Noi, stranieri due volte – L’emigrazione salentina nel secondo dopoguerra

emigrati

di Gianni Ferraris

Il neo dottor Simone de Luca si è da poco laureato in Scienze della Comunicazione con un’interessante tesi in Storia Contemporanea: Noi, stranieri due volte – L’emigrazione salentina nel secondo dopoguerra.

Una migrazione, come dice nell’introduzione, che “[…]risulta quella meno trattata nella ricerca storiografica sull’emigrazione italiana. Andreina De Clementi attribuisce questa minore attenzione al fatto che la grande ondata migratoria del secondo dopoguerra, durata fino agli anni ’70 del secolo scorso, risulti schiacciata fra la prima grande migrazione della prima metà del ‘900 e l’inizio dei fenomeni di immigrazione che si sono presto manifestati come epocali[…]”

D’altra parte, come si evidenzia sempre nell’introduzione, l’attenzione verso il tema emigrazione è andato scemando dagli anni ’70 a gli anni ’90 del 900. Il dibattito è tornato prepotentemente attuale dai primi anni ’90 con l’arrivo di immigrati prima albanesi e via via fino ai giorni nostri, accendendo luci forti su temi quali “accoglienza, xenofobia e integrazione”. Salento come terra di emigranti prima, di immigrazione poi. Ed oggi ancora una volta terra dalla quale debbono andarsene moltissimi giovani in cerca di lavoro e di una vita, oggi come allora, dignitosa.

Ne abbiamo parlato con il dottor de Luca.

 

Partiamo dal titolo, perché stranieri due volte?

In realtà il titolo è una citazione dell’attore e drammaturgo salentino Mario Perrotta, che nel suo spettacolo Italiani Cincali ha messo in scena la realtà dell’emigrazione. All’inzio del monologo racconta che, da bambino, viaggiava spesso da Lecce a Bergamo per andare a trovare il padre che lavorava lì, e di come, durante il viaggio, chiacchierava con le famiglie di emigranti che viaggiavano su quella tratta. Erano diretti in Belgio, in Svizzera o in Germania, e il bimbo Perrotta ascoltava i loro racconti.

Molti di essi, dice Perrotta, si definivano stranieri due volte, ossia sentivano di non appartenere più alla comunità d’origine, ma non si sentivano neppure totalmente integrati negli usi e costumi dei paesi che li ospitavano come lavoratori.

Anche io, negli anni successivi alla maturità scientifica, frequentando un corso di specializzazione a Como, ho avuto modo di viaggiare spesso in treno sulla linea Lecce – Milano, ascoltando talvolta le esperienze di emigrati salentini che viaggiavano con me, nelle quali spesso si riscontravano esperienze di disagio sociale e sacrificio.

Ho fatto mia l’espressione stranieri due volte come titolo della tesi per sottolineare l’aspetto del disagio sociale che si è spesso accompagnato al fenomeno storico dell’emigrazione.

 

Nella tesi parli di emigrazioni volontarie dettate da due motivi, vuoi spiegare?

L’emigrazione, si legge nei libri, lo spostamento permanente di un individuo o di un gruppo di persone dal proprio luogo di origine ad un altro luogo. Tutti i migranti volontari, ossia coloro che scelgono liberamente di recarsi in un altro paese, sono indotti a questa decisione da fattori di spinta (push factors) e fattori di attrazione (pull factors).

Le migrazioni volontarie devono essere distinte tra quelle dettate dalla necessità di fuggire da condizioni di estrema povertà e quelle nelle quali la scelta dipende dal desiderio di migliorare le condizioni di vita normali. Appartengono al primo caso le popolazioni rurali dei paesi poveri che si ammassano nelle baraccopoli delle grandi città o i migranti provenienti dall’Africa che sbarcano sulle coste siciliane. Al secondo caso appartengono, per esempio, le migrazioni di ricercatori e professionisti verso le più prestigiose università del mondo e nelle varie sedi di imprese multinazionali e organizzazioni internazionali.

 

L’italia, come scrivi, ha subito due grandi ondate migratorie, la prima fra il 1870 e il 1920, la seconda fra il 1946 e il 1973, lo Stato ha reagito nello stesso modo nei due periodi?

No, lo Stato ha assunto due ruoli differenti se confrontiamo le due ondate migratorie. Durante la prima è stato un osservatore neutrale, nel secondo dopoguerra si è fatto promotore dell’emigrazione stessa, coordinando i flussi migratori attraverso gli accordi bilaterali in primis con il Belgio, successivamente anche con Svizzera e Germania.

 

Focalizziamo il secondo periodo, ad un certo punto parli di “baratto” fra Stati nazionali

Si può parlare di baratto in quanto in base agli accordi bilaterali veniva stabilito, è emblematico il caso del Belgio, di inviare in Italia un determinato quantitativo di carbone per ogni scaglione di lavoratori reclutati. Come è noto, gli accordi bilaterali furono stipulati sia per far fronte alla carenza di lavoro ma soprattutto per l’approvvigionamento di materie prime necessarie alla ricostruzione post-bellica.

 

Salentini residenti all’estero, dai tuoi dati risulta che nel 1951 erano 2.106, nel 1961 19.578, nel 1971 26.928 – una popolazione importante ed in costante aumento, perché si emigrava dal Salento?

La ragione è la stessa per cui si emigra oggi: la mancanza di lavoro, uno dei fattori principali che dà dignità all’essere umano in quanto lo rende in grado non solo di vivere ma di progettare il proprio futuro, cosa purtroppo oggi molto difficile. Tornando all’ambito storiografico, possiamo dire che in quel periodo si emigrava dal Salento a causa di un’economia già precaria ancora incentrata sull’agricoltura e sul piccolo artigianato che la guerra aveva ulteriormente messo a dura prova.

 

A partire grosso modo dal 1972 in avanti i rimpatri hanno eguagliato gli espatri, fino a sopravanzarli

Si, nella seconda metà degli anni ’70 il fenomeno dell’emigrazione, seppure ancora presente, si ridimensiona notevolmente. Sono molti coloro che decidono di ritornare in patria perché hanno raggiunto uno status economico migliore che gli permetterà, in molti casi, di poter portare a termine il progetto che li aveva indotti a partire, spesso la costruzione di una casa o l’apertura di una piccola attività.

 

Citi la dura vita dei migranti salentini ed italiani in Belgio, Germania e Svizzera soprattutto, ce ne vuoi parlare?

Parlando di questo argomento è molto facile cadere nel luogo comune e non è mia intenzione farlo.

