Storia e storie della Grande Guerra, dalla Nazione alla Terra d’Otranto

di Alfredi di Napoli

È stato pubblicato, nel 2020, per i tipi della Argomenti Edizioni di Novoli, Storia e storie della Grande Guerra Istituzioni, società, immaginario dalla Nazione alla Terra d’Otranto, a cura di Mario Spedicato e Paolo Vincenti.

Il volume raccoglie solo alcuni dei contributi delle numerose iniziative culturali organizzate dalla Società di Storia Patria di Lecce sulla Grande Guerra, a partire da quella celebrata ad Oria nel dicembre del 2014, con due appendici seminariali svolte nella primavera del 2016 e nell’inverno 2018, in collaborazione con l’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano di Brindisi. A questi, si sono aggiunti alcuni saggi scritti appositamente per il libro, il cui primitivo progetto si è dunque necessariamente ridimensionato a causa dei ritardi nella pubblicazione degli Atti dei vari Convegni.

Ciò non ha fatto venire meno la solidità dell’impianto metodologico e il rigore scientifico dei saggi pubblicati. Essi sono divisi in alcune aree tematiche, e precisamente: La crisi del liberalismo prima e dopo la Grande Guerra, con saggi di Flavio Silvestrini e Maria Sofia Corciulo, I dinamismi della società, con saggi di Luigi Montonato, Fiorenza Taricone e Paolo Vincenti, Gli specchi della memoria. Pubblico e privato nella narrazione della Grande Guerra, con saggi di Paolo Vincenti, Anna Maria Andriani, Pasquale Guaragnella, Francesco Carone, Paolo Vincenti, Maria Antonietta Bondanese, Federico Carlino.

Il volume, voluto dalla SSPP, Sezione di Lecce, e dall’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano di Brindisi, reca una bellissima copertina, con la realizzazione grafica di Argomenti Edizioni, ed è realizzato grazie al contributo di Uniformazione e Nova Liberars.

Un libro vario, per impostazione e metodo, ma vertente sugli avvenimenti diretti o indiretti della Prima Guerra Mondiale con un focus sul territorio salentino.

Come scrive nella Prefazione Mario Spedicato, Presidente della SSPP-Lecce: «l’impostazione rappresenta la principale novità metodologica proposta da questo volume. Sono ormai maturi i tempi perché la più attrezzata ricerca sul territorio ripercorra la Grande Guerra non solo scavando negli strati più profondi del tessuto sociale – come la ricorrenza del Centenario ha dimostrato – ma anche dilatandone i confini temporali. Il progressivo esautoramento del significato e dei poteri del Parlamento, la ristrutturazione dei rapporti centro-periferie, la partecipazione popolare ai grandi eventi (sia pure in forme grezze e poco consapevoli), il protagonismo femminile (tanto delle donne intellettuali quanto delle illetterate), l’incredibile produzione memorialistica e simbolica, popolare e non, sono processi che la storiografia ha da tempo collocato in un quadro di medio-lunga durata che gli anni ’15-18 rendono più visibile».

Il primo saggio è di Flavio Silvestrini, Parlamento di guerra e antiparlamentarismo: l’autunno del giolittismo tra crisi istituzionale e controversie ideologiche (1914-1919). Il periodo che va sotto il nome di Giolittismo comprende molti aspetti del primo Novecento politico italiano. Lo strappo determinato dall’intervento in guerra dell’Italia è la prima tangibile manifestazione di chiusura del sistema giolittiano. Attorno alla figura dello statista piemontese si era radunato in Parlamento un gruppo neutralista, ma incapace di essere punto di forza dell’orientamento politico. Nei convulsi giorni di maggio, in cui l’Italia entrò in guerra si ebbe l’opportunità di verificare lo scambio tra due tendenze politiche. Il più attivo agitatore degli interventisti fu Gabriele D’Annunzio. Il 13 maggio, dopo che dei dimostranti avevano cercato di irrompere a Villa Malta, residenza del tedesco Bulow, il Vate arringava contro Giolitti incitando alla violenza contro i traditori della Patria. Uno spettacolo teatrale si trasformò in comizio, dove il poeta usò parole di fuoco contro lo statista accusandolo di essere in combutta con lo straniero. Qualche giorno dopo che Giolitti aveva abbandonato Roma e Montecitorio, D’Annunzio arringava il popolo romano. Con la riapertura della tornata parlamentare, il Presidente Salandra introduceva nuove misure volte a tutelare la salute pubblica e la difesa dello Stato. Il parlamento divenne una tribuna propagandistica impedendo, di fatto, all’opposizione di svolgere il proprio ruolo. È emblematica la discussione che seguì Caporetto, innescata dopo la pubblicazione degli Atti della Commissione d’inchiesta che aveva fornito uno strumento ai seguaci di Giolitti per individuare i responsabili della crisi italiana e addebitare tutti gli errori al Generale Cadorna. Ciò serviva per isolare la destra liberale e ravvivare il fronte socialista. Il gruppo socialista, infatti, diversamente dagli esponenti giolittiani, non ebbe molti miglioramenti e il gruppo in Parlamento era formato da una minoranza riformista. La sintesi verso l’intervento in guerra fu fornita dal discorso di Turati. Giolitti torna sulla scena politica nell’ottobre del 1919, rompendo il silenzio pubblico e un esilio volontario. Occorreva però una seria rilettura degli ultimi anni. Il paese era vittorioso ma stremato, il disastro economico evidenziava come l’interventismo non fosse stato disinteressato, ma avesse avuto il sostegno di potentati economici. Quattro anni di poteri eccezionali nelle mani del governo avevano compromesso la libertà parlamentare, ma esautorare il Parlamento significava favorire l’avvento del proletariato. Salandra fu colpito dal cambio di registro dell’avversario politico; Giolitti tornava con la lettura dei fatti chiedendo al governo responsabile del conflitto di dare il giudizio agli elettori. Escludere il popolo che aveva patito così tanto in termini di vite umane da decisioni importanti non era più pensabile. La critica di Giolitti però era quella di un politico arroccato nelle sue certezze e la conseguenza fu l’impossibilità di dare seguito ad ambiziosi programmi; ciò aprì un dramma istituzionale che si concretizzò con l’avvento del fascismo.

Il secondo saggio è di Maria Sofia Corciulo, Il Comitato Segreto della Camera dei Deputati (13-18 dicembre 1917). Il saggio passa in rassegna l’ampia diminutio dei poteri parlamentari negli anni 1914-1918, esamina il lungo e sofferto dibattito che si tenne in Parlamento in occasione dell’entrata in guerra dell’Italia e si concentra sulla nascita, all’indomani della disfatta di Caporetto, di un Comitato segreto, costituito il 13 dicembre 1917, per accelerare i lavori della Camera. Infatti, al fine di evitare dibattiti inconcludenti e disordinati, si stabilì che essi vertessero sulle recenti, tragiche vicende militari, strettamente connesse alla politica estera, e le discussioni furono così più spedite ed efficaci, fino al 18 dicembre. Tuttavia, ancora una volta, si notò che la mancanza di norme regolamentari sui Comitati Segreti doveva essere al più presto sanata (una proposta in tal senso sarà presentata l’anno seguente, il 13 febbraio 1918). Il saggio riporta i passaggi più rilevanti e significativi del lavoro del Comitato segreto. Grazie anche ai dibattiti, iniziati in Comitato Segreto e proseguiti in Assemblea, dopo Caporetto, la tattica militare venne in parte mutata; il vitto dei soldati, spesso insufficiente, fu migliorato ed estremamente rare furono le decimazioni dei militi considerati indisciplinati. Certamente anche per questi “ripensamenti” l’esercito italiano si riprese e si batté con coraggio sulle sponde del Piave riscattando i fatali errori dell’Ottobre 1917.

Il terzo contributo del libro è quello di Luigi Montonato, Spagnuola, l’epidemia del 1918 uccise più della Grande Guerra. Ricerca sulla stampa dell’epoca, che si occupa della epidemia detta all’inizio febbre primaverile, poi estiva, influenza da soldato, febbre dei mitraglieri e poi spagnuola, che colpì l’Italia e tutto il mondo, fra il 1918 e il 1919 e che fece più morti della stessa guerra mondiale. Oltre a descrivere gli aspetti sanitari, il saggio offre una ricerca sulla stampa dell’epoca, rivelando come i mezzi di informazione si occuparono della terribile pandemia. Se ne ricava che il Paese fu praticamente abbandonato a se stesso. Lo si riscontra leggendo le cronache dei giornali dell’epoca, che, pur contenute e prudenti, a volte censurate, danno l’idea della situazione reale in cui versavano le popolazioni da Nord a Sud, nei centri urbani e nelle periferie. Il governo, che pur si sforzava di far fronte alla gravissima emergenza, era oggettivamente in difficoltà e insisteva nelle raccomandazioni sul rispetto delle misure di igiene e sulla fiducia che l’epidemia sarebbe passata come altre precedenti, sostanzialmente perché altro non si poteva fare.

Il contributo di Fiorenza Taricone tratta di Teresa Labriola e l’interventismo italiano. Unica figlia femmina del filosofo Antonio Labriola, intellettualmente molto dotata, Teresa Labriola è stata una delle teoriche del femminismo italiano. Prima donna laureata in giurisprudenza, non fu ammessa all’esercizio dell’avvocatura perché l’accesso a tale professione era vietato alle donne dal Codice Pisanelli. Fu necessaria una guerra mondiale perché le donne potessero accedere a tutte le professioni, ma con vistose eccezioni. La Labriola fu tra le pochissime intellettuali a tentare una sintesi del pensiero femminista, scomponendolo fino a individuare il nucleo teorico e la matrice ideologica delle varie correnti, iniziate nel XVIII secolo sulla scia della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Infatti, considerava il movimento femminista “l’ultima ed estrema punta del moto più generale dell’intera società dell’Occidente europeo”. Per il femminismo rivendicò la dignità del pensiero; inoltre fu favorevole all’interventismo femminile italiano. Saggista e pubblicista prolifica, la sua produzione corre su un doppio binario: uno di carattere teorico-filosofico e l’altro emancipazionista-femminista. Dopo la morte del padre, iniziò un percorso politico e intellettuale diverso, convertendosi al nazionalismo, che diventò per lei un credo politico, e all’interventismo, convinta che le donne costituissero una mobilitazione civile indispensabile per la guerra stessa. Il suo insistente rivolgersi alle donne era motivato dalla convinzione che la nazione fosse stata da sempre retta e governata dagli uomini e questo inveterato sistema di potere impedisse alle donne di sviluppare pienamente sé stesse e di avere un ruolo fattivo nella società che stava nascendo. La Labriola lottava affinché le donne acquisissero una maggiore coscienza di classe, prendessero contezza dell’importanza della partecipazione civile e tenessero il costante contatto con le classi direttrici della produzione. Nonostante la sua conversione al fascismo, non ebbe grandi onori in vita, anche perché continuamente oscurata dalla fama del padre, la cui eredità si dimostrò troppo pesante per lei che, sempre più fragile psicologicamente, morì, quasi settantenne, in ristrettezze economiche nel febbraio del 1941.

Si passa al saggio di Paolo Vincenti, Luci ed ombre nella partecipazione delle donne salentine alla Prima Guerra Mondiale. La partecipazione delle donne alla Guerra ha dimostrato come il loro impegno sia stato ampio e variegato, determinando un concreto passo verso l’emancipazione femminile. È emerso un universo femminile prismatico che, oltre ai settori più tradizionali, come quello dell’assistenza e del maternage, ha riversato il proprio impegno in molti altri campi che fino ad allora erano di esclusiva pertinenza maschile. Certamente, la presenza femminile era più numerosa nell’assistenzialismo sia cattolico che laico. Le donne appartenenti all’aristocrazia e all’alta borghesia fondarono e parteciparono a diverse associazioni di beneficenza nel Salento come in tutta Italia. Molte infermiere partirono per le zone di guerra, con l’autorizzazione del padre, mentre la figura delle “madrine di guerra” nasce con lo scopo di tenere alto il morale delle truppe e di far sentire meno soli i soldati al fronte; spesso le madrine di guerra adottavano questi soldati come figliocci per la durata del conflitto. Quelle più giovani intraprendevano una corrispondenza epistolare che non di rado portava all’innamoramento e quindi al fidanzamento o al matrimonio. Molte furono le crocerossine anche nel Salento, così come le “Dame di Carità”, promotrici di iniziative benefiche a favore dei soldati feriti o mutilati o degli orfani e delle vedove di guerra. Molte donne furono impegnate nel campo intellettuale come insegnanti, scrittrici, giornaliste. In assenza degli uomini, si sostituirono a loro nel lavoro nei campi; nelle città le donne entrarono nell’industria metallurgica, meccanica, costituendo un’alta percentuale di presenze alla fine della guerra. Molte si impegnarono direttamente al fronte, come le Portatrici Carniche, che operarono lungo il fronte della Carnia, si arrampicavano sulla montagna trasportando con le loro gerle rifornimenti e munizioni fino alle prime linee italiane ed esponendo a rischio la propria vita. Questa emancipazione si rivelò un’arma a doppio taglio; infatti, quasi sempre la partecipazione attiva delle donne al mondo del lavoro era sinonimo di sfruttamento, considerato che il salario si manteneva più basso rispetto alle ore lavorative. Al di là del grado sociale e culturale, le donne si trovarono coinvolte in un evento che ridisegnò ruoli e percorsi sia in campo politico, che sociale ed economico. Il conflitto fu molto lungo ed esse furono capaci di inscenare plateali manifestazioni di ribellione, a favore della pace, manifestando in tutto il Paese, violando atavici tabù. Ma queste agitazioni furono fortemente contrastate dal potere costituito e ci fu una ferma volontà, sia da parte della stampa che del governo, di farle passare sotto silenzio, pur di non dar voce alle protagoniste. Nonostante ciò, le donne riuscirono ad appropriarsi di un ruolo attivo che non avevano mai avuto.

