Due lettere di raccomandazione di Maria d’Enghien

di Armando Polito

Questo post è l’integrazione di un altro mio sulla contessa di Lecce piuttosto datato (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/24/la-condizione-degli-ebrei-a-lecce-al-tempo-di-maria-denghien/) ed è il frutto di un commento allo stesso apparso recentemente a firma di Luigi Leone. A conferma  di quanto per l’occasione ebbi a dire sul suo comportamento equilibrato ed illuminato (oggi, con l’aria che tira, sarei costretto  a dire, umano, nonostante la nebulosità pratica  che sembra avvolgere questo concetto sul quale tutti si dichiarano d’accordo) nei confronti degli Ebrei, propongo oggi due sue lettere pubblicate da Andreas Kiesewetter nel suo L’epistolario di Maria d’Enghien. Nuovi rinvenimenti e precisazioni, in Quei maledetti Normanni, CESN, Ariano Irpino, 2016, pp. 571 e 576-577. Entrambe risultano inviate all’Università (cioè a quello che oggi si dice Comune) di Bari, la prima da San Pietro in Galatina (oggi Galatina) l’11 ottobre 1422, la seconda da Lecce il 10 ottobre 1425. Ne riproduco il testo dal volume citato (dallo stesso è tratta l’immagine di testa, che si riferisce alla seconda), aggiungendo la trascrizione in italiano corrente e qualche nota.

1)

Viri nobiles providi atque discreti carissimi, nobis post salutem. Peroche mastro Christi, figlio di mastro Manu de Simone, marito de donna Dolce, matre de mastro Iacobo, iudeo habitante et morante in Baro, nostri servituri et lu so fratelli, et matre  delo dicto mastro Iacobo, lo quale e medico, nostro vassallo de Lecce, vi volimo pregare, che in nostro placitho li predicti mastro Christi et Simone con la dicta donna Dolce vi siano recomandati, che per vui universalmente per nostro respetto in singulis oportunis siano ben trattati, et di questo ne farete piacere tanto ad nui, quanto allo prencipe, nostro figlio, sincomo a simili facessimo per vui. Datum in Sancto Petro de Galatina, die XI octobris prime indictionis.

Nobili uomini, previdenti e giudiziosi1, a noi carissimi, dopo il salutoa. Poiché mastro Cristo, figlio di mastro Emanuele de Simone, marito di donna Dolce, madre di mastro Iacopo, giudeo abitante e residente in Bari, nostri servitori e i suoi fratelli e madre del detto maestro Iacopo, il quale è medico, nostro vassallo di Lecceb, vi vogliamo pregare che in nostro placito i predetti mastro Cristo e Simone con la detta donna Dolce che vi siano raccomandati, che da voi unanimementec per nostro rispetto nelle singole opportunità siano ben trattati; e con questo farete piacere tanto a noi, quanto al principe nostro figlio, come in circostanze simili avremmo fatto per voi. Emesso in San Pietro di Galatina il giorno 11 ottobre della prima indizione.

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a La virgola dopo carissimi va spostata dopo discreti, come correttamente è nella lettera successiva. Dopo salutem è sottinteso un nesso in latino che in italiano suonerebbe esponiamo quanto segue.

b L’urgenza di presentare i protagonisti ha propiziato l’omissione del verbo di questa dipendente causale, collegando quasi direttamente la principale (vi vogliamo pregare) con i destinatari della missiva (Nobili uomini …)

c “Traduco” così l’universalmente dell’originale, avverbio che non poteva essere più adatto riferito al destinatari della missiva, cioè un’Università, qui, come nella lettera successiva, quella di Bari.

 

2)

Viri nobiles et discreti, devoti nostri carissimi, post salutem. Simone Iudio, vassallo nostro, ny ave informato, che isso ave a rescotere in Bari certi denari e roba; et per tanto piaczia vi de lo avere recomandato et favorirelo  in tucto quello, che bisoghiasse, azocche pocza rescotere quello che deve avere. Ancora mastro Crissi, vassallo nostro, ny diche devere rechiperea alcuni denari, imprestati per isso alli sindici vostri de l’anno de la XVa indictione, et foro’li ‘nde dati certi pyghy. Et per tanto piaczave dare’li li sui denari, et esso rendera li dicti pighy, azocche non sdia bisoghio de si vendere, fariti vostro devere, et ad nuy ‘nde placheriti. Dat. in castro Licii, X octobris, IIII indictionis.

Nobili uomini e giudiziosi, nostri carissimi devoti, dopo il saluto. Simone Giudeo, vassallo nostro, ci ha informato che egli ha da riscuotere in Bari certi denari e roba; e pertanto vi piaccia di averlo come raccomandato e favorirlo in tutto quello che bisognasse, affinché possa riscuotere quello che deve avere. Ancora mastro Crissi, vassallo nostro, ci dice dover ricevere alcuni denari prestati da lui ai vostri sindaci dell’anno della quindicesima indizione e gliene furono dati certi pegni. E pertanto vi piaccia dargli i suoi denari ed egli renderà i detti pegni, affinché non ci sia bisogno che siano venduti; farete il vostro dovere ed a noi ne farete piacere. Emesso nel castello di Lecce il 10 ottobre della quarta indizione.

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a Dal latino recipere, da cui il nostro ricevere.

Facebook e i misteriosi “stompi” di Maria d’Enghien

di Armando Polito

E poi qualcuno, magari per atteggiarsi, dice peste e corna di Facebook e simili, ma per pubblicizzare la sua opinione è costretto ad usarlo. Come non tutto il male vien per nuocere, non è detto che questo social, come altri, al pari di qualsiasi altro strumento, non possa servire a qualcosa di utile. Esempio recente: qualche giorno fa (per la storia … il 26/1/2020) Marcello Gaballo, come abitualmente ha cominciato a fare da qualche tempo, sulla sua bacheca ha riproposto un post già apparso, a mia firma, su questo blog il 24/6/2013 (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/24/la-condizione-degli-ebrei-a-lecce-al-tempo-di-maria-denghien/?fbclid=IwAR2lPDvrfXq_ko8JjT1ByJ4dR63CgAY_dwkJsnm6tbDLzNZCLS1Ek0d11Ys).

Confesso che, nonostante l’arteriosclerosi non mi abbia intaccato vistosamente, almeno credo …, la capacità mnemonica, mai riesco a resistere alla tentazione di rileggermi, alla ricerca di qualche strafalcione o con lo scopo di apportare qualche integrazione. Così è successo anche questa volta e, se il risultato di questo nuovo intervento lascerà deluso il lettore, siccome sono testardo, oltre che presuntuoso …, nessuno pensi che rinuncerò a priori qualora si dovesse presentare occasione più o meno simile.

Lì avevo manifestato la mia impotenza di fronte alla voce stompi che si legge negli statuti emessi per Lecce da Maria d’Enghien il 4 luglio 1445 (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/20/riflessioni-su-alcuni-bandi-leccesi-del-xv-secolo/).

Riporto il passo contenente la voce: … che nulla persona christiano, oy iudeo, citadino oy forestieri habitante in la dicta cita non ausa ne degia vendere arbori de arangi, citri, oi stompi a forestieri: li quali volessero quelli portare fore de lo territorio de leze.

Nel commentare il mio stesso post scrivevo due giorni dopo: Nell’edizione della Pastore (Congedo, Galatina, 1979) a pag. 29 leggo: “Vieta la vendita di alberi di aranci, cetri o stompi (grossi limoni) a forestieri che intendano esportarli”. La definizione “(grossi limoni)” è evidentemente presa tal quale (non sarebbe stato meglio ricordarne l’autore con una noterella? …) dalla nota 49 del commento agli statuti che Ermanno Aar (pseudonimo di Luigi De Simone) pubblicò in Archivio storico italiano, tomo XII, anno 1883, che di seguito riporto: “Stompi stempi sono una specie di grossi limoni”. Questo conferma il mio sospetto che si trattasse di un agrume, ma l’etimo (anche di “stempi”, variante o italianizzazione che sia di “stompi”) rimane al momento un mistero.

Non pretendo di aver risolto il mistero ora, ma, rileggendo la definizione del De Simone, ho pensato che stompi potrebbe essere italianizzazione di stuempi, plurale del leccese stuempu (stompu in altre zone) che significa mortaio.

Su stuempu e stumpare non mi dilungo e rimando a https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/28/stumpisciare-calpestare/ e chiudo dicendo che quello che sicuramente è un agrume potrebbe aver tratto il nome dialettale non tanto dal mortaio (che è, in un certo senso, il pestato) quanto dal pestello (il pestatore), in dialetto stumpaturu, in uno scambio metonimico tutt’altro che infrequente anche nel dialetto. E se in cetri o stompi quell’o non è disgiuntivo ma vale per ossia, l’ipotesi non appare poi tanto peregrina, pensando alla forma di certi cedri, come quello della foto di testa. E il fatto che l’albero e il frutto abbiano lo stesso genere non è certo una novità per il nostro dialetto.

A questo punto a chi mi chiede se era proprio infame destino che trascorressero più di sei anni per giungere a tale risultato, ribatto che, ad ogni buon conto, è meglio tardi che mai e, se la mia riflessione è apparsa assolutamente improponibile, allora sì ha ragione quel qualcuno che dice peste e corna di Facebook … e poi lo usa. A questo punto, lo spazio riservato ai commenti è pure qui disponibile …

Palazzo dei Celestini a Carmiano: memorie di barocco e tabacco

Fig.1. La facciata

 

di Maria Elena Petrelli

La storia di una comunità è inestricabilmente legata ai suoi luoghi ed ogni luogo può restituire al presente i frammenti di un’identità collettiva in costante ridefinizione. Ciò che siamo stati non ci dice tutto su ciò che saremo ma è certamente il punto da cui partire per costruire le basi del nostro futuro. From roots to routes. Dalle radici sotterranee alle strade da percorrere. Dalle memorie già scritte alle storie ancora da scrivere.

Carmiano è un piccolo comune in provincia di Lecce che da anni sembra in attesa di una svolta. Tra i tesori che i giovani carmianesi hanno ereditato dal passato ci sono fotografie sbiadite di una chiesa cinquecentesca demolita negli anni ’60 del secolo scorso e la facciata decadente di un palazzo baronale abitato per tre secoli e mezzo dai Padri Celestini. Il destino di questo palazzo sembra essere stato ormai decretato da una sentenza non scritta: per anni l’indifferenza e la rassegnazione hanno relegato questo bene architettonico, il cui valore è stato riconosciuto anche dalla Soprintendenza per i Beni Ambientali, Artistici e Storici della Puglia, ai margini della strada provinciale per Lecce, percorsa ogni giorno da moltissimi cittadini inconsapevoli.

Recuperare la storia di questo edificio significa ridare senso ai luoghi che abitiamo, assumendo consapevolezza di ciò che ci circonda e restituendo al presente l’importanza che indubbiamente questo luogo ha rappresentato nel corso dei secoli per l’intera comunità locale.

Fig.2. Una delle due statue della facciata

 

I Celestini giunsero a Lecce nel 1353 per volontà del conte di Lecce e duca di Atene Gualtieri VI di Brienne e furono dotati di un consistente patrimonio immobiliare[1]. Segno tangibile del loro passaggio sono le opere leccesi di Santa Croce e del monumentale palazzo adiacente, oggi sede della Prefettura e dell’Amministrazione Provinciale. Nel 1448 i Celestini acquistarono i feudi di Carmiano e Magliano dal principe Giovanni Antonio Orsini Del Balzo, figlio della regina Maria d’Enghein, come testimonia l’atto rogato il 29 settembre di quell’anno dal notaio Adamo Argenteriis di Lecce[2].

lo stemma dei Celestini sulla facciata

 

Occorre precisare che, a partire dal XV secolo, la frantumata geografia feudale in Terra d’Otranto fu caratterizzata da una marcata precarietà del possesso: tale instabilità nel mercato della terra era stata causata dal diffuso sistema della compravendita che rendeva precaria la presenza delle famiglie nobili nei vari feudi; l’investimento signorile era stato per molte casate un modo per consolidare la propria ascesa sociale oltre che lo strumento per collocare e valorizzare le fortune economiche[3]. Questo fenomeno di precarietà non toccò la feudalità ecclesiastica che non si lasciò coinvolgere dalla compravendita feudale e non rimase implicata nella crisi che aveva invece investito l’antica nobiltà laica[4]. La durata della titolarità signorile per le istituzioni religiose non ebbe alcuna interruzione temporale, terminando il suo ciclo vitale con le leggi francesi del 1806 che sancirono l’abolizione della feudalità nel Regno di Napoli; i Celestini di Santa Croce sono un esempio evidente di questa tendenza, in quanto rimasero i signori del feudo di Carmiano e Magliano sino al 1807[5].

È chiaro che, nel corso di quasi quattro secoli, tra Lecce e Carmiano venne ad instaurarsi un intreccio di rapporti molto stretto, riconducibile non solo al semplice esercizio del governo feudale ma riguardante anche la vita interna dell’istituzione religiosa.

Fig.4

 

La presenza della baronia celestiniana lasciò il segno nella storia di Carmiano e Magliano non soltanto sui luoghi ma anche sul carattere e sul vissuto religioso della comunità: il monaco celestino veniva guardato sempre con rispetto e con timore in quanto da un lato celebrava gli uffici divini e dall’altro si occupava di riscuotere le decime, amministrare la giustizia e dettare le regole del comportamento civile. L’amministrazione ecclesiastica non si differenziava da quella degli altri baroni feudali tuttavia, in alcuni casi, i Celestini si dimostrarono sensibili alle necessità della popolazione, spesso infatti permisero concessioni enfiteutiche di case e terre, credito per i proprietari, affitto di beni rustici e arrendamento di introiti: ciò che veniva raccolto con le entrate feudali tornava in parte agli stessi contribuenti sotto forma di finanziamenti[6]. Effettuando un bilancio complessivo della loro permanenza feudale a Carmiano, è certamente innegabile il contributo apportato dai Padri allo sviluppo locale e alla formazione morale della comunità.

lo stemma dell’ordine religioso nell’interno della chiesa di Carmiano

 

Uno dei primi obiettivi perseguiti dal monastero fu quello di far crescere l’impianto urbanistico del casale e di sostenere attivamente il popolamento del territorio, fatto che avrebbe certamente incrementato il gettito decimale. Le circostanze storiche furono favorevoli a tale iniziativa poiché la pressante minaccia turca sul litorale salentino per tutto il XV e XVI secolo favorì la concentrazione demografica verso l’interno della provincia[7]. Secondo alcuni studi, fu proprio con la presenza strutturata dei Celestini che le due comunità di Carmiano e Magliano acquistarono la piena configurazione di universitas civium, sebbene non si escluda, già nel periodo precedente, l’esistenza dei due insediamenti umani non ancora solidi perché minacciati dalla presenza dei lupi e non in grado di avviare lavori di dissodamento della foresta circostante[8].

Quando i Celestini decisero di costruire la propria residenza baronale a Carmiano scelsero una zona distante da quella del primo nucleo abitativo, stanziandosi nell’immediata periferia del paese, lungo un’importante arteria di comunicazione con la città di Lecce, la cosiddetta via dell’Osanna[9]. La scelta non fu affatto casuale poiché veniva in questo modo facilitato il trasporto delle merci come olio, grano e vino verso i depositi, inoltre la posizione era anche ideale per raggiungere facilmente la comunità di Magliano, anch’essa sotto la giurisdizione feudale dei Padri[10].

Fig.6

 

Secondo alcune ipotesi, il palazzo baronale venne ampliato e rimodernato da parte dei Celestini nel corso del tempo a partire da un nucleo preesistente[11]. La facciata del monastero venne iniziata nel 1659, come dimostra un’iscrizione, oramai non più visibile, incisa sul cornicione del semiprospetto inferiore e, secondo quanto riportato da un’altra iscrizione incisa sull’estremità opposta, essa venne terminata nel 1695[12]. Molto probabilmente contribuì alla costruzione della facciata anche il famoso architetto del barocco leccese Giuseppe Zimbalo che nel 1667 era certamente a servizio dei Celestini[13].

Fig.7

 

Lo Zimbalo era nato a Lecce nel 1620 da Sigismondo e Lucrezia Lecciso, forse originaria di Carmiano; grazie agli insegnamenti dello zio paterno Francesc’Antonio e di Cesare Penna, egli venne qualificato, all’età di soli diciotto anni, come «mastro scoltore di pietra» mentre lavorava già da tempo alla chiesa e al convento delle Carmelitane Scalze[14]. Giuseppe nel 1644 sposò Vittoria Indricci proprio nel casale di Carmiano dove risiedette con certezza documentaria a partire dal 1656, quando acquistò «una casa terranea scoverta, con l’uso per l’uscita alla curte sita dentro Carmiano nel luogo detto volgarmente del trappeto vecchio»[15].

