I Martiri di Otranto

 

di Giovanni Maria Scupola,

Per comprendere al meglio l’eccidio dei martiri otrantini è opportuno inquadrarlo nel tempo e nella tradizione, la cui conoscenza appare fondamentale a spiegare il motivo per cui la popolazione idruntina preferisce la morte piuttosto che rinnegare la propria fede.

Il 13 agosto di ogni anno, Otranto ricorda con una grande e suggestiva celebrazione i suoi Martiri uccisi nel 1480.

Il significato è da ricercare nella storia, facendo esattamente un salto alla prima metà del 1400, quando il sultano Maometto II, iniziò un progetto volto alla realizzazione di un grande Impero Ottomano e, per il raggiungimento di tale disegno bellico, era basilare conquistare nuovi territori, tra cui la provincia di Otranto.

Come tristemente auspicato, il 27 luglio del 1480 l’Impero Ottomano approdò con alcune delle proprie imbarcazioni nei pressi di Roca e l’esercito idruntino uscì dalla città per affrontare i Turchi nei pressi dei Laghi Alimini.

Gli abitanti furono abbandonati al loro triste destino e le milizie turche iniziarono ad attaccare la città. La popolazione riuscì a resistere per 14 giorni e l’11 agosto del 1480 i turchi riuscirono ad entrare nel paese.
Gli abitatori, sospinti da una solida fede religiosa, si consegnarono nelle mani del nemico affermando di voler morire in onore della fede di Cristo e così, all’interno della cattedrale, si consumò una delle carneficine più terribili.

Circa 813 sopravvissuti all’eccidio dopo essersi rifiutati di ripudiare la propria religione, furono condotti sul colle della Minerva e decapitati su una pietra.

Il primo a subire questa fine atroce fu un anziano tessitore, Antonio Pezzulla: fu il primo a venire decapitato, motivo per cui fu soprannominato Primaldo.
In seguito a questa infausta vicenda storica furono riconosciuti ufficialmente Martiri della Chiesa ed i resti, si trovano tutt’oggi disposti in sette grandi teche in legno nella Cappella dei Martiri ricavata nell’abside all’interno della Cattedrale.

Furono, altresì, dichiarati beati il 14 dicembre 1771 da Papa Clemente XIV e canonizzati il 12 maggio 2013 da Papa Francesco.

La loro memoria liturgica ricorre il 14 agosto, tranne che nella diocesi di Napoli, che ospita le reliquie di circa 250 di essi e che li onora ogni 13 agosto.

Otranto 1480. Fonti, studi, testi. La parte di Donato Moro

di Cosimo Rizzo

Innumerevoli saggi sono apparsi nel tempo sulla vicenda otrantina del 1480.

Significativi e più puntuali quelli pubblicati nel secolo XX° e quelli apparsi in seguito alla canonizzazione del 12 maggio 2013 dei circa 800 otrantini decapitati dai Turchi il 14 agosto 1480 sul colle della Minerva.

Via via che ci si allontana da questo evento storico di Otranto, caduta in mano ai Turchi, afferma il critico letterario A. Vallone, si perdono insieme la lucidità e le ragioni delle circostanze e dei condizionamenti politico-militari ed anche le dimensioni del reale dramma umano e quotidiano della città e dei suoi abitanti. La fonte più genuina, seppure trepidante e commossa è negli accenni di Antonio De Ferraris, nel De bello idruntino.

Non molto dopo, verità storica e realtà drammatica non solo si vanno diluendo nel tempo, ma anche, rimescolandosi, si tramutano prima in scolastiche esercitazioni e poi, frammiste a queste, in fantasiose leggende.

Nè storici, nè letterati del tempo colgono adeguatamente l’occasione così come il fatto stesso, eccezionale sotto ogni aspetto, avrebbe forse richiesto. Ci sono nel fondo motivazioni storiche di rilievo.

Nel 1670 Francesco Antonio Capano pubblicava: Memorie alla posterità delli gloriosi e costanti confessori di Giesu Christo, che patirono martirio nella città d’Otranto l’anno 1480, editore P. Micheli di Lecce. E’ il primo centone antologico che riunisce brani <<raccolti da varii autori impressi, e manuscritti>>.

Apre la raccolta proprio A. De Ferraris, il Galateo, con un brano estratto da Successi dell’armata turchesca nella città d’Otranto nell’anno 1480, tradotto in volgare da G. Michele Marziano, nel 1612, che racconta la presa di Otranto e la sua riconquista nel 1481.

Della presenza nel Salento nel 1480 del Galateo non si è certi; ma egli era ad Otranto l’anno seguente, dopo che nel settembre Alfonso d’Aragona riuscì a riconquistare Otranto.

Dopo questa impresa il padre di Alfonso, Ferdinando I re di Sicilia, scriveva da Bari, l’11 settembre 1481, al papa Sisto IV che era: <<assicurato il mio regno, liberata l’Italia e tutto il mondo cristiano prosciolto dall’imminente pericolo>>.

La testimonianza di un contemporaneo come l’umanista galateano sarebbe stata decisiva e probante, anche se venata dalla partecipazione di un lutto familiare per l’eccidio dell’arcivescovo Stefano Agricoli, suo parente, nel coro della Cattedrale dove, scrive il Galateo nel De situ Iapygiae, <<adorno delle insegne pontificali, fu sgozzato sulla sua stessa sedia dai Turchi che irrompevano nel tempio>>.

Seguono alcuni capitoli tratti dalla Historia de los Martires de la ciudad de Otranto, Napoli, 1631 di Francisco de Araujo. Quindi, con la premessa di una dichiarazione del notaio Angelo Stefanachi che attesta avere egli il 3 aprile 1660 visto aprire l’archivio del capitolo sito nella sacrestia della Chiesa Metropolitana e trovare un volume vecchissimo, manoscritto in folio di 56 pagine, dal titolo: Historia della Città d’Otranto. Come fu presa da’ Turchi, e martirizzati i suoi fedeli Cittadini: fatta per Giovanni Michele Laggetto della medesima città, sono riporta

Su questa storia ancora oggi gravano dubbi e riserve, perchè, andato perduto il manoscritto originale, le varie copie sono ritenute modificate o contraffatte. Comunque nel 1924, a Maglie, presso la Tipografia Messapica fu pubblicata, nella trascrizione di una copia del manoscritto ritenuta autentica, una edizione della Historia, del canonico Luigi Muscari e trent’anni più tardi, una nuova edizione fu compresa in Otranto – Testi e monumenti, (Galatina, Editrice Salentina, 1955, pp.8-89) di Antonio Antonaci.

La seconda parte del volume riporta le <<informazioni>> sui martiri iniziate a raccogliersi tra la fine e l’inizio dei secoli XV e XVI ed altri brani estratti da cronache e storie e si chiude con De reliquiis martyrum hydruntinorum Hierotopochronica enarratio di Pompeo Gualtieri.

Per concludere questo brevissimo excursus storiografico sulla presa di Otranto, cito ancora di Pompeo Gualtieri Relatione de’ Santi Martiri della Città d’Otranto et apparitioni meravigliose, Lecce, P. Micheli, 1677, per sottolineare come l’episodio storico col trascorrere del tempo sia sia confuso con l’agiografia e l’esaltazione martirologica che hanno reso più tormentato e incerto il processo lunghissimo e, va riconosciuto, serio e dibattuto presso i tribunali ecclesiastici per la beatificazione degli ottocento decapitati. Costoro, stando alle non contrastanti cronache, furono gli scampati alla strage dei dodicimila cittadini di ogni età, condizione e sesso, i quali o non poterono riscattarsi per denaro o non vollero abiurare alla fede.

Di questo secolare dibattito A. Antonaci fornisce una raccolta puntuale di documenti e di indagini in I processi nella causa di beatificazione dei Martiri di Otranto, Galatina, Ed. Salentina, 1962.

La grande storiografia settecentesca e quella successiva, ricorda soltanto per inciso o per citazione la <<guerra otrantina>>, relegandola ad avvenimento marginale e locale, non incidente nello scontro che il centro-Europa visse nel corso dei secoli XV – XVI con il colosso islamico.

Nella storiografia degli ultimi anni del secolo XX° si nota positivamente un nuovo e più moderno orientamento. Lo dichiara Alessandro Laporta nella introduzione al volume Otranto 1480, Cavallino, Capone Editore 1980, in cui sono raccolti studi e contributi di valenti studiosi.

“A differenza della tradizione ottocentesca – egli afferma – che ha fatto sempre capo a fonti piuttosto tarde rispetto all’evento otrantino, e le cui uniche eccezioni sono rappresentate dal Laggetto, dal D’Acello, da Vespasiano da Bisticci e dal Marziano, gli studi del nostro secolo, sia pure accettando senza sottoporli, nella maggioranza dei casi, ad alcuna revisione critica, questi autori, hanno piuttosto cercato di recuperare materiali nuovi e principalmente coevi o immediatamente posteriori alla vicenda, con l’intento, anche, di scavalcare l’anno 1539, che per essere stato data del primo processo informativo sulla via della beatificazione dei martiri di Otranto, può aver segnato, in senso negativo, tutta l’intera tradizione successiva”.

I risultati fin a quel momento conseguiti sono piuttosto soddisfacenti, anche se non possono pretendere di essere definitivi, per quanto si sia cercato di arrivare fino al 1980 con un corredo pressocchè completo di materiali. motivo questo per cui non si vorrebbe che tante lodevoli iniziative poste in essere con questo fine, avessero ad esaurirsi con il centenario, ma, stabilizzate, portassero all’acquisto di una sempre maggiore documentazione.

Su questa vicenda otrantina, tra le pubblicazioni criticamente valide dell’ultimo cinquantennio si collocano quelle di tanti valenti studiosi che andrebbero esaminate e approfondite. Basti pensare ad A. Antonaci, A. Vallone, G. Vallone, A. Laporta, V. Zacchino, A. Saracino, P. Ricciardi, F. Cardini, D. Moro e tanti altri.

Mi limito a qualche esempio.

  1. Saracino nel volume Otranto baluardo dell’Occidente Cristiano edito a Roma nel 1981, porta un illuminato contributo sul tanto discusso episodio otrantino.

Un lavoro il suo che rievoca in forma semplice e chiaramente accessibile, ma sulla base di una accurata documentazione, il sacrificio di una città che, col suo martirio, ha di fatto salvato l’Italia dall’invasione e la civiltà cristiana da un dominio che, se realizzato, avrebbe potuto quanto meno modificare il corso della storia. E l’aspetto centrale che Saracino esamina nei diversi momenti dei fatti otrantini e che costituisce il filo conduttore del suo pregevole lavoro, è quello di dimostrare come Otranto rappresenti il primo esempio tipico di un popolo che si ribella alla inefficienza dei capi e che non esita a sacrificarsi fino all’ultimo uomo per la difesa della libertà e della fede.

In Otranto si incentra il momento cruciale della lotta tra due civiltà. Ne sono indice la preparazione accurata della spedizione fatta da Maometto II da un lato e lo sforzo compiuto dal papa Sisto IV dall’altro, per neutralizzare quel tentativo.

In questo senso, la guerra di Otranto va oltre i limiti – già di per sè molto validi – di una storia locale, per inserirsi nel quadro più ampio della storia della civiltà.

Otranto rappresentava – e questo emerge da tutta l’esposizione del Saracino – la testa di ponte ideale, da cui Maometto II contava di partire per la conquista, e soprattutto per la scristianizzazione dell’Italia: era convinto infatti che la sua stessa grandezza doveva nascere dalla conquista della civiltà occidentale, che si poteva realizzare solo attraverso la distruzione del cattolicesimo. Ed avrebbe certamente raggiunto il suo scopo se non avesse trovato nella Fede e nella forza d’animo degli Otrantini quell’ostacolo imprevedibile che, bloccando per quindici giorni le sue forze sulle rive del Canale, permisero a Papa Sisto IV di inviare i suoi appelli accorati a tutti i potentati, e a Ferdinando di Napoli di organizzare le prime difese.

Maometto II puntava alla conquista dell’Italia e quindi di Roma centro del Cristianesimo: e questo considerava il coronamento più alto dei suoi sogni.

Da tenere presente inoltre che il Saracino ha rinvenuto e pubblicato una importante bolla <<Cogimur iubente altissimo>> di Papa Sisto IV, da molti ritenuta perduta, intorno sempre alla guerra d’Otranto del 1480-81, bolla che il Pastor definisce <<nobilissima>>, che tutti i contemporanei tennero in grande considerazione e che lo stesso Saracino non esita a definirla il <<grido di un’anima>>.

Illuminante lo studio di A. Vallone L’eccidio otrantino (1480) tra canoni retorici e invenzione narrativa dal XVIII° secolo ad oggi in Otranto 1480, Galatina, Congedo 1986.

Otranto, afferma questo critico, già città fiorente e poi borgo silenzioso in una estrema provincia frontiera del Sud, resta staccata dalle ridde letterarie e si affida prevalentemente e via via sempre più decisamente dal Seicento in poi ai cantori locali. Anche in questo caso, pur di fronte ad avvenimenti di stragrande rilevanza politico-religiosa, la eccentricità storico-geografica della città è una inesorabile condanna.