È sempre a firma di Paolo Vincenti, il saggio Il soldato ruffanese Rocco Gnoni, vittima delle fucilazioni sommarie nella Prima Guerra Mondiale. Nella storia della Prima Guerra Mondiale è annotata una pagina tra le più inquietanti, quella delle fucilazioni sommarie, che vide molti soldati morti per repressione interna, uccisi dall’esercito italiano per insubordinazione, resistenza agli ordini, diserzione e altro. In guerra non si moriva solo di fame, freddo, stenti, ma anche in seguito a processi sommari nei quali i soldati venivano mandati alla sbarra per futili motivi e con estrema facilità condannati, assolvendo alla funzione di capro espiatorio. Quel che è peggio è che questi severi provvedimenti venivano lasciati al libero arbitrio degli ufficiali sul campo, costretti a decidere per non essere oggetto a loro volta di provvedimenti disciplinari. La dura repressione partì da una circolare del generale Cadorna che prevedeva per l’esercito una ferrea disciplina e una dura risposta agli atti di insubordinazione. Gli ufficiali erano costretti a essere inflessibili con i sottoposti, ma anche i giudici dei 117 tribunali militari erano spesso richiamati a una maggiore severità. Fra le tante vittime della giustizia sommaria, anche un soldato salentino: Rocco Gnoni. L’ordine di fucilazione fu impartito dal Comando della seconda armata il 3 novembre 1917, proprio quando i reparti si apprestavano ad abbandonare Pordenone. Sconosciuta la motivazione della sentenza, mentre l’Albo d’oro dei caduti della Grande Guerra dice di lui che fu disperso in battaglia il 30 ottobre, nel ripiegamento al Piave. Anche il foglio matricolare annota “disperso” e rilascia dichiarazione di irreperibilità. Ed è così che viene ricordato nella targa del monumento ai caduti del suo paese, Torrepaduli, frazione di Ruffano. L’autore ricostruisce minuziosamente la parabola del soldato Gnoni attraverso la compulsazione di fonti anche minime, per ristabilire la verità dei fatti. Nel 2016 è stato organizzato un incontro presso l’Istituto Comprensivo di Ruffano per ricordare tutti coloro che sono stati fucilati da mano amica e il relatore e i docenti hanno cercato di far luce sulla vicenda di Rocco Gnoni. La sua vedova raccontava ciò che un reduce le aveva riferito: mentre il marito era a rifocillarsi in una osteria dopo le dure battaglie, fu redarguito da un ufficiale a cui, forse, rispose in modo irrispettoso. Nel 2015, gli onorevoli Zanin e Scanu hanno proposto una legge sulla riabilitazione di questi caduti della Prima Guerra Mondiale, eroi minori di una beffarda tragicommedia.

Segue il contributo di Anna Maria Andriani, Li cunti te lu focaliri. Fra i percorsi della memoria collettiva. L’indagine storiografica contemporanea ha aperto un dibattito sulle nuove fonti relative ad aspetti inediti della Grande Guerra: ad esempio, quali strategie dovette adottare l’Italia, dapprima neutrale, per coagulare una coscienza patriottica e nazionale in grado di sostenere un conflitto dai costi umani e finanziari imprevedibili. Aspetti messi in luce grazie al ricorso a materiali e documenti non “canonici” o all’indagine sui “dimenticati” della storia, i dispersi, i prigionieri. Con specifico riferimento alla riflessione di Pierre Nora su “i luoghi della memoria”, alla Convenzione Unesco (2003) sulla tutela del patrimonio immateriale culturale, alle metodiche della Oral History, l’autrice ha impostato il proprio progetto di ricerca finalizzato alla raccolta di “storie di vita” vissuta. I racconti dei “ricordi” dei Reduci della Grande Guerra narrati dai figli o dai nipoti costituiscono la fonte orale utilizzata. Sono racconti di gente comune, illetterata per lo più, che colpiscono per la modestia dei mezzi espressivi e l’efficacia delle loro narrazioni. L’autrice apre pure una interessante digressione sui temi del racconto/ricordo/memoria/narrazione. Nella memoria collettiva, la Grande Guerra entra dunque in scena anche con i racconti dei ricordi dei reduci, ambientati in alcuni luoghi del conflitto. Tale tipologia testuale può arricchire la documentazione storica sulla Prima Guerra Mondiale e incentivare la ricerca di fonti, ora finalmente riconosciute dalla storiografia ufficiale. Si tratta dell’esperienza di uomini comuni ricostruita attraverso il racconto di chi ha raccolto i loro ricordi di guerra. Da qui l’indicazione di “racconti accanto al fuoco” (li cunti ti lu fucaliri), raccolti cioè dalla voce dei “vecchi”, che usavano narrare la vicenda bellica vissuta nelle sere d’inverno, quando la famiglia si stringeva accanto al caminetto. Per ragioni anagrafiche, i racconti proposti non sono riferiti dai protagonisti (nel testo chiamati “Attanti”), ma da coloro che li hanno ascoltati, indicati perciò come “Narratori”. Il ricordo appartiene a chi ha vissuto l’evento, la memoria è però anche di chi lo ha sentito raccontare. E la Storia è studio e interpretazione del passato, di cui fanno parte tanto la memoria quanto il ricordo legati in un rapporto a spirale. Il racconto del ricordo segna la rivincita della storia; nel tempo l’uomo segnato -protagonista-narratore – diventa “attante” e l’ascoltatore si fa, a sua volta, narratore. È significativo che tra le nuove fonti della storia, il racconto, in cui si intrecciano verità partecipata soggettiva e accadimento storico oggettivo, sia stato annoverato con tutti i crismi. Infine, l’autrice deplora l’assenza dei “racconti” e dell’affabulazione nella società odierna, in cui la famiglia è stata travolta dalla rivoluzione tecnologica e mediatica e anche le piazze e i centri storici sono stati svuotati delle funzioni aggregative loro proprie.

Il saggio di Pasquale Guaragnella, Paesaggi di guerra e visioni di sofferenza e di morte. Su alcune novelle dell’ultimo De Roberto, analizza l’opera Novelle dello scrittore siciliano Federico De Roberto. Pur non avendo partecipato alla Grande Guerra, De Roberto si dimostra un ottimo conoscitore di cose militari, per esempio nella novella Lo scrittore, in cui appare magistrale la descrizione del paesaggio invernale montano. Un paesaggio di incredibile suggestione, per chi era vissuto in collina o in pianura. Un incredibile contrasto era quello che si veniva a creare nella mente dei soldati fra il senso di orrore e la scoperta della frontiera e di quegli incantevoli paesaggi. I soldati si chiedevano come mai si poteva morire in luoghi simili, e nelle lettere che spedivano ai parenti si evidenziava una duplicità: essi cioè indossavano una doppia divisa per il freddo, ma anche una duplice personalità, quella del combattente e quella dello scalatore, quella del sottoposto e quella del superiore. La montagna stabiliva dei ruoli: l’esperienza del montanaro e il sapere delle gerarchie militari. Infatti basta leggere l’altra novella, Il Trofeo, in cui vi è un confronto tra due ordini di esperienze e di saperi, per cogliere la rappresentazione di un duplice paesaggio, quello del fronte di guerra e quello familiare di casa. Ne La posta, la novella più intensa di De Roberto, si incontra la partecipazione umana del soldato Valastro che nonostante l’imperversare delle granate si illude di essere al suo paese con i suoi cari, proprio nel momento in cui incombe su di lui la mala sorte. Una granata lo uccide e la scena che descrive il corpo del soldato senza vita ha un non so che di religioso, ed è qui che si riconosce la duplicità dell’arte narrativa di De Roberto; la rappresentazione della morte del soldato, a guerra ormai conclusa, risente della rielaborazione del lutto e della memoria. Il recupero del corpo del giovane fante offre a De Roberto l’occasione per mettere in scena ciò che potrebbe essere una deposizione. Il corpo del soldato è ridotto in brandelli; è la violenza della guerra tecnologica che rende irriconoscibili i corpi, creando una specie di separazione corpo-nome, che poi nel primo dopoguerra dà l’avvio alla monumentalizzazione del “milite ignoto”. Non sarà ignoto il protagonista della novella di guerra più nota dello scrittore siciliano: La paura, racconto che costituisce una notevole eccezione rispetto allo spirito bellicistico così dominante in quegli anni nella nostra cultura, per la sua dura denuncia degli orrori della guerra. Anche questa novella non è molto diversa dalle altre. Si apre con una interessante descrizione del paesaggio a cui seguirà quella dei soldati che carponi devono raggiungere la postazione di vedetta e che vengono colpiti da un invisibile cecchino nemico. Il soldato Morana, famoso per i suoi atti di coraggio, è colto dalla paura e rifiuta di ubbidire al tenente Alfani, dopo che ha visto morire cinque suoi compagni. Nonostante questo rifiuto comporti di morire di fronte a un plotone di esecuzione, egli sceglie una terza via: quella del suicidio. L’uomo è solo e abbandonato, senza patria, senza familiari, senza regole. Questa novella, che De Roberto invia alla redazione de “La Lettura”, viene rispedita al mittente con molto dispiacere dal direttore Renato Simoni perché avrebbe certamente, una volta pubblicata, trovato nei lettori molte opposizioni per un argomento così scabroso. Ma non c’è dubbio che La paura sia una perfetta opera d’arte.

La Grande Guerra fu tale anche per il coinvolgimento delle comunità civili, comprese quelle più distanti dal fronte. Grandi e piccoli dovevano sentirsi partecipi della difesa della Patria, attraverso i mezzi di persuasione propri della propaganda dell’epoca, tra i quali, per i ragazzi, le copertine dei quaderni di scuola. La grafica aveva una straordinaria carica comunicativa. Su questo argomento verte il contributo di Francesco Carone, La Grande Guerra raccontata da quaderni scolastici e dalla stampa popolare. Attraverso la scuola erano veicolati i modelli educativi funzionali al potere politico: particolare attenzione era data alle letture al fine di suscitare emulazione e ammirazione per i soldati al fronte. Le immagini di Achille Beltrame per la «Domenica del Corriere» venivano utilizzate per illustrare il conflitto sui quaderni scolastici, quaderni che oggi possiamo considerare “luoghi della memoria”. Ovvio che la realtà della guerra era ben diversa da quella “eroica” raffigurata sulle loro copertine. L’autore offre quindi una disamina di alcune fra le immagini (desunte dall’archivio privato Monaco-Filotico di Oria) più ricorrenti sui quaderni di scuola, per instillare nei discenti spirito patriottico, ardimento militare, devozione alla Casa Savoia, circonfusa di un’aura sacrale in quanto artefice dell’unità d’Italia. È riportata una immagine di copertina con Vittorio Emanuele III, il “re soldato”, che consuma una colazione con semplici militari: atteggiamenti che lo resero molto popolare tra i fanti contadini, oppressi dalla vita di trincea e dagli attacchi suicidi contro il fronte nemico. Le figure del re o della regina madre, Margherita, contribuivano a coagulare il consenso alla guerra e a rafforzare quella identità nazionale che si veniva costruendo sui campi di battaglia, dove milioni di uomini, di ogni parte d’Italia, si sentivano uniti nel medesimo compito per la difesa della Patria. «La patria diventa la realtà delle masse in combattimento e la Grande Guerra trasforma un esercito di contadini in un esercito di italiani che, attraverso i quaderni scolastici, consente alla scuola di sviluppare un nuovo senso di appartenenza, educando i giovani ad una nuova cittadinanza attiva e responsabile». Oltre che esaltare le azioni belliche di alpini e bersaglieri, le illustrazioni educavano gli alunni anche al senso del sacrificio e del risparmio, finalizzati al prestito nazionale. I piccoli potevano concorrere offrendo i propri salvadanai, come mostravano le vignette di giornali e quaderni. «Anche le materie scientifiche come la matematica vedevano la guerra come assoluta protagonista: i bambini facevano i conti sugli effettivi dell’esercito italiano in rapporto a quelli dei nemici oppure sul costo quotidiano di un soldato; l’insegnamento delle scienze, poi, si fondava sullo studio delle armi da guerra e, in particolare, del carro armato e dei gas chimici». Caratteristica delle illustrazioni per i ragazzi era, per così dire, l’anonimato e la stereotipia dei luoghi riprodotti, senza riferimento a località familiari, in quanto le immagini dei quaderni dovevano rispondere unicamente all’esigenza promozionale di una guerra necessaria per il bene della Patria e per infondere i valori dell’eroismo e del dovere alle giovani generazioni.