Dalle testimonianze che ho avuto modo di leggere e ascoltare durante il lavoro di tesi possiamo dire con certezza che sicuramente l’emigrante, almeno all’inizio, non ha avuto vita facile. Ricordiamo che spesso i lavoratori che si recavano all’estero in quel periodo erano semianalfabeti, non conoscevano che gli usi e il dialetto del proprio paese natale. Si trovano improvvisamente catapultati in una realtà completamente diversa per costumi, lingua, economia. Molto spesso sono oggetto di diffidenza e di atteggiamenti xenofobi. Spesso le condizioni di lavoro, almeno nei primi anni, li espongono ad alti rischi, pensiamo alla tragedia di Marcinelle nel 1956.

 

Parliamo dei ritorni, evidentemente questi hanno avuto un impatto sociale ed economico importante sul Salento

Il momento del ritorno è un punto focale della mia ricerca, la condizione di straniero due volte è una condizione mentale legata molto spesso a questo momento. Mi spiego meglio: L’emigrante che dal Salento si sposta in un altro paese vive, al momento dell’arrivo, una prima condizione di estraniamento dovuta all’impatto con la nuova realtà. Se e quando deciderà di ritornare questo estraniamento si verificherà, in molti casi, in senso contrario. La comunità nella quale ritorna è cambiata rispetto al momento della partenza, non è più quella idealizzata durante la permanenza all’estero. Sebbene gli studi scientifici su questo aspetto dell’emigrazione siano davvero esigui o comunque non di carattere ufficiale, in base alle testimonianze di coloro che sono stati costretti a emigrare, si può pensare che in molti casi, il reinserimento potesse rivelarsi addirittura traumatico. Da un punto di vista economico, anche se si tratta di un ambito estraneo alla ricerca storiografica, e anche in questo caso spesso di fonti non ufficiali, si potrebbe dedurre che molto spesso le rimesse degli emigranti siano state usate per la costruzione o ristrutturazione di immobili, acquisto di beni mobili, lo studio dei figli. Ovviamente le interviste che ho avuto modo di consultare costituiscono solo un campione di indagine e una generalizzazione risulterebbe poco scientifica.

 

Oggi il Salento, ma l’Italia intera, è meta di immigrazione di massa da paesi in guerra, ma vede anche una emigrazione di giovani in cerca di lavoro. E’ possibile fare dei paralleli fra la situazione attuale e quella di cui parli nella tua tesi?

Ovviamente, le cose sono molto cambiate da allora ma fare un parallelo viene spontaneo. Le condizioni che spingono i migranti di oggi sulle nostre coste sono senza dubbio differenti da quelle che spingevano i nostri connazionali ad emigrare sessant’anni fa. Pertanto, per non cadere nella banalizzazione è opportuno distinguere, storicamente, i due fenomeni. Se da un lato, almeno dal punto di vista sociale, è facile paragonare i migranti di oggi ai nostri connazionali che emigravano nel dopoguerra, dall’altro è chiaro come le motivazioni che spingono i migranti ad affrontare il mare sui barconi sono più complesse.

É vero, ancora oggi seppure in modalità diverse si emigra dal Salento, ma i giovani che partono oggi molto spesso lo fanno con una laurea o un master in tasca a differenza dei loro nonni, sperando in una realizzazione migliore piuttosto che accettare lavori dequalificanti nel proprio paese.

É anche vero che, come testimoniano documentari e inchieste giornalistiche, c’è un ritorno delle partenze “all’avventura” ma non si può parlare di dati ufficiali senza consultare i dati statistici e non è mia intenzione addentrarmi in un campo che non mi appartiene.

Concludendo, posso dire che la ricerca che ho condotto, oltre a studiare il fenomeno dell’emigrazione da un punto di vista propriamente storiografico, ha voluto mettere in luce la condizione di emigrante come condizione mentale di perenne sospensione tra due mondi, una sorta di limbo in cui l’emigrante, suo malgrado, si è spesso perduto.

Milite Ignoto – quindicidiciotto, uno spettacolo di e con Mario Perrotta

Milite Ignoto [ph Luigi Burroni]
Milite Ignoto [ph Luigi Burroni]

di Tore Scuro

Eroi senza volto. E dimenticati. Sabato 12 marzo (ore 21), al Teatro Cavallino Bianco di Galatina (via Grassi, 0836.569984), va in scena “Milite Ignoto – quindicidiciotto”, uno spettacolo di e con Mario Perrotta, tratto da “Avanti sempre” di Nicola Maranesi e dal progetto “La Grande Guerra, i diari raccontano” a cura di Pier Vittorio Buffa e Nicola Maranesi, collaborazione alla regia Paola Roscioli, luci e suoni Eva Bruno, produzione Permàr/Archivio Diaristico Nazionale/dueL/La Piccionaia. Durata 70 minuti.

Milite Ignoto [ph Luigi Burroni]
Milite Ignoto [ph Luigi Burroni]
Riannodando i fili della Storia con una lingua d’invenzione che impasta tutti i dialetti del nostro Paese, Mario Perrotta racconta il primo, vero momento di unità nazionale, esperienza umana e politica, prima ancora che militare. Lo spettacolo riporta in teatro l’eco lontana delle voci e delle sofferenze dei soldati della prima guerra mondiale che si incontrano in trincea, metafora della perdita di identità di un popolo disgregato nell’immane massacro. Proprio nelle trincee di sangue e fango del primo conflitto mondiale veneti e sardi, piemontesi e siciliani, pugliesi e lombardi si conoscono e si ritrovano vicini per la prima volta, accomunati dalla paura e dallo spaesamento. È questo l’ultimo evento bellico in cui il milite ebbe un qualche valore anche nel suo agire solitario, mentre da quel conflitto in poi il milite divenne “ignoto”, dimenticato in quanto essere umano con un nome e un cognome, un volto e una voce. Nella prima guerra mondiale, gradatamente, anche il nemico diventa “ignoto”, perché non ci sono più campi di battaglia per i “corpo a corpo”, dove guardare negli occhi chi sta per colpire a morte, ma ci sono trincee dalle quali partono proiettili e bombe anonime, senza un volto da maledire prima dell’ultimo respiro. Un conflitto spersonalizzato in cui gli esseri umani coinvolti diventano semplici ingranaggi del meccanismo e non più protagonisti eroici della vittoria o della sconfitta. Così, seduto su sacchi da trincea, tra il fetore del sangue e della carne, Perrotta racconta le piccole storie, gli sguardi e le parole di singoli uomini che hanno vissuto quei tragici eventi.

«Ho scelto questo titolo, Milite Ignoto, perché la prima guerra mondiale fu l’ultimo evento bellico dove il milite ebbe ancora un qualche valore anche nel suo agire solitario, mentre da quel conflitto in poi, anzi, già negli ultimi sviluppi dello stesso, il milite divenne, appunto, ignoto. E per ignoto ho voluto intendere “dimenticato”: dimenticato in quanto essere umano che ha, appunto, un nome e un cognome. E una faccia, e una voce. E proprio per questo – come sempre accade nel mio lavoro – andrò controcorrente e la mia attenzione sarà diretta alle piccole storie, agli sguardi e le parole di singoli uomini che hanno vissuto e descritto quegli eventi dal loro particolarissimo punto d’osservazione, perché questo è il compito del teatro, o almeno del mio teatro: esaltare le piccole storie per gettare altra luce sulla grande storia», annota Mario Perrotta, attore, regista e drammaturgo leccese, considerato una delle figure di spicco del nuovo teatro italiano.