Quasi sicuramente appartengono allo Zimbalo le due statue lapidee presenti nelle nicchie che affiancano il portale cinquecentesco del palazzo baronale (figg.1, 2). Nonostante l’avanzato stato di degrado delle statue e la bassa qualità della pietra utilizzata nella costruzione, è possibile evidenziare una somiglianza con le due figure dalle folte capigliature poste sulla facciata della chiesa di Santa Croce a Lecce, quest’ultima opera indubbia dello Zimbalo: si tratta delle virtù dell’Umiltà e della Sapienza, caratterizzanti l’ordine monastico dei Celestini[16]. Alla metà degli anni cinquanta del ‘600 appartengono anche l’altare maggiore, che tuttavia nella configurazione attuale mostra un certo rimaneggiamento, e il portale, entrambi appartenenti alla chiesa dell’Immacolata, il primo edificio di Carmiano in cui è possibile notare la presenza di alcuni elementi formali tipici del linguaggio zimbalesco. Gli interventi operati dallo Zimbalo in questa chiesa suburbana sono testimonianza del processo di integrazione che l’architetto visse all’interno della comunità locale. Il prestigio attribuitogli non derivava soltanto dai rapporti molto stretti che egli aveva instaurato con i “baroni” locali ma soprattutto dal ruolo di primo piano che egli aveva ormai assunto sulla scena artistica provinciale[17]. Il legame che lo Zimbalo aveva instaurato con la comunità di Carmiano rimase molto forte come testimonia un episodio del 1668: di fronte all’usurpazione di una strada pubblica da parte di due sacerdoti, si decise di ricorrere alla Regia Udienza ma, poiché l’Università di Carmiano si trovava oppressa da debiti e vessazioni, fu proprio Giuseppe Zimbalo a rendersi disponibile per il pagamento di tutte le spese a sostegno della causa fino alla sentenza definitiva[18].

Fig.8

 

Per questa importante presenza dello Zimbalo a Carmiano, possiamo affermare che Palazzo dei Celestini fu anche un cenacolo culturale, all’interno del quale l’architetto attinse le grandi conoscenze teologiche e concettuali che ispirarono la sua arte barocca.

Fig.9

 

Il palazzo baronale di Carmiano si erge con imponenza e questo grazie alle sue ragguardevoli dimensioni pari a 45,50 metri di lunghezza e 13 metri di altezza. Alla seconda metà del XVI secolo è riconducibile l’insegna della Santa Croce al centro del portale catalano-durazzesco: tale datazione viene ipotizzata per la presenza dei nastri laterali, utilizzati in quel periodo nella decorazione degli scudi gentilizi ecclesiastici; anche la cornice del portale è interrotta alla sommità per far posto allo stesso stemma[19] (fig. 3).

Una porta – che risulta più bassa rispetto alle altre della facciata e, dunque, presumibilmente più antica – immette all’interno di una chiesetta dedicata a San Donato, ormai spoglia del corredo religioso ma ricca ancora di un altare fregiato da stucchi e marmi di vario colore (fig. 4). All’interno di questa cappella erano precedentemente collocate due opere dei primi decenni del Seicento, attribuibili a Paolo Finoglio: La Madonna di Loreto e santi, tela dell’altare maggiore, e L’incoronazione di S. Carlo Borromeo[20].

Nell’atrio del palazzo è presente un affresco che rappresenta la glorificazione dell’ordine Benedettino: vi sono dipinti quattro tondi disposti simmetricamente e collegati a quello centrale rappresentante lo stemma della Santa Croce sorretto da due angeli; questo è sormontato da una corona reale, dal mitra e dalla pastorale e ciò indica che il palazzo era posto sotto la giurisdizione della massima autorità dei Celestini presenti in Terra d’Otranto[21] (fig. 5).

Il primo dei quattro tondi circostanti raffigura la vegliarda immagine di San Benedetto seduto sul trono abaziale e circondato dai suoi seguaci ai quali mostra il libro della Regola come l’unica strada da seguire per poter raggiungere il cielo[22]. Nell’altro tondo troviamo la raffigurazione di Santa Scolastica in abiti monacali che nella mano regge il pastorale; sopra il suo capo compare una colomba che si dirige verso il cielo e tale simbologia si riferisce ad un episodio miracoloso: San Benedetto, fratello della santa, nel momento della morte di lei vide l’anima della sorella raggiungere il paradiso sotto forma di colomba[23] (fig. 6). Nel terzo tondo campeggia una delle prime immagini raffigurate in Italia di Santa Gertrude, la quale, a differenza dell’iconografia tradizionale, non indossa gli abiti cistercensi ma è rappresentata come una monaca benedettina. In questo dipinto Santa Gertrude appare inginocchiata e con lo sguardo rivolto al cielo; accanto a lei è possibile notare un tavolino su cui poggia una clessidra e un crocifisso[24] (fig. 7). Infine, nel quarto tondo è raffigurata l’immagine di San Celestino che, in abiti pontificali, è intento a compiere il famoso e coraggioso gesto del rifiuto: il volto sembra segnato dalla sofferenza ma nello stesso tempo il gesto di allontanare la tiara pontificia mostra una grande risolutezza e forza spirituale[25]. A compensare la staticità dei medaglioni troviamo gli affreschi circostanti caratterizzati da un movimento di nastri annodati ad un anello che svolazzano nell’aria ed anche la raffigurazione dinamica di cinquantadue angeli che si affannano a tirare corde cariche di fiori e di frutta e a reggere simboli di potere, come ad esempio una corona regale (figg. 8, 9); due di questi angeli, posizionati nella lunetta interna al di sopra del portone dell’atrio, sorreggono anche un cartiglio contenente un’iscrizione latina, dove la data del 1688 indica probabilmente l’anno in cui venne affrescato l’atrio[26] (fig. 10). Il dipinto nel suo complesso vuole dimostrare la continuità tra passato e presente e nello stesso tempo esaltare la storia dell’Ordine: dalla raffigurazione dei fondatori, San Benedetto e Santa Scolastica, si passa a quella dei rinnovatori e mistici, San Celestino e Santa Gertrude, ma è la presenza della nuova comunità dei Padri Celestini a garantire la continuità con la grandezza dei vecchi tempi: la rievocazione del passato è nello stesso tempo celebrazione del presente[27].

Fig.10

 

In una stanza adiacente alla cappella di San Donato compare sul muro un altro affresco che riproduce la Madonna del Riposo, conosciuta anche come Maria col Bambino dormiente, in cui il sonno del fanciullo diventa metafora della sua futura morte (fig. 11).

Nell’affresco, oggi in pessime condizioni, la figura della Madonna è profondamente umanizzata, lontana da una forma di esaltazione eroica ed idealizzante, infatti viene raffigurata come una madre qualunque che cerca di far addormentare il figlio con dolcezza[28]. Tuttavia, un velo di malinconia traspare dal suo volto: Maria tiene in braccio quel bambino come se volesse difenderlo dal mondo, proteggendolo da un destino inevitabile; lei sa bene che non potrà mai essere una madre come le altre e che quel figlio prezioso, tenuto stretto tra le braccia, non è soltanto suo ma appartiene al mondo.

Nel soggiorno, che è la stanza più danneggiata, troviamo la presenza di un camino decorato con due putti che reggono una cornice ellittica; le loro membra sembrano bloccate ma questa staticità delle figure contrasta con il fluttuante drappeggio che cade alle loro spalle[29] (fig. 12).

Fig.12

 

Il chiostro, che appartiene al nucleo più recente dell’edificio, è dominato da un pozzo del XVII secolo decorato con grande fastosità barocca. Il pozzo è formato da quattro colonne sormontate ciascuna da un capitello ionico. Al di sopra dei capitelli, presi a due a due, è posizionata una balaustra scanalata in pietra leccese (figg. 13, 14).

Fig.13

 

Fig.14

 

Il pozzo era, inoltre, sormontato da un blocco superiore contenente due stemmi: sul lato nord quello della Santa Croce, recante la data del 1627, e sul lato sud un’insegna con tre figure – la fascia, le rose e la stella – (fig. 15); oggi il pozzo si presenta privo di tale blocco in seguito ad un furto avvenuto nel 1991. Presso il lato sud del cortile è possibile individuale la presenza di un portale, ora murato, affiancato da una colombaia a muro[30] (fig. 16).

Fig.15

 

Fig.16

 

Infine, il piano superiore del palazzo comprende una serie di stanze comunicanti con un ampio e luminoso salone ricoperto da stucchi eleganti che incorniciano le porte di accesso ed alcuni riquadri ormai spogli di tele (fig. 17).

Fig. 17

 

Come accennato precedentemente, i Padri Celestini furono spodestati del loro feudo nel 1807 e alcuni di loro trovarono ospitalità a Carmiano nella dimora attigua alla chiesa dell’Immacolata, dove vissero in eremitaggio. Alla loro morte furono sepolti nella stessa chiesa, dove esistono ancora le loro tombe[31].

Con la fine della feudalità si svilupparono nuove forme contrattuali di conduzione della terra ed ebbe avvio la diffusione della piccola proprietà contadina che contribuì alla crescita economica e sociale della popolazione[32]. A Carmiano la presenza dei monaci aveva anche inciso sull’indole della cittadinanza, alimentando la diffusione di sentimenti come rassegnazione distaccata e accettazione apatica della realtà: la fine della feudalità contribuì a scuotere la popolazione, risvegliando le coscienze e indirizzandole al raggiungimento di nuovi traguardi di libertà[33].

In seguito alla cacciata dei Celestini e alla soppressione degli ordini religiosi possidenti e mendicanti[34], il palazzo baronale seguì il destino dei feudi di Carmiano e Magliano che, in un primo momento, vennero affittati a privati per poi essere messi in vendita con un’asta pubblica.

Il palazzo venne acquistato nel 1832 da Luigi Giusso, negoziante di origini genovesi che domiciliava a Napoli, per poi essere venduto alla fine del’800 alla famiglia Foscarini che lo utilizzò come residenza fino ai primi anni del ‘900, modificandone sensibilmente gli ambienti nel corso del tempo[35]. Infine, il palazzo venne acquistato nel 1931 dalla famiglia Portaccio di Lecce che riunificò lo stabile, adibendolo a locale di essicazione e di deposito di tabacco[36] (fig. 18).

Fig.18

 

Non era insolito che locali di grandi dimensioni, appartenuti agli ordini religiosi soppressi, vedessero cambiare la loro destinazione d’uso originaria: anche i conventi di San Domenico intra moenia ed extra moenia di Lecce, ad esempio, vennero riutilizzati, il primo, come Regia Manifattura dei Tabacchi e, il secondo, come mattatoio, poi come stabilimento vinicolo ed infine come Consorzio Agrario provinciale[37].

La prima licenza di coltivazione del tabacco fu rilasciata ai coniugi Portaccio nel 1929 quando l’ex palazzo baronale divenne “magazzino generale”, all’interno del quale avvenivano tutte le diverse fasi di produzione del tabacco. Come scrive Antonio Monte:

Fig.19

 

Negli 11 ambienti del piano terra erano ubicati la caldaia, i depositi delle casse e del tabacco sciolto, il vano scala e il monta carichi; nei 23 vani del primo piano vi erano le stufe, i depositi delle casse, del tabacco in colli e degli attrezzi, gli spogliatoi, la sala di allattamento, la caldaia della stufa a legna, le latrine, il vano scala e il monta carichi. Mentre nella nuova costruzione di recente realizzazione, collocata al secondo piano, erano ubicati un grande ambiente dove avveniva la lavorazione delle foglie, il corpo scala e il monta carichi[38].

Fig.20

 

Nel magazzino lavoravano circa 130 persone tra tabacchine e operai che seguivano il seguente orario di lavoro giornaliero: dalle 7.30 alle 15.30 nel periodo invernale e dalle 7.00 alle 15.00 durante il periodo estivo[39]. In quelle stesse stanze affrescate che un tempo avevano ospitato abati ed artisti, era possibile ora sentire l’odore acre del tabacco che rendeva amare le mani infaticabili delle lavoratrici. Molto probabilmente quegli ambienti – dove erano echeggiati, nel corso dei secoli, gli inni sommessi degli abati, le discussioni importanti di amministratori ed intellettuali, ma anche i segreti di giovani contesse – venivano adesso riempiti col fruscio logorante delle foglie di tabacco e con il canto disperato delle tabacchine. Costoro ebbero una funzione fondamentale nel processo di emancipazione della donna, affermandosi come ceto sociale produttivo nel corso del Novecento: il loro ruolo era duplice poiché si occupavano sia di produrre ricchezza per l’intera società salentina, in quanto il tabacco levantino era destinato al mercato mondiale, sia di procurare risorse per la sopravvivenza della propria famiglia. Tuttavia, a Carmiano, come nel resto del Salento, il lavoro delle tabacchine restava un lavoro stagionale mal pagato.

Il magazzino di Carmiano rimase attivo fino al 1974-75 quando finì la lavorazione e lo stabile chiuse definitivamente. In questo periodo vennero apportate delle modifiche architettoniche che servirono ad adattare l’ex residenza baronale dei Celestini ad una fabbrica di tabacco[40]. Ancora oggi all’interno dell’edificio è possibile notare la presenza di macchine ed attrezzature per la lavorazione del tabacco che necessiterebbero di essere pulite e restaurate in quanto rappresentano un’importante documentazione di storia locale (figg. 19, 20). Nel 1991 il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali dichiarò l’immobile d’interesse particolarmente importante ai fini della Legge n.1089 (1° giugno 1938), per via dell’attività produttiva che era stata svolta al suo interno per oltre cinquant’anni[41].

 

Come abbiamo dimostrato attraverso questa breve trattazione, il palazzo baronale è stato nel corso dei secoli un luogo centrale per la comunità di Carmiano: durante la baronia celestiniana rappresentò il luogo cardine dell’amministrazione feudale e fu anche cenacolo culturale di grande rilievo, soprattutto per la presenza di intellettuali e artisti del calibro di Giuseppe Zimbalo; successivamente assunse un notevole ruolo socio-economico, diventando la fabbrica di tabacco più importante del paese e radunando al suo interno un grande numero di operai e tabacchine. Questo palazzo, dunque, ha accompagnato la nascita e lo sviluppo di una comunità, partecipando al destino amaro della sua popolazione e diventando espressione di un cammino faticoso e contraddittorio verso il presente.

Di fronte a queste certezze storiche e constatando l’attuale stato di abbandono e decadenza in cui versa Palazzo dei Celestini, vogliamo oggi interrogarci provocatoriamente sul futuro: questo luogo può ancora essere un centro di aggregazione sociale e culturale attorno a cui radunare la comunità? La risposta a questa domanda dipende soltanto dalle scelte che avremo il coraggio di compiere.

Oggi la ristrutturazione di questo luogo è quanto mai urgente e necessaria: senza un intervento tempestivo, le tracce della storia di una comunità saranno smarrite per sempre. Non si tratta di perdere semplicemente un pezzo importante della nostra memoria, il rischio è quello di sprecare un’opportunità sociale, economica e culturale per le generazioni future.

Gli affreschi di un palazzo, l’odore del tabacco, il legame con l’evoluzione artistica del barocco leccese sono tutti frammenti organici di una stessa storia che le nostre coscienze civili non potranno continuare a rinnegare per lungo tempo.

From roots to routes: sta a noi adesso scegliere la rotta giusta.

Appendice fotografica

 

Bibliografia

A. Caputo, Il ciclo di vita di una baronia ecclesiastica, I, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008.

M. Cazzato, L’abate e l’architetto. Giuseppe Zimbalo (1620-1710) e i Celestini di S. Croce tra Lecce e Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità salentina in epoca moderna. Carmiano tra XV e XIX secolo, Galatina (Le), Congedo editore, 1991, pp. 313-334.

M. De Luca, Il Palazzo dei Celestini a Carmiano: un’emergenza architettonica in disuso, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 77-91.

S. Macchia, Sul sito del Palazzo baronale dei Celestini, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 63-76.

A.Monte, Tra storia feudale e archeologia industriale. Il Palazzo-fabbrica per la lavorazione del tabacco, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 137-148.