Il filone della monumentalistica bellica nasce all’indomani della Prima Guerra Mondiale, per l’esigenza di elaborare il lutto e commemorare i tanti eroi caduti per la Patria. Di questo si occupa Paolo Vincenti nel suo “L’ombra sua torna ch’era dipartita”. Il culto dei caduti in Terra d’Otranto nelle opere di Antonio Bortone. Nell’Italia del Nord, oltre ai monumenti, sorsero Ossari e Sacrari, dato l’altissimo numero di vittime non identificate. A tutte queste vittime senza nome venne dedicato il grande monumento del Milite Ignoto a Roma, presso l’Altare della Patria. Nel resto d’Italia, sorsero viali e Parchi della Rimembranza e moltissimi monumenti dedicati ai caduti. Con il monumento, si creava una unione di intenti fra Stato e cittadini. Oggi sono più di 12.000 i monumenti, commissionati dalle amministrazioni locali e collocati nelle piazze dei vari paesi d’Italia; dal monumento equestre, tipico prodotto dell’arte risorgimentale, si passò alla stele o Vittoria Alata. Ma furono svariate le tipologie di soggetti scelti per i monumenti: cippi, lapidi, obelischi, aquile, soldati, non sulla base di una lettura stilistica, ma la scelta fu operata dai comuni in base alla disponibilità economica. Il culto di onorare i caduti nacque con l’avvento del Fascismo che con una mirata ed efficace polarizzazione del consenso, indirizzò la propria propaganda all’istituzione del ricordo. Nel 2017 l’ICCD ha terminato la catalogazione dei monumenti, definendo attribuzioni, datazioni e tipologie. Anche la Terra d’Otranto diede un notevole contributo alla causa. Fra i vari artisti, alcuni persino sconosciuti, lo scultore ruffanese, ma fiorentino d’adozione, Antonio Bortone fu tra coloro che realizzarono il maggior numero di opere sul tema, fra Parabita, Ruffano, Tuglie, Calimera, oltre a busti e targhe sparsi in tutta la provincia di Lecce. L’autore passa in rassegna le opere bortoniane soffermandosi sul particolare valore simbolico delle loro iconografie. All’indomani della caduta del Fascismo, poi, un moto generale di riprovazione coinvolse anche i monumenti ai caduti, che furono identificati con la propaganda del regime e per questo coinvolti nel totale rigetto di simboli, immagini, rituali e di tutto ciò che si identificava col fascismo.

Maria Antonietta Bondanese offre il saggio Religiosità e devozione di militi supersanesi nella Grande Guerra. Nel contesto della sconvolgente esperienza collettiva del Primo conflitto mondiale, è ricordato il toccante gesto di undici soldati di Supersano: la raccolta di una somma di denaro inviata al Parroco del paese per “funzioni sacre” in onore di San Michele Arcangelo, patrono del piccolo centro salentino. La lettera dei militi, recante sul retro, in minuta, la risposta del sacerdote, rimase per anni custodita nel cuore d’argento pendente dall’impugnatura della spada dell’arcangelo. Attestazione dell’umile religiosità di uomini che, travolti dalla bufera della storia, cercarono scampo nella fede.

L’ultimo intervento del libro è quello di Federico Carlino, Un eroe leccese della Grande Guerra, in cui si ripercorre la storia di Umberto Colamussi, eroe nella Prima Guerra Mondiale, che l’autore definisce “uno di questi tanti, innumerevoli Eroi, che hanno sacrificato la loro giovane vita per la Patria”. Si ricostruisce la biografia di Colamussi e le sue gesta, utilizzando come fonte principale il volume Fabrizio Colamussi intellettuale europeo, a cura di Lorenzo Carlino e Alessandro Laporta, edito nel 2009 dalla SSPP, Sezione di Lecce. Colamussi è stato inserito nella lista dei militari salentini riportata sul Monumento ai Caduti del Maccagnani in Piazza d’Italia, a Lecce, inaugurato il 28 ottobre 1928. Un’altra lapide dove Umberto Colamussi è ricordato si trova sotto il porticato del Liceo Palmieri in Piazzetta Carducci.

 

STORIA E STORIE DELLA GRANDE GUERRA ISTITUZIONI, SOCIETÀ, IMMAGINARIO DALLA NAZIONE ALLA TERRA D’OTRANTO

A CURA DI MARIO SPEDICATO E PAOLO VINCENTI

SOCIETÀ STORIA PATRIA PUGLIA SEZIONE DI LECCE, NOVOLI, ARGOMENTI EDIZIONI, 2020, PP. 240.

Libri| Rocco De Vitis, medico umanista di Supersano

di Paolo Vincenti

A pochi mesi di distanza dal libro “Quando Ippocrate corteggia la Musa. A Rocco De Vitis medico umanista”, a cura di Francesco De Paola e Maria Antonietta Bondanese, (“Quaderni de L’Idomeneo”, Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, Grifo Editore, 2017), esce nello stesso anno 2017 “Rocco De Vitis, medico umanista di Supersano”, a cura di Maria Antonietta Bondanese e Mario Spedicato, per la collana “Cultura e Storia” della Società Storia Patria per la Puglia, sezione Lecce (Giorgiani Editore).

Il libro si pone in continuità con il precedente, ma se quello aveva focalizzato l’attenzione sull’attività di traduttore del dottore De Vitis e quindi più specificamente sulla sua opera, con interventi mirati da parte di valenti professionisti del settore, quest’ultimo privilegia l’uomo De Vitis, ossia a dire la dimensione privata, attraverso contributi da parte di amici, famigliari, colleghi, e insomma tutti coloro che hanno conosciuto il medico nella sua vita quotidiana. Ma si tratta di dimensioni diverse della stessa storia, come scrive nella Presentazione del libro lo stesso Mario Spedicato, e la storia di De Vitis si intreccia con la storia del suo paese, Supersano, che si intreccia a sua volta con la storia del Paese, e scriverne dunque permette di riannodare i fili, ricomporre la trama di quella temperie socio culturale nella quale si colloca la biografia umana e intellettuale di De Vitis. Un libro, questo, che è diretta emanazione di quell’altro, germinazione dovuta alla troppo abbondante mole di scritti che erano pervenuti nella sua redazione. Un libro che nasce dall’esigenza, fortemente sentita dalla famiglia De Vitis, di non mandare perduti tutti quei meteriali che, sia pure alcuni di essi eterogenei e senza i criteri di scientificità che caratterizzano le pubblicazioni universitarie, risultano vieppiù meritevoli di attenzione. Questi contributi, vari per stile, ispirazione e tematica, ma tutti accomunati da un medesimo sentimento nei confronti del dottore De Vitis, sono stati riuniti a compaginare un volume, tributo di affetto e gratitudine per un personaggio come Rocco De Vitis, 1911-1997, medico e traduttore dei classici, che ha davvero lasciato un segno del proprio passaggio.

“Cultore della poesia virgiliana e fine interprete dell’Eneide, egli ha elaborato con ammirevole accuratezza due traduzioni dell’intero poema, pubblicate rispettivamente nel 1982 e nel 1987, con un prezioso ed utile corredo di tavole e letture esplicative”, come scrive la prof.ssa Maria Elvira Consoli nel suo intervento nel libro.

“Il poema è, per certo, funzionale agli scopi politici e propagandistici di Ottaviano Augusto, invece più sinceramente autentica, in quanto  scevra da secondi fini, risulta l’interpretazione che ne ha fornito Rocco De Vitis con la propria traduzione e l’accorto inserimento di letture, come quella del Panareo, chiarificatrici della Stimmung ideologica della prima metà del’900.” Per questo, nella comunità supersanese, il medico umanista vive ancora, alto modello di riferimento, personaggio esemplare e preclaro potremmo dire, nel ricordo di amici e parenti. Non a caso nel libro sono stati inseriti gli interventi dei relatori alla presentazione del volume “Quando Ippocrate corteggia la Musa. A Rocco De Vitis medico umanista”.

In effetti, l’intento di questo secondo libro, proprio come spiega Gigi Montonato nella sua relazione, è “il tramandare ai posteri, come disse Tacito nell’incipit dell’Agricola, imprese e qualità morali degli uomini illustri. Con questi libri, la Società di Storia Patria per la Puglia intende consegnare alla posterità chi con ogni forma di produzione, letteraria artistica scientifica, si è speso, fuori o dentro la professione abituale, per lasciare un buon ricordo di sé attraverso le sue opere. L’oraziano “Non omnis moriar” è il desiderio, confessato o meno, di sopravvivere grazie ad esse. E’, in un certo senso, l’anelito, del tutto laico, di ogni uomo di lettere, di arti, di scienza e di ricerca; quella che il filosofo polacco Andrzej Nowicki, un profondo studioso di Giulio Cesare Vanini e della filosofia italiana del Rinascimento, chiamava “filosofia dell’uomo e delle opere umane”, risalendo al dantesco “come l’uom s’etterna” (Inf., XV, 85).

Raccogliere quell’anelito e dargli corpo con un libro, che sia guida alle sue opere ma nel contempo anche ricordo del suo essere stato, è compito di chi appartiene alla stessa categoria umana, una risposta di solidarietà, a volte anche di pietas e di giustizia, siccome non sempre in vita si dà il giusto riconoscimento ad uomini pur meritevoli.”

Il libro si apre nella prima sezione, “Il dottore De Vitis e l’antica Supralzanum”, con l’intervento di Gino De Vitis, che traccia il profilo biografico di Rocco De Vitis. Gino De Vitis, benemerito operatore culturale, direttore per quarant’anni del foglio supersanese “il Nostro Giornale” (che ha da poco passato le consegne proprio a Maria Bondanese nella direzione), ha certamente titolo per biografare il medico, non solo per esserne stato amico e parente, ma anche per avere ospitato tanti e tanti suoi interventi sul Giornale. Il secondo pezzo è “Un medico umanista”, di Florio Santini, contributo già apparso in “Il Leccio”, nel 1994. Poi, un dotto intervento di Don Oronzo Cosi, Parroco di Supersano, “La cultura come palestra dell’anima”, e quindi il lungo e documentatissimo intervento di Remigio Morelli sull’esperienza del dottore De Vitis sul fronte nella Seconda Guerra Mondiale.

Ancora, un intervento di Michele De Vitis su politica e società; seguono il contributo di Antonio Errico, già apparso su “Il Quotidiano” nel 1987 e la rivista “Caffebuda” nel 1988, e quello di Giorgio Barba, già apparso su “Il Leccio” nel 1995. Il libro è corredato da un apparato fotografico davvero importante, foto della vita del dottor De Vitis e disegni tratti dalle sue opere si alternano alle pagine del libro, creando un maggiore motivo di interesse per il lettore. Luigi Bardoscia si occupa della “eredità intellettuale, morale e culturale di Rocco De Vitis”, mentre Gianpaolo G.Mastropasqua offre un contributo fra letteratura e medicina, tratto dal suo libro “Partita per silenzio e orchestra” (Ed.Lietocolle 2015).

È uno dei più interessanti il saggio di carattere sociologico di Gianfranco Esposito, “L’attualità del pensiero di Rocco De Vitis”. Inizia a questo punto una serie di articoli che riguardano il territorio di Supersano e le sue ricchezze paesaggistiche e culturali. “Supralzanum, Supersano” di Maria Bondanese, che è tratto da un testo già edito dalla stessa, “Supersano. Arte e Tradizione, Scoperta e Conoscenza”, Taurisano, Centro Stampa, 2014, sulla antichissima storia di Supersano; Francesco Tarantino parla dell’albero della manna presente nella campagna di Supersano, delle Vore e del lago di Sombrino, anche attraverso le narrazioni di Rocco De Vitis, e del Bosco di Belvedere, attraverso la pubblicazione di Maria Bondanese, con bellissime foto storiche e contemporanee.

Molto denso il saggio di Stefano Tanisi e Stefano Cortese sul complesso della Cripta e della Madonna della Coelimanna a Supersano, come bibliograficamente dettagliato è quello di Paolo Vincenti sul Mubo, vale a dire il Museo del Bosco. Antonio Elia parla della Chiesetta di San Giuseppe e delle sue opere litiche da lui realizzate per conto del dottor De Vitis. “Memore della cappelletta sul fronte sul monte Golico, che al fronte vedeva ogni sera avvolta dai bagliori dei mortai e delle bombe a mano, agli inizi degli anni Ottanta, edifica la chiesetta di San Giuseppe sulla Serra di Supersano, impreziosita dai dipinti murali di Ezio Sanapo e dalle sculture di Antonio Elia, e che dona poi, assieme al terreno adiacente, alla Parrocchia di Supersano”, scrive Maria Bondanese.

A questo punto, si apre la seconda sezione del libro, intitolata con dei versi tratti dall’Antico Testamento, “Morì lasciando molti rimpianti di sé”. Qui trovano spazio un intervento di Don Gerardo Antonazzo, già Parroco di Supersano e Vescovo di Sora-Cassino-Aquino Pontecorvo, un altro lungo scritto della Bondanese “L’umanesimo cristiano del dottor Rocco De Vitis”, un breve ricordo di Nello Borrelli ed anche di Francesco Tarantini che sottolineano la poliedricità del medico umanista; ancora sul “personaggio” Don Rocco si intrattengono amici come Vittorio Antonazzo, Raffaele Garzia ed anche la figlia Maria Rosaria con “Arriverderci papà”, un pezzo pubblicato su “Il Nostro Giornale” nel 1997. Maria Rosaria apre in effetti la serie dei “familiaria”, che ricordano l’uomo Don Rocco. Wanda, l’altra figlia, con “Dolce nostalgia”, la nuora Nuzza Marini (moglie del figlio Roberto) che dialoga con la prof.ssa Cristina Martinelli, la nipote Paola Bray con “Seneca al telefono”, un’altra nipote Adriana Malorgio con “Zio Rocco…sul filo dei ricordi”, Rosaria Petracca con “don Roccu”, Roberto Bondanese (fratello di Maria) con “So’ rumaste sotte a bbotte mbressiunate” e poi un articolo firmato da tutti i nipoti, Francesco e Chiara Lecci, Giuseppe, Valeria, Antonio e Vincenzo De Vitis, “Carpent tua poma nepotes”.