I locali agiscono come possono. Le loro opere si muovono con tutti gli impacci di un episodio non solo staccato dagli interessi dei lettori, ma anche lontano nel tempo e peraltro sovrastato da fatti o eterni o compresenti nella coscienza media o aggressivi e suggestivi come cronache correnti. È fervore di fede di monsignori e ambizione di arcadi provinciali a tenere desto l’episodio otrantino.

Può dirsi che la vicenda di Otranto dal Diciottesimo al Ventesimo secolo, attraverso cronache in versi, esercitazioni teatrali ed epiche, rime varie, trova solo nell’età nostra interpreti isolati ma degni, come De Dominicis e Corti, che pur fermi nel rispetto della fede e della pietà, rigenerano l’episodio nella luce della poesia.

Amaramente si può concludere col dire che chi poteva scrivere la vera e genuina storia di Otranto, nel dramma della fede e della morte, non la scrisse e la tenne in seno, nascosta come patrimonio spirituale e umano da trasmettere a voce.

Di fatto la storia lasciata in mano ai conservatori cioè ai maestri di scuola, ne uscì irrimediabilmente contraffatta e sclerotizzata.

Originale nell’impostazione e ricco di riferimenti storico-documentari lo studio di G. Vallone Mito e verità di Stefano Agricoli arcivescovo e martire di Otranto (1480) pubblicato su Archivum historiae pontificiae n. 29, 1991 dove si mette in nevidenza la vera identità storica della figura dell’arcivescovo otrantino martirizzato nell’eccidio.

Insostituibili e punto di riferimento gli studi di D. Moro (Galatina 1924-1997), riuniti nel 2012 in due tomi di un unico volume che a dire del curatore, G. Pisanò, “sono il frutto della sua vita spesa nella ricerca storico-culturale, nella cura filologica di testi legati all’umanesimo meridionale, nella lettura critica delle dinamiche ideologico-formali sottese allo sviluppo dell’età moderna, attività, queste, tutte riconducibili a un filo ideale, a un unico tema, a un preciso e concreto “luogo della storia: Otranto”.

Si tratta di numerosi contributi, fra saggi ed articoli, scritti in un arco di tempo fra il 1971 e il 1996.

Tali studi offrono agli studiosi di storia patria, nazionale ed europea uno strumento completo e complesso per i molteplici risultati ordinati in un quadro unitario e cronologicamente definito.

Tutta la vicenda otrantina è infatti compresa in pagine ricche di documenti e di citazioni bibliografiche indispensabili per chi voglia misurarsi ancora con essa.

Di tale vicenda sono messi in evidenza gli aspetti letterari e civili, le fonti salentine, le registrazioni umanistiche.

Si prenda, ad esempio, la ricerca Otranto nel 1480-81. Due preziose fonti, fra le più antiche, mai fino ad oggi individuate come tali contenute nel primo tomo della pubblicazione citata, per rendersi conto delle direzioni di lavoro e di approfondimento con cui si è mosso il critico.

Faccio questo solo esempio per dimostrare come siano fondamentali gli studi di D. Moro che forniscono elementi sempre più chiarificatori sulla complessa problematica riguardante il tanto discusso episodio idruntino.

Le preziose fonti, pubblicate in Appendice cui si riferisce nel titolo sono: la copia della presa d’Otranto da Turchi ne l’anno 1480 – relazione d’Acello – e la relazione fatta dal segretario Ferdinando a’ Prencipi d’Italia – rifacimento otrantino: la copia è “documento di notevolissimo valore” e sta a monte del Rifacimento.

L’autore fornisce la descrizione del codice contenete la Copia (Cod. 2350 – già XIV.52 – della Biblioteca Casanatense di Roma) e ne indica l’autore – pur con qualche margine di dubbio sulla forma del cognome – in un Giovanni Antonio d’Acello che ne avrebbe avuto l’incarico da Alfonso di Calabria.

Interessante il tessuto linguistico-stilistico della Copia: in questa è riscontrabile “un fondo linguistico che rispecchia la koinè meridionale pienamente attestata alla fine del ‘400; e l’autore esemplifica questa koinè meridionale con una serie di parole e sintagmi tra cui è rilevabile fando come “probabile apporto salentino” e sicilianismi quali defenseriano, moririano accanto a usi ascrivibili al napoletano illustre del secondo ‘400.

Complessivamente si tratta di “un impasto linguistico caratteristico di un’epoca e di un clima culturale che possono assumere occasionalmente anche qualche nuova forma dialettale assorbendola in un ideale di scrittura curiale e cortigiano”; sul fondo del linguaggio cancelleresco del periodo aragonese si introducono filamenti toscani, qualche alterazione notevole (diriopiato per dirupato) o qualche termine di uso amministrativo (dispiaciò per dispacciò: da dispacciare) che andava attestandosi in area italiana.

Anche del Rifacimento il Moro dà la descrizione del manoscritto che lo contiene. Il testo, pur derivando dalla Relazione d’Acello, fu profondamen­te alterato (soppressione degli otto paragrafi iniziali sostituiti dall’autore con una propria narrazione degli avvenimenti otrantini, rielaborazione o modificazione anche notevole a volte dei paragrafi seguenti); la stesa di­gnitosa veste letteraria dell’originale è sopraffatta nel Rifacimento e quella che poteva essere una compendiosa annotazione nella Relazione (l’episodio della morte di Giulio Antonio Acquaviva) si dilata ad ampiezza di rac­conto anche se, nel seguito, spie di una resipiscenza di fedeltà all’originale, riappaiono dei gerundi coniugati al plurale (« fortificandonosi, trovandonosi, ottenendono, vendendonosi ») riscontrati, nella Relazione d’Acello, come appartenenti al napoletano illustre del secondo Quattrocento.

Dovuto alla penna di un « uomo alla buona e poco colto », quale il Moro ipotizza dovesse esserne l’estensore il Rifacimento appare « un’ibrida mescolanza linguistica, caratterizzata qua e là da forme dialettali salentine».

Prestigio del potere regio e degli uomini d’arme, fedeli al sovrano e a Dio, risaltano nella Relazione del d’Acello; protagonista del Rifaci­mento, dalle cui pagine affiora un sotteso agiografismo, è la cittadinanza. Il fervore religioso che percorre il Rifacimento induce a intravvedere nel suo estensore un sacerdote. Il Rifacimento è importante non solo perché consente di ricostruire nei contenuti la Relazione d’Acello, ma soprattutto perché informa sulle vicende interne di Otranto e nel periodo tragico della sua caduta in mano ai Turchi e in quello immediatamente seguente alla liberazione.

Lo stesso documento e l’analisi di alcuni passi dei Successi del Mar­ziano consentono all’autore di portare prove inequivocabili sull’originalità degli stessi Successi che non possono essere assolutamente considerati tra­duzione di un’opera latina del Galateo. Se questo prima era sospetto no­tevole di biografi e studiosi del De Ferrariis, oggi, nel saggio di Donato Moro, la questione è sufficientemente chiarita e i Successi risultano non aver niente a che fare con lo scritto galateano.

Ci sarebbe da domandarsi se il Rifacimento è collocabile oppure no all’epoca (1494-95) cui lo attribuisce Donato Moro. In sostanza tale data­zione riesce persuasiva se si tiene conto di alcune considerazioni che è giusto fare. A parte le condizioni di questo testo e la relativa vicinanza a noi del manoscritto da cui è stato tratto, la collocazione è convincente, in quanto la tradizione martirologica in esso contenuta rappresenta una forma embrionale molto elementare rispetto a quella più complessa e arti­colata che si verrà via via costituendo con l’ Informatio del 1539, con il Marziano poi (1583), con il Laggetto (fine del ‘500).

Sarebbe infatti assai azzardato pensare ad un confezionamento otran­tino posteriore a questi scritti e documenti in epoca cioè in cui in Otranto nessuno avrebbe osato mettere in discussione punti ormai acquisiti allo schema agiografico (data della decapitazione avvenuta di domenica, cadaveri trovati intatti dopo tredici mesi, fatti miracolosi, ecc.).

L’abbondantissima messe di informazioni, le sottili congetture, il lumeggiamento dei documenti esaminati, la valori zzazione del secondo rimasto ignoto o trascurato per tanto tempo, rendono lo studio di Donato Moro un fondamentale punto di passaggio per chi vorrà riprendere l’argomento. Se si tiene conto poi che all’indagine propriamente storica si aggiunge quella lingustica dei testi il1ustrati (specie del primo) – ed è questo, nell’insieme del saggio, un momento di notevole forza – s·i vedrà come sia possibile ri f ondare su basi nuove e con mezzi scientifici, i nserendole in una prospett iva di ricerca storica tout -court, quelle ricerche di « storia locale un tempo pales ra di orecchianti o di spravveduti, quanto bene intenzionati, ricercatori .

Ben a ragione lo storico Mario Spedicato ha osservato che questa “rinnovata attenzione alle fonti e l’allargamento dello sguardo alla dimensione nazionale ed internazionale rappresentano risultati storiografici dei quali la ricerca di settore più accreditata non ha potuto fare a meno di poter ulteriormente avanzare nella conoscenza”.

pubblicato su Anxa, sett.-ott. 2018, pp. 6-9

Roma 12 maggio 2013: la canonizzazione degli 800 Martiri d’Otranto

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Roma 12 maggio 2013: la canonizzazione degli 800 Martini d’Otranto Antonio Primaldo e Compagni

di Rocco Boccadamo

Dischiudete gli occhi, cari fratelli eroici nel  Signore, ridestatevi! In questa mattinata di maggio romano, il sole splende ma non abbacina la vista.

Suonano a festa le campane della Casa di Pietro, espandono rintocchi speciali, di letizia e, soprattutto, dedicati a noi.

Sì, giacché, oggi, è la nostra Pasqua culminante, la consacrazione dei nostri umili nomi alla gloria universale dei credenti cattolici.

Intorno e su di noi, non più schiere armate, catene e scimitarre, bensì cortei di verdi palme e distese d’argentei ulivi.

Si trovano lontane, assai lontane da qui le onde cristalline dell’amata patria terrena che ci dette i natali, ma, nella circostanza, sembra che gioiscano anche loro, raggiungendoci e lasciandoci udire il loro sciabordio leggero.

Disponiamoci, ora, alla carezza benedicente del successore di Simon Pietro, appena arrivato, con un pensiero d’affetto pure all’indirizzo del Pastore che l’ha preceduto e che, come suo ultimo atto, ha voluto decretare quest’evento in nostro onore.

Vostro

Antonio Primaldo Pezzulla

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Li màrtiri de Utràntu di Nicola G. De Donno

trascrizione a cura di Roberto Panarese

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Li màrtiri de Utràntu

 

di Nicola G. De Donno

I

Cce sse ne preme a Utràntu de Ferrante

cu tutta la strappina d’Aracona

la ggenticedda, e dde Sistu papante

a Rroma? Nc’ète sí ci se bblasona,

ci essendu casa cusiddetta bbona

– ca poi sbursara lu prontu cuntante

e nnu mmurira – se sente cunsona

cu lli ngranaggi, se stave mpurtante,

e llu vèscuvu an testa Pindinellu,

e lli do’ capitani. Ma la vera

carne de Utràntu, carne de macellu

e dde stanga, furese, sciurnatiera

de putèa, marinara, lu castellu

de la corte sí e nno sapîne cce era.

I martiri di Otranto – I. Alla piccola gente di Otranto, che gliene preme di Ferrante con tutta la prosapia di Aragona, e di Sisto pontificante a Roma? C’è sì chi si blasona, chi essendo di famiglia cosiddetta buona -i quali poi sborsarono per contanti il riscatto e non morirono- si sente in sintonia con l’apparato, se ne sta importante; e in testa il vescovo Pendinelli ed i due capitani. Ma la vera carne di Otranto, carne da macello e da stanga, contadina, bracciante di bottega, marinara, il castello della corte sapevano sì e no cosa fosse.

II

Ma sapîne lu nervu de lu pane,

lu pisu de lu remu a lla paranza,

lu duce de la casa, le campane.

Ste cose èrene iddi, iddi ogne usanza

ntica, era sangu loru, era sustanza

de vita unita ca se sustanziâne

senza llu sannu, na cuncumunanza

soa, de paese de persone umane,

idde, nu àutre, a tterra salentina

cu ddu mare dda chiesa dda campagna

ddi suturi: financu dda catina

de servitú, ca unu se ne lagna

straccu mortu la sira, e lla matina

torna lu sule e llu maru sbafagna.

II. Ma sapevano, il nerbo del pane, il peso del remo alla paranza, la dolcezza della casa, le campane. Queste cose erano essi, essi ogni usanza antica, era sangue loro, era sostanza di vita trascorsa insieme, di cui si sostanziavano senza saperlo, una concomunanza loro, di paese di persone umane, esse, non altre, in terra salentina con quel mare quella chiesa quella campagna quei sudori: perfino quella catena di servitù, di cui uno si lamenta stanco morto la sera, e la mattina torna il sole e l’amarezza svapora.

 

 

III

È ssoa, sta Utràntu, de sta ggenticedda

comu la terra è ssoa de le radici

ca la mprènane. E sse è ca se ncappiedda

cufiu d’ariu lu riccu pe ccurnici

de nnanni e ttarli e ppe pparenti e amici

de Nàpuli; se nu nc’ète cunedda

o de tasse o de bbulli ca ppindici

soi suttauttare nu lli le ncravedda;

se se cua suttarazzi suttarazzi

meju li panzacrandi furestieri

e li bbonzignorini paunazzi:

puru quista ète Utràntu, Utràntu jeri,

Utràntu osci, ncornudate am brazzi

a cci fatica le musche cuccheri.