A.R. Pati, Le epigrafi latine di Carmiano, Tipografia Schirinzi, Carmiano, 2005.

G.Paticchia, Carmiano e Magliano. Compendio di storia patria, Galatina (Le), Libri Mitos, 2000.

M. Spedicato, Feudalità, crisi finanziaria e potere locale a Carmiano tra XVI e XVIII secolo, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità salentina in epoca moderna. Carmiano tra XV e XIX secolo, Galatina (Le), Congedo editore, 1991, pp. 97-122.

M. Spedicato, La signoria dei Celestini di S. Croce di Lecce nel feudo di Carmiano e Magliano (secc. XV-XIX), in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 19-61.

R. Trianni, Da residenza baronale a luogo di produzione. La storia di Palazzo dei Celestini dalla soppressione napoleonica ai primi del ‘900, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 93-136.

A. Vetrugno, L’arte in «Regola». Il programma iconografico del Palazzo dei Celestini di Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 155-174.

 

La maggior parte delle foto in appendice è stata gentilmente messa a disposizione da Antonio Vadacca.

Note

[1] A. Caputo, Il ciclo di vita di una baronia ecclesiastica, I, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, p. 13.

[2] Ivi, p. 103. Tuttavia, di questo atto, segnalato solo all’inizio del XVII secolo, non è stata ancora trovata alcuna traccia: in mancanza di documenti certi, è lecito presumere che non si trattò di un vero e proprio acquisto ma di una forma surrettizia di donazione effettuata in merito ad accordi precedenti e/o per disposizione di Maria d’Enghein. Cfr. M. Spedicato, La signoria dei Celestini di S. Croce di Lecce nel feudo di Carmiano e Magliano (secc. XV-XIX), in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce…cit., p. 26.

[3] A. Caputo, op. cit., pp. 9-10.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, pp. 155-157.

[7] M. Spedicato, Feudalità, crisi finanziaria e potere locale a Carmiano tra XVI e XVIII secolo, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità salentina in epoca moderna. Carmiano tra XV e XIX secolo, Galatina (Le), Congedo editore, 1991, p. 98.

[8] M. Spedicato, La signoria dei Celestini di S. Croce…cit., pp. 19, 25.

[9] M. Spedicato, Feudalità, crisi finanziaria…cit., p. 104.

[10] S. Macchia, Sul sito del Palazzo baronale dei Celestini, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p.70.

[11] M. De Luca, Il Palazzo dei Celestini a Carmiano: un’emergenza architettonica in disuso, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p. 77.

[12] M. Cazzato, L’abate e l’architetto. Giuseppe Zimbalo (1620-1710) e i Celestini di S. Croce tra Lecce e Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità…cit., p. 323.

[13] Ibidem.

[14] Ivi, p. 313.

[15] Ivi, p. 318.

[16] Ivi, pp. 324-325.

[17] Ibidem.

[18] Ivi, p. 327.

[19] M. De Luca, op. cit., p. 81.

[20] Ivi, pp. 84-85.

[21] Ibidem. Bisogna anche ricordare che questo palazzo godeva dell’immunità ecclesiastica: chiunque fosse ospitato in esso passava sotto la tutela dell’abate di S. Croce.

[22] A. R. Pati, Le epigrafi latine di Carmiano, Tipografia Schirinzi, Carmiano, 2005, pp. 49-53.

[23] M. De Luca, op. cit., pp. 86-88.

[24] Ibidem.

[25] Ibidem.

[26] M. Cazzato, op. cit., p. 323.

[27] P. A. Vetrugno, L’arte in «Regola». Il programma iconografico del Palazzo dei Celestini di Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p. 166.

[28] Ivi, p. 165.

[29] M. De Luca, op. cit., p. 83.

[30] Ivi, p. 84.

[31] G. Paticchia, Carmiano e Magliano. Compendio di storia patria, Galatina (Le), Libri Mitos, 2000, p. 40.

[32] A. Caputo, op. cit., pp.155-157.

[33] Ibidem.

[34] La soppressione degli ordini religiosi nel Regno di Napoli avvenne ad opera di Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat con ripetuti decreti, il primo emesso il 2 luglio 1806, poi il 13 febbraio 1807, il 12 gennaio 1808 fino a quello del 7 agosto 1809. Cfr. A. R. Trianni, Da residenza baronale a luogo di produzione. La storia di Palazzo dei Celestini dalla soppressione napoleonica ai primi del ‘900, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p. 93.

[35] Ivi, passim.

[36] Ivi, pp. 104-105.

[37] A. Monte, Tra storia feudale e archeologia industriale. Il Palazzo-fabbrica per la lavorazione del tabacco, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., pp. 146-147.

[38] Ibidem.

[39] Ibidem.

[40] Ibidem.

[41] Ivi, p. 148.

Qui il link per poter votare Palazzo dei Celestini sul sito del Fai: https://www.fondoambiente.it/luoghi/palazzo-celestini?ldc

Lecce: il porto di S. Cataldo era così al tempo di Adriano?

di Armando Polito

Odio la premessa perché il più delle volte foriera di prolissità, ma questa volta è doveroso farla, soprattutto per ringraziare Fernando La Greca, ricercatore di Storia Romana presso l’Università di Salerno, che, con generosità insolita per il mondo accademico (quello italiano, lo straniero non so …) mi ha fatto conoscere l’immagine di testa, che è un dettaglio della copia settecentesca, inedita, di una mappa originale aragonese disegnata alla fine del XV secolo; tale copia, insieme con un’altra di altra mappa aragonese, è custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia ed è stata oggetto di studio approfondito, per il distretto geografico che rientrava nell’interesse degli autori, da parte dello stesso Fernando La Greca e di Vladimiro Valerio in Paesaggio antico e medioevale nelle mappe aragonesi di Giovanni Pontano: le terre del Principato Citra, Edizioni del Centro di promozione culturale per il Cilento, Acciaroli, 2008.

Le mie competenze specifiche non mi consentono di avventurarmi in ricostruzioni storico-archeologiche che riescano a diradare la nebbia condensata nel punto interrogativo che chiude il titolo. Per questo mi limiterò alla semplice descrizione del dettaglio e dei toponimi che lo accompagnano, senza per questo rinunciare al vizio di qualche riflessione, per quanto essa possa valere.

Guardando verso il mare, l’imboccatura del porto vero e proprio  (Porto S.to Cataldo) mostra sulla punta della riva sinistra una struttura fortificata piuttosto complessa, una sorta di castello; sul versante opposto una torre. A non molta distanza dal presunto castello e dalla torre si vedono, rispettivamente, case sparse e un vero e proprio nucleo abitato (per via della costruzione che, con una croce in cima, dunque una chiesa, si eleva sulle altre). L’insenatura del porto continua con una specie di canalone che porta ad un bacino perfettamente circolare; l’uno e l’altro hanno i bordi troppo netti per essere strutture naturali.

Accanto al bacino si legge (vera e propria didascalia) antico porto di Lycca deto la Rotunda nunc palus e poco più sopra S.o Nicola dela Paluda, a conferma, ove ce ne fosse bisogno, insieme con il precedente nunc palus (ora palude) e il S.to Marco della Padula che si legge un po’ più sopra (qui non visibile), della natura della zona. Sorprende il fatto che anche accanto a questo toponimo, come nel precedente, si vede un nucleo abitato poco compatibile con una zona che si presume malarica.

La voce antico che accompagna porto  farebbe pensare ad un dettaglio iconografico da carta storica1 ed evocherebbe colui che ne avrebbe ordinato la costruzione, cioè l’imperatore Adriano, secondo l’unica fonte, risalente al II secolo, a nostra disposizione, la Ἑλλάδος περιήγησις (VI, 19, 9) di Pausania, al quale lascio la parola:  Όπόσοι περὶ Ἰταλίας καὶ πόλεων ἐπολυπραγμόνησαν τῶν ἐν αὐτῇ, Λουπίας φασὶ κειμένην Βρεντεσίου τε μεταξὺ καὶ Ὑδροῦντος μεταβεβληκέναι τὸ ὄνομα, Σύβαριν οὖσαν τὸ ἀρχαῖον· ὁ δὲ ὅρμος ταῖς ναυσὶ χειροποίητος καὶ Ἀδριανοῦ βασιλέως ἐστὶν ἔργον  (Tutti coloro che hanno avuto interesse ad investigare sull’Italia e sulle città che in essa vi sono dicono che Lecce sita tra Brindisi ed Otranto ha cambiato il nome, poiché anticamente si chiamava Sibari; il porto è artificiale ed opera dell’imperatore Adriano).

A questo punto una nota di carattere filologico è indispensabile. Il porto della mia traduzione corrisponde all’originale ὅρμος. Per quanto riguarda la sua traduzione i comuni vocabolari recano questi significati: collanaportoradaricoverorifugio. Il greco con il significato di porto ha anche λιμήν (leggi limèn). Quest’ultimo è connesso con λίμνη (leggi limne)=acqua stagnante, palude, laguna, mentre  ὅρμος  probabilmente si ricollega ad εἴρω (leggi èiro)=incatenare, disporre in serie. Direi che da un punto di vista etimologico ὅρμος sembrerebbe “nativamente” più adatto di λιμήν ad indicare una struttura artificiale. Il caso e le sue suggestive coincidenze sono perennemente in agguato, soprattutto quando si cerca di conoscere un frammento del nostro  passato avendo a disposizione poche fonti inequivocabili, nel nostro caso addirittura una sola.

Risulta infatti controversa l’identificazione con S. Cataldo, come in passato3 avvenne, del luogo in cui nel 44 a. C. sbarcò in Salento Ottaviano proveniente da Apollonia, evento ricordato da un frammento  della vita che di lui scrisse Nicola Damasceno nella sua storia universale (all’epoca dello sbarco di Ottaviano aveva 20 anni): … διαβαλῶν τὸν Ίόνιον πόντον ἴσχει τῆς Καλαβρίας τὴν ἔγγιστα ἄκραν, ἔνθα  οὐδέν πω σαφὲς  διήγγελτο τοῖς ἐνοικοῦσι τοῦ ἐν  Ῥώμῃ νεωτερισμοῦ. Ἐκβάς οὖν ταύτῃ πεζὸς ὥδευεν ἐπὶ Λουπίας (… [Ottaviano] dopo aver attraversato il mare Ionio raggiunge il promontorio più vicino della Calabria, dove nulla di attendibile delle novità avutesi a Roma era stato annunziato agli abitanti. Sbarcato dunque lì, proseguì a piedi il viaggio verso Lecce …).

Il promontorio più vicino della Calabria, partendo da Apollonia e seguendo la rotta più breve, era e rimane san Cataldo e non Brindisi, porto certamente più degno di un futuro imperatore. È pur vero che bisognava fare i conti con i venti e con le correnti, ma perché il buon Nicola ha usato promontorio più vicino della Calabria e non Brindisi?; tanto più che poco dopo aggiunge chiaramente: Καὶ μετὰ ταῦτα ἀπῆρεν εἰς Βρεντέσιον … (E dopo ciò partì per Brindisi …).

Che l’approdo non avvenne a Brindisi lo dice chiaramente Appiano di Alessandria (II secolo), Ῥωμαικά, III, 2, 4: Ὀκτάουιος … διέπλει τὸν Ίόνιον, οὐκ εἰς Βρεντέσιον … ἀλλ’ἐς ἐτέραν οὐ μακρὰν ἀπὸ τοῦ Βρεντεσίου πόλιν, ἐκτὸς οὖσαν ὁδοῦ, ᾗ ὅνομα Λουπίαι (Ottaviano attraversò lo Ionio non alla volta di Brindisi ma di un’altra città non distante da Brindisi, che però era fuori dalla rotta diritta, chiamata Lecce).

A questo punto, pensando a Pausania, bisognerebbe supporre che al tempo di Ottaviano esistesse già a S. Cataldo un porto naturale (non mancano, però, a breve distanza altre insenature che avrebbero consentito un facile approdo) e che l’intervento di Adriano sia consistito nel suo ammodernamento? Appare, comunque, strano che l’autore greco non ricordi il legame del porto  con un personaggio così importante e questo avvalorerebbe l’ipotesi dell’insenatura alternativa.

Ma, per chiudere, tornando al suo ὅρμος, sarà un caso o suggestione se la rappresentazione aragonese evoca l’immagine di una collana?

Le carte del XVII secolo (di seguito i dettagli da Janssonius, Bulifon, Hondius e Magini) non mostrano alcun collegamento con il mare.

 

Esso, invece, nella carta del De Rossi (1714) appare come elemento di una triade in cui la forma sinuosa di ogni canalone inequivocabilmente attesta la sua formazione naturale e nella sua molteplicità l’impaludamento della zona e quest’ultimo potrebbe essere stata la causa della scomparsa di quello che per il suo andamento rettilineo appariva come artificiale.

Solo le risultanze di indagini archeologiche estese anche all’immediato entroterra, forse, sarebbero in grado di sciogliere questa domanda e quella che costituisce il titolo dello stesso post. Ma l’antropizzazione della zona2 e le ristrettezze di investimenti già insufficienti a proteggere i resti a mare rendono tutto questo dolorosamente chimerico.

 

Per altri dettagli della stessa carta:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/21/nardo-altri-centri-limitrofi-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/13/lecce-territori-sud-est-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/09/gallipoli-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/04/castro-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/27/otranto-dintorni-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/15/brindisi-suo-porto-carta-aragonese-del-xv-secolo/

 

________

1 Se è così, se la carta è fedele all’originale e il dettaglio in oggetto non è un aggiornamento, esso non avrebbe nulla a che fare, per evidenti motivi cronologici (antico risulterebbe decisamente sovradimensionato), con i reali o presunti interventi edilizi di Maria d’Enghien, cui si fa cenno in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/16/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-torre-di-san-cataldo-56/ .

2  Basta dare un rapido sguardo alla seconda delle foto che corredano il bel post di Alessandro Romano in http://www.salentoacolory.it/molo-adriano-san-cataldo/.

3 A cominciare da Thomas Blackwell in Memoirs of the Court of Augustus, London, t. I, 1753.

I castelli di Terra d’Otranto tra il 1584 e il 1610 in una relazione manoscritta del 1611: TORRE DI SAN CATALDO (5/6)

di Armando Polito

25r

 

 

 

 

In Mariangela Sammarco, Silvia Marchi e Stefano Margiotta, Tra terra e mare: ricerche lungo la costa di S. Cataldo (Lecce)1,  in Rivista di topografia antica diretta da Giovanni Uggeri, XXII, Congedo, 2012, nella nota 61 di p. 128 si legge: Risulta erronea la notizia, perdurata a lungo negli scritti sul porto antico [di S. Cataldo], di un intervento edilizio promosso dalla regina angioina Maria d’Enghien per la realizzazione di una “ingentem molem longis iunctam lapidibus miro opere” che avrebbe inglobato la struttura romana. Nella documentazione d’archivio a noi nota non compare alcuna menzione della costruzione di un nuovo molo né esistono riferimenti relativi ad una possibile sistemazione di quello preesistente, operazione che avrebbe comportato una ingente spesa di denaro di cui sarebbe sicuramente rimasta traccia nei registri angioini. L’impresa di Maria d’Enghien non deve dunque aver riguardato la costruzione di un molo bensì il restauro del “castello guarnito di monitioni”, con cui si indicava la torre costiera preesistente distrutta da una mina inglese agli inizi del XIX secolo.

Credo che gli autori avrebbero fatto bene a citare la fonte da cui hanno tratto la notizia sulla distruzione della torre ad opera di una mina inglese. Non avendo avuto il tempo per fare un’indagine in tal senso sono costretto a credere sulla fiducia. Per quanto riguarda, invece, l’intervento edilizio di Maria d’Enghien mi piace (non per capriccio ma perché lo ritengo indispensabile) riportare il passo del Galateo che costituisce il contesto della citazione in latino presente nell’estratto.

Dal De situ Yapygiae, Perna, Basilea, 1553, X, 12-13: Inde exeuntibus ad X milia passuum occurrit castellum quod a divo Cataldo, antiquissimo Tarentinorum archiepiscopo, nomen accepit, eo quod  ille ex oriente proficiscens, haec  primum loca attigit, ubi et pusillum templum illi dicatum extat. Hoc quoque castellum Gualterius condidit pro emporio Lupiensium urbi propinquiori, ubi Maria eiusdem haeres ingentem molem longis iunctam lapidibus miro opere construxit. Nunc incuria principum et Lupiensium rebus, post mortem Ioannis Antonii principis et ob continua bella, defectis atque afflictis, pene exaggerata est.