Scrive Alessandro Laporta, dopo aver passato in rassegna esempi illustri di medici del passato che unirono alla professione l’attività storica ed erudita, come Cosimo De Giorgi, “De Vitis anche lui è un fenomeno, da questo punto di vista, cioè riuscire a conciliare l’esercizio serio della professione di medico con l’hobby, con la passione, con l’amore per la letteratura. Entrambi sono, in un certo senso, allievi, discendenti di un’altra grande figura che è stata chiamata in causa questa sera: cioè Antonio De Ferraris Galateo, che rimane sicuramente un punto di riferimento […] De Vitis è un poeta sommo non solo per il suo libro che contiene poesie, ma per la sua traduzione dell’Eneide, delle Georgiche e Bucoliche, cioè un medico che pensa di prendere un testo poetico della difficoltà di Virgilio e farne una versione poetica, se non è poeta lui ditemi chi è poeta nella nostra letteratura. Io vedo in queste figure non solo una continuità ma una grande passione per l’esercizio letterario, una grande passione per la grande poesia…”.

Nella sezione terza, “Rocco De Vitis e il mondo della scuola”, interventi di insegnanti e alunni dell’istituto Comprensivo scolastico di Supersano e nella quarta sezione, come già detto, gli interventi sul volume “Quando Ippocrate corteggia la Musa”, tenuti in occasione della presentazione presso l’ex Monastero degli Olivetani il 4 maggio 2017, nell’ordine: Luigi Montonato, Eugenio Imbriani, Alessandro Laporta, Maria Elvira Consoli, Maria Bondanese.

Il libro si conclude con l’Indice analitico e l’Indice dei volumi pubblicati nella collana “Cultura e Storia”.

 

Libri| Quando Ippocrate corteggia la Musa. A Rocco De Vitis medico umanista

di Paolo Vincenti

Un titolo molto suggestivo, che coniuga in prodigiosa sintesi, i due interessi della vita di Rocco De Vitis: la medicina e la poesia, ovverosia la cura del corpo e la cura della mente. “QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA. A ROCCO DE VITIS MEDICO UMANISTA”, a cura di Francesco De Paola e Maria Antonietta Bondanese, segna il n.31 della collana “Quaderni de L’Idomeneo”, della Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, ed è edito da Grifo (2017). Il volume è stato realizzato con il contributo della Banca Popolare Pugliese, ed infatti, dopo la Presentazione di Mario Spedicato, troviamo un bell’intervento di Vito Primiceri, “Semper honor, nomenque tuum, laudesque manebunt” ( versi tratti dall”Eneide”), carico di umanità nei confronti del medico, celebrato nell’opera, nell’affettuoso ricordo del Presidente della BPP. Quando Ippocrate, nume tutelare della medicina, incontra Calliope, la musa della poesia, ecco che riemergono dal passato e si impongono alla nostra attenzione certe figure, vagamente romantiche, come De Vitis, che coniugano la pratica medica con l’amore per i classici, retaggio della loro formazione umanistica. E infatti, scrive il prof. Spedicato: “tutte le numerose testimonianze qui raccolte concordano nell’attestare come questi suoi interessi vitali siano da considerarsi come le due facce della stessa medaglia”. Rocco De Vitis, “Don Rocco”, come lo chiamavano tutti, era nato nel 1911 a Supersano. Aveva frequentato il Liceo Pietro Colonna di Galatina e poi la facoltà di Medicina a Bologna, dove si era laureato, a pieni voti, nel 1937. Esercitò per una vita la professione di medico condotto nella piccola Supersano, sua patria dell’anima prima che luogo di residenza. Pubblicò, in prima battuta, una traduzione in versi liberi dell’ “Eneide” di Virgilio, nel 1982, con l’aiuto di vari collaboratori che curarono il commento ai dodici libri del poema. Successivamente, anche su suggerimento di Mario Marti, che era stato un suo caro amico nella giovinezza, quando frequentavano entrambi il Liceo Colonna di Galatina, pubblicò una seconda edizione dell’opera virgiliana, nel 1987, in endecasillabi puri. Pubblicò poi un nuovo volume contenente altri due capolavori virgiliani: le “Bucoliche” e le “Georgiche”, con testo latino a fronte, tradotte e commentate dallo stesso autore. L’altro suo grande amore era quello per la campagna; amava rimanere ore e ore a coltivare la terra, ad accudire i suoi animali, a meditare sul mondo e sulla vita, nel silenzio e nella pace che offriva la collinetta di Supersano, che egli aveva eletto a proprio rifugio, locus amoenus. Sucessivamente pubblicò “Soste lungo il cammino”, nel 1991, e “Naufragio a Milano”, nel 1994. Morì nel 1997, ad 86 anni. Di lui, prima della presente opera, si sono interessati, solo per citarne alcuni, Enzo Panareo, che ha scritto la Prefazione della traduzione dell’ “Eneide, Antonio Errico, Giorgio Barba, prefatore del romanzo “Naufragio a Milano”, Florio Santini, Paolo Vincenti, Gino De Vitis, Direttore de “Il Nostro Giornale” (rivista culturale supersanese), il quale, insieme a Maria Bondanese, si è speso moltissimo in questi anni per tramandare la memoria del medico umanista.

Il libro che qui si presenta si apre con una citazione che viene dalla letteratura latina: Homo sum, nihil humani mihi alienum puto, tratto da una commedia di Terenzio. Il primo contributo è di Paolo Vincenti, “Il medico dalla scorza dura. Profilo bio bibliografico di Rocco De Vitis”, che riporta appunto la Bibliografia degli scritti del medico umanista. Segue il contributo di Aldo de Bernart, storico e scrittore parabitano ruffanese, scomparso nel 2013, che fu molto amico del dottor De Vitis. Il contributo di de Bernart è tratto da una manifestazione tenutasi a Supersano nel 2007 in occasione del decennale della scomparsa del medico. Lo scritto di Maria Bondanese, “Il dottore: una vita, una storia che parla di noi”, è il più carico di sentimento e non potrebbe essere altrimenti, essendo la Bondanese, non soltanto nuora di De Vitis, ma la più fervente ammiratrice del medico umanista, la più gelosa custode delle sue memorie. In effetti, se in questi anni è stata tenuta viva la memoria del medico umanista, ciò si ascrive principalmente a merito della dinamica Bondanese. Lo scritto di Maria, con un diverso titolo, era già apparso in “Apulia. Rassegna trimestrale della Banca Popolare Pugliese” (Martano editrice), nel dicembre 2007, così come da “Apulia”, stesso numero, proviene l’accorato scritto di Aldo Bello (“Il tarlo dell’umanesimo”), che della rivista matinese era Direttore e la cui prematura scomparsa costituisce un’altra dolorosa perdita per la cultura salentina. Bondanese ricostruisce le drammatiche tappe dell’esperienza fatta al fronte dal dottor De Vitis, rileggendo il suo diario di guerra. Questa testimonianza della Seconda Guerra Mondiale, vissuta in diretta dal protagonista, servì poi da spunto al medico per l’opera “Soste lungo il cammino”. Bondanese si sofferma anche sulle opere maggiori di De Vitis, l’Eneide, le Georgiche e le Bucoliche, e sono riportate belle foto in bianco e nero con gli autografi di De Vitis, gli scenari di guerra che egli toccò nella sua esperienza di soldato, e dei manoscritti della traduzione dell’Eneide. Alla fine del pezzo, troviamo delle foto del Dottore in occasioni pubbliche quali l’inaugurazione della chiesetta di San Giuseppe, nel 1984, sulla Serra supersanese.

Molto significativo, anche per l’alta carica ricoperta dal suo autore, è il testo di Don Gerardo Antonazzo, originario di Supersano e Vescovo di Sora-Cassino-Aquino Pontecorvo: “Nella sapienza del cuore la vera saggezza”. Ma c’è un altro prelato che contribuisce al volume, ed è Don Oronzo Cosi ( con “Una specie in via di estinzione”), non meno caro ai supersanesi, in quanto Parroco del paese. Viene poi ripubblicato un testo di Mario Marti, “Io e Il Nostro Giornale”, indirizzato alla rivista supersanese, appunto “Il Nostro Giornale” (una delle più longeve esperienze editoriali del Salento), nel maggio 1997.

Interessante, il contributo di Carla Addolorata Longo, “Un mirabile lascito di pensiero e di vita”, che si sofferma sulle pubblicazioni di De Vitis trovando spunto nelle tematiche da esse affrontate, per occuparsi anche della nostra attualità più stringente. Matteo Greco, nel suo “Sprofondamenti metropolitani e orizzonti meridionali”, analizza in particolare l’opera “Naufragio a Milano”. “Un’esperienza indimenticabile”, definisce lo scultore Antonio Elia la realizzazione, per conto del Dottor De Vitis, di alcune opere nella Chiesa di San Giuseppe, adornata anche dalle pitture di Ezio Sanapo. Elia illustra le varie fasi di lavorazione, fino alla perfetta conclusione del tutto.

Nella seconda sezione del libro, “L’humus dell’humanitas”, troviamo alcuni contributi che legano l’omaggio a Rocco De Vitis con la conoscenza del territorio, Supersano e il basso Salento. Il primo contributo è “Breve profilo socio-economico del Salento negli anni ’50”, di Gianfranco Esposito; poi “La decorazione nella cripta della Madonna Coelimanna”, di Stefano Cortese, e “Il Santuario della Vergine di Coelimanna in Supersano”, di Stefano Tanisi; seguono “Supersano Torrepaduli Ruffano”, di Vincenzo Vetruccio e “Il dialetto di Supersano”, di Antonio Romano.

I contributi di Cortese, Tanisi e Vetruccio vengono ripresi da una pubblicazione apparsa qualche tempo fa, vertente sul Museo del Bosco, la struttura museale che riproduce le meravigliose caratteristiche del Bosco di Supersano, che viene anche ricordato da Cristina Martinelli nel suo contributo “Tra documento identitario e poesia, Tu Supersano”, in cui analizza una poesia del De Vitis, tratta dal libro “Soste lungo il cammino”. Ben documentato, l’intervento di Giuseppe Caramuscio, “La memoria della Scuola come scuola della memoria: Galatina e il suo Liceo Classico”: una storia del prestigioso Liceo Colonna di Galatina, frequentato da Rocco De Vitis e da Mario Marti, fin dai suoi albori nell’Ottocento, con l’arrivo a Galatina dei Padri Scolopi i quali fondarono nel 1854 la prestigiosa istituzione scolastica a lungo vanto della città.

Il denso e articolato saggio, che si pone a metà via fra storia e pedagogia, è ricco, come tutti gli altri contributi, di un poderoso apparato critico e bibliografico. Parimenti interessante, lo scritto di Alessandro Laporta, “Se è lecito al medico esser poeta (Galateo, Meninni, De Giorgi, De Vitis)”, il quale fa una carrellata di dotti ed eruditi del passato che alla medicina erano legati per interesse o professione, dimostrando magistralmente come l’arte ippocratica e quella poetica, scienza e humanitas, come dicevamo all’inizio, rappresentino un forte connubio, di cui è emblematico l’amore riversato dal De Vitis verso entrambe le discipline. Remigio Morelli si occupa della dolorosa esperienza della Seconda Guerra Mondiale, “Un anno sul fronte greco-albanese”, che vide impegnato Rocco De Vitis, come già ricordato.

Quello di De Vitis va ad unirsi a tanti altri ritratti di salentini illustri che in questi anni la Società di Storia Patria sezione di Lecce ha tracciato nelle sue tre collane. Emerge un amore incondizionato nei confronti della piccola patria da parte di questi suoi figli devoti, non solo studiosi e specialisti delle humanae litterae, ma anche esponenti delle professioni che a vario titolo si sono confrontati con la letteratura, la poesia, il romanzo, i racconti, la memorialistica. Sembra quasi di vederlo, De Vitis, che, spogliatosi dei panni sporchi di ritorno dalla campagna, e indossato l’abito buono, novello Machiavelli de “Le lettere familiari”, penetra “nelle antique corti delli antiqui uomini”, interrogando filosofi, storici e poeti del passato, e “da loro amorevolmente ricevuto”, gli domanda le ragioni delle loro azioni e quelli gli rispondono.

Con la terza sezione del libro, “Vergiliana”, si entra nel vivo dell’opera maggiore di De Vitis, la traduzione dell’Eneide. Questa sezione è una antologia di saggi critici a cura di latinisti che esaminano l’opera devitisiana entrando nel merito di contenuto, stile, traduzione, metodologia. Gli studiosi, che danno a questa sezione del libro un taglio tecnico scientifico, sono: Giovanni Laudizi, con “La traduzione dell’Eneide, delle Bucoliche e delle Georgiche”; Maria Elvira Consoli, con “Dell’Eneide di Rocco De Vitis”; Paola Bray, con “ Quali doni, quali a te mai darò per tale carme?”; Antonio Errico, con “Il traduttore, il suo poema, i segreti del verso”, Maria Francesca Giordano, con “Un segmento di lettura didattica sfogliando le pagine dell’Eneide”; Angela Maria Silvestre, con “La missione di Enea e la traduzione di Rocco De Vitis”; Paolo Agostino Vetrugno, con “Le traduzioni devitisiane di Virgilio tra espressività ed armonia”; Giuseppina Patrizia Morciano, con “L’epicità di Virgilio. Tradizione e traduzione nella lettura di un classico”. La quarta sezione, “Tra storia e letteratura”, riserva spazio a contributi di storia e conoscenza del territorio, in linea con la vocazione della collana editoriale.

Troviamo allora Alessandra Maglie, con “Conflitti e narrazioni nella Terra del Rimorso. Tarantismo ed esperienza mitica secondo Ernesto De Martino”; Maria Antonietta Epifani, con “Maria Manca: la santa di Squinzano”; Sergio Fracasso, con “Il progetto ‘fallito’ dell’Orfanotrofio San Francesco (poi Istituto ‘Margherita di Savoia’) e il problema dell’infanzia abbandonata alle soglie del decennio francese”; Antonio Cataldi, con “ Contributo per una storia dei missionari lazzaristi italiani in Etiopia ed in Eritrea nel periodo coloniale”; Michele Mainardi, con “L’Istituto tecnico di Lecce e l’Orto Agrario”; Arcangelo Salinaro, con “Il letterato Alfredo Mori in Puglia: una caso”; Luigi Scorrano, con “ Con un vescovo di fronte alla guerra e nell’Inferno di Dante”. Dopo l’Indice dei volumi pubblicati, il libro si chiude.