 

Milite Ignoto [ph Luigi Burroni]
Milite Ignoto [ph Luigi Burroni]

Mario Perrotta ci racconta Ligabue, “Un bes”

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di Gianni Ferraris

“Étrange (straniero, diverso) è una parola scomponibile: être-ange (essere-angelo). Dall’essere angeli ci mette in guardia l’alternativa dell’essere stupidi.” (J. Lacan, Seminario XX, p. 9)

 

La citazione di Lancan la rubo dall’amico Mimmo che su FB commentava l’ episodio a cui ha assistito:  un clochard costretto a consumare in una sala d’aspetto un piatto che non aveva, evidentemente, diritto di mangiare al tavolo della mensa accanto che glielo aveva fornito. Forse non poteva sedere a tavola in quanto clochard, senza casa, senza tetto. Senza dignità?

E quelle parole mi sono balzate in mente ieri sera, memorabile 10 dicembre 2014 in quel di Nardò. Il teatro Comunale non è grande, ed è stipato di spettatori, Mario Perrotta ci racconta Ligabue, “Un bes”.

L’attore (e autore) non recita il personaggio, lui è il personaggio. Solo in scena in questo crescendo carico di tensione emotiva, Ligabue che passa la vita dipingendo con rabbia la mancanza di “un bes”, un bacio, dell’affetto che nessuno ha mai saputo dargli. La Svizzera non sopporta i matti nel suo lindo territorio, allora approfitta del cognome e della nazionalità del suo padre acquisito per cacciarlo in Italia, il paese si chiama Gualtieri, in agro di Reggio Emilia. E come ogni paese sopporta “el mat” “el tudesc”, il matto, il tedesco. Quel bizzarro personaggio che girovaga per strade e boschi dipingendo e scambiando quadri con un piatto di minestra, che parla un misto di emiliano e tedesco, che guarda le donne e cerca solo, banalmente affetto. Ma l’è mat, neppure le puttane lo vogliono “sono sporco, mi ha detto”.

Avevo già incontrato Mario Perrotta quando presentava al pubblico per le prime volte il suo “Un bes”, in una lunga intervista si diceva fra l’altro: 

“Nella presentazione dici che Ligabue artista sapeva di meritarlo quel bacio, il pazzo invece doveva elemosinarlo”.

Certamente. Ligabue aveva una perfetta coscienza di sé e del suo valore artistico. Amava ripetere: “quando sarò morto i miei quadri varranno un sacco di soldi”. Non era assolutamente lo scemo del paese, come amavano pensare i suoi compaesani, semmai lo faceva perché gli tornava comodo. Sapeva che, in quanto artista, avrebbe meritato attenzione e sperava che quell’attenzione si concretizzasse anche in affetto da parte di qualcuno, in modo particolare di una donna. Ma questo, come detto, non avvenne mai neanche dopo quel poco di fama che arrivò negli ultimi anni della sua vita. Semmai, tentarono di sfruttarlo, anche le donne, ma lui questo lo sapeva e a volte si vendicava in modo feroce, facendosi pagare dei quadri in anticipo e poi realizzando delle opere brutte (a suo stesso dire!).

“Le ultime parole delle righe che hai messo nel tuo sito, parlando dello spettacolo, sono: “Voglio stare anch’io a guardare gli altri. E sempre sul confine, chiedermi qual è il dentro e quale il fuori”.

Mi ricorda un amico, Adriano Sofri, che capitò in una sventura giudiziaria e ci salutava dal carcere di Pisa dicendo: “Ciao da noi chiusi dentro a voi chiusi fuori”.  

Sicuramente lo “stare al margine” è una condizione che mi affascina molto, sin dal progetto dedicato ai nostri emigranti degli anni ’50 e ’60. E’ una condizione limite, appunto, che trova rispondenza ancora una volta in un’esperienza profondamente mia legata all’infanzia. Da figlio di genitori separati nel sud di 40 anni fa, il rischio di essere messo al margine per questa condizione era forte e ho dovuto sempre lottare per restare invece “all’interno della cerchia”, tanto che spesso, finivo per ritrovarmi al centro della stessa, troppo al centro, esattamente come se stessi in scena a teatro (ecco che non mi è stato difficile il passaggio da un “palcoscenico” all’altro).

Nel mio caso poi, questa paura di veleggiare sul limite si è andata dissolvendo con il passare del tempo ed è diventata solo un ricordo mentre, per quanto concerne la condizione di “malato di mente”, è connaturata ad essa anzi, è il suo superamento perché il limite sono i cancelli e le mura del manicomio o i muri invisibili che le persone ergono tra loro e te. E una volta che i muri sono saliti, tu malato di mente ti trovi oltre essi e quindi sei “fuori”. Fuori dal consesso umano che ti ha rigettato. Ma, al contempo, gli stessi uomini che si autodefiniscono “sani”, guardando le mura di un manicomio si definiscono “fuori”, mentre i malati sono “dentro”. E allora? Qual è il dentro e qual è il fuori? Esattamente come nella condizione carceraria e in qualunque condizione di diversità sancita da un confine: esso stesso determina un dentro e un fuori differente secondo il lato su cui ci si trova. Mi viene in mente una parola leccese – ‘ppoppeti – che i cittadini di Lecce usano per indicare in modo irriverente “quelli di provincia”. Il suo etimo è latino e cioè: post oppidum, oltre le mura della città.

Il guaio è che anche “quelli di provincia” usano la stessa espressione per indicare con la stessa irriverenza “quelli della città” perché, dal loro lato del confine, noi cittadini siamo effettivamente ‘ppoppeti, ossia oltre le mura. Ecco che, ancora una volta, un confine determina una discriminazione bilaterale e a furia di annotare situazioni del genere, mi viene da pensare che è il concetto stesso di confine ad essere sbagliato.

