quali esse affidano le conoscenze e i misteri della vita, a volte delle immagini di animali appena accennate e soprattutto i segni della civiltà contadina nella presenza di una giara destinata a contenere il raccolto o l’olio di oliva che viene spremuto dai frutti dagli alberi contorti che animano il paesaggio, a volte dei piatti di dimensioni ampie che richiamano nella forma la tradizione della ceramica greca e della produzione fittile dello stile di egnathia e poi in primo piano le verdure tipiche del sud, sempre ben ritratte (melanzane, peperoni, ecc.).

Le figure femminili non sono mai evidenziate nei contorni che appaiono quasi indefiniti e lo stesso trattamento Emilio riserva al paesaggio e ai segni dell’uomo, sembrano quasi delle masse che incombono. Il movimento è affidato all’uso sapiente dei colori, a volte volutamente contrastante e vivo proprio per sottolineare la dinamicità della vita rispetto al destino di morte, che ha colpito l’artista negli affetti più cari e soprattutto che sembra lì quasi a ricordare la sorte umana con il suo carico di sconfitte, che solo attraverso l’arte può redimersi. Le sculture di statuine in terracotta e in bronzo seguono lo stesso canovaccio. La sua terra, immersa nella cultura greca della vicina Tάρας e di quella messapica della grande città di Manduria, di cui restano le fondamenta delle mura ciclopiche, insieme agli studi classici forma la cultura umanistica di Emilio, che ritrae nei suoi versi il paesaggio, nostalgicamente inteso e come depositario del nostro passato fiorente, ora rimpianto. Un paesaggio che non può trovare corrispondenze nelle nebbie e nei freddi della pianura milanese. Ecco che l’arte supplisce, per così dire, ai sogni e ricrea atmosfere rarefatte, indefinite ed eteree!

Parlava la lingua dell’orto – il salento maruggese

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VIVA  IL  DIALETTO, TUTTI  I  DIALETTI

 di Francesco Lenoci

Sono nato a Martina Franca, in Puglia,  nel 1958. Vi ho trascorso un’infanzia felice e una giovinezza altrettanto felice. Dopo aver conseguito la maturità scientifica, sono andato a Siena per gli studi universitari e, poi,  a Cagliari, dove ho prestato  il servizio militare. Dal 1983 vivo,  lavoro e insegno nella  seconda, per numero di abitanti, città pugliese d’Italia: Milano.

Il mio Amico Emilio Marsella è nato a Maruggio, in Puglia, ha studiato come me anche a Martina Franca e si è affermato professionalmente, come il sottoscritto, a Milano.

Non credo di sbagliare affermando che Milano è la città dove generazioni di  pugliesi hanno dato il meglio di sé. Perché Milano ti accoglie, ti stimola, ti offre un’opportunità . . .   che non puoi non cogliere . .  .  se hai “occhi di tigre”, “orecchie alla Dumbo” e voglia di fare strada.

Viviamo da tanti anni lontani dalla Puglia, ma “la lontananza” – come cantava Domenico Modugno – “spegne i fuochi piccoli e accende quelli grandi”. Non temo di essere smentito affermando che ai nostri nomi  non sarà mai affiancato il proverbio maruggese “Pi iddu, pi iddu, ognunu penza pi iddu”. La speranza è che trovi applicazione l’altro proverbio maruggese citato nel Libro: “Ci busca e dai a Mparatisu vai”.

Per promuovere il Libro di Emilio Marsella “Parlava la lingua dell’orto – il salento maruggese prima degli anni 30/40 del millenovecento e dopo” ED INSIEME, giugno 2009, ho, inter alia, creato un gruppo su Facebook denominato “Maruggio….Martina Franca….Milano….Maruggio”.

Sono i nidi ove è ambientato il Libro. Cominciano tutti con la lettera “M” . . . come Marsella.

Maruggio sta all’inizio e alla fine della denominazione del gruppo: ha la valenza di due nidi. Mi hanno chiesto in tanti. . . . perché? Lo rivelo questa sera, utilizzando l’incipit della recensione del Libro che un grande giornalista, un grande Amico mio e di Emilio Marsella, Franco Presicci, ha pubblicato su La Gazzetta della Puglia di aprile-luglio 2009.

Scrive Franco Presicci: “Difficile dimenticare il proprio nido. Ci sono uccelli che vi tornano sempre. E se il vento o la pioggia lo hanno irrimediabilmente disfatto, loro ne fanno un altro, ma nello stesso posto: lo stesso albero, un buco dello stesso fabbricato come i passeri, o  sotto lo stesso tetto come le rondini. Emilio Marsella non ha dimenticato la sua Maruggio. Il suo cuore batte sempre per Maruggio,  che campeggia  spesso nei suoi discorsi”.