Un’opera imponente, per qualità e mole dei contributi presenti, per la quale dobbiamo essere grati a chi l’ha voluta.

Libri| Quando Ippocrate corteggia la Musa

di Paolo Vincenti

Il 4 maggio 2017, nella Sala Chirico degli Olivetani dell’Università del Salento, è stato presentato il volume “QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA” dedicato al Dott. Rocco DE VITIS, medico e umanista, per i vent’anni della sua scomparsa. Ha coordinato il Prof. Mario Spedicato, Presidente della sezione di Lecce della Società di Storia Patria; sono intervenuti i proff. Luigi Montonato, Alessandro Laporta, Eugenio Imbriani; ha concluso la prof.ssa Maria Antonietta Bondanese.

 

Un titolo molto suggestivo, che coniuga in prodigiosa sintesi, i due interessi della vita di Rocco De Vitis: la medicina e la poesia, ovverosia la cura del corpo e la cura della mente. “QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA. A ROCCO DE VITIS MEDICO UMANISTA”, a cura di Francesco De Paola e Maria Antonietta Bondanese, segna il n.31 della collana “Quaderni de L’Idomeneo”, della Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, ed è edito da Grifo (2017).

Il volume è stato realizzato con il contributo della Banca Popolare Pugliese, ed infatti, dopo la Presentazione di Mario Spedicato, troviamo un bel contributo di Vito Primiceri, “Semper honor, nomenque tuum, laudesque manebunt” ( versi tratti dall”Eneide”), carico di umanità nei confronti del medico, celebrato nell’opera, nell’affettuoso ricordo del Presidente della BPP. Quando Ippocrate, nume tutelare della medicina, incontra Calliope, la musa della poesia, ecco che riemergono dal passato e si impongono alla nostra attenzione certe figure, vagamente romantiche, come De Vitis, che coniugano la pratica medica con l’amore per i classici, retaggio della loro formazione umanistica. E infatti, scrive il prof. Spedicato: “tutte le numerose testimonianze qui raccolte concordano nell’attestare come questi suoi interessi vitali siano da considerarsi come le due facce della stessa medaglia”.

Rocco De Vitis, “Don Rocco”, come lo chiamavano tutti, era nato nel 1911 a Supersano. Aveva frequentato il Liceo Pietro Colonna di Galatina e poi la facoltà di Medicina a Bologna, dove si era laureato, a pieni voti, nel 1937. Esercitò per una vita la professione di medico condotto nella piccola Supersano, sua patria dell’anima prima che luogo di residenza. Pubblicò, in prima battuta, una traduzione in versi liberi dell’ “Eneide” di Virgilio, nel 1982, con l’aiuto di vari collaboratori che curarono il commento ai dodici libri del poema. Successivamente, anche su suggerimento di Mario Marti, che era stato un suo caro amico nella giovinezza, quando frequentavano entrambi il Liceo Colonna di Galatina, pubblicò una seconda edizione dell’opera virgiliana, nel 1987, in endecasillabi puri. Pubblicò poi un nuovo volume contenente altri due capolavori virgiliani: le “Bucoliche” e le “Georgiche”, con testo latino a fronte, tradotte e commentate dallo stesso autore. L’altro suo grande amore era quello per la campagna; amava rimanere ore e ore a coltivare la terra, ad accudire i suoi animali, a meditare sul mondo e sulla vita, nel silenzio e nella pace che offriva la collinetta di Supersano, che egli aveva eletto a proprio rifugio, locus amoenus.

Successivamente pubblicò “Soste lungo il cammino”, nel 1991, e “Naufragio a Milano”, nel 1994. Morì nel 1997, ad 86 anni. Di lui, prima della presente opera, si sono interessati, solo per citarne alcuni, Enzo Panareo, che ha scritto la Prefazione della traduzione dell’ “Eneide, Antonio Errico, Giorgio Barba, prefatore del romanzo “Naufragio a Milano”, Florio Santini, Paolo Vincenti, Gino De Vitis, Direttore de “Il Nostro Giornale” (rivista culturale supersanese), il quale, insieme a Maria Bondanese, si è speso moltissimo in questi anni per tramandare la memoria del medico umanista.

Il libro che qui si presenta si apre con una citazione che viene dalla letteratura latina: Homo sum, nihil humani mihi alienum puto, tratto da una commedia di Terenzio. Il primo contributo è di Paolo Vincenti, “Il medico dalla scorza dura. Profilo bio bibliografico di Rocco De Vitis”, che riporta appunto la Bibliografia degli scritti del medico umanista. Segue il contributo di Aldo de Bernart, storico e scrittore parabitano ruffanese, scomparso nel 2013, che fu molto amico del dottor De Vitis. Il contributo di de Bernart è tratto da una manifestazione tenutasi a Supersano nel 2007 in occasione del decennale della scomparsa del medico.

Lo scritto di Maria Bondanese, “Il dottore: una vita, una storia che parla di noi”, è il più carico di sentimento e non potrebbe essere, altrimenti essendo la Bondanese, non soltanto nuora di De Vitis, ma la più fervente ammiratrice del medico umanista, la più gelosa custode delle sue memorie. In effetti, se in questi anni è stata tenuta viva la memoria del medico umanista, ciò si ascrive principalmente a merito della dinamica Bondanese. Lo scritto di Maria, con un diverso titolo, era già apparso in “Apulia. Rassegna trimestrale della Banca Popolare Pugliese” (Martano editrice), nel dicembre 2007, così come da “Apulia”, stesso numero, proviene l’accorato scritto di Aldo Bello (“Il tarlo dell’umanesimo”), che della rivista matinese era Direttore e la cui prematura scomparsa costituisce un’altra dolorosa perdita per la cultura salentina. Bondanese ricostruisce le drammatiche tappe dell’esperienza fatta al fronte dal dottor De Vitis, rileggendo il suo diario di guerra.

Questa testimonianza della Seconda Guerra Mondiale, vissuta in diretta dal protagonista, servì poi da spunto al medico per l’opera “Soste lungo il cammino”. Bondanese si sofferma anche sulle opere maggiori di De Vitis, l’Eneide, le Georgiche e le Bucoliche, e sono riportate belle foto in bianco e nero con gli autografi di De Vitis, gli scenari di guerra che egli toccò nella sua esperienza di soldato, e dei manoscritti della traduzione dell’Eneide. Alla fine del pezzo, troviamo delle foto del Dottore in occasioni pubbliche quali l’ inaugurazione della chiesetta di San Giuseppe, nel 1984, sulla Serra supersanese. Molto significativo, anche per l’alta carica ricoperta dal suo autore, è il testo di Don Gerardo Antonazzo, originario di Supersano e Vescovo di Sora-Cassino-Aquino Pontecorvo: “Nella sapienza del cuore la vera saggezza”. Ma c’è un altro prelato che contribuisce al volume, ed è Don Oronzo Cosi ( con “Una specie in via di estinzione”), non meno caro ai supersanesi, in quanto Parroco del paese. Viene poi ripubblicato un testo di Mario Marti, “Io e Il Nostro Giornale”, indirizzato alla rivista supersanese, appunto “Il Nostro Giornale” (una delle più longeve esperienze editoriali del Salento), datato maggio 1997. Interessante, il contributo di Carla Addolorata Longo, “Un mirabile lascito di pensiero e di vita”, che si sofferma sulle pubblicazioni di De Vitis trovando spunto nelle tematiche da esse affrontate, per occuparsi anche della nostra attualità più stringente.

Matteo Greco, nel suo “Sprofondamenti metropolitani e orizzonti meridionali”, analizza in particolare l’opera “Naufragio a Milano”. “Un’esperienza indimenticabile”, definisce lo scultore Antonio Elia la realizzazione, per conto del Dottor De Vitis, di alcune opere nella Chiesa di San Giuseppe, adornata anche dalle pitture di Ezio Sanapo. Elia illustra le varie fasi di lavorazione, fino alla perfetta conclusione del tutto. Nella seconda sezione del libro, “L’humus dell’humanitas”, troviamo alcuni contributi che legano l’omaggio a Rocco De Vitis con la conoscenza del suo territorio, Supersano e il basso Salento.

Il primo contributo è “Breve profilo socio-economico del Salento negli anni ’50”, di Gianfranco Esposito; poi “La decorazione nella cripta della Madonna Coelimanna”, di Stefano Cortese, e “Il Santuario della Vergine di Coelimanna in Supersano”, di Stefano Tanisi; seguono “Supersano Torrepaduli Ruffano”, di Vincenzo Vetruccio e “Il dialetto di Supersano”, di Antonio Romano. In particolare, i contributi di Cortese, Tanisi e Vetruccio vengono ripresi da una pubblicazione apparsa qualche tempo fa, vertente sul Museo del Bosco, la struttura museale che riproduce le meravigliose caratteristiche del Bosco di Supersano, che viene anche ricordato da Cristina Martinelli nel suo contributo “Tra documento identitario e poesia, Tu Supersano”, in cui analizza una poesia del De Vitis, tratta dal libro “Soste lungo il cammino”. Ben documentato, l’intervento di Giuseppe Caramuscio, “La memoria della Scuola come scuola della memoria: Galatina e il suo Liceo Classico”: una storia del prestigioso Liceo Colonna di Galatina, frequentato da Rocco De Vitis e da Mario Marti, fin dai suoi albori nell’Ottocento, con l’arrivo a Galatina dei Padri Scolopi i quali fondarono nel 1854 la prestigiosa istituzione scolastica a lungo vanto della città. Il denso e articolato saggio, che si pone a metà via fra storia e pedagogia, è ricco, come tutti gli altri contributi, di un poderoso apparato critico e bibliografico. Parimenti interessante, lo scritto di Alessandro Laporta, “Se è lecito al medico esser poeta (Galateo, Meninni, De Giorgi, De Vitis)”, il quale fa una carrellata di dotti ed eruditi del passato che alla medicina erano legati per interesse o professione, dimostrando magistralmente come l’arte ippocratica e quella poetica, scienza e humanitas, come dicevamo all’inizio, rappresentino un forte connubio, di cui è emblematico l’amore riversato dal De Vitis verso entrambe le discipline.

Remigio Morelli si occupa della dolorosa esperienza della Seconda Guerra Mondiale, “Un anno sul fronte greco-albanese”, che vide impegnato Rocco De Vitis, come già ricordato.

Quello di De Vitis va ad unirsi a tanti altri ritratti di salentini illustri che in questi anni la Società di Storia Patria sezione di Lecce ha tracciato nelle sue tre collane. Emerge un amore incondizionato nei confronti della piccola patria da parte di questi suoi figli devoti, non solo studiosi e specialisti delle humanae litterae, ma anche esponenti delle professioni più disparate che a vario titolo si sono confrontati con la letteratura, la poesia, il romanzo, i racconti, la memorialistica. Sembra quasi di vederlo, De Vitis, che, spogliatosi dei panni sporchi di ritorno dalla campagna, e indossato l’abito buono, novello Machiavelli de “Le lettere familiari”, penetra “nelle antique corti delli antiqui uomini”, interrogando filosofi, storici e poeti del passato, e “da loro amorevolmente ricevuto”, gli domanda le ragioni delle loro azioni e quelli gli rispondono.

Con la terza sezione del libro, “Vergiliana”, si entra nel vivo dell’opera maggiore di De Vitis, la traduzione dell’Eneide. Questa sezione è una antologia di saggi critici a cura di latinisti che esaminano l’opera devitisiana entrando nel merito di contenuto, stile, traduzione, metodologia. Gli studiosi, che danno a questa sezione del libro un taglio tecnico scientifico, sono: Giovanni Laudizi, con “La traduzione dell’Eneide, delle Bucoliche e delle Georgiche”; Maria Elvira Consoli, con “Dell’Eneide di Rocco De Vitis”; Paola Bray, con “ Quali doni, quali a te mai darò per tale carme?”; Antonio Errico, con “Il traduttore, il suo poema, i segreti del verso”, Maria Francesca Giordano, con “Un segmento di lettura didattica sfogliando le pagine dell’Eneide”; Angela Maria Silvestre, con “La missione di Enea e la traduzione di Rocco De Vitis”; Paolo Agostino Vetrugno, con “Le traduzioni devitisiane di Virgilio tra espressività ed armonia”; Giuseppina Patrizia Morciano, con “L’epicità di Virgilio.

Tradizione e traduzione nella lettura di un classico”. La quarta sezione, “Tra storia e letteratura”, riserva spazio a contributi di storia e conoscenza del territorio, in linea con la vocazione della collana editoriale. Troviamo allora Alessandra Maglie, con “Conflitti e narrazioni nella Terra del Rimorso. Tarantismo ed esperienza mitica secondo Ernesto De Martino”; Maria Antonietta Epifani, con “Maria Manca: la santa di Squinzano”; Sergio Fracasso, con “Il progetto ‘fallito’ dell’Orfanotrofio San Francesco (poi Istituto ‘Margherita di Savoia’) e il problema dell’infanzia abbandonata alle soglie del decennio francese”; Antonio Cataldi, con “ Contributo per una storia dei missionari lazzaristi italiani in Etiopia ed in Eritrea nel periodo coloniale”; Michele Mainardi, con “L’Istituto tecnico di Lecce e l’Orto Agrario”; Arcangelo Salinaro, con “Il letterato Alfredo Mori in Puglia: una caso”; Luigi Scorrano, con “ Con un vescovo di fronte alla guerra e nell’Inferno di Dante”. Dopo l’Indice dei volumi pubblicati, il libro si chiude. Un’opera imponente, per qualità e mole dei contributi presenti, per la quale dobbiamo essere grati a chi l’ha voluta.