TraduzioneChi procede da lì [da Roca Vecchia] per 10 miglia s’imbatte nel castello che prese il nome da san Cataldo, antichissimo arcivescovo dei Tarantini, per il fatto che egli provenendo dall’oriente toccò dapprima questi luoghi, dove c’è anche un piccolissimo tempio a lui dedicato. Gualtiero fondò anche questo castello per emporio dei Leccesi più vicino alla città, dove Maria sua erede fece costruire con arte meravigliosa un grande molo messo insieme dall’unione di lunghe pietre. Ora per l’incuria dei principi e per la situazione dei Leccesi, deteriorata e duramente provata dopo la morte del principe Giovanni Antonio e per le continue guerre, è quasi in rovina.

Quando si ha a che fare con un umanista del calibro del Galateo bisogna fare attenzione alle parole che usiamo ma soprattutto a quelle da lui usate, anche se come etimologo qualche volta suscita perplessità2.

Il verbo usato per castellum è condidit, per moles è construxit. Da un punto di vista etimologico il primo (da cum+dare) esprime l’atto primario della fondazione (da qui l’importanza dell’eroe-eponimo), il secondo (da cum+struere) privilegia l’esecuzione in sé, il mettere un pezzo su un altro. Detta così la cosa sembrerebbe una distinzione forse troppo sottile. Ma le parole, anche quelle che a prima vista possono apparire come sinonimi, acquistano un’identità più precisa, che spesso dirada le nebbie dell’equivoco sempre in agguato in indagini di questo tipo, grazie al contesto. Così moles in latino può significare massa, edificio gigantesco, molo, diga, sforzo, difficoltà, pericolo. Escludendo il primo significato e gli ultimi tre dall’evidente valore traslato, mi rimangono edificio gigantesco, molo, diga. Credo che con nessuno di essi possa accordarsi un semplice restauro di un castellum (fortino), quale sarebbe stato quello operato da Maria secondo gli autori del testo citato all’inizio. Ma c’è di più. Il concetto di moles che già di per sé, come abbiamo visto, è legato a qualcosa fuori dall’ordinario, qui è ribadito, ove ce ne fosse stato bisogno, dall’attributo ingens (smisurato): segue il particolare descrittivo di longis iunctam lapidibus e una lapis longa (pietra lunga) mi pare più ragionevolmente identificabile con i blocchi regolari di un molo più che con un concio o, meno ancora, con le pietre, per quanto lunghe e piatte, che sarebbero state usate anche in seguito nella costruzione delle torri costiere. Miro opere (con arte meravigliosa), poi, mi pare esagerato per un semplice lavoro di restauro. Tornando, infine, a construxit il verbo potrebbe, dunque, ricordare un ampliamento e probabile contemporaneo restauro, dell’antico porto romano.

Per tornare, infine, alla nostra torre mi pare opportuno soffermarmi su alcuni dati cartografici.

Iacopo Castaldo, Apuliae, quae olim Iapygia, nova chorographia (1595)3:

Johannes Janssonius Itala, nam tellus Graecia maior4 (1640 circa):

 

Invito il lettore a soffermare la sua attenzione sulla rappresentazione del Lupiarum navale (base navale di Lecce).

Henricus Hondius, Terra di Otranto olim Salentina & Iapigia5 (1650 circa):

Antonio Bulifon, Terra d’Otranto6, in Carte de’ regni di Napoli e di Sicilia, loro provincie ed isole adiacenti, s. n. s. l. s. d. (ma sicuramente da collocare nel primo decennio del XVIII secolo).

6

 

Chiara la sua derivazione dalla carta dell’Hondius. Le torri qui sono indicate con lo stesso simbolo riservato alle città. Da notare pure  T. Specchio di Rugiero contro il T. Specchia di Rugiero dell’Hondius.

Carta geografica della Sicilia prima o sia Regno di Napoli disegnata da Antonio Rizzi Zannoni e fatta incidere per ordine del Rè delle Due Sicilie a Parigi nel 17697:

Da notare i due gruppi di tre quadrati (simbolo in comune con le altre torri) a presidiare i lati opposti del porto che ha la stessa conformazione già vista nella carta di Janssonius.

Lo stesso Rizzi Zannoni procederà poi alla revisione della carta del 1769 nell’Atlante geografico del Regno di Napoli in 32 fogli, completato nel 18128. Dal foglio 31 è tratto il dato che segue:

Qui la rappresentazione della fortificazione ha perso completamente il carattere strano che mostrava nella mappa precedente. Molto importante, mi pare, comunque, che essa dimostra la sua esistenza a tale data e la dicitura Castello di San Cataldo spiega eloquentemente l’es algo mas grande de las demas (è un po’ più grande delle altre [torri] e il no siendo mas que torre (non essendo più che torre) del documento.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/11/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-taranto-16/

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/18/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-gallipoli-26/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/30/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-otranto-36/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/05/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-lecce-46/

Per la sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/25/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-brindisi-66/

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1 http://www.academia.edu/6576080/Tra_terra_e_mare_ricerche_lungo_la_costa_di_San_Cataldo_Lecce_._Con_un_Appendice_litostratigrafica_di_S._Margiotta

2 Per esempio: Solum pingue et frugum omnium ferax, unde fortasse Lupiae, ab eo quod est LIPARON, id est pinguae, dictae sunt (Il suolo è grasso e ferace di ogni frutto, da cui forse si chiamò Lupiae [Lecce], per il fatto che è LIPARON [in greco significa  grasso], cioè pingue). Meno male che il fortasse (forse) tradisce i dubbi derivanti dalle difficoltà di natura fonetica che tale proposta etimologica comporta.

3 Visibile in alta definizione in http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b530428848/f1.zoom.r=APULIA.langEN

4 Visibile in alta definizione in http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84464435/f1.zoom.r=janssonius.langEN

5 Visibile in alta definizione in http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8490349t.r=hondius.langEN

6 Visibile in alta definizione in http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b530425649.r=terre+d%27otrante.langEN

7 Visibile in alta definizione in http://www.mapsandimages.it/eMaps/autore.htm?idAut=470 (è la terza).

8 Visibile in alta definizione in http://www.davidrumsey.com/luna/servlet/detail/RUMSEY~8~1~246514~5515020

 

La condizione degli Ebrei a Lecce al tempo di Maria d’Enghien

maria-d_enghien-particolare-del-suo-ritratto-basilica-di-s-caterina-a-galatina-xiv-xv-sec-foto-di-daniela-bacca
Maria d’Enghien, Basilica di S. Caterina a Galatina, particolare (foto di Daniela Bacca)

di Armando Polito

Va preliminarmente detto che ai tempi di Maria d’Enghien e degli statuti da lei emanati per la città di Lecce il 4 luglio 1445 la discriminazione degli Ebrei  era una prassi storicamente ben conosciuta e sperimentata. Basti sinteticamente ricordare che nel 1215, sotto il pontificato di Innocenzo III (1198-1216) il IV Concilio lateranense stabilì l’obbligo per gli Ebrei di portare un segno distintivo sui vestiti e la loro esclusione dai pubblici uffici; in sostanza, dopo che erano falliti i ripetuti tentativi di conversione, si era deciso di isolarli e rendere facile l’identificazione del presunto diverso con un distintivo  che per le donne era il velo giallo, contrassegno delle meretrici, e per gli uomini un cerchio rosso.

Il “problema ebraico” troverà ampio spazio nel 1430 negli statuti sabaudi di Amedeo VIII di Savoia, che introdurrà per gli Ebrei l’obbligo di vivere in un luogo separato.1

I provvedimenti contenuti negli statuti della contessa Maria sembrano muoversi nel solco già tracciato, ma danno l’impressione di una loro applicazione più laicamente tollerante ed umana: me lo fa pensare, per esempio, il fatto che il permanere dell’obbligo dei segni distintivi appaia più come una misura di ordine pubblico che di effettiva discriminazione, quasi un compiacere formale all’autorità religiosa e non mi pare neppure secondario il fatto che nei provvedimenti la pena prevista (tra cui la fustigazione per le vie della città  nel caso in cui il colpevole non fosse in grado di pagare la multa) non fa distinzione alcuna tra giudei e cristiani. E la delazione, da altri2 interpretata come emblema della caccia all’ebreo, era in realtà la prassi corrente per una notevole serie di reati, indipendentemente dal colpevole.

Che le cose stessero proprio così lo conferma il Libro Rosso di Lecce, anno 1467, ove (cito dall’edizione a cura di Pier Fausto Palumbo, Schena, Fasano1997, pag. 187) a proposito degli Ebrei si legge: foro sempre incorporati et uniti cum la dicta Universita, contribuendo in omne peso et pagamento, et cussi gaudendo omne previlegio et immunita quali gaudevano li altri citatini. Più chiaro di così …

Molto probabilmente anche per questo, caso raro ieri e ancor più oggi per un detentore del potere, la contessa di Lecce godette dell’affetto di tutti i suoi sudditi.

Bisognò attendere il 26 febbraio 1495 (Maria era morta da quasi 50 anni) perché si manifestasse la rottura di questa pacifica convivenza: Die 26 Februarii essendo in Lecce fama, che il Re di Francia habbia pilliato Napoli, se levò armata manu tutto lo populo, et saccheggiaro tutto lo Castiello, dove erano andati la maggior parte de Judei cu loro facultate pe essere salvi, saccheggiando dopo tutto lo resto de la Judea, dove in tante spade non ci fu morto nullo, et durò paricchi jorni lo saccheggiamento, sempre trovando robba et denari sotterrati. Die 21 Marsio se levò in romore tutto lo populo de Lecce gridando, morano morano tutti li Judei, overo se facciano Cristiani, dove una gran quantità sendo fero Christiani, et pilliaro cum gran furia lo Episcopo di Lecce, portandolo di mezzo a la Piazza a consegrare la Sinagoga de Judei, dove in dicto jorno li fo miso nome de Sancta Maria de la Grazia, et portato da mille fegure de Sancti, et celebrate Messe. Pe volirne fare certi della ostinazione de maligni et perfedi Judei me accade narrarvi uno orribile caso, che soccesse in Lecce, essendo tutti Judei reposti in Casa de Cristiani pe pagura de no essere ammazzati, certi Judei stando in Casa de uno Zentiluomo nomine Pierri Sambiasi in quel dì, che se levò le grida morano li Judei, et se fazzano Cristiani, questi tali, che erano cinque fra mascoli et femine, tutti se iettaro dentro uno Puzzo pe no se fare Cristiani, el Marito d’una di quelle, che fo il quarto, che se iettò dentro lo Puzzo, trovò la Molliere, et due altri, che surgeano nel cadire suo, et non soffondao nell’acqua, dove havendosi pentito se recuperò alli gradi de lo Puzzo, el quinto, che era suo figlio se accecao, l’ultimo cascando …. sopra il predetto, tutti dui andara in acqua, el Patre se recuperò, el figlio havia accecato el Patre pe no morire, el Judeo arrecordandose d’un coltello, che havia addosso, perdonò la morte al figlio pe camapare esso, quelli della Casa subito cursero al rumore, cacciarende lo Patre vivo , et li quattro morti3.

Ecco, tratti dal codice di Maria d’Enghien nell’edizione di cui già mi sono avvalso4, i passi relativi, anche questi con la mia “traduzione” a fronte per far rilevare al lettore alcune incongruenze formali (direi usuali in un manoscritto) del testo originale e per soffermarmi nelle note su alcuni vocaboli che ancora oggi sopravvivono.

 

 

Questo del danneggiamento procurato dal bestiame è l’unico reato che non preveda espressamente pene comuni per i trasgressori. In un altro bando6, infatti, viene regolamentato tale reato quando commesso da un non ebreo. Tuttavia, il fatto che lì si parli di danno generico da quantificare e in più di una multa a discrezione dal Capitano della città non consente un esame comparativo che, alla resa dei conti, metta in risalto una pena maggiore quando lo stesso reato è commesso da un ebreo.

 

 

________________

1 Nel 1555 la bolla Cum nimis absurdum emessa da Paolo IV istituzionalizzerà il ghetto imponendo agli Ebrei di abitare in una o più strade senza alcun contatto con i cristiani. Dopo qualche secolo (magra consolazione …) la follia nazista.

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/26/ebrei-nel-salento-sotto-i-del-balzo-orsini/

Da inquadrare, invece, nella categoria del giornalismo-spazzatura, che crede di fare cultura con titoli altisonanti a firma di novelli sedicenti Piero Angela, è il servizio a cura di Lara Napoli, visibile all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=CLfS44IS3pE

La tragedia non è costituita dal fenomeno in sé, quanto dal numero di proseliti/imitatori e di credule vittime, il cui sviluppo esponenziale i nuovi media, la rete più di ogni altro, hanno favorito.

3 Cronache di M. Antonello Coniger di Lecce, in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, v. II, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1851, pagg. 498-499.

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/20/riflessioni-su-alcuni-bandi-leccesi-del-xv-secolo/

5 La variante ancora oggi in uso a Nardò è cuminanzièri ed in passato era il nome del servo agricolo che mangiava insieme con la famiglia del padrone. Per il Rohlfs la voce nasce da incrocio tra convenienza e comunanza.

6

7 Tal quale ancora in uso a Nardò. Per il Rohlfs è di origine onomatopeica.

8 Oggi stompu è sinonimo di mortaio; qui invece dal contesto si direbbe un tipo di agrume, ma non son riuscito ad individuarlo.

Riflessioni su alcuni bandi leccesi del XV secolo.

di Armando Polito

I bandi del titolo sono una serie di ordinanze emesse da Maria d’Enghien, parte integrante degli statuti emessi il 4 luglio 14451 ed esemplatici nel 14732 con altri atti per volontà dell’amministratore leccese Antonello Drimi in una pergamena conservata nell’Archivio di Stato di Lecce (in basso foto dell’incipit) nota col nome di codice di Maria d’Enghien.

Immagine tratta da http://www.archiviodistatolecce.beniculturali.it/getImage.php?id=139&w=300&h=400
Immagine tratta da http://www.archiviodistatolecce.beniculturali.it/getImage.php?id=139&w=300&h=400

 

Tale manoscritto venne pubblicato per la prima volta da Francesco Casotti in Opuscoli di Archeologia, storia ed arti patrie, Pellas, Firenze, 1875, Opuscolo V, pagg. LXXII-CXXI. Da questa edizione, in cui gli statuti occupano le pagg. LXXII-CXIV, sono tratti i passi qui presi in esame4. Le “traduzioni” a fronte sono mie.

A ciascuno di loro ho dato un titolo non per accattivarmi l’attenzione del lettore ma perché l’intento divulgativo (sempre supportato, per quel poco che so fare, dai dati scientifici) trovasse un modo più immediato e diretto per esprimersi e non rinunciasse ad un confronto con il presente, senza avventurarsi per questo in arbitrarie attualizzazioni.

Il problema degli incendi estivi e il rispetto per l’ulivo

Forse oggi la data del 15 agosto (festa dell’Assunta) non ha la stessa crucialità di allora, non tanto per le mutate condizioni climatiche ma soprattutto perché incendi più o meno dolosi possono essere appiccati in qualsiasi giorno dell’anno. E non mi riferisco, perciò, al problema, banale pur nella sua ricorrente gravità, delle ristoppie o dell’erba secca non rimossa nemmeno dai margini delle strade extraurbane, ma alla criminale eliminazione, per fini speculativi, di olivi, magari centenari. Appiccare il fuoco ad un oliveto (anche se involontariamente, come si evince dal brano appena letto) cinquecento anni fa era un reato grave e la Madama (Maria d’Enghien) aveva stabilito che era reato pure, una volta scattato l’allarme, fare l’indifferente e non sentirsi obbligato ad intervenire (credo che allora la maggior parte lo facesse non certo per non incorrere nella multa prevista, ma per senso di fratellanza civica e di rispetto nei confronti della sacralità della pianta, oltre che per la sua importanza economica).  Mi fa piacere leggere che pure l’autorità religiosa (Missere) impegnava i suoi (iaconi e preiti) che pure in circostanze diverse (contemplate in altri passi dei bandi) godevano di privilegi ed esenzioni ben più consistenti dell’essere esonerati da interventi da pompieri senza pompa (in tutti e tre i significati allora come oggi conosciuti …). Godevano? … (il  mio dubbio, retorico, è, continuando nel gioco di parole, temporale nel senso che si riferisce ad agevolazioni materiali che però sopravvivono, e come!, ancora oggi senza vergogna, nonostante quotidiane dichiarazioni francescane di povertà che fungono da contraltare (altro gioco di parole, ma qui la sfumatura di contrasto insita nel termine è andata a farsi fottere …) alle parole merito, lavoro, lotta all’evasione fiscale con cui, anche lui quotidianamente, il potere laico si sciacqua la bocca.