Ho letto una prima volta “Parlava la lingua dell’orto” nel mese di gennaio 2009 a Milano. Da quella lettura è scaturita la mia prefazione al Libro. L’ho riletto la settimana scorsa a Martina Franca. Come diceva don Tonino Bello, mutuando un’espressione di Max Weber, “Un libro che non è degno di essere letto due volte, non è neppure degno che lo si legga una volta sola”.

Nel Libro giganteggia la figura della nonna di lu Miliu: nonna Checca. Il perché è spiegato a pag. 87: “Nel nido in cui accolse il figlio e i nipoti (dopo  la prematura morte della nuora) non fu più solo la nonna. Ma in assoluto la loro mamma Checca. I piccoli nipoti la chiamavano, infatti, sempre mamma: come la chiamava il figliolo. E lei fu sempre loro madre e nonna insieme”.

Ritengo  che giganteggi perché a me, proprio a me, fa venire in mente tanti ricordi. Nonna Checca aveva un figlio emigrato in Argentina, a Buenos Aires. Anche mia nonna, morta quattro anni prima che io nascessi, aveva un figlio emigrato a Buenos Aires. Prima di partire mio zio Giovanni diceva sempre: “Tutto andrà male….non mangerò più  fave…. che lui odiava”.

La nonna di mia madre – mammà – mi vide nascere; percorreva a piedi circa un chilometro per potermi tenere in braccio. A 93 anni ballava ancora la pizzica. A pag. 122  del Libro si apprende (per i ragazzi di oggi queste cose sono in gran parte sconosciute) che “Il gallo era per nonna Checca il primo segnale naturale del nuovo giorno  e della notte, che si era ormai conclusa all’apparire della luce. Udendolo cantare ancora, l’assecondava – Tuni cuntinui a rùsciri! Nui sapimu ca jè giurnu!

Più tardi, accanto al pollaio, reagiva debolmente, senza cattiveria, alle galline che la beccavano saltandole addosso  e strappandole dalle mani il mangime che spargeva. Il padre di Emilio, allorché si accorgeva che il pollame vorace  diventava aggressivo  e assaliva  nonna Checca graffiandola, subito interveniva per allontanarlo. Affettuosamente la esortava anche a stare attenta a non farsi pizzicare”.

Anche mia nonna aveva le galline in campagna: una, alla quale  era particolarmente affezionata, la portava anche in Paese. Quella sciagurata usciva dalla gabbia e andava in giro fino a quando veniva intercettata dai vigili urbani, che facendo sciò…sciò riuscivano a risalire alla casa da cui si era allontanata. Mia nonna era sempre riuscita ad evitare la multa.

Un brutto giorno, però, la gallina anziché coccodè cominciò a fare il verso del gallo. Era un presagio di sventura, come disse alla nonna tutto il vicinato. Mia nonna, a malincuore, ammazzò la gallina una mattina. Poche ore dopo, sul far della sera,  mia nonna morì, vittima di un incidente stradale.

Un tema che pervade il Libro è il rapporto docente/studente. Emilio Marsella ha incontrato docenti non bravi e docenti bravi. È un tema complicato: mi permetto solo di dire che quello del docente è un ruolo difficilissimo. Chi vi parla è un docente universitario che, spesso, ripete una meravigliosa preghiera di don Tonino Bello:

“Salvami Signore:

  • dalla presunzione di sapere tutto;
  • dall’arroganza di chi non ammette dubbi;
  • dalla durezza di chi non tollera ritardi;
  • dal rigore di chi non perdona debolezze;
  • dall’ipocrisia di chi salva i principi e uccide le persone”.

Continuerei a leggere parti del Libro, a  commentarle  e a ricordare per ore, ma non posso e non devo  farlo, perché siamo qui riuniti, soprattutto, per ascoltare Emilio Marsella e, quindi,  mi avvio alle conclusioni.

Che cos’è un maestro di cultura?

Come dimostra da par suo, Emilio Marsella, anche con “Parlava la lingua dell’orto”, è colui che ha la capacità di viaggiare nel tempo e nello spazio, discernendo le cose positive nella pittura, nella scultura, nella poesia, nella letteratura,  nella musica, nella storia. . . . nella vita quotidiana.

E perché un maestro di cultura utilizza anche il dialetto?  Semplicemente perché il dialetto esprime al meglio, da sempre,  ciò che l’uomo è.

Grazie, grazie di cuore, Amico mio.

