Due amanti ed un curato. Una patetica storia d’amore nella Parabita del XVIII secolo

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di Paolo Vincenti

 

La storia che voglio raccontare parte da lontano. Un giorno di alcuni anni fa, curiosando fra gli scaffali dell’Archivio Storico Parabitano e conversando con il suo responsabile ed animatore Aldo D’Antico, mi colpisce una storia, quella de “I promessi sposi parabitani”, come semplicisticamente è stata ribattezzata, scritta su una vecchia rivista , della quale chiedo lumi a D’Antico. Egli mi spiega che l’estensore di quella nota storiografica è Mario Cala e che quindi a lui più di tutti io debbo semmai chiedere delucidazioni. Intanto però Aldo mi dona la collezione completa della vecchia rivista della Pro Loco parabitana perché è proprio su uno dei primi ingialliti fogli di quell’opuscolo che leggo la storia in oggetto. Per l’esattezza si tratta dell’articolo  Due amanti ed un curato. Una patetica storia d’amore nella Parabita del XVIII secolo, di Mario Cala,contenuto  in “A Parabita due notti d’estate”, 2° edizione, Parabita 1977. Si tratta di una storia d’amore che coinvolge due protagonisti della nobile famiglia Ferrari che tenne il feudo di Parabita fino all’Ottocento.

Questa storia venne resa nota con un documento del 1823 ,“Memoria pel Duca di Parabita nella causa co’ fratelli Ferrari” (Napoli, Tipografia di Nunzio Pasca), un trattato di giurisprudenza in cui era contenuta la storia raccontata da Mario Cala.

I fatti si svolgevano nell’anno 1780 quando Don Francesco Saverio Ferrari, figlio di Don Giuseppe, primo Duca di Parabita, viveva una clandestina e tormentata storia d’amore con tale Rosaria Cataldo, una popolana, probabilmente figlia di qualche governante di casa Ferrari. Chiaramente questa storia d’amore trovò la disapprovazione della illustre famiglia del rampollo parabitano, tanto che Francesco Saverio e Rosaria dovettero ricorrere all’astuzia per poter celebrare il loro matrimonio. I due giovani infatti, che avevano già avuto due figlioli, Francesco e Vincenzo, si recarono notte tempo da un recalcitrante arciprete, Don Vincenzo Maria Ferrari, costringendo con l’inganno il curato a dichiararli marito e moglie. L’arciprete negò che quel rito fosse valido e Rosaria e Francesco Saverio  vennero condannati l’una a stare richiusa in un monastero di Lecce e l’altro a star lontano e non più rivedere la sua amata.

Dopo una lunga battaglia legale, il matrimonio divenne finalmente valido. Ma nel frattempo Francesco Saverio , che tanto aveva sofferto per lo sdegno e l’onta subita e per la lontananza da Rosaria, si ammalò gravemente e morì dopo appena un anno.

Questa la storia degli sfortunati amanti documentata da Mario Cala che nel suo scritto allega anche un albero genealogico della famiglia Ferrari. Questo articolo di Cala viene poi ripubblicato in “Minima Storica Parabitana”, edito dall’Adovos di Parabita nel 1991 e in “Studi di Storia e Cultura meridionale”, volume della Società di storia Patria per la Puglia, Galatina 1992.  Intorno a questi fatti, qualche anno fa, si scatenò anche un certo clamore mediatico in quanto un giovane ricercatore, appropriandosi della storia, volle far credere che lo stesso Manzoni per la sua celebre pubblicazione si fosse ispirato ai due giovani parabitani. Ciò portò Mario Cala a smentire pubblicamente quanto arbitrariamente affermato, dal momento che lo stesso Cala, se aveva parlato di analogie fra la sua storia e quella dei Promessi Sposi  manzoniani, mai tuttavia aveva  millantato che il grande scrittore milanese si fosse recato a Parabita o  fosse in qualche modo venuto a conoscenza di questo documento storico.