A chi poi, già allibito dalle parole, secondo lui,  blasfeme e sovversive che ho appena usato, dovesse scandalizzarsi per l’importanza assegnata alla delazione (Et chi lo accusara, ne havera tari cinque: et essera tenuto secreto) ricordo che non molto tempo fa il governo di turno ebbe l’ennesima geniale idea di combattere l’evasione fiscale assicurando l’anonimato a chi, solo per fare un esempio, avesse segnalato qualche vicino o conoscente che da lui fosse stato presunto come evasore, magari solo per l’invidia suscitata dal fatto che l’accusando esibiva ogni giorno una cravatta diversa … Misura inefficace come le precedenti, le successive e tutte le altre (anche le meno fantasiose, creative e le più razionali …) che dovessero essere adottate, finché non si renderà deducibile ogni anno il costo di quanto acquistato (dalla più lussuosa delle automobili alla più economica delle caramelle). E se conservare per cinque anni gli scontrini fiscali dà fastidio, allora si porti alle estreme conseguenze la virtualizzazione del denaro, dei cui benefici sinora hanno goduto solo le banche …

Il problema delle contraffazioni

A cinquecento anni di distanza non si direbbe che l’invenzione delle etichette abbia migliorato la situazione. Per giunta certe disposizioni della UE hanno finito per penalizzare la tipicità (sinonimo, in questo caso, di eccellenza inimitabile e ripetibile solo da chi detiene meritatamente tale primato) di alcuni nostri prodotti che già soffrivano di concorrenza sleale (e non mi riferisco solo allo sfruttamento del lavoro minorile o a più sfavorevoli condizioni di partenza come i maggiori costi dell’energia, del lavoro, etc., etc.).

Concussori e concussi

 

Sempre a cinquecento anni di distanza (anche se nel frattempo alle figure del concussore e del concusso si sono aggiunte, in considerazione della priorità d’iniziativa, quelle del corruttore e del corrotto) sono in vigore una serie di leggi confuse e contraddittorie,  gioia e delizia degli avvocati e degli imputati. La legiferazione organica sulla materia resta una chimera e, comunque andranno le cose, mai si proporrà (tanto meno si approverà …) il sequestro preventivo di tutti i beni ascrivibili (e non solo di quelli formalmente intestati, praticamente inesistenti …) tanto ai presunti corruttori e corrotti da una parte, quanto ai presunti concussori e concussi dall’altra. Il famoso  principio della presunzione di innocenza (ogni secondo sbandierato, chissà perché,  dai nostri politici in odore di avviso di garanzia e non) sarà pure simbolo di civiltà giuridica, ma finora mi pare abbia fatto più vittime tra gli innocenti che tra quelli prima presunti e poi dichiarati, in via definitiva, colpevoli …

Il costo del lavoro

Si direbbe un rigoroso calmiere relativo  alla mano d’opera, con una gradualità altrettanto precisa di retribuzione legata all’importanza ed all’onerosità della mansione. Per esempio, credo che a buon diritto la retribuzione più elevata fosse quella del battitore, non tanto per il rischio insito nell’uso di scale quanto, piuttosto, per la sua abilità nel battere in modo tale da non compromettere i successivi raccolti. Degni di nota, poi, la multa prevista tanto per il proprietario che per il giornaliero e il solito premio per il delatore, oltre ai vigilanti in incognito. Mi chiedo se tutto quest’apparato avesse una funzione di dissuasione o fosse veramente efficace. Da non trascurare, infine, il fiasco di vino ammesso in aggiunta al salario, mentre il pane ne restava tassativamente escluso. Certamente ciò era dovuto al maggior valore attribuito al pane (oggi, forse, ricominciamo a farlo dopo un lungo periodo in cui contava di più il companatico …)  rispetto al vino, ma secondo me bisogna pure tenere in conto l’effetto, si direbbe col linguaggio pubblicitario di oggi, tonico e corroborante del vino; perciò si chiudeva un occhio su questo che, sempre con un termine oggi inflazionato insieme con attimino, per il lavoratore rappresentava un aiutinofinché non cadeva dall’albero.

A quando il calmiere delle retribuzioni di certi personaggi a cominciare dai politici e, passando per i pubblici managers (!), per finire con i dipendenti televisivi, presentatori in primis?

Quando Belloluogo era nel suo pieno splendore ed opportunamente difeso

Immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Torre_di_Belloluogo_Lecce.jpg
Immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Torre_di_Belloluogo_Lecce.jpg

Da notare la “delicatezza” giuridica del bando, in cui il riferimento a Belloluogo appare solo come un corollario alle disposizioni contro la violazione, a mano armata o no,  della proprietà privata, nella fattispecie rappresentata da iardine oy orte. Simpatico, poi, il riferimento alla presenza di vasapedi, corrispondente, al neretino azzapieti5 e chissà se con la stessa efficacia dissuasoria degli attuali cartelli con le famigerate scritte zona avvelenata o controllo elettronico della velocità …

__________

1 Nel manoscritto si legge: Data in castro nostro Litij sub anno domini Millesimo, quadrigentesimo quatragesimo quinto die quarto mensis Julij octavae indictionis nostro parvo sigillo sigillata etc. (Emessi nel nostro castello di Lecce nell’anno del Signore 1445 il 4 luglio dell’ottava indizione, sigillati col nostro piccolo sigillo, etc.). Non è corretta, perciò, la data del 14 luglio 1445 riportata in http://it.wikipedia.org/wiki/Maria_d’Enghien

2 Nel colophon del manoscritto: Capitula, et statuta florentissimae civitatis litij deo favente finiunt foeliciter Transcripta quidem tempore Magnifici viri Petri de fossa Sindici universitatis predicte: et nobilium auditorum Roberti cafay et Raimundi gallipolini sub anno domini M° cccc° Lxxiij vj° Indictionis. Antonellus Dimi escripsit (Gli articoli e statuti della fiorentissima città di Lecce col favore di Dio terminano felicemente trascritti invero al tempo del magnifico Pietro di Fossa sindaco dell’università predetta e degli uditori dei nobili Roberto Cafay  e Raimondo di Gallipoli nell’anno del Signore 1473 della sesta indizione. Antonello Drimi trascrisse).

3 Il titolo (lo riporto fedelmente con tutte le incongruenze relative all’uso disinvolto e incoerente delle iniziali maiuscole …) nel manoscritto è: Statuta et capitula florentissimae civitatis litii ordinata et imposita per Inclitam Maiestatem Mariae de engheno ungariae Jerusalem et siciliae reginae litiique comitissae feliciter incipiunt (Gli statuti e articoli della fiorentissima città di Lecce ordinati e imposti dall’inclita Maestà di Maria d’Enghien regina di Ungheria e Gerusalemme e contessa di Lecce iniziano felicemente).

4 Sostanzialmente  coincidente con quella del Casotti è l’edizione più recente di Michela Pastore, Il codice di Maria d’Enghien, Congedo, Galatina, 1979. La pubblicazione ha il pregio, insolito in lavori del genere, di contenere anche la riproduzione fotografica delle carte originali (nella foto sottostante la foderina e la copertina).

5 Su azzapete vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/27/la-pianta-che-fa-tribolare/   

 

Maria d’Enghien, mecenate del primo Rinascimento salentino (III ed ultima parte)

maria d'enghien

di Alfredo Sanasi

 

Dopo la morte di Giovanna II Durazzo, avvenuta nel 1435, e il trionfo di Alfonso I, celebrato a Napoli nel 1443, il principe di Taranto fu il primo consigliere del Re ed il personaggio più autorevole e più vicino al sovrano. Durante questi anni Maria d’Enghien fu sempre accanto al figlio e se egli potè interessarsi totalmente degli avvenimenti bellici ciò gli fu permesso grazie alla diplomazia e al prestigio che la regina mostrò nella guida politica e amministrativa del suo “regno nel regno”. Il suo amore per l’arte, sempre presente in lei sin da quando era stata accanto a Raimondello nella costruzione della torre di Soleto e di Santa Caterina con annesso ospedale a Galatina, si manifestò ancora più decisamente in questo lungo periodo, tanto che volle dotare la Basilica di Santa Caterina di affreschi vasti e importanti che gareggiassero con quelli di Napoli voluti dalle due regine d’Angiò Durazzo. Vera mecenate, incline allo splendore e alla grandezza, ella non badò a spese e forniture di materiali preziosi:lapislazzuli per i fondi azzurri, foglie d’oro per le corone dei santi, foglie d’argento per le stelle delle volte. Era la rivincita di Maria d’Enghien sulla regina Giovanna II e su quanti l’avevano ingiustamente avversata. Maria d’Enghien considerava la basilica, dice giustamente Fernando Russo, cui si devono gli splendidi restauri, non secondo la prospettiva del fedele, ma secondo un’ottica tutta politica, quindi ella operava un’ identificazione fra sè e Santa Caterina. Aggiungiamo che con gli affreschi voluti da Maria d’Enghien il Salento cominciò ad uscire da un lungo medioevo ed ad aprirsi a correnti artistiche e culturali d’ogni parte d’Italia. A Napoli la regina era venuta a contatto ed aveva conosciuto artisti napoletani, toscani, marchigiani, emiliani che sicuramente volle far venire a Galatina e di tali scuole sono evidenti i segni e le caratteristiche in molti affreschi galatinesi. Se poi scendiamo ad osservare alcune scene dipinte nella navatella destra del tempio orsiniano (il crollo degli idoli e gli idoli spezzati) scopriamo che esse si ritrovano soltanto nelle vetrate della cattredale di Chartres e quindi non azzardiamo troppo nel credere che Maria d’Enghien aprì i suoi cantieri pittorici ad artisti venuti dalla Francia e da altre parti d’Europa. Si ha insomma l’impressione che il “cantiere galatinese” fu un luogo d’intrecci, di scambi e di confronti, una situazione in perpetuo movimento, con pittori che si mettono in viaggio per vedere cose nuove ed altri che arrivano da lontano. Maria d’Enghien fu l’anima attiva di Lecce e del principato di Taranto; anche quando il figlio Giannantonio Orsini, tra vittorie e sconfitte, rimase prigioniero delle armi genovesi ella mostrò un animo indomito e rimase la figura più rappresentativa della Puglia, pur tra i continui fatti che la addolorarono, prima la morte della diletta figlia Caterina, contessa di Copertino e poi dei due figli di costei, Raimondello e Antonia. Grande gioia provò invece quando tra un festoso corteo vide partire per Napoli l’altra sua nipote Isabella di Chiaromonte, perché, affermando sempre più la sua discendenza, la inviava sposa a Ferrante d’Aragona, figlio del re Alfonso, destinata a salire successivamente a quel trono che certo a lei personalmente non aveva portato molta fortuna.

Nata, come sostengono alcuni, a Copertino, muore a Lecce nel 1446, onorata con esequie regali: come si doveva ad una regina la sua bara fu coperta da broccato rosso carminio, seta celeste e pallio d’oro e fu sepolta nell’antico monastero di Santa Croce, in un’arca ornata di statue e marmi preziosi: intorno alla regina seduta erano collocate le statue della Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza, Fede e Carità, quasi a significare che quelle virtù si erano manifestate in sommo grado in tutti gli atti della sua vita. Questa donna eccezionale non ebbe però pace lunga neppure dopo la sua morte, perché l’imperatore Carlo V nel 1537 distrusse chiesa e monastero per costruire sul posto l’ampliamento e le fortificazioni del castello tutt’ora esistente. Il mausoleo di Maria d’Enghien venne ricostruito nel transetto sinistro della attuale chiesa di Santa Croce. Ma anche qui Maria d’Enghien non riposò in pace. Per fare posto alla cappella della Arcifraternita della Trinità tale mausoleo, ridotto forse alla sola statua della Regina, venne distrutto e la statua venne gettata in un giardinetto, poi in un fossato e ridotta in frantumi. Maria d’Enghien, valorosa guerriera, accorta amministratrice di una contea e di un principato vasto come un regno, dispensiera e ispiratrice di provvedimenti e statuti, dedita a grandi opere d’arte e di fede, nobile mecenate del primo Rinascimento, fu presto e ingiustamente per lunghissimi tempi completamente dimenticata.

 

 

Bibliografia

 

Cassiano A., Santa Croce a Lecce, Storia e Restauri, a cura di A. Cassiano e M. Cazzato, Galatina 1999.

Congedo U., Maria d’Enghien, Lecce 1899.

Coniger, Cronache, in “Raccolta di varie cronache, diarii, etc”, Napoli 1872, t. V.

Cutolo, Maria d’Enghien, Galatina 1977.

De Blasiis G., Tre scritture napoletane del XV secolo, in «Archivio storico per le province napoletane», vecchia serie, IV.

De Sassenay, Le Briennes de Lecce e d’Athenes, Parigi 1869.

Marciano C., Descrizione, origini e successi della Provincia di Otranto, Napoli 1855.

Marsicola C., S. Caterina a Galatina, Milano 1984.

Pastore M., Il Codice di Maria d’Enghien, Galatina 1979.

Presta T., S. Caterina d’Alessandria in Galatina, Galatina 1991.

Profilo A., La Messapografia, Lecce 1875, vol. II.

Russo F. , La parola si fa immagine, Venezia 2005.

Vigner N., Histoire de la maison de Luxembourg, Parigi 1617.

 

Pubblicato su Spicilegia Sallentina-

Le due parti precedenti si possono leggere cliccando sui seguenti link:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/29/maria-denghien-mecenate-del-primo-rinascimento-salentino/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/30/da-contessa-di-lecce-maria-denghien-mecenate-del-primo-rinascimento-salentino-ii-parte/

 

 

 

Maria d’Enghien, mecenate del primo Rinascimento salentino (II parte)

enghien

di Alfredo Sanasi

 

…Il cosiddetto “Codice di Maria d’Enghien” riunisce tutte le norme a cui si richiamava il Concistorium Principis e che regolavano quattro materie politico-amministrative della città di Lecce: i dazi, le tasse su uomini e animali, l’ordine pubblico, la manutenzione delle mura e dei fossati.

Certo la contessa-regina non ebbe diretta parte nella compilazione di tale codice, che risale a vari anni dopo la sua morte, ma è fuor di dubbio che la figura di lei domina ovunque con precisi riferimenti; i bandi appartengono al suo governo o sono da lei ispirati: si legge infatti spesso in essi l’espressione “de voluntate et comandamento de la maiesta de Madama Regina Maria”.

Quegli anni di pace, che Raimondello e Maria dedicarono soprattutto al buon ordinamento politico-giudiziario e alle opere d’arte, quali degni antesignani dei principi più illuminati del Rinascimento italiano, dovevano finire allorché i due principi ruppero fede al re Ladislao e si riaccostarono al partito angioino, seguendo Luigi II d’Angiò.

Raimondello si rese conto che il re Ladislao avrebbe espresso la sua indignazione con un atto di guerra e perciò preparò un forte esercito per difendere il suo principato, ma proprio allora , all’inizio del 1406, egli morì a Lecce. Maria d’Enghien non si perse d’animo. Occultò per il momento la morte del marito e affrettò i preparativi di guerra, per fronteggiare risolutamente l’attacco di Ladislao d’Angiò Durazzo. Anticipando coraggiosamente l’eroismo di Giovanna d’Arco di alcuni decenni, infiammò arditamente gli animi dei suoi sudditi vestendo una pesante armatura e spronandoli alla difesa della patria. L’esercito napoletano cinse d’assedio Taranto, ma ben presto il re Ladislao si doveva rendere conto che Maria d’Enghien era pressocchè imprendibile, tanto era solida la difesa della città dai due mari, a cui avevano portato aiuto i Sanseverino, ora alleati di Maria contro il comune nemico, quel re Ladislao che pochi mesi prima aveva messo a morte e lasciati insepolti quattro signori Sanseverino. L’assedio si protrasse per tutto l’anno 1406 con varie vittoriose sortite dei Tarantini, a tal punto che il re, scornato dalle continue vittorie d’una donna, se ne tornò a Napoli, lasciando il comando delle truppe a don Antonio Acquaviva, duca d’Atri. Anche al duca la principessa inferse delle sconfitte e ottenne da Luigi II d’Angiò l’investitura del principato di Taranto per il figlio Giannantonio Orsini del Balzo; se questi fosse morto senza figli, il principato sarebbe passato al fratello Gabriele e, nel caso d’un decesso di quest’ultimo, alle sorelle Maria e Caterina. Poi la principessa si ritirò ad Oria ad attendere le mosse di Ladislao. Nel marzo dell’anno successivo 1407, Ladislao tornò con un esercito potentissimo di cavalieri, fanti e navi. Quando tale notizia giunse alla principessa Maria, ella lasciò Oria e alla testa di alcune centinaia di cavalieri passò attraverso le file degli assedianti e rientrò a Taranto, sostenendo fieramente l’assedio, che si annunciava lungo e difficile.