Storie lampanti. McBetter di Mattia De Pascali

Mattia De Pascali (ph Alessandro Stajano)

 

UNA STORIA A SORPRESA: IL “MCBETTER” DI MATTIA DE PASCALI

di   Maria Antonietta Bondanese

E una mattina, destandomi, scoprii che quel giorno era giunto. E lo accettai senza troppe remore, perché da quando ho memoria ho sempre saputo che sarebbe arrivato.(…) Non c’è nulla da drammatizzare nella fine. E’ il punto d’arrivo, l’assoluta certezza”. Inizia così il racconto di Mattia De Pascali, contenuto nel volume Storie lampanti, che raccoglie le storie più belle proposte nel concorso letterario del 2013 “Raccontare i Paduli”.

Una scrittura incisiva, efficace, per un narrare a metà strada tra fantastico e reale, tra enigma e verità, che coinvolge il lettore e lascia intuire lo stile di De Pascali sceneggiatore e regista.

Il cineasta supersanese, al di là della giovane età, ha già all’attivo un interessante curriculum costruito con competenza, studio e passione. “Sono stato abituato – dice Mattia – a guardare film fin dalla tenera età. Eppure da bambino volevo fare altro, un mestiere che mi permettesse di essere più a contatto con la natura. Almeno fino a tredici anni, quando ho scoperto le opere di Stanley Kubrick e ho compreso il potenziale infinito del mezzo cinematografico”.

Dal regista statunitense, il cui genio ha spaziato dal thriller alla satira politica, dalla storia e fantascienza al dramma psicologico, Mattia ha mutuato la pluralità degli interessi.

(ph Alessandro Stajano)
(ph Alessandro Stajano)

 

Oggi – aggiunge – non ho un regista, un film o un genere preferito. Tendo a non mitizzare niente e nessuno ma sono aperto a tutto.” La sua stanza di lavoro, adorna di libri, fotografie e manifesti descrive, infatti, un percorso personale ricco di curiosità. Una capacità di guardarsi intorno e rappresentare la quotidianità attraverso il filtro dell’inventiva.

Anche il set del suo recente lungometraggio “McBetter”, allestito nel B&B Luxury a Lecce e quindi ad Arnesano presso Villa Maresca, è lontano dal tipico Salento assolato, intrappolato in una ‘controra’ senza fine. Il contesto salentino è reinventato, invece, come sfondo per un intreccio che potrebbe snodarsi ovunque, perché il “messaggio, le idee politiche o la visione sociale del regista – Mattia ne è convinto – emergeranno comunque attraverso alcuni dettagli per occhi attenti”.

Tutti i film – prosegue – raccontano la società in cui nascono ed un ‘messaggio’ arriva meglio se non viene veicolato in modo diretto”. Ma, ad esempio, sotto la specie accattivante del thriller o della commedia “nera” dai toni grotteschi qual è “McBetter”. Una storia in cui il gioco perverso del Potere viene smascherato con scanzonata ironia e i rapporti di forza, motore dell’esistenza, sono tracciati mediante la tensione dell’intrigo. Non a caso, la vicenda di “McBetter” è ispirata al dramma shakespeariano di Macbeth, dove ambizione e avidità sfrenata portano a totale distruzione il protagonista che, ucciso il proprio re, si avvita in una spirale di delitti fino al tragico epilogo.

McBetter family
McBetter family

 

In “McBetter” il re da usurpare è l’attempato imprenditore Joe McBetter, proprietario di una ricca catena di fast food mentre il nuovo Macbeth è Malcom, suo genero. Entra così in primo piano il mercato del fast food, del cibo veloce, industria tra le più potenti del mondo dove le ragioni del profitto impongono lo sfruttamento dei lavoratori e la seduzione dei consumatori, specie dei bambini, mediante una pubblicità ingannevole. Una realtà che corre lungo il filo della trama con sorprese e colpi di scena, come nel più classico dei polizieschi. Singolari i personaggi di questa storia, per i quali De Pascali ha selezionato gli interpreti secondo il criterio dell’originalità e della bravura. “Durante il ‘casting’ – ci tiene a sottolineare – ho cercato attori che fossero personaggi particolari, non belle presenze.   E così è stato, compreso per il più giovane dei protagonisti, Oscar Stajano, cinque anni appena e pronipote di Giò Stajano, famosa nella ‘dolce vita’ di felliniana memoria”.

ph Silvia Cappello
ph Silvia Cappello

 

Il gruppo degli attori – Nik Manzi, Donatella Reverchon, Serena Toma e Andrea Cananiello – è affiancato da tecnici esperti come Giulio Ciancamerla, l’aiuto regista; Lucio Massa, l’organizzatore generale; Islam Mohamed detto ‘Ismo’, il direttore della fotografia; Silvia Cappello, l’assistente di fotografia; Cristina Panarese, per gli effetti speciali; Jonathan Imperiale, il segretario di edizione; Sofia Volpe e Giorgia De Carlo, per trucco & parrucco. Spiccano nella troupe due giovani talenti di Supersano, Arianna Alfarano e Valentino Galati. Arianna , brillante attrice nel teatro amatoriale ed allieva presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce, si è cimentata nell’impresa in qualità di abile scenografa. Valentino, noto dj, ha preso parte come addetto all’audio e compositore della colonna sonora. Dall’estro di Valentino, che opera in campo musicale nel duo “Monotron”, è nata anche la musica originale che esalta le immagini di Candy School, il cortometraggio realizzato nel 2103 da Mattia De Pascali con gli alunni dell’Istituto Comprensivo “E. Frascaro”di Supersano, nel laboratorio di cinema da lui tenuto sul tema del bullismo.

Numerose le opere di Mattia selezionate in vari festival, come il Festival del Cinema Europeo a Lecce, il Castro Film Festival e il Puglia in corto a Brindisi. Intensa anche la sua collaborazione con la rivista online di critica cinematografica Point Blank – La più corta distanza fra il bene e il male e quella con altri registi come Alberto Genovese, per il quale sta ultimando la sceneggiatura del film “Resurrection Corporation”.

Risultati sorretti da una solida formazione e cultura professionale. Alla laurea triennale al DAMS di Bologna, hanno fatto seguito infatti la laurea magistrale in Cinema, Televisione e Produzione Multimediale conseguita a pieni voti al DAMS di Roma Tre e la frequenza di vari corsi per ampliare la sua specializzazione. “Il cinema – dice Mattia – è diventato la mia ragione di vita”.

Più che le parole, il tono della voce e lo sguardo lasciano trapelare quanto entusiasmo, coraggio e determinazione siano necessari ad affrontare gli ostacoli che un’attività così complessa comporta. Dalla fine degli anni Ottanta, il cinema “made” in Puglia ha fatto un salto di qualità, grazie anche al supporto della Regione ma serve “qualcuno che investa cifre vere e non si appoggi solo ai limitati fondi pubblici per promuovere un’industria in grado di crescere su delle basi solide e non essere alla mercè di tagli e crisi economiche”. E’ quanto annotava Mattia De Pascali nel suo libro Multisala Salento, che reca l’eloquente sottotitolo “Come fare film sotto il sole con pochi soldi e a stento”. Era il 2012 quando appunto osservava che mancano programmazione e infrastrutture, mancano teatri di posa e una scuola di cinema. Manca il sostegno economico  a chi è agli inizi.

Un regista emergente come Mattia De Pascali deve perciò auto produrre il suo film. Senza cedere a facili vittimismi, Mattia lavora adesso con impegno al montaggio del “McBetter”, finito di girare lo scorso aprile, per poterlo ultimare quest’anno e proporlo nel 2018 entro i circuiti di distribuzione. Anche questo è un grosso problema perché il mercato tende in genere a premiare i nomi già noti più che gli esordienti, la cassetta più che la qualità.

Ma il cinema che da sempre racconta bellissime storie, potrà forse regalarci ancora una volta sorprese ed emozioni con la ‘storia’ di Mattia De Pascali.

Per sapere di più su personaggi e interpreti della black commedy McBetter”, conoscere particolari gustosi e momenti del set, si può visitare la pagina Facebook: www.facebook.com/McBetterMovie.

 

Il Museo del Bosco a Supersano

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di Paolo Vincenti

A Supersano, nel dicembre 2011, è nato il MUBO, ossia il Museo del Bosco. E’ un progetto che viene da lontano e nasce dalla acquisita consapevolezza da parte dei supersanesi della eccezionale portata storica di cui il proprio comune è depositario.

Un progetto che inizia moltissimi anni fa quando gli studiosi locali pubblicavano le ricognizioni storiche sull’antico Bosco di Belvedere, di cui Supersano era parte integrante, sul sito archeologico della zona Scorpo, dove sorgeva un villaggio bizantino, sulla Specchia Torricella e sulla chiesa rupestre della Coelimanna. Un progetto che prende il via a seguito di una importante campagna di scavi eseguiti in località Scorpo dal Laboratorio di Archeologia Medievale dell’Università del Salento, guidato dal prof. Paul Arthur. Si è così scoperto che le origini di Supersano risalgono addirittura al Paleolitico e questa zona era frequentata fin dalla notte dei tempi. Il Bosco del Belvedere si può definire un enorme polmone verde dove, fino a poco più di cento anni fa, si estendeva un’area boschiva che interessava l’agro di ben quindici comuni. Il Mubo, realizzato con fondi regionali PIS 14, nasce proprio per raccontare la storia di queste eccezionali scoperte e dello specifico ecosistema del Belvedere.

Nelle intenzioni dei proponenti, “il Museo vuole porsi come punto di riferimento per un vasto territorio al di là dei limiti comunali di Supersano. L’allestimento coniuga le esigenze didattiche con una attenta ricostruzione ambientale, archeologica e storica, garantita dalla partecipazione al progetto di docenti dell’Università del Salento sotto la direzione scientifica del prof. Paul Arthur. Le diverse sale espositive, le ricostruzioni grafiche realizzate dallo studio Inklink di Firenze, i reperti archeologici, la riproduzione di manufatti ceramici e degli strumenti litici atti alla loro lavorazione, consentono al visitatore di fruire di un percorso informativo di particolare interesse e suggestione.” Questo progetto è costato molti sforzi ai suoi ideatori e realizzatori.

Rocco De Vitis negli anni '80, ritratto alla sua scrivania nell' "esotico" studio da lui stesso arredato
Rocco De Vitis negli anni ’80, ritratto alla sua scrivania nell’ “esotico” studio da lui stesso arredato

 

E a descrivere il frutto del pluriennale lavoro, è stato pubblicato, a cura di Maria Antonietta Bondanese, il Catalogo: “Supersano. Arte e Tradizione, scoperta e conoscenza. Mubo Museo del Bosco”, con il patrocinio del Comune di Supersano, della Provincia di Lecce e dell’Università del Salento. Con i testi di Maria Bondanese e la grafica di Simone Massafra, è un utile strumento di conoscenza (ha anche un sito: www.museodelbosco.it) a vantaggio dei tanti turisti che soprattutto d’estate affollano le nostre contrade ma anche dei salentini che vogliano conoscere le meravigliose ricchezze custodite da questo territorio. Perché di quanto fatto rimanga traccia, perché il comune supersanese venga maggiormente conosciuto ed apprezzato, perché il museo del bosco non sia una cattedrale nel deserto.

Del bosco di Supersano, delle Vore e del Lago Sombrino, si è occupato anche il nostro Rocco De Vitis in “Soste lungo il cammino”(Taviano, Grafiche Aesse, 1991). Con una “breve panoramica geologica” descrive la nascita delle Vore o Ore di Supersano, delle quali la più consistente è quella a sud del Cimitero, accanto al Santuario della Madonna della Coelimanna, detta “Fago” o “Fao”. Questa vora, spiega De Vitis, non riuscendo a contenere l’enorme getto di acqua proveniente a seguito delle ingenti piogge dai paesi circonvicini, produceva estesi allagamenti. La vora, il cui carico d’acqua diventava insostenibile, ben presto sprofondò in una voragine che creò un vero e proprio lago, di ben 100 ettari, il Lago Sombrino. Successivamente, venne creato artificialmente un altro lago che potesse contenere parte delle acque del Sombrino e ad esso collegato tramite un canale di comunicazione, sicché questo fu il lago della Padula, mentre il Sombrino, ormai prosciugato, scomparve del tutto. De Vitis dedica alle Vore e al Lago Sombrino anche una significativa poesia: “Allor che tu ancora / non eri, venata / da mille canali / fenduta travolta / da mille torrenti, / d’intorno ti stava / la giovine Terra: / e tu Supersano / ancora non eri /”.

Il rapporto fra De Vitis e il Bosco di Supersano viene ripreso da Cristina Martinelli proprio nel recentissimo libro “Quando Ippocrate corteggia la Musa. A Rocco De Vitis medico umanista” (Soc. Storia Patria sez. Lecce, Grifo 2017). Nel suo contributo ,“Tra documento identitario e poesia, Tu Supersano”, la Martinelli sottolinea come De Vitis, “da vero patriarca per l’intera comunità della sua amata Supersano”, avesse compreso “la bellezza dei luoghi, la ricchezza di Storia che custodivano” ed analizza la suddetta poesia, fra interesse documentaristico e afflato poetico.