III. È sua, questa Otranto, di questa piccola gente, come la terra è sua delle radici che la fecondano. E se succede che metta cappello il ricco frollo di alterigia per le cornici di antenati e tarli, e per parenti e amici di Napoli; se non c’è canale o di tasse o di bolli in cui non infogni le sue appendici di tirapiedi; se sempre si cova a braccetto di preferenza i forestieri dalle pance importanti ed i monsignorini paonazzi, anche questa è Otranto. Otranto ieri, Otranto oggi, con le mosche cocchiere sistemate in braccio a chi lavora.

 

 

IV

Poi rria lu Turcu, e ttuzza, e ole cu ttrase,

Cu ttrase a ddune? e dde cce ppizzu ggiunge

de munnu, e dde cce llingua? a cquali case

se curca, ca poi dopu ci se punge

esse fore? cce ccielu è cca li munge

lu dirittu cu nnuce navi rase

rase de scimitarre, e ccu ne sciunge,

senza vulenti, a sta stanga de bbase

ca o rrisistimu e sse face feroce

de stragge, o se li aprimu ne cunzuma

comu cannedda n’àrgulu de noce

crande, ca onza onza lu sfrauma?

Ai! senza scelta è ccalata na croce

su Utràntu, e Utràntu ttocca sse la ssuma.

IV. Poi arriva il Turco e bussa e vuole entrare. Entrare dove? e da che estremo di mondo arriva, e di che lingua? in quali case alloggerà, che poi chi si punge va fuori? Qual è il cielo che gli dà diritto di portare qui navi colme di scimitarre e di aggiogarci non volenti a questa stanga di fondo, che o resisteremo e si farà ferocemente avido di strage, oppure, se gli apriremo le porte, ci consumerà come un albero di noce grande di tarlo, che lo sfrantuma ad oncia ad oncia? Ahi! è calata su Otranto una croce che non lascia scelta, ed Otranto è obbligata ad assumersela.

 

V

E nnu ggiova se Cristu è cchiú pputente

o Allà moi su llu bbílicu sse pisa

de sta bbasculla de distinu ardente,

su sta littera de focu mpruvisa

a ddu Acumàt Utràntu l’ave stisa,

e Utràntu chiama, e Ccristu nu lla sente:

quale città se cangia de camisa

intra na notte, comu nu serpente?

Utràntu rresta Utràntu, è ccosa fatta

senza sse dice, senza ll’àe dicisa

ci cumanna e àve gradu cu ccuntratta

o none: Utràntu se rresta precisa,

precisa Utràntu, puru se Acumàt

sutta le petre soi la lassa ccisa.

V. E non serve, adesso, che si pesi se è più potente Cristo o Allà sul bilico di questa basculla di destino ardente, su questa lettiera improvvisa di fuoco dove Acomat ha stesa Otranto, e Otranto chiama e Cristo non la sente: quale città si cambia di pelle in una notte, come un serpente? Otranto resta Otranto, è cosa fatta senza bisogno di dirla, senza che l’abbia decisa chi comanda ed ha grado di contrattare o non contrattare: Otranto resta identicamente Otranto, anche se Acomat la lascerà uccisa sotto le sue stesse pietre.

VI

È vveru, nc’è nnu filu de speranza

ca rríane juti, e ppuru ne sustenta.

Ma Nàpuli è lluntana, e ll’ura vanza

precipitannu a nnui, ca fore è llenta.

Però, se nefia turca s’argumenta

ca cchiúi ne stringe cu bbumbarda e llanza

e cchiúi lu core nosciu se crapenta

fattu muddisu, e cca Utràntu se mmanza,

ogne spamientu, nvece, ca ne trase

la mitudda de l’osse, ne mbrazzamu

a lli ricordi a lle chiese a lle case

a lli cumpagni. E cchiú ppuntutu l’amu

de l’ure andate tira, e lle rimase

cu cchiú ale de morte fannu ssamu.

VI. È vero, c’è un filo di speranza che arrivino soccorsi, ed anche sostenta. Ma Napoli è lontana, e l’ora, che fuori è lenta, avanza a precipizio su noi. Però se la presunzione turca s’argomenta che più stringe con bombarda e lancia, e più il nostro cuore si crepi, fatto morbido, e che Otranto si ammansi, al contrario ad ogni spavento che penetra il midollo delle ossa ci abbracciamo ai ricordi alle chiese alle case ai compagni. E più puntuto l’amo delle ore passate ci tira, e quelle rimaste fanno sciame con più numerose ali di morte.

VII

 

Ca ggià la morte a Utràntu è lla patruna.

Li capitani e ssíndici ànnu scritte

le parole dovute, ma mancu una

àe rispostu lu Rre. Chiòvene fitte

le palle turche, pàrene marmitte

de nzurfu ca a ddu pàssane scattuna

la sbentura. Le làcrime su’ spritte,

manca mangiare, la carne  mprusciuna

de li ccisi, e nnu nc’ete sibburtura

cu bbasta, mancu lettu a lli feriti.

 Nui finu a cquannu la muraja dura

contru le palle e lli trumenti, uniti

e ddisperati a lla difesa scura

cu ogne arma, cu lle furche, cu lli spiti.

 

VII. Ché già la morte ad Otranto è la padrona. I capitani e i sindaci hanno scritto le parole dovute, ma neanche ad una ha risposto il re. Piovono fitte le palle turche, sembrano marmitte di zolfo, che dove passano germoglia la sventura. Le lacrime sono inaridite, manca cibo, la carne degli uccisi ammuffisce, e non ci sono sepolture che bastino, manca pure un letto ai feriti. Noi fino a quando la muraglia durerà contro le palle e le macchine d’assedio, uniti e disperati alla difesa scura con ogni arma, con le forche, con gli spiedi.

 

 

VIII

 

Ma tuttu frana. Se ne su’ fusciuti

li surdati. Lu Rre nu ss’àve mossu,

lu papa àve bbiundati cuntribbuti

de ndurgenze. Strazzata finu all’ossu,

Utràntu è ssula an facce a llu mulossu.

Sula. L’úrtimi mille su’ ccaduti

su lla muraja a ll’assartu cchiù ccrossu,

l’úrtimu. E ppoi li turchi su’ ttrasuti.

Struncunisciannu Utrantu via pe vvia,

casa pe ccasa, squartannu, rrubbannu,

e ncatinannu la carne cchiú vvia

pe lli riscatti, li letti, lu scannu

de lu remu, e lla meju a lla Turchía

schiava e ttrastullu de lu turcumannu.

 

VIII. Ma tutto frana. I soldati si son dati alla fuga. Il re non si è mosso, il papa ha abbondato in contributi di indulgenze. Lacerata fino all’osso, Otranto è sola di fronte al molosso. Sola. Gli ultimi mille sono caduti sulla muraglia nell’assalto più accanito, l’ultimo. E poi i Turchi sono entrati. Stroncando Otranto via per via, casa per casa, squartando, rubando e incatenando la carne più viva per i riscatti, i letti, lo scanno del remo, e la migliore per la Turchia, schiava e trastullo del turcomanno.

 

IX

Pulmone scusu de la resistenza,

fiòccula e mmamma a ll’àutre abbitazzioni,

la cattedrale a Ddiu ffida clemenza

e rrifuggiu, li vecchi, li vagnoni,

le fímmine, li prèiti nginucchioni

su lle radici loru. La scadenza

se nvicina, nu è ura de llusioni

nè dde paure, è scritta la sintenza.

Nfunna lu turcu su sta fedeltà

la scimitarra cecata. Ssassina,

spacca, prufana. Stave la città

tutta oramài spalangata supina

sutta viulenza. Pare morta ggià,

ggià pare morta l’ànima utrantina,

IX. Nascosto polmone della resistenza, chioccia e mamma alle altre case, la cattedrale affida a Dio clemenza e rifugio, stando ginocchioni sulle radici loro i vecchi, i ragazzi, le donne, i preti. La scadenza si avvicina, non è ora di illusioni, né di paure, la sentenza è scritta. Il Turco affonda su questa fedeltà la scimitarra accecata. Assassina, spacca, profana. La città sta ormai tutta spalancata supina sotto la violenza. Sembra morta già, già sembra morta l’anima otrantina.

X

Ci se penzàa ca ncora nc’è nnu crai?

Sàlene mpasturati a ccentinare

li ncora tisi, trascinati a cquai

susu stu munte Minerva ca pare

Calvariu. Ci se pote riscattare

se squaja. Ccerti sani, a ssette chiài

mmanettati, li tocca straregnare.

Ma li vecchi e mmalati spiccia a cquai

l’esiliu loro. Guàrdane la sorte

senza lamenti, senza tradimenti,

difendènnuse Utràntu cu lla morte.

E Ccristu difendennu parimenti.

Ca Utràntu è Ccristu. E Utràntu su’ lle porte

cilesti ca li nvítane murenti.

X. Chi avrebbe pensato che ancora dovesse esserci un domani? Salgono impastoiati a centinaia quelli ancora in piedi, trascinati qua, su questo monte Minerva che pare Calvario. Chi si può riscattare se la squaglia. Alcuni sani, ammanettati con sette chiavi, li tocca fuori regno. Ma per i vecchi e i malati il loro esilio finisce qui. Guardano la sorte senza lamenti, senza tradimenti, difendendosi la loro Otranto con la morte. E difendendo Cristo del pari. Poiché Otranto è Cristo. E le porte celesti che li invitano morenti sono Otranto.

 

XI

Li morti picca tufu e ccu lli sicca

o quattru petre, ca agostu ristacca

le rètine a llu sule pe rripicca

de vita. E mmentre la pelle se stacca

uddicannu, e a lle chiese se bbivacca

lu turcu, e cquannu fosse èrene picca

pe ttombe a ttanti, le tempie li spacca

rèputu mutu a lle cristiane e nficca

rodde de rèume, nnútichi a llu core

de ci rresta fedele e ffeccattantu

li tocca fare le serve, l’amore;

e a lli mariti, a lli fiji, a ll’Utràntu,

víscere loru, dulore dulore,

dulore uffrire e gnúttere lu chiantu.

XI. Per i morti poco tufo che li dissecchi o quattro pietre, perché agosto scioglie le redini al sole per ripicca di vita. E mentre la pelle si stacca ribollendo, e nelle chiese fa bivacco il Turco, e comunque sarebbero poche per tombe a tanti, alle donne cristiane il muto lamento funebre spacca le tempie e conficca gomitoli di reume, groppi nel cuore di chi resta fedele e intanto gli tocca fare le serve, l’amore; ed ai mariti, ai figli, ad Otranto, loro viscere, offrire dolore, dolore, dolore, ed inghiottire il pianto.

 

 

XII

S’îne pututi sarvare? Cce fforsi

ca se putîne fare musurmani,

cangiare nume, pinzieri, discorsi,

vistiti: e sta piruetta, st’otomani

susu li morti càuti, e ttra lli cani

nsangunisciati, e am piettu cu lli morsi

de terrore e dde raggia, e lli do’ mani

ttaccati comu bbestie? Se succorsi

a sperare nu nc’è de cose umane,

se Utràntu stave morta e ssepelita,

nui dunque cce vvalía se ne ccattâne

e a cquale prezzu nu filu de vita,

pesci fore acqua? No, sulu rrumane

la morte cu ddae senzu a lla partita.

XII. Si sarebbero potuti salvare? Che forse si potevano fare mussulmani, cambiare nome, pensieri, discorsi, vestiti: e questa piroetta, questa prestidigitazione sui morti caldi, e tra quei cani lordi di sangue, e con nel petto i morsi del terrore e della rabbia, e con le due mani legate come bestie? Se non c’è da sperare soccorsi di cose umane, se Otranto sta morta e seppellita, che varrebbe dunque se noi ci comprassimo, e a qual prezzo, un filo di vita, pesci fuor d’acqua? No, rimane solo la morte che dia senso alla partita.

 

 

XIII

A ffilu de sta lama, a stu cunfine

tra ssí e nno, nnanzi a stu passu tristu

se rrestare imu nui stessi, a lla fine,

o rinnegare Utràntu e amparu Cristu,

cce mpòrtane Ferrante o papa Sistu?

Mporta stu lettu de lane e dde spine

ca nci nn’è mmeju forsi, ma nui è cquistu

ca simu nati, e àutru nu nne ulîne.

Lu sangu trova lentu le carrare,

se mmisca cu lla terra a vvina a vvina,

scinne lu cute e sse sposa a llu mare.

Lu turcu ca lu mete nu ndivina

cce bbandiera cumincia a sbentulare

su lla patria ca nasce salentina.

4-12 agosto 1980

 

XIII. Sul filo di questa lama, in questo confine tra il sì ed il no, dinanzi a questo tristo passo, se, in definitiva, dobbiamo restare noi stessi, o rinnegare Otranto ed insieme Cristo, che importano Ferrante o papa Sisto? Importa questo letto di lane e di spine del quale ce n’è forse migliori, ma noi è in questo che siamo nati, e non ne volevamo altro. Il sangue trova lento i sentieri, si mescola con la terra vena per vena, scende le rocce e si sposa con il mare. Il Turco che lo miete non indovina quale bandiera comincia a sventolare sulla patria salentina che sta nascendo.