 

E in altra intervista pubblicata recentemente sulla rivista della Fondazione Terra d’Otranto “Il Delfino e la mezzaluna”, alle pagg. 216/223,  racconta dell’impellenza di parlare della diversità, di viverla:

Vorrei farti una domanda personale. Sei diventato padre, ne vuoi parlare?

il progetto Ligabue nasce per questo. sapevo che sarei diventato padre di un bimbo o una bimba che arrivava dal centro africa. Non sapevo da dove nè l’età, né il sesso, l’unica certezza era che sarebbe stato nero. Per qualcuno è un problema, per me una ricchezza. Gabriele è arrivato dall’Etiopia e un giorno vorrà riscoprire le sue tradizioni. So che qualcuno gli farà notare la sua differenza. Mi sono chiesto se saremo in grado di aiutarlo a superare questi scogli. Lo sapremo un tempo. Queste tensioni mi hanno fatto tirar fuori il progetto Ligabue. Un “diverso” era la figura che mi permetteva di parlare di me e delle mie tensioni.  Come vedi non è una domanda personale, è artistica. i miei testi sono le mie urgenze. Privato e scena si intrecciano.

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Parole nella quali la parte “razionale” ha il sopravvento, è la logica dell’offrire una visione della diversità al pubblico, del dare un senso a quella che chiamiamo pazzia giusto per togliercela di torno e tornare alla nostra “normalità” mentre “el mat” crea, vede il mondo con occhi diversi, rivendica un bes, un abbraccio, comprensione non per il suo stato ma per il suo essere “umano”. Il paese lo deride ma acqusita i suoi quadri, i “normali” si fanno dipingere il furgoncino che poi rottameranno senza rendersi conto di quel che fanno, pur se legati a filo doppio al valore venale del denaro, neppure sanno di aver rottamato un’opera d’arte, lo capiranno solo quando l’artista morirà e i suoi quadri avranno l’onore di essere “opere d’arte”.

Non avevo mai avuto l’onore e il piacere di vedere lo spettacolo, ne avevo solo parlato con Mario. Arrivò in primavera a Lecce, è vero, ma per una sola sera e in un teatro piccolo per un artista così immenso, il Paisiello, non trovai il biglietto. Ora è tornato in un teatro altrettanto bello e altrettanto piccolo. Ancora una volta per una sola sera. L’ho visto ed ho capito di getto tutte le cose che Mario, in due interviste, non è stato capace di dirmi, non poteva farlo: l’impatto emotivo dello spettatore. Commuoversi di fronte ad una piece teatrale non è usuale per me, lasciarsi andare e passare dalla storia narrata a “oltre la storia” non è facile. Questa volta è successo, ed ho visto altre lacrime fra gli spettatori. Mi sono commosso e sono riuscito a trapassare la storia narrata, a veder nascere quadri (Mario in scena disegna anche bene con tratti di carboncino su fogli grandi). Ho visto la grandezza del diverso e l’immensità dell’artista. Ho visto, per dirla con Lacan, un Etrange, un angelo rabbiosamente fiero e senza l’affetto che lo renderebbe una persona altra, diversa.

E tornando a Lecce, nella notte limpida e senza luna, pensavo a come sono grette le città di provincia, a volte, quando disdegnano i loro geni, li emarginano, li snobbano. Lecce austera potrebbe, dovrebbe riabbracciare con serena calma e pacatezza i suoi “mat”, i guitti, quelli che scommettono e creano. Dovrebbe riconoscere gli artisti quando ancora hanno molto da dare.  Qui ed ora per favore!

 

 

 

Premio UBU (l’oscar italiano per il teatro) a Mario Perrotta

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di Gianni Ferraris

 

“Per aver saputo cogliere la disgregazione del mondo contemporaneo”.

Questa è la motivazione del premio UBU (l’oscar italiano per il teatro) a Mario Perrotta. Cinquantatre critici, al teatro Grassi di Milano, hanno voluto premiare con il premio speciale il salentino che vive a Bologna, ma che a Lecce ha iniziato a camminare con la recitazione. Il curriculum di Mario Perrotta lo troviamo sul suo sito (ww.marioperrotta.com) e rende bene l’idea di questo autore/attore che si porta appresso storie molto salentine come Italani Cincali, la Turnata, Emiganti express, per arrivare alla trilogia sull’individuo sociale: Il Misantropo di Moliere, I cavalier idi Aristofane, Atto finale di Flaubert. Regista di opera lirica a Spoleto, fino al lavoro finale, l’incredibile e stupendo: Un bes – storia di Antonio Ligabue, a cui è legato il progetto Ligabue  (www.progettoligabue.it) .

Un solo enorme rammarico per la città di Lecce, incomprensibilmente Mario Perrotta sembra non trovare posto per portare il suo teatro e la sua arte in Salento. Un figlio di questa città e di queste terre che racconta con forza, sembra dimenticato. Ricordiamo altri snobbati da questa terra, ricordiamo Antonio Verri, il poeta citato in ogni dove e altri ancora. Ora Mario è un artista da oscar, vediamo se ancora c’è la voglia di scordarlo mentre in Europa lo vogliono in tantissimi. Penso non occorra neppure fargli delle scuse, è sufficiente aprirgli i teatri.

 

Curriculum di Mario Perrotta

2013

31 maggio – debutta in Prima nazionale al Festival Primavera dei Teatri lo spettacolo “Un bès – Antonio Ligabue” con il quale Perrotta inaugura il nuovo progetto triennale.

2012

Ottobre – Su RAI3 va in onda la seconda serie di “Paradossi Italiani”, 4 micromonologhi per la trasmissione Sabato Notte del Tg3.

Settembre – Debutta nell’opera lirica, scrivendo e firmando la regia di “Opera migrante” per il Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto. L’opera composta da due atti (Andante italiano alla belga/Musica di Lucio Gregoretti e Fuga straniera con moto/Musica di Andrea Cera) è diretta dal Maestro Marco Angius.

Maggio – Settimana di permanenza/direzione artistica al Teatro Valle Occupato, dove propone tre spettacoli e due laboratori.

Febbraio – Debutta su RAI3 “Paradossi Italiani”, una serie di micromonologhi per la trasmissione Sabato Notte del Tg3.

2011

12 dicembre – Teatro Piccolo di Milano: Perrotta vince il Premio Speciale Ubu, il più ambito riconoscimento teatrale italiano, per la Trilogia sull’individuo sociale “del quale coglie la disgregazione nel mondo contemporaneo” (dalla motivazione).

4 settembre – debutta in prima nazionale al Festival Castel dei Mondi “Atto finale – Flaubert” il terzo e ultimo capitolo della Trilogia sull’individuo sociale.

12 maggio – nell’Aula Magna dell’Università di Bologna, interpreta la sua Odissea, preceduto dalla splendida lezione dello psicanalista Massimo Recalcati “Patris imago – conoscere il padre”. 1700 spettatori.

28 aprile – grande successo di pubblico e di stampa a Bruxelles con la regia del suo Italiani cincali, nella versione francese interpretata da Hervé Guerrisi, anche traduttore del testo.

24 marzo – debutta in anteprima con lo spettacolo Il Paese dei diari, tratto dall’omonimo romanzo scritto nel 2009. La Prima nazionale va in scena in giugno all’interno della settima edizione del Biografilm Festival.