Gentile da Monterano, consigliere del re Ladislao, ad un certo punto suggerì di risolvere quell’assedio snervante e forse dall’impossibile riuscita, proponendo al suo re una inaspettata soluzione: sposare Maria d’Enghien! Il re approvò e Maria accettò l’offerta del re. L’indomita amazzone accolse Ladislao sulle porte di Taranto non vestita d’oro e d’argento tra i broccati, ma in completa armatura e le nozze si celebrarono il 23 aprile dello stesso anno 1407 nella cappella di San Leonardo del Castello Aragonese di Taranto, dove ogni anno si svolge ancora oggi una rievocazione in costume di quell’evento storico. Sicuramente varie molle spinsero Maria d’Enghien ad accettare l’offerta del re sino a ieri suo implacabile nemico: il fasto della corte napoletana, il desiderio di eguagliare o addirittura offuscare famose regine di Napoli, Giovanna I d’Angiò e Margherita di Durazzo, un conscio o inconscio calcolo politico. Neppure i timori instillati in lei dai Sanseverino valsero a trattenerla, anzi ad uno di loro, che le aveva detto che il re , una volta avutala, l’avrebbe messa a morte, rispose sicura:”non me ne curo, perché se moro, moro regina”.

Il mese successivo la regina Maria partì da Taranto alla volta di Napoli, ma sola, perché Ladislao resto in Puglia per la sistemazione del nuovo grande possesso. E’ certo veramente che ella venne accolta dal popolo napoletano con grandi festeggiamenti e tra grida di gioia accompagnata sino alla mole di Castelnuovo, ma da quel momento cominciarono per lei le delusioni. La favorita del re, Maria Guindazzo, continuava a dimorare a Castel dell’Uovo e altre due amanti, la Contessella e Margherita di Marzano, per ordine del re, si insediarono a Castelnuovo, allorché nel mese di giugno Ladislao rientrò finalmente a Napoli. Trascorsero sette anni di lotte e guerre condotte dal re con alterne vicende, prima nel tentativo di riprendersi il trono d’Ungheria, poi guerreggiando a Roma, in Toscana ed in Umbria fino al 1414, quando perì tragicamente, forse avvelenato dai Fiorentini. Quegli anni Maria trascorse in Castelnuovo quasi dimenticata e quindi non si prese neppure in considerazione, alla morte del re, una sua successione, anzi, secondo il Coniger, Giovanna II, succeduta al fratello Ladislao, avrebbe allora fatto rinchiudere in carcere Maria e i suoi quattro figli.

Se non proprio prigioniera Maria d’Enghien fu comunque trattenuta a Napoli dalla regina Giovanna II e solo l’anno dopo, nel 1415, potè rientrare nel possesso della contea di Lecce, conservando il titolo di regina. Fu questo per Maria il periodo più attivo e fattivo nei confronti dei sudditi e dei suoi possedimenti, che ad uno ad uno riuscì a riconquistare o con le armi o con le trattative amichevoli, anche grazie agli interventi  di un grande cavaliere francese, Tristano Chiaramente, duca di Calabria e conte di Copertino, che ella volle quale sposo della figlia Caterina Orsini del Balzo. Per il regno di Giovanna II questo fu un periodo torbido e convulso di lotte, che raggiunse il suo culmine quando ella sposò Giacomo de la Marche, che tra gli altri dispiaceri arrecati alla regina aggiunse, non potendolo difendere, la vendita del principato di Taranto a Maria d’Enghien e a suo figlio Giannantonio. Giovanna II dovette, suo malgrado, riconfermare il Principato agli Orsini del Balzo. Maria d’Enghien iniziava una grande nuova ascesa, rafforzata ancor più dalle nozze nel 1417 del figlio Giannantonio con Anna Colonna, nipote del Papa Martino V. Giannantonio eguagliò il valore e l’ardimento del padre Raimondello e nelle lotte tra Angioini e Aragonesi per la successione al regno di Napoli finì con l’appoggiare apertamente Alfonso d’Aragona.

(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina

per la prima parte si veda

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/29/maria-denghien-mecenate-del-primo-rinascimento-salentino/

 

Maria d’Enghien, mecenate del primo Rinascimento salentino

Da contessa di Lecce a regina di Napoli.

Maria d’Enghien, mecenate del primo Rinascimento salentino

 

di Alfredo Sanasi

 maria d'enghien

Se questa domanda venisse posta ai Salentini, anche di non modesta cultura, molti di essi sarebbero in difficoltà a rispondere circa questa nobile e grande figlia del Salento, che segnò di sé la storia antica del meridione d’Italia e che anticipò le grandi eroine dell’Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata: l’Ariosto e il Tasso avrebbero tanto gioito di conoscerla personalmente (ma chi può escludere che un eco del suo grande animo non giunse veramente alla fantasia dei nostri grandi poeti del Rinascimento?).

Il suo animo eroico ella mostrò in varie circostanze e operazioni di guerra; ma qual era fisicamente questa nobile Salentina, prima contessa di Lecce e poi principessa di Taranto e regina di Napoli?

È molto difficile dirlo con esattezza, perché non esistono pitture del tempo che la ritraggano realisticamente e poco ci fanno intravedere un medaglione scolpito sul portale del castello di Copertino (l’ultimo a destra) e una piccola immagine scultorea sul basamento della tomba del figlio, Giannantonio Orsini del Balzo in S. Caterina di Galatina. Forse qualcosa di più possiamo dedurre da alcuni affreschi nella basilica di S. Caterina, che, se pure ritraggono altri personaggi, probabilmente riproducono le fattezze di Maria d’Enghien, a cui allusero indirettamente i frescanti del ‘400, grati verso la munificenza della loro mecenate. Almeno tre degli affreschi di S. Caterina s’ispirano alla figura di Maria d’Enghien.

In primo luogo nella volta dei Sacramenti la splendida figura coronata nella scena del matrimonio: la sposa (“forse un ricordo della nobile regina committente”, dice Marisa Milella, direttore storico dell’arte della Sopraintendenza di Bari e Foggia) indossa la pellanda, maestosa sopravveste a maniche ampie foderata di vaio, caratteristica proprio degli ultimi decenni del Trecento e nel primo Quattrocento.

Sempre nella seconda campata della navata centrale, in basso a sinistra, è raffigurata S. Caterina: anche questa figura coronata, coperta da un mantello rotondo, senza maniche, lungo fino ai piedi, foderato di vaio, nei lineamenti e nell’abbigliamento, fa pensare alla nobile committente.

Terza probabile immagine di Maria d’Enghien possiamo intravedere in uno dei Re Magi che rendono omaggio alla Sacra Famiglia a Betlemme nella navatella destra di S. Caterina a Galatina.

Una delle tre figure ha tratti decisamente femminili, al centro tra i due Magi barbuti: un paggio le solleva la corona dai biondi capelli, perché evidentemente ella vuole genuflettersi dinanzi al Bambino Gesù, come ha  fatto il più anziano dei Magi. Gli Orsini del Balzo (in questo caso i tre Magi sarebbero Raimondello, Giannantonio e Maria) vantavano la loro discendenza proprio da uno dei Re Magi (Baldassarre) e quindi non sarebbe tanto strano che il frescante, in omaggio alla munifica committente, avesse sostituito ai tre personaggi antichi i tre grandi discendenti Orsini del Balzo.

Fra le tre figure che abbiamo ipotizzato possano riferirsi ai tratti somatici di Maria d’Enghien v’è inoltre una notevole somiglianza, che ci convince sempre più che il modello di riferimento sia proprio la contessa di Lecce. Molti critici in passato l’hanno timidamente e vagamente pensato, noi lo sosteniamo con maggior convincimento dopo i recenti restauri del 2000-2004, che ci permettono di vedere e confrontare le tre immagini con notevole chiarezza. Né è da supporre, come aveva fatto qualcuno in passato, che la somiglianza fosse dovuta al fatto che si sarebbe impiegato lo stesso cartone di base, perché notevolmente differenti sono le dimensioni e la posizione della testa e del collo.

Se è difficile delineare l’immagine fisica di Maria d’Enghien altrettanto vaghi e imprecisi sono i fatti della sua adolescenza e prima giovinezza. Noi vorremmo almeno precisare come a lei pervenne la contea di Lecce.

Gualtiero VI di Brienne, duca d’Atene e conte di Lecce, morendo da prode nella battaglia di Poitiers nel 1347 non lasciò alcun diretto successore, quindi erede universale dei suoi vasti domini divenne la sorella Isabella, che fin dal 1320 aveva sposato il nobile francese Gualtiero III d’Enghien. Dei suoi vari possedimenti Isabella assegnò al figlio Giovanni la contea di Lecce e da costui e da Sancia del Balzo, principessa reale, tale contea passò prima al figlio Pietro e, una volta morto costui nel 1384 senza eredi, passò quindi alla figlia Maria. Ecco come Maria d’Enghien a soli 17 anni si trovò contessa di Lecce, sotto la tutela del barone di Segine, Giovanni dell’Acaya.

Siamo in un periodo di scismi e di lotte tra papi e antipapi. L’Italia meridionale sotto il regno di Giovanni I fu dilaniata dalla guerra civile, perché i signori feudali di Puglia si divisero a seguire gli uni il papa, gli altri l’antipapa e Luigi I d’Angiò, adottato da Giovanna I, regina di Napoli.

I d’Enghien si schierarono con gli Angioini e quindi il re Luigi I, non appena Maria d’Enghien entrò in possesso del suo vasto feudo, comprendente larga parte del Salento, volle darla in sposa ad un suo nobile e valoroso guerriero, Raimondo Orsini del Balzo, che da poco aveva lasciato il papa ed il suo protetto Carlo III d’Angiò Durazzo ed era passato alla parte angioina di Luigi I.

Le nozze furono celebrate un anno dopo che Maria era diventata contessa di Lecce, non certo gradite ai Leccesi, che anzi inscenarono una sommossa contro Raimondello, sedata, secondo un cronista leccese, soltanto dopo svariati arresti. Seguirono anni di guerra continua tra gli Angioini e i Durazzeschi, durante i quali Raimondo Orsini oscillò tra le due parti, finchè nel 1399 egli non passò apertamente dalla parte di Ladislao Durazzo, succeduto a Carlo III e il giovane re investì l’Orsini del principato di Taranto. Raimondo e Maria d’ Enghien fecero il loro solenne ingresso nella città dei due mari, prendendo pieno possesso di quel principato che spettava loro di diritto per una legittima successione, perché Raimondello era il più diretto discendente di Maria del Balzo, sorella di Giacomo, che era stato l’ultimo principe di Taranto, morto senza eredi.

Il principato di Taranto, al tempo degli Angioini e in parte anche degli Aragonesi, è da considerare quasi “un regno nel regno” (come è stato spesso definito da vari storici), era costituito da un vastissimo territorio che si estendeva dallo Ionio, da Policoro e Matera, sino all’Adriatico con Ostuni e Brindisi e scendendo sino ad Oria, Nardò, Gallipoli, Ugento.

Dopo le nozze di Raimondello Orsini del Balzo e Maria d’Enghien il principato di Taranto si estese ancora di più, comprendendo anche Lecce, di cui, come abbiamo detto, era contessa Maria, oltrechè Soleto e Galatina, già feudi di Raimondello.

Questo “regno nel regno” e i successi politici e militari di Raimondello attirarono su questo principe gli odi di molti baroni ed in particolare dei Sanseverino, potenti signori di tanti feudi e di notevoli città, come Nardò e Conversano.

Anche il re Ladislao d’Angiò Durazzo ad un certo punto non vedeva più di buon grado lo strapotere degli Orsini del Balzo, che addirittura quasi superava il suo potere e le sue rendite. I due principi Maria e Raimondo anzi avevano istituito un vero tribunale feudale che col figlio Giovanni Antonio fu un vero Concistorium principis, perché costui fino alla morte, che avvenne nel 1463, si arrogò il potere di giudice d’appello, che era una prerogativa spettante solo al re.

(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°3

Ebrei nel Salento sotto i Del Balzo Orsini

ANTIGIUDAISMO SOTTO I DEL BALZO ORSINI

(1385 – 1463)

A GALATINA E A SOLETO

 

di Luigi Manni

 

A margine delle giornate della memoria celebrate in Puglia per ricordare la vergogna della Shoah, l’olocausto degli ebrei avvenuto durante il secondo conflitto mondiale, segnalo alcuni episodi di antisemitismo alimentati a Galatina e a Soleto, ma anche in altri centri, da Raimondello del Balzo Orsini (1350/55-1406), sua moglie Maria d’Enghien (1367-1446) e il figlio Giovanni Antonio (1401-1463).

Nel Quattrocento gli ebrei di Galatina erano probabilmente concentrati in Via Marcantonio Zimara, come segnala il TETRAGRAMMATON (per gli ebrei, l’impronunciabile quadrilittero nome di Dio, JHWH) inciso sulla finestra nella corte del civico 10. Quelli di Soleto erano chiusi nel ghetto di Rua Catalana.

La loro ricchezza derivava dalle attività della concia, della lavorazione delle pelli, della tintoria. Lavori altamente inquinanti e dannosi per la salute, svolti dai “diversi” del tempo, gli ebrei, gli albanesi, i levantini, così come oggi le mansioni più umili, le “più sporche”, dagli extracomunitari, rom e badanti, i “diversi” dei nostri giorni.

Tuttavia, gli ebrei della Contea di Soleto, sotto la signoria dei del Balzo, erano riusciti, grazie alla concessione di numerosi privilegi, in particolare quelli relativi al prestito di denaro, a rafforzare il loro ruolo all’interno di una comunità, quella galatinese e soletana, completamente in mano al ceto clericale italogreco.

I del Balzo, all’inizio, almeno sino agli anni Trenta del Quattrocento, ebbero grande stima degli ebrei, dimostrata nei continui rapporti con la comunità

Il castello di Copertino

di Fabrizio Suppressa

Immerso tra il verde degli ulivi salentini e a pochi chilometri dal blu del mare Ionio sorge Copertino, un comune popolato da poco meno di 25000 abitanti. Se dovessimo descrivere questa ridente cittadina con un’immagine che la rappresenta, senz’altro ci lasceremmo catturare dalla mole bruno-carparo del castello cinquecentesco e dal mastio angioino inglobato nella fortezza. Una perfetta macchina da guerra, che seppur svaniti i cupi periodi bellicosi, continua tutt’ora a destare rispetto e meraviglia ai turisti che giungono a visitare il Monumento Nazionale.

veduta aerea di Copertino

Ripercorriamo brevemente le origini del fortilizio celate nelle gagliarde murature, sino ad arrivare all’attuale conformazione del “più grande, bello e forte castello che si vegga nella provincia”, per dirla con le parole del Marciano, opera di Evangelista Menga “Architettore eccellentissimo, (..) della Cesarea Maestà di Carlo V”. 

Delle primordiali origini del castello di Copertino vi sono molte ipotesi, la più avvincente riguarda una possibile fondazione bizantina di un castéllion o di una piccola cittadella fortificata che amministrava fiscalmente e militarmente i limitrofi casali. Nonostante accurati saggi di scavi e rilievi a cura della Soprintendenza, ad oggi non sono state rinvenute tracce risalenti a questo periodo storico.

Il primo nucleo ben identificabile è l’antico mastio sorto probabilmente sotto il dominio Svevo e portato a termine dagli Angioini, come testimoniano l’esistenza di alcuni stemmi e l’iscrizione “CAROLUS ANDEGAVENSIS 1267”.

castello di Copertino (ph F. Suppressa)

In seguito, a causa di successioni ereditarie, il feudo copertinese, assieme a quelli di Leverano, Veglie e Galatone, passa ai Gualtieri di Brienne, che appongono il proprio stemma in pietra leccese sul lato Est con l’iscrizione (non più esistente)  “GUALTERIUS DE BRENNA COMES CUPERTINI”.