 

 

LI MÀRTIRI de UTRÀNTU – Analisi strutturale di due sonetti di Nicola G. De Donno

ACUBAT

 

di Emilio Panarese

 

 

Due sono i nostri poeti più validi che hanno cantato, in vernacolo salentino, l’epopea otrantina: De Dominicis e De Donno. Circa ottant’anni fa  il primo col poemetto ‘Li Martiri d’Otranto’ (50 composizioni, 800 versi); otto anni fa e quest’anno De Donno con ‘Li martiri de Utràntu’  (sonetto pubblicato nel ’72, in ‘Cronache e paràbbule’),‘Utràntu’ (sonetto dedicato ad Oreste Macrì, ivi),‘Utràntu de li martiri’ (otto sonetti che usciranno nel prossimo numero de ‘L’albero’, scritti tra il 4 e il 12 agosto 1980, nella ricorrenza del quinto centenario dell’eccidio) ed, infine, i tredici sonetti, inediti, de Li martiri de Utràntu. In tutto 23 sonetti, 312 versi.

Differenti i livelli semantico-stilistici dei due poeti; assai diverso, sul piano connotativo, pure il tono della decifrazione del messaggio poetico: analitico, retorico, a volte ampolloso e declamatorio nel primo; sintetico, pacato e misurato nel secondo.

Fra gli ultimi tredici sonetti inediti di De Donno abbiamo volto la nostra attenzione a due in particolare, perché, a nostro giudizio, strutturalmente più compatti e, più degli altri, rispondenti alla pienezza ideativa del segno lirico.

In essi la struttura sintattica, di tipo paratattico, tutta  asindeti e polisindeti, leganti in unità i vari sintagmi poetici, è la più adatta ad esprimere i particolari effetti di successione psicologica ed emotiva della sintetica rievocazione della cosa ‘enorme […] strepitosa’, dell’azione, cioè del fatto epico, che rapida precipita, come nelle tragedie greche, verso la catastrofe.

Anche il ritmo, spezzato e volutamente cadenzato, quasi a rendere  acusticamente  il sibilo e la rovina delle palle turche, ora incalzante e frenetico, ora solenne e linearmente disteso, contribuisce sia al giuoco delle cesure interne (come nelle terzine dell’VIII sonetto), sia con gli effetti melodici di certe sillabe e di certe rime, anche quelle equivoche, a darci una visione volumetrica degli incalzanti momenti della fine.

Quanto poi alla semanticità dello stile, che è uno stile nominale legato alla enucleazione essenziale della parola-cosa, senza orpelli e senza scarti, c’è da notare il tono altamente drammatico delle due liriche qui esaminate, che colgono, nel codice vernacolare non certo meno dignitoso e vigoroso di quello nazionale di fronte ad una materia popolare cantata con spirito epico, il momento cruciale e conclusivo della resistenza otrantina.

Di fronte a questa materia popolare De Donno non assume il distaccato atteggiamento ironico-satirico, che gli è quasi consueto. Qui non trovi  più le culozze contestatrici che Primaldu à discitate  […] na notte de luna e radunate sulla Minerva, an giru sozzesozze / ssettate a pparlamentu, ma scopri invece un atteggiamento pensoso e meditativo, anche se – bisogna ammetterlo – il sottofondo psicologico resta sempre imbevuto di motivazioni polemiche ed oppositive verso il potere: da una parte lu Rre (Ferrante) indifferente, che nu ss’ave mossu eSsistu papante,che soltanto ave bbiundati contributi / de ‘ndurgenze; dall’altra Utràntu […] ssula an facce a llu mulossu / Sula.    

Persino la significazione delle figure usate, la metaforica e la metonimica, è qui diversa: è più misurata, più parca, non sovrastruttura, non ornato, ma motivazione reale del segno stesso. Ed anche la catena linguistica è diversa: del tutto scarna, ridotta all’essenziale, fatta per lo più solo di strutture minime binarie e di espansioni adnominali, specialmente nel secondo sonetto (l’VIII), in cui la tragedia della fine incalza ineluttabile.

Un’analisi particolare meriterebbe la disposizione delle parole: si pensi alla forza di quel Ca ggiàiniziale (s. VII), alla ripresa  oppositiva  di quel ma, che porta in primo piano la travagliata resistenza della genticedda otrantina abbandonata al suo destino e votata all’estremo sacrificio. Si consideri pure il valore intensivo di quel cu, tre volte ripetuto, dell’ultimo verso: cu ogne arma, cu lle furche, cu lli spiti e la forza semantica dei quattro gerundi martellanti, incalzanti, condensati in una sola terzina dell’VIII sonetto. Si ponga mente all’efficacia stilistica  dell’aggettivo ripetuto, come in Utràntu è ssula […] Sula,  che isolato, all’inizio del verso seguente, si carica di un pathos particolare, e come in L’urtimi mille […] all’assartu, l’urtimu, e parimenti consideri  la potenza melodica di quell’E ppoi, che messo lì dopo tre  enjambements consecutivi, che allargano il ritmo, sta a segnare il netto distacco tra due momenti decisivi: la vana resistenza e la feroce vendetta.

Il poeta ci dà in questi due sonetti una visione chiaramente plastica dell’epopea del 1480, e sintetica insieme, con un segno davvero compendiario che ricorda l’austera sobrietà e la corposità plastica dell’affresco masaccesco: solo quattro pennellate, quattro abbozzi rapidi e decisi, che aprono un’immensa scena di strage.

In primo piano la morte patruna che, prima dei Turchi, ha già occupato la città, le vie, le case, e Utràntu strazzata finu all’ossu.

Più indietro, la folla anonima, ma viva e corposa, dei surdati, de l’urtimi mille, dei Turchi violenti, dei feriti, dei prigionieri e il grande scenario, in cui, attraverso accenni e tocchi fuggevoli, tu vedi con orrore i corpi de li ccisi col particolare di quella carne che mprusciúna e che dà alla morte di quei derelitti un senso di più desolato abbandono, e la muraja che ancora per poco resiste contru le palle e lli trumenti, ed, insieme le furche e lli spiti agitati per l’ultima, inane difesa, e i barbari che, struncunisciànnu Utràntu via pe vvia, stroncano, strozzano, spezzano, fracassano, squartano, rubano, incatenano, violentano, senza pietà alcuna, più feroci di sciacalli da lungo tempo affamati.

La frequenza delle vocali e dei fonemi invertiti sordi dà al verso una lentezza cadenzata, mista di pietà e di terrore: tru /tru /tra/ tra sono colpi di scimitarre che cadono impietosi, scandendo i tempi della tragica fine.

Ma ciò che commuove il poeta sono quei poveri uomini, contadini e pescatori, che amano la pace dei campi e del mare, ma che, violentemente e improvvisamente, son posti di fronte alla dura realtà della guerra, di fronte a scelte decisive, che li trasformano in eroi, tanto più grandi quanto maggiore è in loro l’attaccamento alla propria esistenza e alla fatica quotidiana della zappa e del remo.

Sono dei vinti, che sanno di dover morire, che accettano la morte con austera rassegnazione. L’epicità è tutta lì: nella loro magnanimità e nella coscienza della fugacità della vita.

 

Maglie, 13 novembre 1980

San Primaldo e compagni santi oggi 12 maggio 2013

esterno cattedrale

La guarigione nel 1980 di suor Francesca Levote canonizza oggi 12 maggio gli 800 Martiri di Otranto.  E’ stato Benedetto XVI, a suo tempo, che ha autorizzato la Congregazione delle cause dei Santi a promulgare i Decreti di nuovi Santi, ed oggi papa Francesco nomina tali Antonio Primaldo e i suoi 800 concittadini uccisi dai turchi durante l’assedio di Otranto del 1480 per aver rifiutato la conversione all’Islam.

 

Martiri di Otranto, una ferita ancora aperta

Gli otrantini vittime della Jihad islamica (da http://www.belpaeseweb.it)

di Vincenzo Scarpello

L’imposizione con la forza della conversione all’Islam alla popolazione di Otranto da parte dei Turchi in occasione dell’occupazione del 1480 è ancora oggi oggetto di interpretazioni differenti. 

Un retrogusto amaro è quello che  hanno percepito i partecipanti alle celebrazioni civili dei Martiri di Otranto del 14 agosto scorso, a seguito della relazione di Hubert Houben, professore di Storia medievale presso l’Università del Salento. Un impatto simile lo ebbe nel 1965 la commemorazione civile tenuta dal professor Nicola De Donno, che inaugurava quella storiografia “demitizzante” che trova oggi in Houben un autorevole continuatore.
Un punto di vista del tutto legittimo, sebbene non possa essere condiviso sotto alcuni profili storico-metodologici che vale la pena analizzare con scrupolo. La pietra dello scandalo è costituita, come anche per la relazione del compianto preside De Donno, dall’episodio del Martirio, ove non tanto si mette in discussione la tragica fine degli 800 martiri, i quali ebbero la sfortuna di sopravvivere all’assedio ottomano del 1480, quanto la circostanza dell’imposizione di conversione all’Islam, attribuita dalla cronaca del Laggetto (sulla cui autenticità Houben solleva non poche perplessità) al comandante turco, il Kapudan Pascià della flotta Ahmed Gedik Zade.
L’acquisizione di nuovi documenti storici che possano chiarire i punti ancora oscuri, come ad esempio la documentazione diplomatica Sforzesca utilizzata dal professor Giancarlo Andenna nella commemorazione del 2006, ha contribuito certamente a chiarire alcuni significativi contorni dell’episodio otrantino, ma è del tutto carente un riferimento esplicito alla richiesta di conversione forzata. Ciò però non significa che tale circostanza non si sia verificata, in quanto più di un riscontro documentale ne confermano la sussistenza. Come dimostrano gli autorevoli studi storici che hanno approfondito la figura di Maometto II e la natura dell’espansionismo turco ottomano, come Robert Mantran e Ludovico Leoni, la conversione forzata, pur costituendo un fatto episodico delle modalità di sottomissione di un popolo vinto, non era del tutto estraneo alla tradizione diplomatico-militare turca.
In questo senso la nuova documentazione diplomatica costituisce una preziosa chiave di lettura che meglio inquadra nel contesto delle alleanze degli stati italiani la posizione dell’Impero Ottomano nei confronti del Regno di Napoli e degli eroici difensori di Otranto, il cui valore non fu mai messo in discussione dai contemporanei, nonostante l’iniziale perplessità del Re Ferrante. Va tuttavia sottolineato un punto chiaro che contrasta con l’impostazione della storiografia “demitizzante”, ossia che la conquista di Otranto non rientri nel feroce scontro religioso che contrappose per oltre cinque secoli l’occidente cristiano all’espansionismo arabo prima ed ottomano poi.
Quello ottomano in particolare vedeva in Maometto II l’iniziatore di una nuova fase, che modificava i canoni della Jihad fino ad allora adottati, senza però snaturarne l’intimo senso religioso che ancora oggi continua ad avere per i musulmani. La Jihad di Maometto II era una riproposizione dei fasti dell’Impero Romano, del quale il Sultano si riteneva continuatore in chiave islamica, come proprio l’episodio di Otranto conferma. La giustificazione religiosa della conquista di Otranto non aveva pertanto una natura meramente propagandistica, ma costituiva uno dei pilastri stessi della politica di Maometto II, che voleva espandere il Dar Ul Islam in tutti quei territori appartenuti all’impero romano d’Oriente, del quale Maometto aveva conquistato la capitale, Costantinopoli, per poi riunificare sotto l’egida della seconda Roma islamica tutto l’Occidente.
Negare oggi questo tratto dell’espansionismo turco presterebbe maggiormente il fianco a critiche di strumentalizzazione ideologica, rispetto all’inverosimile prospettiva di una cattiva storiografia locale e nazionale che brandirebbe ancora oggi la spada della vendetta cristiana. Occorre innanzitutto partire dai fatti per così come si svolsero, senza avere un atteggiamento di falso scrupolo e quasi di pavida vergogna per gli episodi nei quali i cristiani presero le armi per difendersi dall’espansionismo ottomano. Tale modo di porsi rischia, tra l’altro, di applicare il pericoloso filtro della mentalità moderna, non soltanto all’interpretazione storica, facendola ricadere in una prospettiva ideologica, ma allo stesso vaglio della documentazione, spingendo pericolosamente la demitizzazione, in certi casi doverosa ma non ugualmente perseguita, nel campo minato del preconcetto del quale si vogliono forzatamente trovare conferme nella documentazione che man mano si acquisisce.
L’episodio dell’impalamento dei prigionieri turchi citato dalla relazione del 2010, se non correttamente inquadrato nei modi e nei tempi della feroce guerra quattrocentesca, ed in particolare di una risposta alle altrettanto feroci scorrerie della cavalleria miliziana ottomana che, nelle primissime ore che seguirono lo sbarco, aveva letteralmente messo a ferro e fuoco l’intera regione dei laghi Alimini, spingendosi quasi fino alle porte di Lecce a nord e di Cannole ad est, con il corollario di uccisioni, stupri di donne e abusi di fanciulli che erano quasi la cifra strategica della Razwa ottomana, rischierebbe quasi di giustificare l’eccidio degli 800, dipingendosi quelli che difendevano la città e che avevano visto coi loro occhi le devastazioni e la morte portata dagli ottomani, quasi come degli avventati e degli scriteriati, accecati da un odio instillato dai nobili e dai religiosi, che li avevano spinti ad impalare i prigionieri, per persuadersi a resistere con maggior risolutezza e che quasi, per utilizzare la logica di chi è estraneo al complesso quadro storiografico e documentale relativo al sacco di Otranto, se l’erano cercata.
Così non fu. L’impalamento dei prigionieri turchi fu uno tra i tanti episodi ricadenti nella “normalità” di un assedio che vide 1.500 uomini, che spesso non avevano mai visto prima neanche un coltello, resistere per oltre 15 giorni alla sistematica distruzione dei campi, alla violenza delle donne e dei bambini, poi ridotti in schiavitù, all’incessante tiro della più formidabile artiglieria dell’epoca ed ai tre cruentissimi assalti generali messi in atto da oltre 15mila uomini, che annoveravano tra i ranghi l’elite militare dell’Impero Ottomano, ossia una vera e propria superpotenza mediterranea, che mirava esplicitamente, dopo aver piegato Otranto, al Principato di Taranto prima, all’Italia poi fino alla conquista dell’intera Europa.
(per gentile concessione dell’Autore, pubblicato su www.belpaeseweb.it del 29/09/2010)