2010

4 settembre – Prima nazionale de I Cavalieri-Aristofane cabaret, al Festival Castel dei mondi di Andria.

27 agosto – in onda su Rai3 con 6 nuovi monologhi per la trasmissione televisiva La Grande Storia.
La puntata del programma dedicata all’emigrazione italiana è accompagnata dai monologhi scritti da Perrotta, che scandiscono le tappe del documentario.

Luglio – anteprime de I Cavalieri-Aristofane cabaret. Seconda tappa della trilogia inaugurata da Misantropo.

2009

Il 30 settembre esce in libreria Il Paese dei Diari il secondo romanzo di Perrotta edito da Terre di Mezzo.

A luglio è ospite speciale di una tappa del tour di Simone Cristicchi, insieme a Laura Morante e Andrea Camilleri.

24 giugno – debutta Il Misantropo di Molière. Lo spettacolo inaugura il nuovo progetto triennale “Trilogia sull’inviduo sociale” che si completerà con Aristofane (2010) e Flaubert (2011).

20 giugno – vince il Premio Hystrio per la drammaturgia 2009 con lo spettacolo Odissea.

Febbraio – E’ invitato a Parigi insieme a Stefano Benni, Massimo Carlotto e Valeria Parrella per la “Festa del libro e della cultura italiana”.

Gennaio – finalista ai premi Ubu 2009 nella categoria Miglior Attore per lo spettacolo Odissea.

2008

16 novembre – per “Il consiglio teatrale” diretta de La turnata su Rai Radio3.

8 novembre – Debutta lo spettacolo Prima Guerra, dedicato all’esperienza dei trentini nel primo conflitto mondiale. In scena con lui, Paola Roscioli e gli stessi musicisti di Odissea.

Il 13 settembre riceve il Premio Città del Diario 2008, assegnato in precedenza a Marco Paolini, Ascanio Celestini e Rita Borsellino dall’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve S. Stefano (AR).

Il 20 marzo esce in libreria Emigranti Espréss pubblicato da Fandango Libri.

2007

Il 16 novembre debutta in prima nazionale Odissea, il nuovo spettacolo scritto, diretto e interpretato per la Compagnia del Teatro dell’Argine. Le musiche di scena sono composte ed eseguite dal vivo da Mario Arcari e Maurizio Pellizzari.

Ottobre – Concorso radiofonico internazionale della TRT, Radio Televisione Turca. Primo Premio all’inglese BBC per Mummies and Duddies.
La trasmissione Emigranti Esprèss di Perrotta per Radio Rai 2, vince il Premio Speciale della Giuria.

Settembre – La trasmissione Emigranti Esprèss è finalista al Prix Italia, premio internazionale per la radio, televisione e web.

Estate – Presentazione studio di Odissea, con musiche dal vivo dei Tetes de Bois.

Febbraio – Presentazione a Roma (Teatro Palladium) e a Milano (Teatro dell’Elfo) di una mostra fotografica e un documentario con le interviste realizzate nei quattro anni di lavoro dedicati all’emigrazione. L’allestimento della mostra è contestuale ai giorni di replica dei due spettacoli del Progetto Cìncali.

2006

Il 18 dicembre debutta su Radio Rai Due il programma Emigranti Esprèss, 15 puntate in musica e parole tra storie e voci di emigrazione.

Il 21 settembre la Compagnia del Teatro dell’Argine riceve il Premio Hystrio – ANCT consegnato presso il Teatro Argentina di Roma.

Reading di Caos Calmo accompagnato dal vivo dai Tetes de Bois. Lo spettacolo è preceduto dall’intervista all’autore Sandro Veronesi realizzata da Stefano Tassinari all’interno della rassegna La parola immaginata.

Pubblicazione per il settimanale Diario di un lungo articolo sulla commemorazione dei 50 anni della tragedia mineraria di Marcinelle.

Febbraio – Direzione artistica insieme a Rossella Battisti della collana in DVD “Teatro Incivile” per il quotidiano L’Unità. Presenti nella collana: Ascanio Celestini con Fabbrica, Mario Perrotta con Italiani cìncali! parte prima:minatori in Belgio, Emma Dante con ‘mPalermu, Davide Enia con maggio ’43, Giuliana Musso con Nati in casa e Armando Punzo con I Pescecani ovvero quel che resta di Bertolt Brecht.

2005

Settembre – Debutta La turnàta – Italiani cìncali parte seconda
Festival Bella Ciao diretto da Ascanio Celestini. Lo spettacolo è scritto insieme a Nicola Bonazzi ed è prodotto dalla Compagnia del Teatro dell’Argine.

Luglio – Presenta al Mittelfest e al Festival dei Mondi uno studio preparatorio per il secondo capitolo del Progetto Cìncali.

2004

Italiani cìncali è finalista al Premio Ubu come miglior testo italiano.

Durante la tournée all’estero di Italiani cìncali, raccoglie 60 ore di interviste, su cui costruirà il secondo capitolo del Progetto Cìncali.

2003

Novembre – Targa commemorativa della Camera dei Deputati allo spettacolo Italiani cìncali con la seguente motivazione: “All’attore e regista Mario Perrotta e al drammaturgo Nicola Bonazzi, per l’alto valore civile del testo e per la straordinaria interpretazione che ricostruisce con assoluta fedeltà una parte della nostra storia che non possiamo dimenticare”

Settembre – Debutta Italiani cìncali! parte prima: minatori in Belgio scritto insieme a Nicola Bonazzi – Compagnia del Teatro dell’Argine.

Mercante di Venezia di Shakespeare, regia Elio De Capitani – Teatro dell’Elfo – Festival shakespeariano di Verona

Direzione artistica della terza edizione del Festival Otranto In Scena.

Dirige e interpreta per l’Università di Bologna la Casina di Plauto, tradotta da Francesco Guccini in dialetto pavanese. Sulla scena anche lo stesso Guccini nelle insolite vesti d’attore.

2002

Dedica gran parte dell’anno alla ricerca di materiale per il Progetto Cìncali, raccogliendo quasi 100 ore di registrazioni in Italia e all’estero.

Drammaturgia e regia di Billie Holiday – la signore canta il jazz, concerto per due attrici, pianoforte e contrabbasso.

Luglio – Direzione artistica della seconda edizione del Festival Otranto In Scena.


2001

Houdini! vita, morte, miracoli di Luca Barbuto, regia Andrea Paolucci – Compagnia del Teatro dell’Argine.

Progetta e dirige la prima edizione del Festival Otranto In Scena che ospiterà tra gli altri: Peppe Barra, Paolo Rossi, Teatro dell’Elfo, Laura Curino, Ascanio Celestini.

Drammaturgia e regia di Utòpolis Cabaret, dai testi di Aristofane, per tre attori, pianoforte e one man band.