Quella di Francesco Saverio e Rosaria resta comunque una bella storia d’amore, emersa dalle brume del settecento parabitano .  Ed è da lì  che si dipana quel sottile ma resistente filo di una matassa che arriva fino ai nostri giorni, con la pubblicazione in questo anno  2012, del romanzo “Il giardino grande” (Il Laboratorio editore) a firma di Ortensio Seclì, noto e stimato studioso di storia locale il quale me ne fa dono in uno dei nostri incontri sempre graditi e proficui per chi scrive queste note.

Si tratta di un libro che, in 35 capitoli più un Epilogo, partendo dalla documentazione di cui ho detto sopra, sviluppa una trama del tutto avvincente, tanto da far quasi dimenticare la realtà storica che fornisce a Seclì l’abbrivio per la sua narrazione. Il libro ha una  coperta rossa rigida con un bel disegno di Giuseppe Greco e  aggiunta di sopracoperta  arricchita da una bandella destra, con breve nota dell’editore, e bandella sinistra, con ritratto dell’autore ad opera di Giuseppe Greco e brevi note bio-bibliografiche.

Nella narrazione, agli elementi di pura fantasia, si uniscono degli inserti tratti dai documenti d’archivio e riportati in corsivo. La prosa di Seclì fluisce limpida e leggera nelle pagine di quest’opera amabile che si fa leggere dall’inizio alla fine senza nessun calo di interesse. Riemerge così da un passato sul quale sembrava si fossero ormai addensate le nebbie dell’oblio, grazie a questo omaggio letterario, la storia d’amore di Saverio e Rosaria (proprio a lei l’autore dedica il libro), i quali tornano a parlarci di un tempo in cui troppi ostacoli di carattere culturale e sociale impedivano il libero cammino di un amore mutuo e sincero che oggi (forse) non avrebbe incontrato nessuna riprovazione.

Il periodo storico in cui si dipana l’intreccio narrativo, attraverso le vicende reali e simboliche dei due amanti protagonisti, è il grande teatro del settecento parabitano, un’epoca che Seclì conosce bene per averle già dedicato una monografia qualche anno fa (“Parabita nel Settecento”, Il Laboratorio Editore). La narrazione, degna del miglior romanzo nazionale contemporaneo, come è già stato sottolineato, si muove con andamento lento ma vario, mai stanco, sorretta da una tecnica espressiva matura e da una efficace orchestrazione con cui l’autore, che ha orecchio musicale, mette in scena fatti e personaggi, fra motivi dinamici e statici, muovendo  le corde giuste al momento giusto per creare quel sicuro effetto di incantamento (ché il narratore cantastorie è sempre un poco stregone,fingitore, sciamano ) nel lettore.

Non sorprende la capacità narrativa di Seclì perché già nei suoi articoli di storia locale, comparsi su svariate riviste, ci aveva abituato alla nota di colore, all’inserzione di aneddoti e trance de vie all’interno della macronarrazione storica di cui si occupava. Sempre attento al minimo dettaglio e con una spiccata sensibilità verso gli umili, quei personaggi minori, se non minimi, delle nostre comunità municipali che Seclì ha sempre voluto dimostrare che fossero, quanto e più dei grandi personaggi,  calati nella storia e che come loro avessero pari dignità e medesimo spirito di appartenenza al contesto storico analizzato. Non sono mancati nemmeno, nelle sue noterelle storiche, degli spezzoni di umorismo a mitigare la fredda scientificità dei documenti compulsati e tutto ciò ha avvicinato il lettore ai precedenti articoli e libri di Seclì e, almeno per quanto mi riguarda, ha fatto intendere che, dietro lo storico, si stesse preparando il narratore, che insomma il romanziere attendesse solo il momento opportuno per rivelarsi. E il momento ora è arrivato. Una storia matura nella mente del proprio creatore nel tempo più o meno lungo della sua ideazione e in quello entusiasmante ma  laborioso della sua gestazione. L’autore vive dentro di sé i propri personaggi, le storie, gli avvenimenti ideati, fino a quando essi  non diventano pagine di libro da consegnare all’editore, il quale  a sua volta li consegnerà ai lettori con la dovuta apprensione che accompagna ogni nuova pubblicazione. Se questa pubblicazione poi incontra il gradimento di pubblico e critica, ciò significa che il lavoro svolto è stato ben fatto, le attese ben riposte i sacrifici fatti vengono ripagati. Ciò accade all’opera dell’amico Ortensio Seclì ed io sono lieto di darne testimonianza in questo mia modesta recensione. L’arte di raccontare del maestro Seclì ci consegna il suo frutto più maturo, la prova più compiuta,  con questo romanzo, se è vero che, alla fine della lettura, la polvere di quel mondo antico raccontato ci sarà rimasta attaccata alla suola delle scarpe e qualcosa di esso continueremo a portarci dentro a lungo nei nostri percorsi quotidiani.