I Santi Martiri di Otranto e il 1480 (IV ed ultima parte)

Per merito della guarigione nel 1980 di suor Francesca Levote oggi 11 febbraio 2013 si è tenuto il concistoro per la canonizzazione dei già Beati 800 Martiri di Otranto, che saranno dichiarati Santi il 12 maggio 2013. Benedetto XVI, che a suo tempo ha autorizzato la Congregazione delle cause dei Santi a promulgare i Decreti di nuovi Santi, nominerà dunque Antonio Primaldo e i suoi 800 concittadini uccisi dai turchi durante l’assedio di Otranto del 1480 per aver rifiutato la conversione all’Islam. Ci è sembrato doveroso ricordare quei tristi fatti riproponendo l’ampio studio di Mauro Bortone, riproposto in questi ultimi quattro giorni (NdR).

 

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Cattedrale di Otranto, interno

 

 

L’alibi del nemico turco ed il gioco del sultano

 

Facciamo un passo indietro. Nel maggio 1453, si era verificato, per via degli Ottomani e del loro sultano, Maometto II, un avvenimento di portata mondiale: la caduta di Costantinopoli, che aveva posto fine ad una storia ultramillenaria, gettando il mondo cristiano in una prostrazione profonda, solcata da paurosi lampi apocalittici. Numerose profezie, che avevano attraversato tutto il Medioevo e che ora tornavano più drammatiche, associavano la caduta della nuova Roma all’avvento dell’Anticristo e alla fine dei tempi[1]. La guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra, che ormai languiva allo stato endemico, si chiuse precipitosamente dinanzi al nuovo pericolo; con la “pace di Lodi” del 1454 si aprì il periodo del cosiddetto “equilibrio”, dove emergeva la preoccupazione, non infondata, che i Turchi sbarcassero davvero in Italia.

In questo contesto, la cristianità occidentale si accorse dolorosamente che il “troppo presto liquidato ecumenismo politico”[2] aveva lasciato un vuoto: con un Sacro Romano Impero, ridotto ad una larva germanizzata, la stessa auctoritas del papato risultava dimezzata: “il pontefice non poteva che ambire ad un ruolo quasi simbolico di una qualche (diciamo così) presidenza della “lega” dei principi e dei popoli cristiani d’Europa, riunita per battere il pericolo turco. Fu quanto s’impegnarono a fare, con differente energia, pontefici quali Niccolò V, Callisto III, Pio II, Paolo II, Sisto IV, cercando disperatamente di metter d’accordo le divergenti idee e gli interessi contrastanti della repubblica di San Marco, del re di Napoli, del re d’Ungheria e di altre potenze: perché, intanto, si era capito molto bene che i turchi erano sì un pericolo, ma potevano essere anche uno splendido alibi

Martiri di Otranto, una ferita ancora aperta

Gli otrantini vittime della Jihad islamica (da http://www.belpaeseweb.it)

di Vincenzo Scarpello

L’imposizione con la forza della conversione all’Islam alla popolazione di Otranto da parte dei Turchi in occasione dell’occupazione del 1480 è ancora oggi oggetto di interpretazioni differenti. 

Un retrogusto amaro è quello che  hanno percepito i partecipanti alle celebrazioni civili dei Martiri di Otranto del 14 agosto scorso, a seguito della relazione di Hubert Houben, professore di Storia medievale presso l’Università del Salento. Un impatto simile lo ebbe nel 1965 la commemorazione civile tenuta dal professor Nicola De Donno, che inaugurava quella storiografia “demitizzante” che trova oggi in Houben un autorevole continuatore.
Un punto di vista del tutto legittimo, sebbene non possa essere condiviso sotto alcuni profili storico-metodologici che vale la pena analizzare con scrupolo. La pietra dello scandalo è costituita, come anche per la relazione del compianto preside De Donno, dall’episodio del Martirio, ove non tanto si mette in discussione la tragica fine degli 800 martiri, i quali ebbero la sfortuna di sopravvivere all’assedio ottomano del 1480, quanto la circostanza dell’imposizione di conversione all’Islam, attribuita dalla cronaca del Laggetto (sulla cui autenticità Houben solleva non poche perplessità) al comandante turco, il Kapudan Pascià della flotta Ahmed Gedik Zade.
L’acquisizione di nuovi documenti storici che possano chiarire i punti ancora oscuri, come ad esempio la documentazione diplomatica Sforzesca utilizzata dal professor Giancarlo Andenna nella commemorazione del 2006, ha contribuito certamente a chiarire alcuni significativi contorni dell’episodio otrantino, ma è del tutto carente un riferimento esplicito alla richiesta di conversione forzata. Ciò però non significa che tale circostanza non si sia verificata, in quanto più di un riscontro documentale ne confermano la sussistenza. Come dimostrano gli autorevoli studi storici che hanno approfondito la figura di Maometto II e la natura dell’espansionismo turco ottomano, come Robert Mantran e Ludovico Leoni, la conversione forzata, pur costituendo un fatto episodico delle modalità di sottomissione di un popolo vinto, non era del tutto estraneo alla tradizione diplomatico-militare turca.
In questo senso la nuova documentazione diplomatica costituisce una preziosa chiave di lettura che meglio inquadra nel contesto delle alleanze degli stati italiani la posizione dell’Impero Ottomano nei confronti del Regno di Napoli e degli eroici difensori di Otranto, il cui valore non fu mai messo in discussione dai contemporanei, nonostante l’iniziale perplessità del Re Ferrante. Va tuttavia sottolineato un punto chiaro che contrasta con l’impostazione della storiografia “demitizzante”, ossia che la conquista di Otranto non rientri nel feroce scontro religioso che contrappose per oltre cinque secoli l’occidente cristiano all’espansionismo arabo prima ed ottomano poi.
Quello ottomano in particolare vedeva in Maometto II l’iniziatore di una nuova fase, che modificava i canoni della Jihad fino ad allora adottati, senza però snaturarne l’intimo senso religioso che ancora oggi continua ad avere per i musulmani. La Jihad di Maometto II era una riproposizione dei fasti dell’Impero Romano, del quale il Sultano si riteneva continuatore in chiave islamica, come proprio l’episodio di Otranto conferma. La giustificazione religiosa della conquista di Otranto non aveva pertanto una natura meramente propagandistica, ma costituiva uno dei pilastri stessi della politica di Maometto II, che voleva espandere il Dar Ul Islam in tutti quei territori appartenuti all’impero romano d’Oriente, del quale Maometto aveva conquistato la capitale, Costantinopoli, per poi riunificare sotto l’egida della seconda Roma islamica tutto l’Occidente.
Negare oggi questo tratto dell’espansionismo turco presterebbe maggiormente il fianco a critiche di strumentalizzazione ideologica, rispetto all’inverosimile prospettiva di una cattiva storiografia locale e nazionale che brandirebbe ancora oggi la spada della vendetta cristiana. Occorre innanzitutto partire dai fatti per così come si svolsero, senza avere un atteggiamento di falso scrupolo e quasi di pavida vergogna per gli episodi nei quali i cristiani presero le armi per difendersi dall’espansionismo ottomano. Tale modo di porsi rischia, tra l’altro, di applicare il pericoloso filtro della mentalità moderna, non soltanto all’interpretazione storica, facendola ricadere in una prospettiva ideologica, ma allo stesso vaglio della documentazione, spingendo pericolosamente la demitizzazione, in certi casi doverosa ma non ugualmente perseguita, nel campo minato del preconcetto del quale si vogliono forzatamente trovare conferme nella documentazione che man mano si acquisisce.
L’episodio dell’impalamento dei prigionieri turchi citato dalla relazione del 2010, se non correttamente inquadrato nei modi e nei tempi della feroce guerra quattrocentesca, ed in particolare di una risposta alle altrettanto feroci scorrerie della cavalleria miliziana ottomana che, nelle primissime ore che seguirono lo sbarco, aveva letteralmente messo a ferro e fuoco l’intera regione dei laghi Alimini, spingendosi quasi fino alle porte di Lecce a nord e di Cannole ad est, con il corollario di uccisioni, stupri di donne e abusi di fanciulli che erano quasi la cifra strategica della Razwa ottomana, rischierebbe quasi di giustificare l’eccidio degli 800, dipingendosi quelli che difendevano la città e che avevano visto coi loro occhi le devastazioni e la morte portata dagli ottomani, quasi come degli avventati e degli scriteriati, accecati da un odio instillato dai nobili e dai religiosi, che li avevano spinti ad impalare i prigionieri, per persuadersi a resistere con maggior risolutezza e che quasi, per utilizzare la logica di chi è estraneo al complesso quadro storiografico e documentale relativo al sacco di Otranto, se l’erano cercata.
Così non fu. L’impalamento dei prigionieri turchi fu uno tra i tanti episodi ricadenti nella “normalità” di un assedio che vide 1.500 uomini, che spesso non avevano mai visto prima neanche un coltello, resistere per oltre 15 giorni alla sistematica distruzione dei campi, alla violenza delle donne e dei bambini, poi ridotti in schiavitù, all’incessante tiro della più formidabile artiglieria dell’epoca ed ai tre cruentissimi assalti generali messi in atto da oltre 15mila uomini, che annoveravano tra i ranghi l’elite militare dell’Impero Ottomano, ossia una vera e propria superpotenza mediterranea, che mirava esplicitamente, dopo aver piegato Otranto, al Principato di Taranto prima, all’Italia poi fino alla conquista dell’intera Europa.
(per gentile concessione dell’Autore, pubblicato su www.belpaeseweb.it del 29/09/2010)

I Martiri di Otranto e il 1480 (III parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Lo strano caso della congiura dei Pazzi

ed il contesto storico

 

Seppur tra molti lati oscuri, la vicenda di Otranto, potrebbe essere collegata in qualche modo alla congiura dei Pazzi, architettata contro Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze. Dall’agosto del 1471, infatti, era asceso al soglio pontificio, col nome di Sisto IV, Francesco della Rovere. Tra i suoi favoriti c’era il nipote Girolamo Riario: per lui il Papa acquistò la contea di Imola a un passo dal territorio fiorentino;[1] ma tale operazione necessitava di un prestito di trentamila fiorini: i Medici, banchieri di fiducia della Santa Sede, si erano però rifiutati di concederlo. A Roma si trovava un’altra banca in grado di sborsare una cifra del genere: quella dei Pazzi[2]. Ne era a capo Franceschino d’Antonio, grande amico di Girolamo Riario, col quale concepì una congiura che facesse fuori Il Magnifico. Il Papa, dal canto suo, accarezzando l’idea di trasformare Firenze in una signoria per il proprio nipote, impose alla diocesi un nuovo arcivescovo, Francesco Salviati, avverso Magnifico[3]. Il momento scelto per la congiura fu la primavera del 1478: Giuliano, fratello di Lorenzo, fu colpito a morte con i pugnali di Franceschino e Bernardo Bandini. Il Magnifico, però, riuscì a scappare. A Firenze scoppiò la rivolta: l’arcivescovo Salviati fu impiccato alle finestre del palazzo della Signoria, mentre altri congiurati, penetrati nell’edificio, venivano scaraventati giù. Bernardo Bandini riuscì a fuggire: si imbarcò su una grossa galea del re di Napoli, raggiungendo Istanbul, dove aveva amici e parenti. Anche il Magnifico, nella capitale turca, aveva interessi e spie. La polizia del sultano scoprì il Bandini e lo imprigionò. Antonio de’ Medici partì nel luglio ’79 da Firenze con ricchi doni per il sultano e ritornò alla vigilia di Natale con il Bandini. Qualche giorno più tardi, l’assassino di Giuliano de’ Medici pendeva a una finestra del palazzo del Bargello. Da allora, tra la Signoria di Firenze e l’impero ottomano s’instaurarono rapporti cordiali, con scambi di messaggi, ambascerie e doni.