Tornando al Mubo, dobbiamo dire che un museo non deve essere solo deposito di conservazione di oggetti del passato ma centro di ricerca attivo, di produzione ed elaborazione di documenti. Del pari, un museo non dovrebbe fare solo una esposizione di materiali e oggetti vari, ma incoraggiare anche una loro riproposizione, non essere solo un museo didattico, luogo di confronto teorico, ma anche didascalico, e svolgere quelle funzioni tecniche che sono date dalla natura stessa degli oggetti musealizzati. Un museo, ogni museo pubblico, è vincolato alla sua funzione sociale ma anche alle scelte di politica culturale operate da chi deve governarlo. E dunque, se sulla serietà del lavoro condotto fin qui garantisce la direzione scientifica del Prof. Paul Arthur (la cui prestigiosa firma compare in calce alla presentazione del libro), alle diverse amministrazioni comunali che si succederanno spetterà il compito di gestire il Mubo.

ll Museo del Bosco è ospitato nello storico Castello Manfredi, sede del Comune, nel cuore del centro abitato. L’iter espositivo si snoda attraverso sette sale, su due piani, un book shop e la torre medievale. Davvero consigliabile una visita. Il libro che lo documenta è diviso in quattro sezioni tematiche. Nella prima sezione, dopo la Presentazione del Prof. Paul Arthur ed i Saluti dei passati Sindaco e Consigliera alla Cultura del Comune di Supersano, Dott. Roberto De Vitis e Prof.ssa Maria Bondanese, vengono offerte delle tracce sul territorio di Supersano e sulla sua storia, sul Castello Manfredi e sulla Torre Medievale.

Nella seconda sezione, si entra nel vivo della trattazione, con la descrizione particolareggiata del Museo, delle sue Sale e della collezione in esse contenuta. Nella terza sezione tematica, vengono trattati i luoghi di interesse del territorio e segnatamente “La cripta della Madonna della Coelimanna”, a cura di Stefano Cortese, “Il santuario della Vergine di Coelimanna”, a cura di Stefano Tanisi, “L’albero della manna”, a cura di Francesco Tarantino, i Menhir, le Masserie, “ I percorsi naturalistici”, a cura di Michela Ippolito, e la Chiesa Matrice.

La quarta sezione raccoglie le Informazioni utili, ricettività, gastronomia, numeri d’emergenza, insomma tutto ciò che il turista che viene a Supersano deve sapere. Al libro, che per essere un opuscolo reca un apparato bibliografico davvero poderoso, si affiancano alcune brochure, anch’esse molto curate dal punto di vista grafico, che offrono uno strumento di più agile consultazione. Chiaro che il museo, per sua stessa definizione, è un contenitore di reperti del passato, di oggetti che non hanno più vita nel presente. Dunque, per il suo status semiologico, esso non può parlare il linguaggio della vita ma un meta- linguaggio, cioè il linguaggio della riflessione sulla vita. Resta fermo però che, se non “vitalmente”, certo “museograficamente”, un museo debba essere “vivo” e parlare ad un pubblico quanto più vasto possibile.

Scrive ancora Rocco De Vitis: “Da lungi venivan / le acque trascinando / e tronchi e ciottoli / ed ossa di mostri, / cercando la quiete / a pie’ de l’altura / che cinge i tuoi campi / e tu Supersano / ancora non eri /.

 

Supersano. Chiara Ferrazzi, una storia di gusto, di sapori e di qualità che continua

SUPERSANO bio

          

Interno dello stabilimento Ferrazzi
Interno dello stabilimento Ferrazzi

di Maria Antonietta Bondanese

Supersano bio”, un logo vivace. I colori del cielo, della terra, dei frutti, del sole, evocati da un marchio in cui sono sottesi passato e presente.

Dolce e salato, creme, passate e patè, confezionati secondo i princìpi dell’odierna agricoltura biologica, fanno bella mostra di sé nei vasetti della recente produzione estiva. Una soddisfazione per Chiara Ferrazzi, nel cui sguardo aperto e vibrante brilla la luce di un’intelligenza operosa. Innovare nella tradizione. Una sfida da portare avanti, partendo, ancora una volta, da Supersano.

Come quando gli antenati, Attilio e Luigi Ferrazzi (nonno ‘Gino’), approdarono in questo lembo di Meridione, provenendo da La Spezia, dove si erano stabiliti dalla natìa Busto Arsizio. I ‘milanesi’, così li appellarono in paese in un misto, penso, di incredulità e ammirazione (‘milanese’ era anche, nel parlar comune della gente, un complemento di luogo riferito ai due, si’ che, ad esempio, ‘andare al…, fermarsi a…, lavorare da…’, ecc., era come dire:’ andare allo stabilimento Ferrazzi, fermarsi allo stabilimento Ferrazzi, lavorare dai Ferrazzi’, ecc.). Incredulità, almeno iniziale, che uomini venuti dal Nord davvero potessero amare questa terra: remoti non erano i tempi del furore, della rabbia del Sud di fronte a un Risorgimento ‘mancato’ e della brutale repressione da parte dello stato ‘piemontese’ neo-unitario.

Sequela dei traini carichi di uva
Sequela dei traini carichi di uva

 

Ammirazione, per quella straordinaria vitalità imprenditrice che rompeva gli schemi del proprietario terriero guardingo e sospettoso del nuovo. In verità, nel territorio in cui i fratelli Ferrazzi impiantarono l’A.G.F., la loro azienda vinicola, si andava scrivendo proprio allora una diversa storia produttiva e l’industria cominciava ad affermarsi in un contesto da sempre rurale.

Tra fine ‘800 e inizi ‘900, infatti, in Terra d’Otranto venivano costruiti centinaia di stabilimenti con i criteri dell’enologia più aggiornata, offrendo un quadro che modifica la visione di un Mezzogiorno tutto arretrato, fuori dai flussi della modernità e restituisce l’immagine di un’economia articolata, lontana da banali semplificazioni. Da un capo all’altro di Terra d’Otranto era un fiorire di innovazioni tecniche accanto ad abilità lavorative antiche, per rendere sempre più competitivi gli impianti enologici. Basti pensare, tra Brindisi e Gallipoli, all’azienda vitivinicola ‘Leone de Castris’ a Salice Salentino o a quella di ‘Adolfo Colosso’ ad Ugento.

Interno dello stabilimento : spazio ‘pesa’
Interno dello stabilimento : spazio ‘pesa’

 

In questo fervore di inizi s’inserisce il decollo dell’Azienda A.G.F. a Supersano, dove Gino Ferrazzi, imprenditore oculato e competente, oltreché perito agrario, esercitò anche la carica di sindaco, negli anni difficili del primo conflitto mondiale, dal 6 agosto 1914 al 13 marzo 1916 e, in seguito, per i primi sei mesi del 1919, in un’ Italia scossa dalla ‘vittoria mutilata’. Un impegno politico, il suo, intriso di ideali liberali e patriottici, da cui l’adesione alla Loggia ‘Liberi e coscienti’ di Lecce, che si batteva per un nuovo ordine di cose. Accanto a Gino, la moglie Anna Montale che, dal 1911 al 1921, risiedette a Supersano, mentre la famiglia cresceva con l’arrivo dei figli Maria, Flavio ed Italo. Intensa continuava la spola tra Supersano e La Spezia, città di transito e commercializzazione del prodotto salentino, dove i Ferrazzi si associarono a Naef e Longhi, per fondare nel 1924 una banca, che ha prosperato fino al 1967.

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Scomparsi Attilio nel 1936 e Gino nel settembre 1940, l’A.G.F. prosegue l’attività nel secondo dopoguerra con la seconda generazione, Franco, Italo e Flavio. Quest’ultimo, giovane ufficiale e agronomo, sposa Giovanna Ercolini nel 1949, dopo essere tornato indenne dalla campagna d’Africa e dalla dura prigionia inglese in India. (Al pensiero di tante traversìe subite da papà Flavio, lo sguardo di Chiara si fa assorto, mentre la sua voce si spezza nel ricordo…).

Dopo le ferite della guerra, la requisizione della casa di La Spezia da parte tedesca e la sua distruzione da parte americana, bisogna tornare a vivere.

I supersanesi, ‘don Pippi Carrozzini’, l’amministratore, e i fattori Michele Nutricato, ‘Ucciu’ Elia, Egidio Visconti, hanno seguito l’azienda durante la crisi bellica, mentre ‘mèsciu Virgiliu’ Stradiotti (figlio di Michele e fratello delle fornaie Vata e Maria) ha curato la tenuta delle macchine; Antonio De Pascali (‘Ntoni guardia) fungeva da guardiano e Mario Vinciguerra da autista dell’azienda; ora tutto è pronto per la nuova stagione della ricostruzione, che l’Italia intera intraprende dalle macerie dei bombardamenti.

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Una lunga, maestosa teoria di cavalli e carretti, con grandi tini di uve fragranti, si snoda dalla contrada di Bosco Belvedere, per il corso Vittorio Emanuele, fino al palmento di casa Ferrazzi. Nel pieno della campagna, una lunghissima fila di traini carichi di botti, sosta rispettando il turno di scarico. E’ la vendemmia 1953, impressa negli ‘storici’ fotogrammi della pellicola super 8, che narra l’evento festoso, la felice fatica di uomini, donne, ragazzi e anziani di Supersano, sorridenti all’occhio inconsueto della sorprendente cinepresa. In primo piano tanti lavoranti in bianche maniche di camicia, coppole e cappelli, biciclette, ‘tine di caricamento’, traìni, camion e una gloriosa ‘giardinetta’. Immagini color del tempo, volti ed espressioni di un’epoca aspra, di sacrifici, ma non avara di coraggio e ardita nelle speranze.

Casa Ferrazzi e palmenti verso la fine degli anni venti
Casa Ferrazzi e palmenti verso la fine degli anni venti

 

Audacia che ritrovo in Chiara Ferrazzi. Una vita spesa nella scuola, imprenditrice ora per amore della terra salentina, passione di cui ha ‘contagiato’ anche Giano, l’affabile ed arguto consorte con i meravigliosi figli, Mattia, Camilla e Francesca. Il binomio ‘La Spezia-Supersano’, visibile ancora nella targa imbrunita all’ingresso dell’A.G.F., rifiorisce dal 2009 nell’azienda ‘Supersano bio’, con la fruttuosa presenza dell’agronomo-artista Antonio Giaccari, autore della rinascenza dell’azienda agricola e creatore del marchio ‘Supersanobio’.

Ho voluto trovare qualcosa –dice Chiara- che mi legasse di più al paese”. Quasi soggiorno obbligato nelle calde estati degli anni ’70, per lei è divenuto oggi un luogo del cuore, della memoria (nel Camposanto ai piedi della Coelimanna, ha voluto trovare ultimo riposo l’amato fratello Fabrizio), ma anche di un rinnovato slancio verso il futuro.

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Ripresa la spola tra La Spezia e Supersano, Chiara impronta il suo management ai criteri dell’agricoltura biologica: “benessere, equità, precauzione, ecologia”: quattro pilastri che garantiscono ‘il rispetto per la salute dell’uomo e dell’ambiente, unito alla volontà di riscoprire e recuperare le tradizioni tecniche agro-alimentari salentine’. Scritto in ariose broschure, lo si può leggere anche nel sito www.supersanobio, dove un apposito link rinvia ad altre aziende di Supersano attive nell’agriturismo e nell’alberghiero.

Fare sistema, entrare in una logica integrata dei vari settori, alimentare una rete di rapporti sul territorio, è necessario di fronte al mercato globale di oggi. Chiara ne ha una visione precisa, come netta è stata la sua scelta per una produzione ecosostenibile, cui non è estranea, credo, anche la sua sensibilità per l’arte e per il bello, di cui si fa entusiasta promotrice.

Un mondo di bianco, di silenzio, di pietra si offriva infatti nell’estate 2013 al visitatore della mostra ‘Sophia’, allestita da Antonio Giaccari, all’interno del patio di casa Ferrazzi. Ideale prosieguo delle precedenti mostre di Giaccari a Poggiardo e Soleto, intitolate ‘Philìa’.

Lavoranti alla vendemmia
Lavoranti alla vendemmia

 

E’ “un percorso infinito di conoscenza che troviamo nelle sue bianche sculture, dall’aspetto umile…”, ha scritto Chiara, indicando la non esauribilità per l’artista, ma anche per ognuno di noi, della ricerca di consapevolezza, di ‘sophìa’. Una tensione al meglio che Chiara esprime nella cura quotidiana per un prodotto di qualità. Proposto in fiere locali e nazionali (‘Agroalimentare’ 2011 a La Spezia; ‘Cibus’ 2012 a Parma), il marchio ‘Supersano bio’ è tra i migliori ambasciatori dell’eccellenza gastronomica e dell’ospitalità della piccola ma accogliente Supersano.

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Cosimo Morieri: ferro e legno… che passione

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ph Antonio Carriero (vietata la riproduzione)

   

di Maria Antonietta Bondanese

Osserva, valuta, progetta. Con gesti sapienti realizza quindi piccoli e grandi manufatti.

Bambino di ieri, costruisce trottole (curupizzi), raganelle, rocchetti (yo-yo) evocando l’allegria e la spensieratezza dei passatempi di una volta, quando i giochi si facevano per strada, in gruppo, ‘armati’ di noccioli di frutta, sassi, tappi di bottiglia e tanta fantasia. Tutte le abilità venivano coinvolte allora nel gioco, si sviluppavano autonomia, riflessione, confronto.

Cosimo Morieri sorride mentre mi mostra il lancio della trottola, spiegandomi le regole di un’attività ludica semplice e festosa, ma ormai dimenticata.

La sua bravura nell’intagliare e levigare il legno traspare dalla ricchezza e varietà dei tanti capolavori in miniatura che esegue con precisione di dettagli e sagace fattura: macchinine, mortai, pipe, portacandele, cannoncini, “Pinocchi” dall’aria trasognata e orologi sentenziosi sul “tempo che passa”. Mai identici uno all’altro, pur nella ripetizione del soggetto, questi esemplari sono ‘unici’ perché prodotti non in serie ma uno per uno, in legno d’ulivo, con scrupolosa cura.