Un punto fermo.  Non c’è partita tra la capacità espressiva del dialetto, di ogni dialetto, e della lingua italiana. Provo a spiegarlo ricorrendo a degli esempi. Ho prestato il servizio militare, tanti anni fa, a Cagliari e, precisamente, nella caserma “Monfenera”  nel 51° Reggimento Fanteria “Sassari”. Il motto di noi  “Sassarini” era ed è: SA VIDA PRO SA PATRIA. Non c’è traduzione che renda con altrettanta forza, musicalità  e immediatezza tale motto.

Emilio Marsella mi ha portato copia del Libro nel mio studio a Milano. Dalle finestre dallo studio si vede la Madunina tuta d’ora e piscinina.  Sappiamo tutti che tale definizione è tratta dalla celeberrima canzone di Giovanni D’Anzi:

O mia bela Madunina che te brillet de lontan

tuta d’ora e piscinina, ti te dominet Milan

sota a ti se viv la vita, se sta mai coi man in man…

Lo ribadisco: non c’è traduzione che renda con altrettanta forza, musicalità e immediatezza ciò che rappresenta la Madonnina per chi vive a Milano.

Un  secondo punto fermo. Se  perdiamo la memoria delle tradizioni, cui è imprescindibilmente legato il dialetto, perdiamo tanto . . .  quasi tutto.

Nella prefazione al Libro trovate  un esempio riferito al periodo di  Carnevale che, come noto, precede la Quaresima. Ebbene, non penso di sbagliare  molto affermando che, ai giorni nostri, il Carnevale e la Quaresima sono scaduti alla condizione di pure espressioni nominali. Fino a qualche anno fa non era così! Non mi stancherò mai di ripeterlo: le tradizioni sono un dono immenso dei nostri avi su cui occorre puntare per assicurare un futuro a noi e ai nostri figli, avendo presente ciò che diceva un grande compositore e direttore d’orchestra austriaco, Gustav Mahler: “Tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco”.

Sono più che convinto che se si affievolisce la vitalità del dialetto . . . la conseguenza è una ed una sola: la scomparsa di un bagaglio di saggezza unico al mondo: la nostra identità culturale. Favorendo l’affermazione, in esclusiva, di un idioma sintetico. . . . stiamo distruggendo l’originalità delle nostre radici storiche e culturali. Nel libro biblico dei “Proverbi” si legge che “I detti popolari valgono a conferire al fanciullo avvedutezza e al giovane sapere e intelligenza. Il saggio che li ascolta diventerà più saggio e l’intenditore possederà di che governarsi”.

Mettendo per un attimo il berretto da economista, mi permetto di sottolineare che rinunciare alla nostra identità culturale ha come conseguenza immediata il venir meno di un  “vantaggio competitivo”. E allora . . . . grazie di cuore a coloro che si impegnano per la salvaguardia dei dialetti, tra cui Emilio Marsella.

Mi avvicino alle conclusioni, rivelandovi un segreto: che cos’è il dialetto per noi.

Un terzo  ed ultimo punto fermo.  Il dialetto è  un’esplosione di gioia. Ho fatto gli studi universitari a Siena. Eravamo in tanti di Martina Franca. Ebbene,  c’era un mio amico che studiava a Firenze: appena poteva, correva a Siena…. per poter parlare in dialetto con noi. Ho lavorato in una multinazionale americana. Mi dicevano i miei insegnanti di inglese: il segreto per poter parlare bene la lingua inglese….è pensare in inglese; mai pensare in italiano e poi tradurre! Non ho mai avuto il coraggio di confessare ai miei insegnanti che pensavo in dialetto, traducevo in italiano e, quindi, traducevo in inglese. La mia fortuna era che, avendo il dialetto nel DNA, riuscivo ad essere veloce….non mi facevo scoprire.

I miei genitori hanno messo al mondo due figli: mia sorella, che ha sei anni più di me e il sottoscritto. Sapete come mi chiamano? Mi chiamano:  u peccinne.

Un famoso slogan pubblicitario di qualche anno fa recitava: “Una telefonata. . . . allunga la vita”. A me fa molto. . . molto di più. Se telefono da Milano o Chicago a Martina Franca, quando mio padre comunica a mia madre che al telefono c’è  u peccinne,io, che ho più di cinquant’anni e  peso più di  novanta chili, grazie alla magia del dialetto, riesco a viaggiare nel tempo e nello spazio, tornando  .  . .  bambino . . .  a Martina Franca . . . con i miei genitori.

Sia lode e gloria al dialetto, a tutti i dialetti! Sia lode e gloria a Emilio Marsella che, con “Parlava la lingua dell’orto” suscita una nostalgia  che prende il cuore e lo riempie, allo stesso tempo….  di malinconia per il tempo che fu e le persone a noi care …. di amore, tanto amore, verso la nostra terra d’origine.

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