L’altra grande potenza, Venezia, desiderava porre un limite all’influsso degli Aragonesi. Un tacito patto, un anno dopo, permise al sultano di trovare la via spianata per conquistare Otranto[4].

Sulla presa di Otranto, c’è da rimarcare ancora un particolare, spesso sottovalutato nel dibattito odierno: l’atteggiamento del Pascià. Molti storici sostenitori del “movente religioso” dell’assalto islamico fanno derivare le

I Martiri di Otranto e il 1480 (II parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Le controversie storiche. Una breve rivisitazione dell’episodio ed alcune questioni irrisolte

 

Per rispondere a questa domanda, si rende necessaria una breve rivisitazione degli episodi storici del 1480. Dopo aver raggiunto il suo massimo splendore nei secoli X-XV, Otranto rimase vittima della conquista di Gedik Ahmed Pascià (o Passà)[2], inviato da Maometto II[3]. I cittadini resistettero all’assedio, dopo aver visto arrivare via mare l’armata turca, composta da 90 galee e 18mila soldati. L’offensiva turca fu martellante: con le bombarde rovesciarono per giorni sulla città centinaia di grosse palle di pietra, «che quando dette palle sparavano, era tanto il terremoto che pareva che il cielo e la terra si volessero abbissare, e le case et ogni edificio per il gran terrore pareva che allora cascassero»[4]. Dopo quindici giorni, all’alba del 12 agosto, l’esercito turco concentra il fuoco su uno dei punti più deboli delle mura, ed aprendo facilmente una breccia, irrompe in città. A contrastarne l’avanzata accorre il capitano Zurlo con il figlio e con altri armati, ma il nemico è superiore e cadono tutti eroicamente, senza poter arrestare l’offensiva dell’orda: «era tanta la calca della gente Turchesca che veniva spinta da dietro dal Bassà e da loro Capitani con bastoni e scimitarre nude per farli entrare per forza e con gridi et urli, che non si posseva più resistere. […] I Cittadini resistendo ritiravansi strada per strada combattendo, talché le strade erano tutte piene d’homini morti così de’ Turchi come de’ Cristiani et il sangue scorreva per le strade come fusse fiume, di modo che correndo i Turchi per la città perseguitando quelli che resistevano e quelli che si ritiravano e fuggivano la furia non trovavano da camminare se non sopra li corpi d’homini morti»[5]. Certamente fu decisivo per l’esito del conflitto il grande divario di forze in campo. Incredibili le crudeltà commesse dagli assalitori sugli otrantini inermi: nel massacro, tutti i maschi con oltre quindici anni vengono uccisi, mentre donne e bambini sono ridotti in schiavitù. Secondo alcune stime (su cui però i dubbi restano consistenti), i morti furono 12.000 (inclusi quelli periti nei combattimenti e sotto i bombardamenti delle grosse artiglierie) e gli schiavi 5.000.

Qualche giorno dopo aver saccheggiato la Cattedrale, i Turchi uccidono sul colle “detto della Minerva” oltre ottocento superstiti. Nella tragica morte di quegli otrantini sono da rintracciare, secondo la versione più largamente diffusa le origini del martirio: stando a questa tesi, l’episodio consumato sul colle della Minerva non fu una semplice selvaggia carneficina, né un massacro per rappresaglia, ma qualcosa di più importante; quegli otrantini, condotti alla presenza del Pascià, furono obbligati ad operare una scelta chiara: l’apostasia o la morte come “infedeli”. La maggioranza degli otrantini scelsero di morire piuttosto che rinnegare la propria fede e furono decapitati con un colpo di scimitarra: il primo a morire fu tal Antonio Pezzulla, un cimatore di panni, che aveva esortato tutti a perseverare nella fede[6], e che, pur decapitato, secondo la tradizione, si levò in piedi col solo busto, senza la testa, restando immobile sino all’esecuzione dell’ultimo dei suoi compagni[7]. Un carnefice turco di nome Berlabei, sempre secondo la stessa tradizione, a quel prodigio si convertì al cristianesimo e venne condannato al supplizio del palo, quello stabilito per i “traditori della fede”[8]. I corpi degli Ottocento rimasero insepolti per circa 13 mesi, sino all’8 settembre 1481, quando il Duca Alfonso d’Aragona entrò nella città (pare, infatti, piuttosto arduo parlare di una vera e propria “liberazione”): le loro reliquie furono condotte all’interno della cattedrale. Il “martirio” del colle, secondo la tradizione cristiana, fu subito un dato “acquisito”, che fece riconoscere quegli uomini come “autentici Martiri di Cristo”. Ma non tutti concordano. Una seconda versione dell’accaduto, facendo leva sulle non poche contraddizioni emerse nel processo, ha a lungo sollevato dubbi in merito alla questione del martirio e un’accesa discussione sulla consistenza storica del dato: questi storici “laici” ritengono irrilevante, infatti, che gli otrantini del 1480 siano morti per una reale professione di fede, preferendo la tesi della “razzia” e della soppressione barbara dei superstiti; del resto, per questi storici, le mire espansionistiche turche non traevano alcun vantaggio da una conversione di massa. Di certo su questa confusione incide e non può ignorarsi quella che, rifacendosi al famoso titolo di un testo del giornalista Marco Travaglio, sarebbe definibile come “la scomparsa dei fatti”: per anni, l’episodio otrantino ha avuto scarsa menzione nei libri scolastici e nei testi storici. E se oggi c’è una sostanziale concordia sulla vicenda, per molto tempo non è stato così. E anche laddove c’era concordanza storica, la questione del martirio o della razzia ha creato comunque divisione.

I problemi, oggi, forse sono da rintracciarsi altrove: innanzitutto nelle oggettive difficoltà di elevare al culto universale della Chiesa uomini uccisi dai Turchi, in un contesto culturale di dialogo ecumenico e di “restrizione identitaria”; d’altro canto, nelle interpretazioni dei fatti del 1480, spesso si tende all’esagerazione opposta, quella, cioè, di una eccessiva retorica identitaria. Ormai va diffondendosi come moda maniacale quella di rileggere la vicenda otrantina sotto la veste di “una difesa epica del cristianesimo”, dentro ad un clima intellettuale dove crescerebbe la “minaccia islamica” e dove starebbero crollando tutti i riferimenti alla matrice cristiana della cultura europea, in un delirio da misticismo intransigente alla Socci o con una deriva fideistica da “atei devoti” alla Ferrara. Non da meno distorta pare, ad onor del vero, la scelta, ridondante di un’enfasi senza legame storico, di propugnare ogni anno a cadenza estiva, il solito riassuntino precotto e scopiazzato sulle vicende del 1480, condendolo con titoli altisonanti contro il nemico che viene da Oriente, come qualche eminente personaggio politico locale fa sempre più spesso. C’è, invece, poco interesse ad approfondire davvero le vicende, le cui interpretazioni non sono più semplicisticamente ridotte alle mire espansionistiche del mondo islamico o all’attacco di civiltà, come puntualmente e retoricamente ribadito anche nei discorsi commemorativi, che si tengono nelle celebrazioni civili dei Martiri otrantini. La vicenda storica, come sempre, è più complessa e determinata dalla convergenza di vari fattori.

(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°3
 

Martiri di Otranto, una ferita ancora aperta

Gli otrantini vittime della Jihad islamica (da http://www.belpaeseweb.it)

di Vincenzo Scarpello

L’imposizione con la forza della conversione all’Islam alla popolazione di Otranto da parte dei Turchi in occasione dell’occupazione del 1480 è ancora oggi oggetto di interpretazioni differenti. 

Un retrogusto amaro è quello che  hanno percepito i partecipanti alle celebrazioni civili dei Martiri di Otranto del 14 agosto scorso, a seguito della relazione di Hubert Houben, professore di Storia medievale presso l’Università del Salento. Un impatto simile lo ebbe nel 1965 la commemorazione civile tenuta dal professor Nicola De Donno, che inaugurava quella storiografia “demitizzante” che trova oggi in Houben un autorevole continuatore.
Un punto di vista del tutto legittimo, sebbene non possa essere condiviso sotto alcuni profili storico-metodologici che vale la pena analizzare con scrupolo. La pietra dello scandalo è costituita, come anche per la relazione del compianto preside De Donno, dall’episodio del Martirio, ove non tanto si mette in discussione la tragica fine degli 800 martiri, i quali ebbero la sfortuna di sopravvivere all’assedio ottomano del 1480, quanto la circostanza dell’imposizione di conversione all’Islam, attribuita dalla cronaca del Laggetto (sulla cui autenticità Houben solleva non poche perplessità) al comandante turco, il Kapudan Pascià della flotta Ahmed Gedik Zade.
L’acquisizione di nuovi documenti storici che possano chiarire i punti ancora oscuri, come ad esempio la documentazione diplomatica Sforzesca utilizzata dal professor Giancarlo Andenna nella commemorazione del 2006, ha contribuito certamente a chiarire alcuni significativi contorni dell’episodio otrantino, ma è del tutto carente un riferimento esplicito alla richiesta di conversione forzata. Ciò però non significa che tale circostanza non si sia verificata, in quanto più di un riscontro documentale ne confermano la sussistenza. Come dimostrano gli autorevoli studi storici che hanno approfondito la figura di Maometto II e la natura dell’espansionismo turco ottomano, come Robert Mantran e Ludovico Leoni, la conversione forzata, pur costituendo un fatto episodico delle modalità di sottomissione di un popolo vinto, non era del tutto estraneo alla tradizione diplomatico-militare turca.
In questo senso la nuova documentazione diplomatica costituisce una preziosa chiave di lettura che meglio inquadra nel contesto delle alleanze degli stati italiani la posizione dell’Impero Ottomano nei confronti del Regno di Napoli e degli eroici difensori di Otranto, il cui valore non fu mai messo in discussione dai contemporanei, nonostante l’iniziale perplessità del Re Ferrante. Va tuttavia sottolineato un punto chiaro che contrasta con l’impostazione della storiografia “demitizzante”, ossia che la conquista di Otranto non rientri nel feroce scontro religioso che contrappose per oltre cinque secoli l’occidente cristiano all’espansionismo arabo prima ed ottomano poi.
Quello ottomano in particolare vedeva in Maometto II l’iniziatore di una nuova fase, che modificava i canoni della Jihad fino ad allora adottati, senza però snaturarne l’intimo senso religioso che ancora oggi continua ad avere per i musulmani. La Jihad di Maometto II era una riproposizione dei fasti dell’Impero Romano, del quale il Sultano si riteneva continuatore in chiave islamica, come proprio l’episodio di Otranto conferma. La giustificazione religiosa della conquista di Otranto non aveva pertanto una natura meramente propagandistica, ma costituiva uno dei pilastri stessi della politica di Maometto II, che voleva espandere il Dar Ul Islam in tutti quei territori appartenuti all’impero romano d’Oriente, del quale Maometto aveva conquistato la capitale, Costantinopoli, per poi riunificare sotto l’egida della seconda Roma islamica tutto l’Occidente.
Negare oggi questo tratto dell’espansionismo turco presterebbe maggiormente il fianco a critiche di strumentalizzazione ideologica, rispetto all’inverosimile prospettiva di una cattiva storiografia locale e nazionale che brandirebbe ancora oggi la spada della vendetta cristiana. Occorre innanzitutto partire dai fatti per così come si svolsero, senza avere un atteggiamento di falso scrupolo e quasi di pavida vergogna per gli episodi nei quali i cristiani presero le armi per difendersi dall’espansionismo ottomano. Tale modo di porsi rischia, tra l’altro, di applicare il pericoloso filtro della mentalità moderna, non soltanto all’interpretazione storica, facendola ricadere in una prospettiva ideologica, ma allo stesso vaglio della documentazione, spingendo pericolosamente la demitizzazione, in certi casi doverosa ma non ugualmente perseguita, nel campo minato del preconcetto del quale si vogliono forzatamente trovare conferme nella documentazione che man mano si acquisisce.
L’episodio dell’impalamento dei prigionieri turchi citato dalla relazione del 2010, se non correttamente inquadrato nei modi e nei tempi della feroce guerra quattrocentesca, ed in particolare di una risposta alle altrettanto feroci scorrerie della cavalleria miliziana ottomana che, nelle primissime ore che seguirono lo sbarco, aveva letteralmente messo a ferro e fuoco l’intera regione dei laghi Alimini, spingendosi quasi fino alle porte di Lecce a nord e di Cannole ad est, con il corollario di uccisioni, stupri di donne e abusi di fanciulli che erano quasi la cifra strategica della Razwa ottomana, rischierebbe quasi di giustificare l’eccidio degli 800, dipingendosi quelli che difendevano la città e che avevano visto coi loro occhi le devastazioni e la morte portata dagli ottomani, quasi come degli avventati e degli scriteriati, accecati da un odio instillato dai nobili e dai religiosi, che li avevano spinti ad impalare i prigionieri, per persuadersi a resistere con maggior risolutezza e che quasi, per utilizzare la logica di chi è estraneo al complesso quadro storiografico e documentale relativo al sacco di Otranto, se l’erano cercata.
Così non fu. L’impalamento dei prigionieri turchi fu uno tra i tanti episodi ricadenti nella “normalità” di un assedio che vide 1.500 uomini, che spesso non avevano mai visto prima neanche un coltello, resistere per oltre 15 giorni alla sistematica distruzione dei campi, alla violenza delle donne e dei bambini, poi ridotti in schiavitù, all’incessante tiro della più formidabile artiglieria dell’epoca ed ai tre cruentissimi assalti generali messi in atto da oltre 15mila uomini, che annoveravano tra i ranghi l’elite militare dell’Impero Ottomano, ossia una vera e propria superpotenza mediterranea, che mirava esplicitamente, dopo aver piegato Otranto, al Principato di Taranto prima, all’Italia poi fino alla conquista dell’intera Europa.
(per gentile concessione dell’Autore, pubblicato su www.belpaeseweb.it del 29/09/2010)