La sera della prima di Cromwell – Compagnia Rossella Falk

2000

Drammaturgia e regia di Molière suite

Variazioni Enigmatiche di Schmitt – Compagnia Glauco Mauri

Film Piccolo mondo antico regia Cinzia Th Torrini

1999

Dodicesima notte di Shakespeare regia Lorenzo Salveti – Teatro Stabile Abruzzese

Regia de La Moscheta di Ruzzante – Compagnia della Gàbola


1998

La Compagnia del Teatro dell’Argine vince il bando di concorso per la gestione del Teatro ITC di S. Lazzaro di Savena

La Locandiera di Goldoni regia Lorenzo Salveti – Festival di Borgio Verezzi

Il sotterraneo e il sogno di Nicola Bonazzi – Teatro dell’Argine

Drammaturgia e regia di Giovanni ed io dal Don Giovanni di Moliére

1997

Film Senza Paura – regia Marco Melega

Con la Compagnia del Teatro dell’Argine interpreta testi di Beckett, Savinio e Verga.

1996

Film Il quarto re – regia Stefano Reali

La commedia degli errori di Shakespeare – Teatro dell’Argine


1995

Isabella, tre caravelle e un cacciaballe di Dario Fo – Teatro Dehon

Agamennone di Alfieri – Teatro dell’Argine

1994

Enrico IV di Pirandello e il Malato immaginario di Moliére – Teatro Dehon

Lisistrata di Aristofane – Teatro dell’Argine


1993

Avaro di Moliére – Teatro Dehon

Noccioline scritto da Pietro Floridia e Andrea Paolucci e diretto da Paolucci per il Teatro dell’Argine.

Si diploma insieme a tutti i futuri fondatori del Teatro dell’Argine presso la scuola di teatro Colli di Bologna.

 

Dam un bes. Antonio Ligabue e Mario Perrotta

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di Gianni Ferraris

 

Antonio (Toni) Ligabue nacque in Svizzera nel 1899, da Elisabetta Costa e da padre ignoto, nel 1919 si dovette trasferire a Gualtieri (Reggio Emilia), paese del marito di sua madre, Bonfiglio Laccabue, perché indesiderato nel paese Elvetico. Là solo i sani di mente, solo chi profuma di denaro e cioccolato ha diritto ad avere patria, il genio lo cacciano via, in particolare quando è ritenuto folle.  In Italia, nella bassa reggiana, diventa “el matt” o “El tedesc” per via del suo forte accento, e del fatto che entra ed esce da case di cura (manicomi). Ligabue preferisce gli animali alla vita da osteria. Si arrabatta tra mille lavoretti e impasta la creta per fare statuette che scambia con cibo. Un lavoro fisso non l’ha mai avuto, aveva però una Guzzi rossa con la quale scorazzava per le campagne, dormiva nei capanni in riva al Po e parlava poco e male l’italiano. Durante la seconda guerra, leggo, fece anche da interprete per i tedeschi, nel 44 però, dicono le cronache, spaccò una bottiglia in testa ad uno di loro e fu nuovamente in manicomio. Ogni tanto si faceva del male anche, tentava di raddrizzare a sassate il suo naso immenso e storto. Intanto, verso la fine degli anni ’20,  l’incontro con il pittore Marino Renato Mazzacurati lo cambia, gli vengono regalati colori e tele. Il dopoguerra lo consacra “pittore naif” “artista pazzo” autodidatta. Famose le sue belve, gli animali che ama dipingere perché li conosce senza averli mai visti,  prendendo spunto da illustrazioni su libri. Quegli stessi animali di cui diceva: “so come sono fatti anche dentro”. Un Van Gogh delle nostre terre, un genio che sapeva dire con l’arte le sue emozioni. Morì nel 1965.

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Una storia che non è sfuggita a Mario Perrotta, che sta portando in giro per l’Italia “Un bes – Antonio Ligabue” (Un bès in dialetto emiliano significa: un bacio)

Ne abbiamo parlato con l’autore attore.

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“Intanto, come mai Ligabue?”

Tutto è iniziato così. Durante una replica del mio spettacolo Odissea a Gualtieri – il paese d’origine di Ligabue – ho visto una sua gigantografia e un busto a lui dedicato ed è stata una strana epifania: per quelli della mia generazione tra i 40 e i 45 anni, Ligabue era ed è lo sguardo ad occhi sgranati e smarriti di Flavio Bucci nello sceneggiato Rai degli anni ’70. Uno sguardo terrifico per chi, come me, aveva otto anni e subiva l’apparizione del “diverso”, del bambino indifeso che diventa una bestia. Il ricordo di quel terrore e quella fascinazione infantile, unito alla vista dei luoghi dove aveva vissuto, hanno scatenato un nuovo innamoramento per questo personaggio. Ma questo non sarebbe bastato per impostare un intero progetto teatrale su di lui, ma di questo dirò tra in seguito.

 

“Dam un bes è un titolo drammatico, per una vita come la sua un bacio, in fondo, è poca cosa, però pare vitale”

E sì! Si tratta del bacio mancato, quello della madre biologica, e poi quello della madre adottiva, e poi ancora quello della donna che non ha mia avuto e, infine, il bacio di chiunque pur di sentire una qualunque vicinanza umana. Ma niente. Per Ligabue tutto questo non fu dato e la sua è una vita di assenza di affetti. Intorno a questa assenza, a questa castrazione continua, ho costruito tutta la vicenda teatrale e il rapporto che il personaggio ha con il pubblico presente in sala, un rapporto che si basa sulla coscienza che neanche loro, gli spettatori, saranno disposti a donargli quel “momento di bene” che lo farebbe sentire finalmente accettato.

 

“Nella presentazione dici che Ligabue artista sapeva di meritarlo quel bacio, il pazzo invece doveva elemosinarlo”.

Certamente. Ligabue aveva una perfetta coscienza di sé e del suo valore artistico. Amava ripetere: “quando sarò morto i miei quadri varranno un sacco di soldi”. Non era assolutamente lo scemo del paese, come amavano pensare i suoi compaesani, semmai lo faceva perché gli tornava comodo. Sapeva che, in quanto artista, avrebbe meritato attenzione e sperava che quell’attenzione si concretizzasse anche in affetto da parte di qualcuno, in modo particolare di una donna. Ma questo, come detto, non avvenne mai neanche dopo quel poco di fama che arrivò negli ultimi anni della sua vita. Semmai, tentarono di sfruttarlo, anche le donne, ma lui questo lo sapeva e a volte si vendicava in modo feroce, facendosi pagare dei quadri in anticipo e poi realizzando delle opere brutte (a suo stesso dire!).