Possiamo immaginare questa magnifica opera come isolata e probabilmente munita di recinzione e fossato di difesa, non molto differente dalla vicina torre federiciana sita in Leverano. D’altronde in alcuni punti non avvolti da superfetazioni, sono ben visibili una pronunciata scarpa alla base della torre e superiormente dei beccatelli mutilati che sorreggevano probabilmente un camminamento in legno. L’interno era poi costituito da solai lignei, sostituiti poi nel ‘700 con volte in muratura, mentre una scala a chiocciola, realizzata nella spessa muratura, collegava tra loro i vari piani.

Il dongione era praticamente inespugnabile poiché l’accesso originario era collocato alla quota del primo piano, e comunicava con l’esterno tramite un ponte levatoio, di cui oggi permangono gli scassi dei bolzoni sul lato Nord che tracciano sulla scarna muratura una sorta di grossa croce latina.

Con il matrimonio tra Caterina, figlia di Maria D’Enghien e Raimondo Del Balzo Orsini, con il Cavaliere francese Tristano di Chiaromonte, il feudo e il castello vengono donati ai novelli sposi. Tristano, divenuto ora Conte di Copertino, cinge di mura le terre del proprio feudo ed erige il raffinato e tutt’ora esistente Palazzo Comitale, arricchendolo successivamente da un grazioso loggiato con bugne a punta di diamante.

Non passa poco tempo che feudo e castello vedono nuovamente cambiare signore. Con la guerra tra Angioini e Aragonesi e la vittoria di quest’ultimi, le proprietà vengono concesse ai Principi Castriota Scanderberg d’Albania come ringraziamento degli aiuti prestati.

Ma siamo oramai agli inizi del XV secolo, l’invenzione e lo sviluppo dell’artiglieria sconvolge radicalmente le tecniche difensive di castelli e rocche. In tutta Europa le esili mura medievali vengono sostituite con cortine e opere bastionate ed anche il nostro castello di Copertino verrà perfettamente rimaneggiato alla maniera moderna.

Promotore di queste nuove ristrutturazioni è Alfonso Castriota come ci ricorda la lunga iscrizione che corre lungo il prospetto Nord-Est:

D. ALFONSO CASTRIOTA MARCHIO
ATRIPALDI DVX PRAEFECTVSQVE CAESARIS
ILLVSTRIVM D ANTONII GRANAI CASTRIOTAE
ET MARIE CASTRIOTAE CONIVGVM FERRANDINAE
DVCUM ET COMITVM CVPERTINO, PATER, PATRVVS
ET SOCER ARCEM HANC AD DEI OPTIMI MAXIMI
HONOREM CAROLI QVINTI REGIS ET IMPERATORIS
SEMPER AVGVSTI STATAM. ANNO DOMINI MDXL.

Costui affida l’incarico al copertinese Evangelista Menga, architetto militare nativo di Francavilla Fontana, già divenuto celebre per le sue fortificazioni di Malta, Mola e Barletta.

Il nuovo sistema difensivo, realizzato tra il 1535 e il 1540, si sviluppa attorno agli edifici preesistenti e ricalca planimetricamente il cortile trapezoidale dell’antico Palazzo Comitale. Vengono realizzate le spesse cortine di difesa, suddivise in due ordini di fuoco di cui quello superiore in “barbetta” e i quattro bastioni a punta di lancia collegati tra loro con una lunga galleria che scorre all’interno del perimetro del castello.

Contemporaneamente viene anche realizzato il portale di accesso (sempre opera di Evangelista Menga), dalle geometrie che ricalcano le linee angioine-durazzesche, arricchito inoltre da decorazioni scultoree in pietra leccese e da augustali con i volti dei personaggi che hanno contribuito alla storia dell’abitato.

particolare del portale del castello di Copertino (ph F. Suppressa)

Possiamo immaginare il castello nel pieno del suo splendore grazie ad un anonima descrizione settecentesca custodita presso l’Archivio Vescovile di Nardò:

“Così è fabbricato con ogni regola militare, che sempre a difesa dei suoi cittadini servirà da palladio contro i nemici. Né il suo fabbrico potrà mai venir meno, che per le sue fondamenta appoggiate si veggono sopra il sasso; tanto più sempre durevole, quanto ch’è pietra viva. E’ di passi 200 di circulo la sua pianta, cingendola per intorno il fossato largo passi 17 dalle cortine di fuore, e dalli Baloardi passi 8. Ha quattro torrioni in faccia de quattro venti più principali, difendendo la terra per ogni parte dai suoi nemici: ogn’uno di quelli ha quattordici finestroni, ed in ciascheduno di quelli vi sono due finestre una diversa dall’altra, per dove a traverso può giocare il cannone. (…)

Nella sua porta maggiore non solo vi è il rastrello, ma anche il ponte a trabocco; a fronte di chi, prima di entrare nel suo cortile, vi sono due fenestroni che con delle bombarde minacciano l’ingesso.

Succedendo il bisogno di far mine, e contro mine, così vi sono altre sotterranee corsie, come sotto de li baluardi in terra piana, che guardano le fossate. Vi sono stanze per abitare di varia sorte di genti e per risposta d’ogni attrezza di guerra. Forni, e molini per macinare grani, e polvere, ritrovandosi in quantità nelle sue grotte il salnetro. Non mancano le provviste dell’acque piovane nelle molte cisterne; come in un pozzo l’acque surgenti dolcissime, ed in abbondanza. Il fabbrico delle sue mura è largo palmi 35 con calcina di molta gran forte mistura. Detto castello fu guarnito con cento pezzi di cannoni ed altra artiglieria di bronzo, e con cento venti e più altri di ferro. Il piano vicino al castello è tutto minato, e con difficoltà questa fortezza potrà essere abbattuta.”

Con l’estinzione del ramo Castriota, il feudo viene messo all’asta dal regio demanio e acquistato dagli Squarciafico, banchieri genovesi con molte attività nel Salento. A questa famiglia dobbiamo la realizzazione di un capolavoro nel capolavoro, ovvero la costruzione della cappella di San Marco (realizzata al di sopra di una angusta cripta tutt’ora esistente) interamente affrescata dal pittore copertinese Gianserio Strafella con scene del Vecchio e Nuovo Testamento; senza tralasciare un ulteriore opera d’arte custodita nella cappella: il monumento funebre di Stefano e Uberto Squarciafico realizzato dallo scultore gallipolino Lupo Antonio Russo in stile manierista.

Negli anni a seguire si susseguiranno ulteriori nobili famigli, quali i Pinelli, i Pignatelli e i Granito di Belmonte, che passata la paura ottomana, trascureranno il nostro castello a favore di palazzi molto più sfarzosi e confortevoli nelle città più importanti del Regno.

L’ultimo periodo di gloria per il castello avverrà verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando il re Vittorio Emanuele III e il Governo Badoglio rifugiandosi a Brindisi, stabiliscono qui il Comando di Presidio dell’Esercito. Tutti i locali interni e le aree attorno saranno destinate al ricovero delle truppe someggiate.

Verrà in seguito, dopo anni di abbandono ed incuria, acquistato dal Ministero che in accordo con la Soprintendenza darà il via ai lavori di restauro e di restituzione dell’opera come polo culturale ai suoi legittimi possessori: i cittadini di Copertino.

A proposito di panìri/panièri

di Armando Polito

Nel post di Emilio Panarese del 29 u. s. si rivendica per panìri (la variante neretina è panièri) come etimo il greco moderno πανηγύρι. La paternità di tale attribuzione spetta al solito (quanto affetto e stima in quest’aggettivo che, riferito a qualcun altro, assumerebbe una sfumatura spregiativa!…) Rohlfs, che la ribadisce ai lemmi panaìri e panìri, rispettivamente alle pagine 446 e 447 del suo vocabolario. Io non so cosa abbia indotto il maestro tedesco ad attribuire alla voce un’origine relativamente recente, anche se  egli sembra aggiustare il tiro in Scavi linguistici nella Magna Grecia, Congedo, Galatina, 1974, dove a pag. 83 leggo: “leccese panìri, panièri, festa popolare in occasione di una fiera=otrantino panaìri, panìri, idem, dal greco volgare πανηγύρι(ον)”.   Dunque, prima il “greco moderno”, poi il “greco volgare” per una voce con un chiaro suffisso diminutivo (-ιον), normale nel greco classico, del quale, poi, sarebbe caduta la parte finale (ον). Proprio nel greco classico, oltre che in alcuni intermediari latini, esistono secondo me degli  elementi che potrebbero retrodatare di molti secoli la nostra voce, almeno rispetto a quel “greco moderno”1 e allo stesso, artificioso, “greco volgare” .

Un ruolo di protagonista assume , sempre per me, il greco, classico, πανηγύρις, evidente genitore di πανηγύρι (senza, peraltro, scomodare un presunto diminutivo πανηγύρι(ον), e va subito detto che non è certamente l’assenza della consonante finale ad essere prova determinante di un’origine più moderna per panìri/panièri.

Preliminarmente va detto che πανηγύρις ècomposto da due parole delle quali sarò costretto a riportare la trascrizione fonetica perché alcuni caratteri

Ebrei nel Salento sotto i Del Balzo Orsini

ANTIGIUDAISMO SOTTO I DEL BALZO ORSINI

(1385 – 1463)

A GALATINA E A SOLETO

 

di Luigi Manni

 

A margine delle giornate della memoria celebrate in Puglia per ricordare la vergogna della Shoah, l’olocausto degli ebrei avvenuto durante il secondo conflitto mondiale, segnalo alcuni episodi di antisemitismo alimentati a Galatina e a Soleto, ma anche in altri centri, da Raimondello del Balzo Orsini (1350/55-1406), sua moglie Maria d’Enghien (1367-1446) e il figlio Giovanni Antonio (1401-1463).

Nel Quattrocento gli ebrei di Galatina erano probabilmente concentrati in Via Marcantonio Zimara, come segnala il TETRAGRAMMATON (per gli ebrei, l’impronunciabile quadrilittero nome di Dio, JHWH) inciso sulla finestra nella corte del civico 10. Quelli di Soleto erano chiusi nel ghetto di Rua Catalana.

La loro ricchezza derivava dalle attività della concia, della lavorazione delle pelli, della tintoria. Lavori altamente inquinanti e dannosi per la salute, svolti dai “diversi” del tempo, gli ebrei, gli albanesi, i levantini, così come oggi le mansioni più umili, le “più sporche”, dagli extracomunitari, rom e badanti, i “diversi” dei nostri giorni.

Tuttavia, gli ebrei della Contea di Soleto, sotto la signoria dei del Balzo, erano riusciti, grazie alla concessione di numerosi privilegi, in particolare quelli relativi al prestito di denaro, a rafforzare il loro ruolo all’interno di una comunità, quella galatinese e soletana, completamente in mano al ceto clericale italogreco.

I del Balzo, all’inizio, almeno sino agli anni Trenta del Quattrocento, ebbero grande stima degli ebrei, dimostrata nei continui rapporti con la comunità

Itinerari d’arte nel Salento: la Basilica di S. Caterina di Alessandria a Galatina

di Rocco Boccadamo

Ogni tanto, la domenica mattina, vado ad ascoltar la Messa in una chiesa francescana che, a mio avviso, merita a buon titolo di essere definita senza uguali in Puglia: quella, dedicata a S. Caterina di Alessandria, che si erge, con composta maestosità e in una veste di singolare bellezza, nel centro storico di Galatina.

A proposito di tale monumento, devo sottolineare una cosa: sebbene mi sia capitato di accedervi e di ammirarlo oramai diverse volte, in ogni singola occasione avviene come se vivessi l’afflato emotivo del magico godimento che avvertii al primo contatto, tanto è il senso di gioia e di estasi che mi pervade nel soffermarmi al cospetto delle meraviglie artistiche, soprattutto affreschi, che vi si trovano racchiuse.
L’opera fu fatta realizzare, alla fine del quattordicesimo secolo, dalla famiglia Orsini del Balzo: di qui la denominazione, anche, di Basilica Orsiniana. Con essa, si intendeva perseguire una finalità molto significativa e di grande spessore, cioè dare un forte segnale per l’insediamento, nell’ area salentina, del rito cattolico romano, posto che, fino a quei tempi, nella zona era invece dominante il rito bizantino.
Sicché, i nobili committenti del cantiere, evidentemente in sintonia con i vertici della Chiesa di Roma, vi profusero mezzi ingenti: così si spiega la inconsueta grandezza del luogo di culto che, sin dall’inaugurazione, nell’anno 1391, venne affidato ai frati francescani (a ragione, è quindi dato di affermare che S. Caterina in Galatina ha costituito un rilevante avamposto della grande messe di cristianità – a partire dai suoi primi albori – che trasse ispirazione dal Poverello di Assisi) .
Brevi note sul perché della specifica dedicazione della basilica: S. Caterina, vergine di Alessandria, visse nel 10° secolo e, per non aver inteso abiurare la fede cristiana, fu torturata e decapitata. Ben presto, il culto verso la sua figura si diffuse anche in aree lontane, fra cui diversi paesi europei; fu proclamata patrona dell’Università di Parigi e protettrice degli studenti e delle ragazze da marito. Anche Raimondello Orsini del Balzo e la sua illustre consorte Maria d’Enghien si sentirono presi da profonda devozione verso la giovane vergine egiziana e, malgrado i disagi della lunga trasferta, si determinarono a compiere un pellegrinaggio all’omonimo monastero, eretto sul Monte Sinai, dove riposano le spoglie della santa.

La chiesa si presenta con una sobria, ed insieme elegante, facciata, tipica del tardo romanico pugliese; l’interno consta di cinque navate, di cui quella centrale davvero magnifica, con pareti e volte rivestite di affreschi risalenti alla prima metà del ‘400, di ispirazione giottesca (taluni sembrano quasi identici a quelli esistenti nella famosa Cappella degli Scrovegni di Padova) e opera di artisti provenienti, forse, dalle Marche e dall’Emilia e, in parte, sicuramente della Scuola, appunto, di Giotto. Complessivamente, si susseguono ben 150 scene, raffiguranti episodi della Genesi e dell’Apocalisse, del martirio di S. Caterina e di S. Agata (a Galatina sono custodite preziose reliquie di entrambe).
La basilica comprende anche un presbiterio, nonché una cappella ottagonale aggiuntasi in epoca successiva alla originaria costruzione dell’edificio; annessi, trovansi infine il «tesoro» con reliquari d’argento, un mosaico mobile ed una Madonna bizantina in legno e, sul lato sinistro, il chiostro, anch’esso arricchito da affreschi.

eccidio di S. Caterina (ph M. Gaballo)

 

Dunque, un’opera d’arte così bella ed interessante, eppure non adeguatamente nota. Ancora più paradossale è la circostanza che i visitatori della basilica sono rappresentati prevalentemente da genti che arrivano da lontano, specie dall’estero, mentre scarseggiano le correnti di interesse, malgrado la vicinanza e anzi la contiguità, da parte della popolazione pugliese e in particolare del Salento: molte persone non ne conoscono neppure l’esistenza.

Secondo me, ciò è da ascriversi anche al fatto che la città di Galatina, che pur si colloca fra i più importanti centri della provincia di Lecce, trovasi situata in una posizione leggermente defilata rispetto ai classici e modaioli circuiti turistici e delle vacanze e, di conseguenza, i visitatori che vi si portano appositamente finiscono col risultare di numero limitato. Si pensi che Galatina sembra essere più ricordata per la tradizione delle «tarantolate» e della Cappella di S. Paolo, santo che, secondo la credenza popolare, guarisce dal morso del ragno, oppure per la sua base aerea o per la cementeria.
Qualunque motivazione o giustificazione si voglia o si possa addurre, rimane comunque una grossa lacuna, cui bisognerebbe, in un modo o nell’altro, porre rimedio ancorché gradualmente.

Tanto per cominciare, si faccia ricorso al veicolo del “passaparola” fra amici, parenti e conoscenti, svolgendo una spontanea opera di sollecitazione e di sprone per la visita a questo insigne monumento. In pari tempo, un importante lavoro al medesimo fine dovrebbe essere svolto costantemente da parte delle istituzioni civili, militari e anche religiose: fra esse, la Scuola in primo luogo, in quanto non va dimenticato che la visita a S. Caterina di Alessandria in Galatina costituisce, in fondo, un vero e proprio percorso educativo.