I Martiri di Otranto e il 1480 (II parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Le controversie storiche. Una breve rivisitazione dell’episodio ed alcune questioni irrisolte

 

Per rispondere a questa domanda, si rende necessaria una breve rivisitazione degli episodi storici del 1480. Dopo aver raggiunto il suo massimo splendore nei secoli X-XV, Otranto rimase vittima della conquista di Gedik Ahmed Pascià (o Passà)[2], inviato da Maometto II[3]. I cittadini resistettero all’assedio, dopo aver visto arrivare via mare l’armata turca, composta da 90 galee e 18mila soldati. L’offensiva turca fu martellante: con le bombarde rovesciarono per giorni sulla città centinaia di grosse palle di pietra, «che quando dette palle sparavano, era tanto il terremoto che pareva che il cielo e la terra si volessero abbissare, e le case et ogni edificio per il gran terrore pareva che allora cascassero»[4]. Dopo quindici giorni, all’alba del 12 agosto, l’esercito turco concentra il fuoco su uno dei punti più deboli delle mura, ed aprendo facilmente una breccia, irrompe in città. A contrastarne l’avanzata accorre il capitano Zurlo con il figlio e con altri armati, ma il nemico è superiore e cadono tutti eroicamente, senza poter arrestare l’offensiva dell’orda: «era tanta la calca della gente Turchesca che veniva spinta da dietro dal Bassà e da loro Capitani con bastoni e scimitarre nude per farli entrare per forza e con gridi et urli, che non si posseva più resistere. […] I Cittadini resistendo ritiravansi strada per strada  combattendo, talché le strade erano tutte piene d’homini morti così de’ Turchi come de’ Cristiani et il sangue scorreva per le strade come fusse fiume, di modo che correndo i Turchi per la città perseguitando quelli che resistevano e quelli che si ritiravano e fuggivano la furia non trovavano da camminare se non sopra li corpi d’homini morti»[5]. Certamente fu decisivo per l’esito del conflitto il grande divario di forze in campo. Incredibili le crudeltà commesse dagli assalitori sugli otrantini inermi: nel massacro, tutti i maschi con oltre quindici anni vengono uccisi, mentre donne e bambini sono ridotti in schiavitù. Secondo alcune stime (su cui però i dubbi restano consistenti), i morti furono 12.000 (inclusi quelli periti nei combattimenti e sotto i bombardamenti delle grosse artiglierie) e gli schiavi 5.000.

Qualche giorno dopo aver saccheggiato la Cattedrale, i Turchi uccidono sul colle “detto della Minerva” oltre ottocento superstiti. Nella tragica morte di quegli otrantini sono da rintracciare, secondo la versione più largamente diffusa le origini del martirio: stando a questa tesi, l’episodio consumato sul colle della Minerva non fu una semplice selvaggia carneficina, né un massacro per rappresaglia, ma qualcosa di più importante; quegli otrantini, condotti alla presenza del Pascià, furono obbligati ad operare una scelta chiara: l’apostasia o la morte come “infedeli”. La maggioranza degli otrantini scelsero di morire piuttosto che rinnegare la propria fede e furono decapitati con un colpo di scimitarra: il primo a morire fu tal Antonio Pezzulla, un cimatore di panni, che aveva esortato tutti a perseverare nella fede[6], e che, pur decapitato, secondo la tradizione, si levò in piedi col solo busto, senza la testa, restando immobile sino all’esecuzione dell’ultimo dei suoi compagni[7]. Un carnefice turco di nome Berlabei, sempre secondo la stessa tradizione, a quel prodigio si convertì al cristianesimo e venne condannato al supplizio del palo, quello stabilito per i “traditori della fede”[8]. I corpi degli Ottocento rimasero insepolti per circa 13 mesi, sino all’8 settembre 1481, quando il Duca Alfonso d’Aragona entrò nella città (pare, infatti, piuttosto arduo parlare di una vera e propria “liberazione”): le loro reliquie furono condotte all’interno della cattedrale. Il “martirio” del colle, secondo la tradizione cristiana, fu subito un dato “acquisito”, che fece riconoscere quegli uomini come “autentici Martiri di Cristo”. Ma non tutti concordano. Una seconda versione dell’accaduto, facendo leva sulle non poche contraddizioni emerse nel processo, ha a lungo sollevato dubbi in merito alla questione del martirio e un’accesa discussione sulla consistenza storica del dato: questi storici “laici” ritengono irrilevante, infatti, che gli otrantini del 1480 siano morti per una reale professione di fede, preferendo la tesi della “razzia” e della soppressione barbara dei superstiti; del resto, per questi storici, le mire espansionistiche turche non traevano alcun vantaggio da una conversione di massa. Di certo su questa confusione incide e non può ignorarsi quella che, rifacendosi al famoso titolo di un testo del giornalista Marco Travaglio, sarebbe definibile come “la scomparsa dei fatti”: per anni, l’episodio otrantino ha avuto scarsa menzione nei libri scolastici e nei testi storici. E se oggi c’è una sostanziale concordia sulla vicenda, per molto tempo non è stato così. E anche laddove c’era concordanza storica, la questione del martirio o della razzia ha creato comunque divisione.

I problemi, oggi, forse sono da rintracciarsi altrove: innanzitutto nelle oggettive difficoltà di elevare al culto universale della Chiesa uomini uccisi dai Turchi, in un contesto culturale di dialogo ecumenico e di “restrizione identitaria”; d’altro canto, nelle interpretazioni dei fatti del 1480, spesso si tende all’esagerazione opposta, quella, cioè, di una eccessiva retorica identitaria. Ormai va diffondendosi come moda maniacale quella di rileggere la vicenda otrantina sotto la veste di “una difesa epica del cristianesimo”, dentro ad un clima intellettuale dove crescerebbe la “minaccia islamica” e dove starebbero crollando tutti i riferimenti alla matrice cristiana della cultura europea, in un delirio da misticismo intransigente alla Socci o con una deriva fideistica da “atei devoti” alla Ferrara. Non da meno distorta pare, ad onor del vero, la scelta, ridondante di un’enfasi senza legame storico, di propugnare ogni anno a cadenza estiva, il solito riassuntino precotto e scopiazzato sulle vicende del 1480, condendolo con titoli altisonanti contro il nemico che viene da Oriente, come qualche eminente personaggio politico locale fa sempre più spesso. C’è, invece, poco interesse ad approfondire davvero le vicende, le cui interpretazioni non sono più semplicisticamente ridotte alle mire espansionistiche del mondo islamico o all’attacco di civiltà, come puntualmente e retoricamente ribadito anche nei discorsi commemorativi, che si tengono nelle celebrazioni civili dei Martiri otrantini. La vicenda storica, come sempre, è più complessa e determinata dalla convergenza di vari fattori.

(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°3
 
 

I Martiri di Otranto e il 1480 (I parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Il decreto  super martyrio

 

Nello scorso mese di luglio, la Santa Sede, per volontà stessa di Benedetto XVI, ha dato parere favorevole alla santificazione dei Beati Martiri di Otranto, uccisi nell’invasione turca del 1480. L’atto è un formale riconoscimento, da parte della Congregazione per le Cause dei Santi, del martirio degli Ottocento: un primo importante tassello, non ancora decisivo, del lungo percorso verso la canonizzazione. Il processo di proclamazione della Santità avviene, infatti, attraverso due momenti: la constatazione dell’avvenuto martirio e l’accertamento di un miracolo per intercessione di quanti si venerano. Il decreto in questione ravvisa che, nelle vicende storiche del 1480, Antonio Primaldo e Compagni siano da ritenersi a tutti gli effetti martiri, uccisi “in odio alla fede”. Nel gergo ecclesiale, è il decreto super martyrio: martiri si, dunque, ma non ancora santi. E ci sarà ancora da attendere, come la tradizione e la storia stessa insegnano: perché, sebbene nel sentire comune dei più, i martiri otrantini siano da tempo “santi”, le fasi e gli sviluppi storici del lungo processo di canonizzazione dicono tutt’altro, o meglio, raccontano di difficoltà di approdo a questa agognato giudizio a dir poco “croniche”. Il decreto non va sminuito nella sua rilevanza, ma occorre anche ricordare che ad esso si è giunti, dopo un percorso lungo 16 anni. La fase del processo diocesano di canonizzazione dei Martiri, si è, infatti, conclusa nel 1991. Ma l’iter è ancor più lungo e complesso, se si pensa a tutte le fasi processuali che hanno interessato i Beati Antonio Primaldo e Compagni. I martiri otrantini furono definiti tali perché al termine di un processo, aperto nel 1539 e concluso il 14 dicembre 1771, la Chiesa ne aveva autorizzato il culto[1]. Da allora gli Ottocento otrantini, morti nel sacco cittadino del 1480, sono “beati”. Con l’entrata in vigore delle nuove norme, in vista di una possibile canonizzazione, il processo è stato interamente rifatto dalla Chiesa con un’accurata ed approfondita inchiesta storica, che ha confermato il risultato

I Martiri di Otranto e il 1480 (III parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Lo strano caso della congiura dei Pazzi

ed il contesto storico

 

Seppur tra molti lati oscuri, la vicenda di Otranto, potrebbe essere collegata in qualche modo alla congiura dei Pazzi, architettata contro Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze. Dall’agosto del 1471, infatti, era asceso al soglio pontificio, col nome di Sisto IV, Francesco della Rovere. Tra i suoi favoriti c’era il nipote Girolamo Riario: per lui il Papa acquistò la contea di Imola a un passo dal territorio fiorentino;[1] ma tale operazione necessitava di un prestito di trentamila fiorini: i Medici, banchieri di fiducia della Santa Sede, si erano però rifiutati di concederlo. A Roma si trovava un’altra banca in grado di sborsare una cifra del genere: quella dei Pazzi[2]. Ne era a capo Franceschino d’Antonio, grande amico di Girolamo Riario, col quale concepì una congiura che facesse fuori Il Magnifico. Il Papa, dal canto suo, accarezzando l’idea di trasformare Firenze in una signoria per il proprio nipote, impose alla diocesi un nuovo arcivescovo, Francesco Salviati, avverso Magnifico[3]. Il momento scelto per la congiura fu la primavera del 1478: Giuliano, fratello di Lorenzo, fu colpito a morte con i pugnali di Franceschino e Bernardo Bandini. Il Magnifico, però, riuscì a scappare. A Firenze scoppiò la rivolta: l’arcivescovo Salviati fu impiccato alle finestre del palazzo della Signoria, mentre altri congiurati, penetrati nell’edificio, venivano scaraventati giù. Bernardo Bandini riuscì a fuggire: si imbarcò su una grossa galea del re di Napoli, raggiungendo Istanbul, dove aveva amici e parenti. Anche il Magnifico, nella capitale turca, aveva interessi e spie. La polizia del sultano scoprì il Bandini e lo imprigionò. Antonio de’ Medici partì nel luglio ’79 da Firenze con ricchi doni per il sultano e ritornò alla vigilia di Natale con il Bandini. Qualche giorno più tardi, l’assassino di Giuliano de’ Medici pendeva a una finestra del palazzo del Bargello. Da allora, tra la Signoria di Firenze e l’impero ottomano s’instaurarono rapporti cordiali, con scambi di messaggi, ambascerie e doni.

L’altra grande potenza, Venezia, desiderava porre un limite all’influsso degli Aragonesi. Un tacito patto, un anno dopo, permise al sultano di trovare la via spianata per conquistare Otranto[4].

Sulla presa di Otranto, c’è da rimarcare ancora un particolare, spesso sottovalutato nel dibattito odierno: l’atteggiamento del Pascià. Molti storici sostenitori del “movente religioso” dell’assalto islamico fanno derivare le

I Martiri di Otranto e il 1480 (IV parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Cattedrale di Otranto, interno

 

 

L’alibi del nemico turco ed il gioco del sultano

 

Facciamo un passo indietro. Nel maggio 1453, si era verificato, per via degli Ottomani e del loro sultano, Maometto II, un avvenimento di portata mondiale: la caduta di Costantinopoli, che aveva posto fine ad una storia ultramillenaria, gettando il mondo cristiano in una prostrazione profonda, solcata da paurosi lampi apocalittici. Numerose profezie, che avevano attraversato tutto il Medioevo e che ora tornavano più drammatiche, associavano la caduta della nuova Roma all’avvento dell’Anticristo e alla fine dei tempi[1]. La guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra, che ormai languiva allo stato endemico, si chiuse precipitosamente dinanzi al nuovo pericolo; con la “pace di Lodi” del 1454 si aprì il periodo del cosiddetto “equilibrio”, dove emergeva la preoccupazione, non infondata, che i Turchi sbarcassero davvero in Italia.