 

“Le ultime parole delle righe che hai messo nel tuo sito, parlando dello spettacolo, sono: Voglio stare anch’io a guardare gli altri. E sempre sul confine, chiedermi qual è il dentro e quale il fuori. Mi ricorda un amico, Adriano Sofri, che capitò in una sventura giudiziaria e ci salutava dal carcere di Pisa dicendo: “Ciao da noi chiusi dentro a voi chiusi fuori”. 

Sicuramente lo “stare al margine” è una condizione che mi affascina molto, sin dal progetto dedicato ai nostri emigranti degli anni ’50 e ’60. E’ una condizione limite, appunto, che trova rispondenza ancora una volta in un’esperienza profondamente mia legata all’infanzia. Da figlio di genitori separati nel sud di 40 anni fa, il rischio di essere messo al margine per questa condizione era forte e ho dovuto sempre lottare per restare invece “all’interno della cerchia”, tanto che spesso, finivo per ritrovarmi al centro della stessa, troppo al centro, esattamente come se stessi in scena a teatro (ecco che non mi è stato difficile il passaggio da un “palcoscenico” all’altro).

Nel mio caso poi, questa paura di veleggiare sul limite si è andata dissolvendo con il passare del tempo ed è diventata solo un ricordo mentre, per quanto concerne la condizione di “malato di mente”, è connaturata ad essa anzi, è il suo superamento perché il limite sono i cancelli e le mura del manicomio o i muri invisibili che le persone ergono tra loro e te. E una volta che i muri sono saliti, tu malato di mente ti trovi oltre essi e quindi sei “fuori”. Fuori dal consesso umano che ti ha rigettato. Ma, al contempo, gli stessi uomini che si autodefiniscono “sani”, guardando le mura di un manicomio si definiscono “fuori”, mentre i malati sono “dentro”. E allora? Qual è il dentro e qual è il fuori? Esattamente come nella condizione carceraria e in qualunque condizione di diversità sancita da un confine: esso stesso determina un dentro e un fuori differente secondo il lato su cui ci si trova. Mi viene in mente una parola leccese – ‘ppoppeti – che i cittadini di Lecce usano per indicare in modo irriverente “quelli di provincia”. Il suo etimo è latino e cioè: post oppidum, oltre le mura della città.

Il guaio è che anche “quelli di provincia” usano la stessa espressione per indicare con la stessa irriverenza “quelli della città” perché, dal loro lato del confine, noi cittadini siamo effettivamente ‘ppoppeti, ossia oltre le mura. Ecco che, ancora una volta, un confine determina una discriminazione bilaterale e a furia di annotare situazioni del genere, mi viene da pensare che è il concetto stesso di confine ad essere sbagliato.

 

 

“E’ un pezzo unico o ci racconterai ancora Ligabue?”

Come ho detto l’incontro di Gualtieri con Ligabue ha messo in moto un intero progetto e non solo per le ragioni dette sopra, che sarebbero insufficienti. Provo a spiegare.

Anche questa nuova avventura, come tutti i miei spettacoli, ho dovuto attendere che si presentasse per una sua urgenza intima. Inizialmente fai difficoltà a coglierla ma, come sempre, procedendo con il lavoro, scrivendo, cancellando, intervistando persone, salta agli occhi all’improvviso quella connessione segreta con la tua vita, con gli affanni, le preoccupazioni di quella fase della tua esistenza e allora capisci il perché profondo di ciò che stai mettendo in atto sulla scena.

Infatti, avevo iniziato a lavorare con un punto di domanda ancora aperto sulle ragioni intime della mia scelta poi, un giorno, senza alcuna causa apparente c’è stata la “rivelazione”. La spiego così: nelle prossime settimane diventerò finalmente padre di un bimbo meraviglioso che arriva dall’Etiopia. Io e mia moglie, come tutte le coppie adottive, abbiamo percorso un lungo cammino, dovuto ai tempi di legge, per arrivare a concludere l’adozione. E in questi anni molte sono state le domande e i dubbi su cui abbiamo ragionato. Tra questi, uno dei più impellenti era il seguente: mio figlio arriva dall’Africa e porta con sé tutti i segni distintivi della sua origine, compreso il colore della pelle; noi, ovviamente, non porremo la minima attenzione a questo ma qualcuno, nel tempo e nei luoghi che frequenteremo, potrà, invece, puntualizzare questa “diversità” (in aggiunta all’altra diversità altrettanto evidente che è un bambino adottato); bene: sapremo dare a nostro figlio gli strumenti critici per accettare e comprendere questa puntualizzazione che, per quanto inopportuna e stupida, in alcuni casi accadrà inevitabilmente?

E’ chiaro che, nel tempo, abbiamo trovato risposte razionali e di buon senso a questo dubbio ma dal punto di visto emotivo avevo ancora bisogno di “tirar fuori” e allora, ecco che l’incontro con il “diverso” per eccellenza – Antonio Ligabue il pazzo, il genio, lo straniero, il reietto –  ha scatenato il corto circuito che ha dato vita all’intero progetto. Attraverso la sua figura potrò dissolvere anche le ultime tracce di quei dubbi e quelle domande di cui ho appena scritto.

Infine: è proprio l’urgenza della domanda che determina la forma e la durata del progetto. Trovo riduttivo fermarsi a un solo spettacolo per esaurire un argomento così profondo. Ho bisogno, invece, di respirare lungo, di indagare diversi aspetti della vicenda di Ligabue, partendo dall’uomo, lo scemo del paese, che è l’oggetto del primo spettacolo Un bès – Antonio Ligabue, per poi occuparmi dei suoi quadri e delle sue sculture fino ad arrivare al rapporto tra il suo paesaggio interiore, la Svizzera mitica della sua infanzia, e quello esteriore, la pianura padana con il grande fiume Po.

 

“Progetti futuri?”

Ancora due anni, appunto, dietro al Toni Ligabue, con una marea di iniziative satellite tutte da scoprire ma che rimando al sito del progetto che è www.progettoligabue.it

Mario Perrotta e cincali parte seconda

di Gianni Ferraris

Lo sapevo che mi avrebbe fatto sorridere e commuovere Mario Perrotta. Il teatro romano non era pieno, ahinoi, chissà perché i leccesi non corrono a rendere omaggio a questo leccese che ha talento e capacità, che porta in giro per il mondo la migrazione dei salentini con una incredibile capacità affabulatoria. Riesce ad incollarti sulla poltrona, anche se è solo un sedile di pietra come si conviene agli anfiteatri romani.