Un ritratto di Maria d’Enghien

Un ritratto di Maria d’Enghien

Donna dei sui tempi. Donna oltre i tempi.
Donna di questi tempi

Maria d’Enghien, particolare del suo ritratto, Basilica di S. Caterina a Galatina, XIV-XV sec, foto di Daniela Bacca

Contessa, Principessa, Regina, Sposa, Madre, Guerriera, Mecenate, Amministratrice. Maria d’Enghien è una di quelle poche donne dell’Italia meridionale di fine Trecento e della prima metà del Quattrocento che riuscì a rivestire ruoli innovativi, emancipati, concreti ed operativi, grazie alle sue “meravigliose doti d’animo”. Un carisma salentino ed un modello femminile di straordinaria attualità. Nacque nel 1367, divenne contessa di Lecce a soli 17 anni, e sposò il principe di Taranto e conte di Soleto e Galatina. Raimondo Orsini del Balzo, innamorato della “nostra Maria” (come familiarmente veniva chiamata dai leccesi) organizzò in suo onore diverse giostre, fu il padre dei suoi quattro figli e la coinvolse nei progetti governativi come la fondazione del Tribunale “Concistorium Principis” per l’amministrazione della giustizia.

Durante il loro matrimonio realizzarono mirabili architetture ed opere d’arte come la sontuosa Basilica di S. Caterina a Galatina e l’elegante Guglia di Soleto, diedero vita ad un glorioso sviluppo culturale e costituirono uno dei più ricchi e potenti feudi. A pochi mesi dalla morte di Raimondello, avvenuta nel 1406, Maria “armata di una pansiera d’argento, tutta ornata di gioie con un elmo del medesimo metallo sopra un gran corsiere…seguita da duecento cavalieri” combattè con coraggio e valore a Taranto contro Ladislao, re di Napoli, che militarmente ambiva ad occupare e regnare sulle sue amate e prestigiose terre. Per mettere fine alla battaglia il re propose alla “bella, intrepida e avventurosa” principessa di diventare regina. La contessa salentina, nonostante venisse sconsigliata nell’accettare la proposta nunziale, poiché le due precedenti mogli del re avevano subito un

Bisignano e Nardò. I Sanseverino e gli Acquaviva

di Roberto Filograna

Sia la città di Bisignano (l’antica, medioevale Visinianum), sia la città di Nardò (l’antichissima, messapica Naretinon), legano buona parte della loro storia più recente, dal XV secolo sino ai tempi dell’eversione della feudalità, al nome di due grandi famiglie che detennero il potere feudale ed amministrativo delle due città: i Sanseverino a Bisignano e gli Acquaviva a Nardò.

La famiglia Sanseverino e la famiglia Acquaviva appartenevano al gruppo delle sette famiglie più importanti del regno, assieme ai Ruffo, ai d’Aquino, agli Orsini del Balzo, ai Piccolomini e ai Celano. Ambedue le famiglie, improntarono la storia, l’economia, la cultura e la vita economica e sociale dei due centri, con alterna fortuna per gli stessi e secondo direzioni prevalentemente parallele ma che in

Note sulla chiesa e sul tesoro di S. Caterina d’Alessandria in Galatina

di Domenica Specchia

Galatina custodisce uno degli edifici storico – monumentali più importanti di Puglia: la Pontificia Basilica Minore di S. Caterina d’Alessandria.

La storia di questa chiesa è legata alla famiglia dei del Balzo Orsini e, precisamente, ad Ugo del Balzo d’Orange che, arrivato nel Salento, al seguito del re Carlo I d’Angiò, per i servigi resi alla corona angioina, ricevette da questi, in dono, la contea di Soleto con l’annesso casalis Sancti Petri in Galatina. Alla sua morte tale contea, con il feudo galatinese, fu ereditata dal figlio Raimondo del Balzo che si prodigò di cingere delle prime mura (1350 ca) il territorio galatinese. Nel 1375, alla morte di Raimondo, la contea di Soleto ed il casalis Sancti Petri in Galatina, furono ereditati per volontà testamentaria, dal nipote Raimondello, si presume secondogenito della sorella, moglie di Nicolò Orsini, conte di Nola. Ma, questi non rispettando le ultime disposizioni del de cuis assegnò l’amministrazione del territorio al primogenito Roberto. Raimondello, non condividendo la decisione paterna, decise di allontanarsi dalla sua terra per andare in Oriente a combattere in difesa del Santo Sepolcro. Durante il periodo di permanenza nella Terra Santa, tra l’altro, Raimondello visitò il monastero del monte Sinai che custodiva il corpo di S. Caterina d’Alessandria.

A tal proposito la leggenda narra che Raimondello, prima di tornare nella sua terra, rimase per tre giorni e per tre notti – in veste di penitente – dinanzi al corpo della Santa e, poi, l’ultimo giorno, prima di ripartire, le strappò con i denti il dito con l’anello – simbolo dello sposalizio di S.Caterina con Gesù Cristo – lo nascose sull’orecchio, tra i capelli, e lo portò con sé, facendolo, in seguito, custodire in prezioso reliquiario d’argento. Tornato nel Salento  ed in possesso delle proprie terre, Raimondello, ormai conte di Soleto e signore di Galatina, decise di costruire in terra galatinese questa chiesa, con l’annesso convento.

I lavori iniziati tra il 1383 ed il 1385 furono ultimati nel 1391, periodo durante il quale, peraltro, Raimondello convolando a nozze, nel 1385, con Maria d’Enghien, divenne anche conte di Lecce.

Ben poco sappiamo dell’originario impianto della struttura religiosa; infatti, l’iscrizione greca sull’architrave del portale minore destro e la presenza dell’abside semicircolare nella navatella destra hanno suscitato non poche perplessità in alcuni studiosi che hanno ipotizzato, più che la costruzione ab imis ed ex novo del tempio, la riorganizzazione di uno spazio preesistente condizionante l’asimmetria della pianta e l’icnografia dei due ambulacri.

Non confutando alcuna tesi ma, mutuando  le opinioni espresse da non pochi studiosi riteniamo che, fin dalla prima redazione, l’edificio doveva avere una pianta a sistema centrale (croce greca) che, nel tempo, fu trasformata in sistema longitudinale (croce latina commissa) . In seguito, l’ampliamento della struttura sacra fu caratterizzato dalle tre navate e dai due ambulacri e, in epoca rinascimentale, dalla costruzione del coro ottagonale, poiché Giovanni Antonio, figlio di Raimondello e Maria d’Enghien,

la navata maggiore di S. Cataerina in Galatina, disegno colorato di Cavoti

 

Questo tempio, in stile romanico – gotico, è uno degli edifici che esprime la versatilità con cui l’arte è riuscita a conciliare esperienze artistiche diverse. Il carattere composito dell’architettura in cui si associano, con felice ibridismo, motivi orientali ed occidentali, si sintetizza sulle pagine murarie esterne ed interne, sui nodi strutturali, sulle pareti che, come schermi, rendono immagini coinvolgenti il fruitore nella dimensione spazio – temporale della visione storico – biblico – teologica rappresentata. Per la religiosità dell’impianto, movente principale del ritmo delle membrature architettoniche, dei significativi complementi plastico – figurativi e della palpitante decorazione interna, la sacra costruzione è una forma di verità che arricchisce lo spirito della collettività galatinese identificantesi in essa.

Il conte Raimondello non si contentò di costruire la chiesa dedicandola alla Vergine sinaitica perché “all’incontro vi erano non pochi altri latini, che la greca lingua ignoravano” ma, la dotò, si presume, anche di parte dell’odierno arredo sacro e di reliquie di martiri e santi.  Dei sacri resti che Raimondello portò dall’Oriente parlano ripetutamente i documenti e la letteratura locale ma, è indiscutibile, che le testimonianze soccorrono relativamente in tal senso mentre, gli scritti degli studiosi risultano più incentrati sulla descrizione delle vicende storiche, politiche, sociali ed estetiche della basilica cateriniana che sulla valenza storico – religiosa ed artistica del suo tesoro.

Da quanto è dato intendere la testimonianza più completa rimane la  Nota delle Reliquie che, nel 1536, p. Pasquale da Presicce compilò; inventario che, dopo il 1597, fu ricopiato ed aggiornato dai Padri Riformati. La testimonianza di p. Pasquale da Presicce è fondamentale per comprendere che il tesoro della chiesa di S. Caterina era cospicuo; oggi, invece, è il ricordo del tesoro, più che il tesoro stesso, a sopravvivere. Infatti, perdite, ruberie, trafugamenti, manomissioni sembrano aver ridotto il tesoro basilicale ad un numero esiguo di manufatti. Il Superiore parroco p. Berardo Antico, dell’Ordine dei Frati Minori Francescani, compilò, nel 1982, l’inventario del tesoro cateriniano, descrivendo la consistenza anche relativamente ai sacri resti dei quali, a tutt’oggi, ventidue presentano il sigillo in ceralacca e sono corredati da lettera di autentica degli Arcivescovi di Otranto, Mons. Carmelo Patanè e Mons. Cornelio Sebastiano Cuccarollo, attestanti il tipo di reliquia e il materiale della teca che li custodisce; mentre, gli altri sono conservati in semplici teche, in due reliquiari d’argento ed in una croce reliquiario.

Nonostante la frammentarietà delle notizie e l’obiettiva difficoltà di cogliere un continum tra memorie passate ed annotazioni recenti, si vuole ribadire che, tutti i fatti occorsi nel Casalis sancti Petri in Galatina, tra Medioevo e Rinascimento, risalgono all’iniziativa della famiglia dei del Balzo Orsini, il cui programma foriero di interessi ed emulato dai successori, si completò anche con la donazione di argenti preziosi, di tavole finemente mosaicate e dipinte, di opere pregevoli[1].

Numerose reliquie, alcune icone e diversi oggetti d’arte, custoditi ancora oggi nel museo della basilica cateriniana costituiscono sicuramente “il nucleo, forse più antico” del tesoro della chiesa galatinese.

Prima di Raimondello del Balzo Orsini, non si hanno notizie del tesoro cateriniano; presumibilmente, quindi, chi provvide a dotare la chiesa di manufatti con i quali si magnificava il culto eucaristico rispecchiando lo sfarzo della corte regnante, fu l’Orsini, uomo di grande valore e mecenate di singolare intuito. Ai suoi talenti giovarono i legami con i papi Urbano VI Prignano e Bonifacio IX Tomacelli; con i re Luigi I e Luigi II d’Angiò e Ladislao di Durazzo, con il despota di Morea e con l’imperatore Paleologo. Da questi ultimi, Raimondello ricevette in dono numerose reliquie che si preoccupò di custodire  in preziosi reliquiari per donarli, come donò, al votivo monumento da lui edificato.

tesoro della chiesa di S. Caterina in Galatina (ph O. Ferriero)

 

La relatio tra donazione delle  reliquie e committenza dei reliquiari induce ad ulteriori precisazioni: diversi reliquiari furono portati direttamente dall’Oriente, poichè l’asporto di reliquie dai Luoghi Santi, complete di custodie, fu carattere distintivo del Medioevo. Si annoverano tra queste ultime la Croce reliquiario, non tanto per la valenza artistica, quanto per quella religiosa e sociale perché, come riportato dal compilatore della Nota delle Reliquie essa era “piena di reliquie di tutti i luoghi di Gerusalemme” ed il Cofanetto, che custodiva, in origine, diversi sacri resti di martiri e santi, simile per sagoma a quello, in avorio e bronzo, del tesoro della cattedrale di Troia ed a quello della chiesa conventuale di S. Maria di Zara, in Dalmazia.

E’ da aggiungere che risulta estremamente difficile, se non impossibile, per mancanza di documentazione storica probante, individuare, in maniera semiologica, tutte le peculiarità del tesoro cateriniano; tuttavia, connotazioni specifiche presenti su alcuni manufatti inducono ad ipotizzare che i magistri operarono in stretto rapporto con i committenti anche perché l’attività orafa della cerchia del principe, in genere, è da inquadrarsi nel vasto repertorio della committenza cortese.

Il tesoro, un tempo custodito nella lipsanoteca della basilica, allogata in sagrestia, dal 22 dicembre 2003,  è stato esposto nell’ex – refettorio del convento trecentesco, l’unico ambiente preservato dalla distruzione dai frati Riformati (1597) quando, nel 1657, questi decisero di abbattere la deteriorata casa religiosa propter sui vetustatem, proximamque ruinam minantem, per costruire una dimora più grande.

In questa grande aula rettangolare, caratterizzata dall’affresco dell’Ultima Cena, dipinto sulla porta d’ingresso al salone e da quello delle Nozze di Cana che lo fronteggia, dalla volta decorata con motivi geometrici, in nero su bianco, e dal fregio pittorico con motivi antropomorfi, zoomorfi e fitomorfi, sono stati esposti i numerosi manufatti, in appositi contenitori.

Realizzati in materiali preziosi oro, argento, argento dorato, pietre preziose, oppure semplicemente ricavati da materiali poveri come il legno, questi prodotti sapientemente sbalzati, cesellati, incisi, rappresentano la fede di coloro che, operando in tal senso, contribuirono alla formazione delle coscienze religiose.

pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°3.

[13] Nel tesoro di S. Caterina in Galatina si annoverano i seguenti reliquiari: del dito di S. Caterina, della mammella di S. Agata, del braccio di S. Petronilla, della costola di S. Biagio, delle dita di San Giovanni Crisostomo, del dito di San Pantaleone, della pelle di San Bartolomeo, di un osso di San Bonaventura, di un osso di San Cristoforo, del dente di Sant’Apollonia, dei denti di San Donato e S. Lucia e dei resti di San Lorenzo, S. Stefano, San Lino, S. Onorato, S. Cecilia, S. Onorato, di S. Anfrea e  di un frammento della colonna della flagellazione di Gesù Cristo, di una spina della corona di Gesù Cristo e di altri martiri. Inoltre sono custoditi: il micromosaico del Cristo Pantocratore, il rilievo della Vergine col Bambino, l’icona della Vergine Gljkophilousa, il calice e la pace donati anche da Raimondello e l’ostensorio del XV secolo donato da Giovanni Antonio del Balzo Orsini, la croce reliquiario ed il cofanetto. Per una descrizione dei reliquiari e delle opere si veda: D. Specchia, Il tesoro. Problematiche storiche religiose artistiche, Galatina 2001.

Un murales nel centro storico di Copertino

Copertino (Lecce), Via Regina Margherita, Maria d’Enghien parte con il suo esercito per difendere Taranto dall’assedio di Ladislao re di Napoli, dipinto su muro realizzato dal professor Franco Contini e dai suoi allievi Antonio Mingolla, Giovanni Perdicchia e Stefano Tanisi, studenti dell’Accademia di Belle Arti di Lecce (11/9/2006).

La scena rappresenta un momento preciso della vita di Maria d’Enghien, principessa di Taranto, contessa di Lecce e Copertino. Morto il 17 gennaio 1406 il marito Raimondo del Balzo Orsini, n’è occultata la notizia affinchè re Ladislao non affretti gli apparecchi di guerra e non trovi il principato di Taranto indifeso. Maria chiama a raccolta i suoi alleati tra i quali spiccano i Sanseverino duchi di Venosa e si trasferisce a Taranto, capitale del feudo e centro della resistenza, portando con sé i quattro figliuoli: Maria, Caterina, Giovanni Antonio e Gabriele.

Bellissima nella sua armatura d’argento, ornata di gioie, con la sola presenza effondeva coraggio alle truppe che più volte seppero vincere l’assedio. Vicino a lei il rettore dei frati Minori, per l’elezione del quale Raimondo, suo marito, aveva ottenuto la concessione da Bonifacio IX, e Gabriele Capitignano, uomo di corte della principessa.

Nelle mani di quest’ultimo, re Ladislao dopo circa un anno pose la proposta d’amore per la sua signora. Capendo di non poterla vincere con le armi, il re provò a colpirla nell’ambizione e orgoglio.

Maria non seppe resistere all’offerta della corona di regina di Napoli, di Sicilia, di Gerusalemme, di Ungheria e di altri stati. Rimandò al re il fedele Capitignano con la comunicazione che accettava. Il matrimonio fu celebrato il 23 aprile 1407 nella cappella del castello di Taranto.

I personaggi raffigurati, da sinistra a destra di chi guarda, sono: Maria, Caterina, Giovanni Antonio e Gabriele del Balzo Orsini, con la loro madre Maria d’Enghien; il rettore dei frati Minori; Gabriele Capitignano; il duca di Venosa Sanseverino. Si notino le armi dei Del Balzo (sulla bandiera), dei Del Balzo-Orsini-D’Enghien e Sanseverino (sugli scudi).

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