 

Mario Cala, parabitano doc

MARIO CALA: L’UOMO DAI MILLE VOLTI

 

di Paolo Vincenti

La scrittura, la poesia e la pittura si intrecciano nella  variegata carriera artistica di Mario Cala, parabitano doc, un passato da sportivo e insegnante di educazione fisica di cui rimane traccia nel suo fisico robusto ed asciutto, come quello di un ragazzino, a dispetto dei suoi settanta anni e più di età. Fra i primi operatori culturali parabitani, Mario Cala, ex ufficiale carabiniere, ex insegnante elementare, è oggi un distinto signore che non lesina energie in fatto di ricerca storica, di scrittura e di promozione territoriale della sua adorata madre patria Parabita. Uomo garbato e gentile, sempre disponibile con gli altri, subito pronto, quando la conversazione tocca argomenti a lui congeniali, ad investirti come un fiume in piena di parole, di conoscenze e di saggezza. Mai a corto di ironia e di nuovi progetti, Cala, Vice Presidente della Società di Storia Patria-Sez. di Gallipoli (di cui è Presidente Vitantonio Vinci), è autore di numerose pubblicazioni in cui ha toccato  i più disparati argomenti, da quelli letterari e storici, alla cronaca giornalistica, alla poesia, in lingua e in vernacolo, al teatro, allo sport,  che hanno contribuito a far luce sia sul passato remoto che sul passato più recente della sua adorata Parabita e del Salento.Con Ortensio Seclì e Aldo D’Antico, suoi amici e sodali, costituisce la  aurea triade della pubblicistica parabitana, la “vecchia guardia”, se così si può dire, dove il termine “vecchia” non vuole ovviamente riferirsi al  fattore anagrafico, ma  vuole invece connotare  l’anzianità di servizio dei tre, vale a dire la loro

La Madonna della Coltura di Parabita e l’incendio del campanile

di Paolo Vincenti

La venerazione della  Madonna della Coltura di Parabita è una delle più forti e sentite nel Salento e da molto tempo impegna studiosi ed appassionati nell’inestricabile eppur affascinante ricerca storica, antropologica, linguistica sulle origini di tale culto. Ortensio Seclì, in un suo saggio del 2001, apparso su “La Madonna della Coltura”, pubblicazione annuale sulla fede, la storia e la tradizione, a cura del Comitato Festa Patronale, in collaborazione con la Pro Loco e l’Archivio Storico Parabitano, ci riferisce della più remota testimonianza della leggenda parabitana sul ritrovamento del monolito della Madonna della Coltura; leggenda che,modificata con l’aggiunta di alcuni particolari fantasiosi, fu stampata nel 1896 per i tipi di Luigi Carra in Matino: “E’ tradizione che nella spianata Le Pane della Corte del territorio di Parabita, nel sito detto Cutura fu trovata,arandosi,la mozza lapide, su cui è dipinta a fresco l’immagine della nostra Protettrice, che si chiamò della Coltura, perché rinvenuta coltivando nel Campo Cutura”.