“La turnata – Italiani cincali parte seconda” è il titolo, e racconta di bimbi chiusi per anni in una camera perché la legge elvetica non consente ad un immigrato di portarsi i figli. Succedeva con i pugliesi allora, oggi con i turchi, gli slavi e gli altri immigrati. Nulla è cambiato nel mondo della cioccolata fondente e delle banche. Nulla muta nell’indifferenza dell’Europa che, tutto sommato, invidia la terra sedicente neutrale e che utilizza questo status per ripulire i quattrini di ogni più nefanda tirannia ed ogni traffic odi armi, in alcuni stati extra comunitari e non solo le norme anti immigrati, che sono nei fatti incivili,  sono quotidianità anche se hanno nomi diversi, possono chiamarsi Bossi Fini o pinco pallino, la sostanza non muta.

La “turnata”  si distingue dalla “’enuta” anche se ne ha lo stesso significato, entrambe significano ritorno. La seconda però è una cosa lieve, temporanea. Ha il sapore delle auto pulite e grandi degli immigrati che arrivavano per le ferie ostentando ricchezza con i coprivolanti di pelo e le tendine ai finestrini “come fanno i tedeschi”. Quelli che andavano al bar del paese a testa alta, come chi ce l’aveva fatta, salvo poi tornare nel mondo dell’assurdo, delle baracche, dei cartelli “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”. Ma questo non si poteva dire, erano i pugni chiusi per nascondere lo sporco delle mani. La “turnata” è invece per sempre e significava l’avercela fatta. Quasi sempre, nella storia narrata da Mario c’è il nonno morto che non può essere affidato al ritorno su mezzi convenzionali perché costa troppo e viene portato al suo paese, per la sua “turnata” come passeggero sulla Giulia 1300, assieme a tutta la famiglia, compreso il bimbo nascosto nel bagagliaio perché non avrebbe dovuto essere “alla Svizzera”.

La capacità narrativa di questi nuovi guitti, parlo di Mario che ci racconta i migranti in Belgio e in Svizzera e parlo di Paolini che ci ha sapientemente raccontato il Vajont e non solo, sarebbe da portare in ogni scuola. La storia narrata in questo modo, documentata e supportata di ore di registrazioni di testimonianze, da viaggi ad ascoltare l’uomo blu di Casarano, piuttosto che il tunisino che, sempre a Casarano, vive e che racconta del perché gli immigrati antichi siano a loro volta guardinghi, quasi razzisti verso i nuovi migranti “perché lo schiavo liberato diventa spesso schiavista”, è La Storia (maiuscolo) che tutti quanti dovremmo conoscere. In un breve dialogo prima dello spettacolo, Mario mi parlava di Cincali due come della chiusura di un cerchio. “Chissà se ora indagherà sulla ripresa della vita al ritorno degli emigranti nei loro paesi” mi diceva Angelo uscendo da lì. Ovviamente giro la domanda a Mario. E’ veramente chiuso questo cerchio? Se non lo fa lui questo sforzo sarà difficile leggerlo in modo ironico e apparentemente leggero nelle pagine di qualche saggista. Sarebbe altra cosa.

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2011/07/21/esclusivo-mario-perrotta-intervistato-da-gianni-ferraris/

Mario Perrotta intervistato da Gianni Ferraris

di Gianni Ferraris

  • Dalle note biografiche di Mario Perrotta sappiamo che è nato nel 1970 a Lecce, dovrà arrivare al 1980 per iniziare a vincere “a chi arriva più in alto”, arrampicandosi sulle impalcature dei palazzi in costruzione raggiungerà il quinto piano, record imbattuto per ben 5 anni. Uno spunto non da poco, stai ancora arrampicando?

Sì, sto ancora arrampicando, poiché quel senso di sfida mi aiuta ancora oggi nel tentare nuove vie (proprio come gli scalatori che cercano di aprire “nuove vie” per scalare lo stesso monte).

In realtà, ho scoperto abbastanza presto che la sfida non era con gli altri ma con me stesso: volevo sapere se ce la potevo fare e, soprattutto, se potevo arrivare a qualcosa rompendo un protocollo o una barriera consolidata nel tempo. La sfida al “questo si fa così da sempre”, al “questo non sei in grado di farlo” è una delle due molle che mi tiene in piedi, quella più infantile, direi. L’altra è l’indignazione civile. E qui non posso che citare Flaubert sul quale sto lavorando in questo momento: “l’indignazione è per me come lo spillone che hanno le bambole nel culo. E’ ciò che le tiene in piedi. Il giorno che dovessi perdere la mia indignazione, cadrei a terra bocconi.”

  • Poi Lo scientifico a Lecce, quindi Bologna, ingegneria, abbandonata per filosofia (laurea con 110 e lode), e la scuola di teatro pagata lavando auto. Bologna la ricca signora, Bologna “busona” o che altro?

Quando sono partito per l’Università (1988), Bologna era il paese dei balocchi di ogni Lucignolo meridionale, quindi la scelta fu facile. Bologna però, era anche sufficientemente lontana per poter dire che andavo a vivere da solo e che me la dovevo vedere con me stesso, senza contare sulla vicinanza fisica della famiglia. E ancora: era un percorso inconscio sulle orme dell’emigrazione poiché è nel DNA di ogni meridionale l’idea che, lontano da casa, è più facile trovare lavoro. Come una condanna dell’anima che ci portiamo addosso da secoli.

Infine, era anche il desiderio adolescenziale di sprovincializzarmi, un desiderio che mi fece abbandonare anche Bologna (nel 1998) per Roma. E dopo qualche anno romano, capii che, per essere centrato e in pace con me stesso, dovevo tornare a casa. Come ho detto spesso, un ritorno dell’anima non del corpo che, invece, continua a vivere in giro per alberghi ma con le sue origini ben

Libri/ Emigranti Esprèss

 

Mario Perrotta legge Emigranti Esprèss

venerdì 1° luglio a Nardò

           

Il Centro Servizi Culturali e Bibliotecari di Nardò, in collaborazione conla Libreria IVolatori, organizza la presentazione del libro “Emigranti Esprèss” (ed. Fandango) di Mario Perrotta, che si terrà nella sala al 1° piano della Biblioteca del Centro, presso il Chiostro dei Carmelitani, a Nardò, venerdì 1° luglio, alle ore 19.30.

            La serata si articolerà come una conversazione con l’autore che reciterà brani tratti dal suo libro.

            “Emigranti Esprèss” è stato scritto da Perrotta in seguito allo straordinario successo avuto dall’omonimo programma radiofonico trasmesso da radio 2 Rai nel 2006: le storie dell’emigrazione italiana, raccolte attraverso decine di interviste da parte di Perrotta stesso, diventano un viaggio per l’Italia e oltre l’Italia, un racconto per immagini e parole.

“Parole d’aria – dice l’autore – stampate su carta, senza musica ma con la possibilità di pensarle meglio quelle parole, che stanno scritte una dopo l’altra e non possono fuggire come alla radio”.

            “Era il 1980. Stazione di Lecce. Ore 21 e 07. Come tutti i giorni di ogni benedetto anno, a quell’ora parte il treno degli emigranti che raccoglie le

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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