In questo contesto, la cristianità occidentale si accorse dolorosamente che il “troppo presto liquidato ecumenismo politico”[2] aveva lasciato un vuoto: con un Sacro Romano Impero, ridotto ad una larva germanizzata, la stessa auctoritas del papato risultava dimezzata: “il pontefice non poteva che ambire ad un ruolo quasi simbolico di una qualche (diciamo così) presidenza della “lega” dei principi e dei popoli cristiani d’Europa, riunita per battere il pericolo turco. Fu quanto s’impegnarono a fare, con differente energia, pontefici quali Niccolò V, Callisto III, Pio II, Paolo II, Sisto IV, cercando disperatamente di metter d’accordo le divergenti idee e gli interessi contrastanti della repubblica di San Marco, del re di Napoli, del re d’Ungheria e di altre potenze: perché, intanto, si era capito molto bene che i turchi erano sì un pericolo, ma potevano essere anche uno splendido alibi

A 530 anni dalla guerra di Otranto (1480/81-2011) (II parte)

 

1480/81-2011 – 530° Anniversario della guerra di Otranto

 

LA GUERRA DI OTRANTO DEL 1480

di Maurizio Nocera

… Ma vediamo ora la scansione temporale della cronologia essenziale della guerra di Otranto:

– il 28 luglio la flotta navale (130/150 navi), comandata dal navarca Achmet Pascià Keduk, sbarcò i suoi uomini (dalle 10 alle 15 mila unità) più 400/600 cavalli ai Laghi Alimini (8 Kma Nord di Otranto). In quel luogo costruirono il loro campo;

– il 9 agosto cominciò il primo assalto, respinto dagli otrantini;

– il 10 agosto il secondo assalto, anch’esso respinto;

– l’11 agosto il terzo, e fu quello che conquistò la città, subito dopo messa a sacco;

– il 18 agosto il Pascià Achmed inviò un ultimatum di arresa alle città di Lecce e di Brindisi, che resistettero. La flotta ottomana allora inseguì il suo obiettivo di espansione spingendosi sulle coste baresi e su quelle della Capitanata. Dalle popolazioni native fu organizzata una prima controffensiva degli eserciti e della flotta navale del re Ferrante d’Aragona, che:

– il 25 settembre fece giungere nelle acque del Canale d’Otranto la flotta napoletana;

– la prima settimana di ottobre gli Ottomani cominciano a ritirarsi dentro le mura di Otranto. Una parte dei militari vennero rinviati a Valona (Albania); in Otranto rimasero all’incirca 6.500 fanti e 500 cavalieri;

– il 7 febbraio 1481, presso Minervino di Lecce, avvenne uno scontro frontale tra i militari ottomani e un piccolo esercito organizzato da Giulio Acquaviva, conte di Conversano, luogotenente generale del duca di Calabria Alfonso d’Aragona. Com’è risaputo, l’Acquaviva rimase ucciso assieme ad altri suoi 700 soldati;

– in aprile, i militari ottomani presenti in Otranto vennero ridotti a circa 4.000. Il Pascià Achmed era andato via; le cronache dicono che era ritornato a Istanbul per chiedere rinforzi;

– il 2 maggio, al comando di Alfonso d’Aragona, l’esercito napoletano-aragonese si posizionò davanti a Otranto, molto probabilmente sull’altopiano,

A 530 anni dalla guerra di Otranto (1480/81-2011) (I parte)

1480/81-2011 – 530° Anniversario della guerra di Otranto

 

LA GUERRA DI OTRANTO DEL 1480

di Maurizio Nocera

Recentemente, ho riletto l’opuscolo “Trattative coi Turchi durante la guerra d’Otranto (1480-81)” [Estratto da «Japigia», Rivista Storica di Archeologia, Storia e Arte; Anno II, 1931 – IX (Fascicolo II) – Società Editrice Tipografica, Bari] di Salvatore Panareo (Maglie 1872 – Roma 1961), storico, folclorista, linguista e poeta dialettale che, per molti anni insegnò Storia al Capece di Maglie, poi fu preside nei Licei di Agrigento (1922-3), Molfetta (1923-6) e nella stessa Maglie (1926-37), dove fu preside anche del Tecnico Commerciale e dell’Istituto Magistrale.

Gli scritti di S. Panareo sono molti conosciuti in Salento, e il suo nome non sfugge a chi si interessa di storia salentina in quanto collaborò con diverse riviste, fra cui «Maglie Giovane», «Japigia», «Rinascenza salentina», «Archivio per le tradizioni popolari», «Archivio storico pugliese», «Rivista Storica Salentina» (di cui fu direttore nel 1922-3). Panareo fu autore anche di diversi saggi, dei quali ecco alcuni titoli: “Fonetica del dialetto di Maglie in Terra d’Otranto” (1903), “Dileggi e scherni fra paesi dell’estremo Salento” (1905), “Puglia” (Torino 1926), “Il Comune di Maglie dal1901 in poi” (1948). Ancora oggi il suo nome e la sua memoria sono presenti nella Biblioteca comunale di Maglie, dove un importante fondo è intestato al suo nome, perché prevalentemente composto dai libri provenienti dalla sua biblioteca privata.

Ma veniamo al testo. Oggi, più o meno, sappiamo quasi tutto sulla guerra di Otranto, e questo grazie alle relazioni dei memorialisti del tempo e grazie anche agli studiosi che si sono interessati e continuano a interessarsi di quell’evento. Ricordo qui solo gli studiosi antichi.

Antonio De Ferraris detto il Galateo (Galatone 1448 – Lecce 1517), riconosciuto grande umanista salentino, scrisse “Il Liber De Situ Japigiae” (1512-1513), fonte certa e probante, all’interno della quale, sia pure in modo breve e sintetizzato, fa riferimento alla guerra di Otranto. Donato Moro (Galatina 1924-1997), che delle vicende otrantine fu grande cultore per

L’Islam e la Puglia/ 2. Nel paese di Puliye

L’urna dei Beati Martiri di Otranto

L’Islam e la Puglia

 

Nel paese di Puliye

di Vito Salierno

 

Per i nostri lettori uno studio di Vito Salierno, uno dei massimi esperti di islamistica in Europa. Oggi la seconda parte

Dopo i fasti e il declino dell’Emirato di Bari, la seconda fase dell’impatto dell’Islam in Puglia si svolse nella prima metà del XIII secolo a nord, a Lucera, dove Federico II trasferì una gran parte dei Musulmani di Sicilia. L’esistenza di questa colonia saracena, registrata anche in numerose cronache arabe, attirò su Federico II le accuse della Chiesa, che nel Concilio di Lione del 1245 stigmatizzò l’operato dell’imperatore che aveva fatto della città un’enclave saracena in territorio cristiano (“civitatem maximam Agarenorum fecit in regno”)…

Gli Angioini

Subentrati gli Angioini, la situazione dei Saraceni di Lucera cominciò a diventare precaria. Dopo un’iniziale resistenza, i coloni di Lucera si sottomisero nell’agosto del 1269. Le condizioni imposte non furono dure anche perché Carlo d’Angiò (1266-1285) pensava di sfruttarne le capacità militari così come avevano fatto gli Svevi: parecchi sono i milites saraceni che combatterono tra le file angioine. La situazione peggiorò sotto il regno di Carlo II (1285-1309) con la persecuzione nei confronti dei notabili saraceni sino ad allora considerati fedeli e utili alla corona. Il motivo fu in apparenza il fervore religioso; in realtà le motivazioni erano politiche. La Chiesa aveva da sempre considerato peccaminosa la tolleranza dei due Angiò, così come aveva tuonato contro Federico II e Manfredi, scomunicandoli entrambi. Più che ad un improvviso mutamento di Carlo II l’impresa di Lucera fu decisa dopo un incontro del re con il papa che gli aveva concesso consistenti aiuti finanziari nella guerra di Sicilia in cambio della dispersione degli infedeli, necessaria dimostrazione della supremazia dell’unica vera fede nel primo anno giubilare della Chiesa, il 1300; inoltre i Saraceni non erano più utili né come mercenari per le defezioni ed il basso numero di coloro che rispondevano alla chiamata alle armi né come coloni per le frequenti conversioni che facevano diminuire le imposte gravanti sui musulmani. Infine c’era un risvolto economico non indifferente per un erario dissestato: la vendita dei Saraceni come schiavi e la

I Martiri di Otranto e il 1480 (V parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

 

di Mauro Bortone

L’assalto di Otranto nei giochi diplomatici italiani

Da qui il sospetto che, per capire l’assalto a Otranto, non si debba guardare ai piani del sultano, ma alle tensioni e ai giochi diplomatici delle corti d’Italia: la volontà egemonica del re d Napoli sulla penisola ed il conflitto veneziano-aragonese per il dominio sull’Adriatico sono, forse, la vera chiave di tutto, con l’elemento scatenante, che è appunto la congiura dei Pazzi a Firenze.

Procediamo con ordine. Ferdinando I d’Aragona, re di Napoli, appoggiava con decisione la politica antifiorentina dei senesi e dei fuorusciti antimedicei; papa Sisto IV aveva concepito il disegno di appoggiarsi agli avversari del Magnifico, ancor presenti nell’aristocrazia fiorentina, per scalzare il potere dei Medici, trovando nella città toscana una signoria per il nipote Gerolamo Riario. E sebbene la congiura dei Pazzi fosse fallita, il Papa – cogliendo l’occasione dal fatto che, nella repressione di essa, erano stati giustiziati anche alcuni membri del clero- scomunicò il Magnifico, gettò l’interdetto su Firenze e suscitò contro di essa una lega con il re di Napoli, la repubblica di Siena e Federico da Montefeltro, che fu nominato comandante delle truppe alleate.

Firenze aveva dalla sua Venezia e Milano, le due antiche avversarie, riavvicinatesi tra loro per fronteggiare il pericoloso espansionismo napoletano. Ma i milanesi erano troppo occupati in questioni di politica interna e i veneziani ancora impegnati nella guerra contro i turchi. Il re di Francia, tradizionale sostenitore di casa Medici, fece sapere al Papa che dal suo paese non sarebbe più partito un soldo alla volta della Camera apostolica, finché il Pontefice si fosse ostinato a far guerra ai cristiani anziché ai turchi: un ottimo alibi per risparmiar danaro con la scusa della crociata e dell’unità tra i fedeli. Lorenzo, rimasto praticamente solo ed accusato intanto dal Papa di ostacolare con la sua superbia un’azione unitaria dei cristiani contro i turchi (ancora il pretesto della crociata…), non poteva fidarsi neppure del comandante delle sue poche milizie, il duca di Ferrara Ercole d’Este, ch’era genero di Ferdinando di Napoli.

La guerra in Toscana andava male e Venezia, pur avendo fatto pace con i turchi fin dal gennaio 1479, non voleva entrare apertamente nello scontro. Il nuovo signore di Milano, Ludovico il Moro, non faceva intendere da che parte volesse schierarsi. E’ concorde visione degli storici che in tale frangente Lorenzo abbia genialmente rotto l’accerchiamento, che ormai rischiava di sopraffarlo, ricorrendo ai mezzi diplomatici e mostrando a Ferdinando I di non aver alcun interesse a legarsi troppo alla politica

I Martiri di Otranto e il 1480 (VI e ultima parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

Le varie fasi di un lungo processo

Dopo una necessaria rilettura storica degli avvenimenti storici del 1480, torniamo all’origine della breve inchiesta sui martiri di Otranto. Abbiamo detto delle lungaggini del processo canonico. Ad iniziarlo fu l’arcivescovo Pietro Antonio De Capua, coadiuvato dal suo vicario A. De Beccariis, vescovo di Scutari, nel 1539 come “processo informale”, per il riconoscimento del culto degli ottocento. Con il decreto della Sacra congregazione dei Riti, del 14 dicembre 1771, firmato dall’allora pontefice Clemente XIV, venivano dichiarati “Beati”, secondo le norme predisposte da Urbano VIII[1].

Da allora una lunga fase di stallo, ha reso incerto, contraddittorio l’intero iter di avvicinamento al passaggio successivo. Nuovi dubbi, sorti intorno alla dimostrabilità del martirio, le perplessità legate ai cosiddetti prodigi riconducibili alla venerazione degli ottocento e i ritardi nella burocrazia ecclesiastica locale hanno reso in salita il processo di canonizzazione. Solo agli inizi degli anni sessanta, un nuovo improvviso risveglio scuote la chiesa diocesana di Otranto: nel 1962, infatti, l’arcivescovo Gaetano Pollio presentò istanza a Giovanni XXIII, per ottenere la canonizzazione equipollente dei Bb. Martiri. Il suo successore, mons. Nicola Riezzo nominò una commissione di “saggi”, che studiasse la questione storica, per dare una sferzata decisiva al processo: quella commissione preparò la relazione della “Positio super martyrio” (1973), ossia la raccolta di tutte le fonti documentate sul caso, approdando ad una risposta condivisa e definitiva circa le circostanze storiche del martirio. Il 5 ottobre 1980, nella ricorrenza del quinto centenario della beatificazione, Giovanni Paolo II venne ad Otranto, “per venerare i martiri”. L’arcivescovo Vincenzo Franco celebrò il

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