Sul significato dell’intitolazione della Vergine a Cutura, ci viene incontro Aldo D’Antico che, in un suo saggio comparso sempre su “La Madonna della Coltura”, ci dice che il termine, secondo le due ipotesi che si sono affermate nel corso dell’ultimo secolo, potrebbe derivare da cuddhrura, relativo alla Madonna del Pane, alla quale diversi altri paesi dedicano un culto, oppure da cuddhrura inteso come antica unità di misura del terreno seminativo. D’Antico propone poi un’altra ricostruzione.

Nell’iconografia orientale, questa Madonna era detta Hodegitria, perché considerata protettrice dei viandanti. Ed anche la Madonna della Coltura di Parabita era inserita nel percorso dei pellegrinaggi mariani per arrivare a Santa Maria di Leuca, attraverso Alezio (Santa Maria della Lizza), Parabita, Casaranello (Santa Maria della Croce) e Taurisano (Santa Maria della Strada).

A ridosso delle mura dell’antica Bavota, sita in contrada della Corte, e distrutta nel 927 dai Turchi, era probabilmente situata una laura basiliana nella quale era affrescata una Madonna Hodegitria, appunto “vigilatrice dei viandanti”, presso la quale i pellegrini sostavano per guadagnare le indulgenze promesse. Con la persecuzione che i Bizantini subirono tra il 1000 ed il 1300, i monaci furono costretti ad abbandonare la laura.Questa venne col tempo completamente sepolta sotto detriti ed altro materiale, fino a quando il vecchio contadino della leggenda, arando con i suoi buoi, non la riportò alla luce. Il luogo in cui avvenne il rinvenimento si chiamava “contrada la corte seu la cutura”, ed all’immagine venne quasi spontaneamente dato il nome di quel posto, da cui Madonna ta Cutura. La Madonna, patrona dei viandanti, trovata in una cutura, diventa così la protettrice delle coltivazioni e del mondo agricolo in genere, della cultura e della civiltà contadina. Questo culto poi si espande anche nei paesi limitrofi e in tutto il Salento, partendo proprio da Parabita, che si identifica totalmente nel culto della sua Patrona.

La festa per la Madonna ta Cutura si svolge verso fine maggio a Parabita. La giornata più importante è la Domenica,quando, in  mattinata, si ripete la tradizione dei Curraturi: secondo la leggenda, il meravigliato agricoltore, come scrive Mario Cala, altro noto studioso di storia parabitana, nel volume sopra citato, dopo avere prestato le prime dovute cure all’immagine della Vergine con Bambino, corse verso il paese per annunciare il prodigioso ritrovamento e il sacro monolito venne portato in trionfo dagli eccitati concittadini nella chiesa matrice. E dal XIV secolo, ancora oggi, si ripete questa bellissima tradizione, la domenica mattina della festa civile della Madonna della Coltura, a ricordo della corsa che gli antenati avevano fatto dopo il ritrovamento del monolito. Da segnalare ancora il suggestivo incendio del campanile della basilica, grazie ad una felice intuizione che ebbe nel 1971 padre Carlo Viviani,rettore dei Domenicani di Parabita, mutuando questa iniziativa da Santa Maria dell’Arco a Napoli, sede centrale dei Domenicani. Questa tradizione è stata poi ripresa sei anni fa con grande successo. Viene chiamato appositamente un gruppo pirotecnico, specializzato in simulazioni d’incendi di strutture architettoniche, e il campanile sembra davvero bruciare, tra gli applausi e gli sguardi sbalorditi del foltissimo pubblico che riempie Piazza Regina del Cielo, e, quando il campanile sembra ormai essere divorato completamente dal fuoco al suo interno, ecco accorrere la Madonna a spegnerlo e a salvare la sua casa, tra i rintocchi delle campane che suonano a festa.

Anche il lunedì successivo sarà festa, con una processione in ricordo della traslazione del monolito dalla chiesa al Santuario.

Mofificato da: “Il Tacco d’Italia” maggio 2004 e poi in “Di Parabita e di Parabitani” di Paolo Vincenti, Il Laboratorio Editore 2008.

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