Nelle sue creazioni, Cosimo Morieri trasferisce le competenze, l’intelligente manualità e la passione del suo vecchio mestiere di idraulico e manutentore di macchinari, di una vita lavorativa da artigiano.

Ultimo di quattro figli maschi, Cosimo nasce il quattro gennaio 1955 da Alfredo Morieri e Leonilde Del Genio, e ‘respira’ con i fratelli più grandi Attilio, Michele e Luigi, l’aria degli anni Cinquanta, con le difficoltà, le attese e le speranze che anche a Supersano si vivevano, dopo l’incubo del secondo conflitto mondiale e i moti contadini di occupazione delle terre.

ph Antonio Carriero (vietata la riproduzione)
ph Antonio Carriero (vietata la riproduzione)

 

Nella convinzione che lo sviluppo economico e sociale nel Sud del dopoguerra passasse attraverso la riforma agraria, anche i braccianti salentini si erano infatti mobilitati, occupando le aree non coltivate nel comprensorio dell’Arneo. «Sulle terre incolte d’Arneo/ noi porteremo la vita ed il lavoro/ darem le terre a tutti coloro / a cui l’agrario per anni negò», cantavano i contadini tra il dicembre 1950 e il gennaio 1951. Accusato di favoreggiamento, subiva alcuni giorni di arresto anche Cesare Reho, segretario della Camera del Lavoro di Supersano, poi tra i primi a promuovere l’occupazione del latifondo nel nostro Comune, in contrada “Schillanti”. A mediare il contrasto con i proprietari De Marco, interverrà il dottore Rocco De Vitis che si adoperò per il frazionamento in piccole quote della zona “Schillanti”, assegnate con sorteggio a circa mille famiglie di Supersano. Di lì a poco, però, la Legge 634/1957 di “Rifinanziamento della Cassa per il Mezzogiorno” contribuì a spostare gli aiuti statali dall’agricoltura all’industria, con il conseguente esodo migratorio dalle campagne verso il Nord d’Italia e l’ Europa, da una parte e ,dall’altra, con lo sforzo di una emergente classe di imprenditori meridionali ad esplorare nuove strade per il riscatto e la trasformazione dell’economia locale.

A Supersano prosperavano piccole e grandi imprese, fabbriche del legno e officine del ferro dove con molta perizia si realizzavano oggetti il cui fascino balza vivo nei ricordi di Cosimo Morieri, nelle cui opere in ferro battuto si riflette quella maestria e quella cultura della manualità. Lavorando con pinze e martello, seghetto e tronchesi, Cosimo ottiene da tondini di ferro di diverso spessore forme di estrema eleganza ed espressività per “quadri” di dimensioni variabili, dai più piccoli a quelli grandi fino a 2.34 x 1.40 m. «Il ferro l’ho sempre maneggiato a freddo», dice indicandomi la morsa che va utilizzata con energia, a forza di braccia, per materializzare figurazioni di sogno. Delicate farfalle, fanciulle seducenti, idre fantastiche e mitici eroi che non destano stupore in questo lembo di Finisterrae, ponte aggettato verso la classicità greca, luogo di transito di civiltà, centro di diffusione dell’arte testimoniata dagli affreschi delle tante cripte basiliane come la Coelimanna di Supersano e del pensiero, attestato dal paziente lavoro degli amanuensi di Casole, capace di trapassare gli spessi muri del monastero e del tempo per giungere fino a noi.

Figlio di una terra dove le pietre, le tradizioni religiose, la musica della taranta evocano una magia permanente, Cosimo Morieri ne traduce, a proprio modo, la seduzione per intero.

L’incanto del passato, della storia torna nello straordinario “velocipede” che Gina De Donatis, da quarant’anni felice consorte di Cosimo, mi mostra sorridente. Cosimo ne ha realizzati due esemplari, uno in legno e l’altro in ferro, da lui stesso verniciato d’azzurro.

Di poche parole, ma cordiale e sincero, Cosimo ci addita forse, con l’antico prototipo dell’odierna bicicletta, la via per ricominciare a “pedalare”, a guardare avanti con fiducia al futuro.

 

 

Alfredo Mariano, tra gli ultimi costruttori di traini del Salento

foto Cantoro - Supersano
foto Cantoro – Supersano

Mesciu   Alfredu

di Maria Antonietta Bondanese

“Acqua alle rote!” L’espressione proverbiale che invita a fare in fretta, evoca l’atto delle “ferratura” delle ruote. Operazione di sveltezza e precisione. Alfredo Mariano, carpentiere da decenni per bravura e per passione, me ne spiega le fasi.

Tutto è foggiato a mano: il mozzo, i dodici raggi da inserire a due a due nelle “caviglie”, cioè i gavelli o parti della circonferenza uniti mediante la “ mmicciatura”.

Per dare compattezza e durata alla ruota, si prepara quindi il cerchio esterno in ferro. Non solo “mesciu d’ascia”, Alfredo è anche eccellente fabbro, perché « in questo mestiere se non sai lavorare ferro e legno, non puoi fare niente», dice con un sorriso, leggendomi in volto ammirazione e rispetto per un’arte che richiede competenze diverse, dall’uso sapiente di scalpello, pialla e sgorbia a quello di tornio, incudine, mazze e martelli.

Foto Cantoro - Supersano
Foto Cantoro – Supersano

 

Da una spessa spranga di ferro si ottiene, infatti, con pazienza un cerchio, saldato alle due estremità, dilatato poi a caldo, su un letto di brace, essendo il suo diametro più piccolo rispetto a quello della ruota cui è destinato. Con apposite tenaglie viene calato sulla ruota, battuto per un perfetto incastro e subito raffreddato, in modo che aderisca senza bruciare il legno.

Un canovaccio che è lo stesso da tempo immemorabile, cui però l’abilità e la personale esperienza aggiungono sempre piccoli o nuovi accorgimenti perché ogni “pezzo” che esce dalle mani del carpentiere – traino, biroccio, calesse o sciarabbà – sia un capolavoro, motivo di orgoglio e di prestigio per il suo artefice.

Patrimonio di perizia e conoscenze che potrebbe essere fatto salvo dalle nuove generazioni se considerato non come relitto di un passato perduto ma come vitale artigianato da reinterpretare nel presente. «Da ragazzo – ricorda Alfredo – guardavo lavorare ‘mesciu Giorgi’, vicino casa mia…allora il mestiere si imparava con gli occhi, senza chiedere niente». Scampato nel 1981 ad un grave incidente nel quale subisce la menomazione del braccio destro – momenti di dramma che ancora vibrano nella voce commossa della moglie Rita e di Alfredo la cui profonda devozione alla Madonna di Celimanna lo aveva spinto solo una settimana prima ad intervenire per spegnere un incendio da corto circuito al contatore del santuario -, dopo qualche anno Alfredo cessa la sua attività nell’azienda agricola Frascaro e inizia, con intraprendenza e coraggio, a lavorare il legno, riproducendo prima eleganti vascelli inglesi in miniatura, poi restaurando e costruendo gli antichi mezzi di locomozione, carrozze e traini, memore dell’arte di ‘mesciuGiorgi’.                                                                                                                  

foto Cantoro - Supersano
foto Cantoro – Supersano

 

Le suggestive sfilate di traini, sciarrette e sciarabbà che l’Associazione “Tradizioni Popolari” di Supersano propone nel maggio fiorito per le vie del nostro paese, già da qualche lustro, attestano curiosità ma anche interesse nei più giovani, emozionando gli anziani che, nei primi anni del secondo dopoguerra, vedevano interminabili file di carretti passare la notte del 14 agosto, diretti a Torrepaduli, a San Rocco, il santo taumaturgo tanto venerato.

Avanzavano lentamente, con le lanterne accese sistemate in basso, sotto il carretto, per rischiarare la strada, in un’atmosfera di sacrale attesa, di umile gioia, tra stornelli e suoni di tamburello. Un sentimento della festa che nessun mezzo di trasporto odierno potrebbe mai ricreare. Anni difficili, di miseria, ma proiettati verso una speranza di riscatto in un’ Italia che risorgeva dalle macerie della guerra. I fallimenti della riforma agraria, della Cassa per il Mezzogiorno, e poi ancora dell’ “aggancio del Sud all’Europa” hanno ucciso, uno dopo l’altro, quella speranza determinando oggi l’ennesima fuga a Nord di braccia e cervelli del Meridione.

Mola, trapano, troncatrice, calandra e “stringicantu”, sega e saldatrice: varie le macchine e gli attrezzi con cui Alfredo ha realizzato nel tempo straordinari manufatti che hanno lasciato Via Castagna per raggiungere committenti da ogni provincia di Puglia, tanto prezioso e ormai raro è il suo talento. Strumenti che raccontano un’altra storia, non di fallimenti ma di una battaglia vinta grazie a ingegnosità e inventiva.

Le stesse che leggiamo nelle geometrie di muretti a secco che delimitano confini e “cisure” nelle nostre campagne. Merletti di pietre, muta bellezza di una architettura senza architetti. Bellezza da custodire integra, per una rinascita dei nostri luoghi, un ritorno nei vecchi centri storici, a ripristinare case dalle volte a botte o a stella, a restituire l’anima a cose e mestieri dismessi.

Foto Cantoro - Supersano
Foto Cantoro – Supersano

 

Bellezza che riluce dal traino ben fatto, il quale va non solo bilanciato in modo da “nè mpicare annanzi, né mpicare arretu” ma va pure “stracallato” – sottolinea compiaciuto Alfredo -, reso gradevole agli occhi con decorazioni a colori vivaci, rosso, bianco, indaco, giallo e curato nei minimi dettagli: dalla “lettéra”, il piano di seduta, alle sponde laterali, dette “ncasciati”, al “valenzinu”, il bilancino con ‘tappone’ di ferro per attaccare il cavallo. Bordature e filettature conferiscono infine simmetria e nitore all’opera, eseguita a “regola d’arte” come vuole la tradizione di un mestiere dalla forte identità.

Emblema di un Sud che non si arrende agli schemi omologanti della globalizzazione e sa valorizzare la memoria collettiva, con le proprie forme di vita, le proprie forme di pensiero e di lavoro.

 

Luoghi della Cultura e Cultura dei Luoghi, per Aldo de Bernart

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Luoghi della Cultura e Cultura dei Luoghi”    

Note a margine del volume in memoria di Aldo de Bernart

 

di Maria Antonietta Bondanese

Sol chi non lascia eredità d’affetti/poca gioia ha dell’urna”. Spontaneo torna alla mente il verso foscoliano dei Sepolcri , scorrendo le pagine dello splendido volume Luoghi della cultura e cultura dei luoghi, dedicato alla memoria di Aldo de Bernart. Testimonianze e saggi compongono questo florilegio, denso di Sud e di Salento, la cui storia è indagata con metodo rigoroso e appassionata ricerca. Caratteri, questi, distintivi di Aldo de Bernart alla cui infaticabile attività di studioso, pubblicista, educatore e promotore di cultura non si poteva rendere più significativo omaggio.L’operosità poliedrica di de Bernart risalta appieno dalla pluralità di scritti e punti di vista che ne delineano il ritratto morale e professionale, di profondo conoscitore della storia locale, di fine cultore di arte e letteratura, di straordinario uomo di scuola per la quale tanta parte della vita aveva speso.

Il volume, edito nella Collana “Quaderni de l’Idomeneo” della Società di Storia Patria di Lecce¹, è stato presentato la sera del 20 giugno scorso a Ruffano, presso il Teatro Paisiello.

Agli indirizzi di saluto del Sindaco, dott. Carlo Russo e della prof.ssa Madrilena Papalato, Dirigente Scolastica, hanno fatto seguito gli articolati interventi dei relatori, i professori Vincenzo Vetruccio, Alessandro Laporta, Luigi Montonato, Hervè A. Cavallera. Infine, il prof. Mario Spedicato, direttore dei “Quaderni” oltre che di “Cultura e Storia”, altra prestigiosa Collana della Società di Storia Patria di Lecce, ha osservato che il libro, includendo gli apporti di vari studiosi tra cui gli amici e i collaboratori di de Bernart riuniti in “ideale cenacolo”, di lui riesce a restituirci

“ il suo mondo, le sue piste di ricerca, i suoi contributi alla valorizzazione anche degli aspetti meno noti del territorio, la sua partecipazione ad intraprese culturali collettanee”.

Quale la pubblicazione nel 1980 di Paesi e figure del vecchio Salento, due preziosi volumi a cura di de Bernart che, assieme al terzo dell’89, restano “testo base per ogni tipo di indagine storiografica sui paesi del territorio della nostra provincia” come annotato dal nipote Alessandro Laporta, partecipe di tale iniziativa, eminente per la qualità degli intellettuali coinvolti e per il fascino di “romantico sogno salentino”² che da quelle pagine promana. Di fatti, non solo l’accuratezza e serietà scientifica ma il sentimento e un amore sconfinato per il Salento hanno contraddistinto de Bernart, nel cui animo albergava un lirismo gentile per cui intenso avvertiva il richiamo della bellezza e della poesia.

Di lui, “cantore delle mille figure, aspetti, storie e leggende, aneddoti e tradizioni, costumi e luoghi che, quali tessere di un mosaico pur concorrono a delineare il grande affresco della millenaria terra salentina”³, non si può sottacere dunque il culto dell’arte ed il mecenatismo sagace per cui ha tenuto a battesimo tanti ingegni , “da Mandorino a Greco, da Sparaventi a De Salve, per fare solo qualche nome e fermarsi alla pittura”⁴. Artisti del passato come Saverio Lillo (1734-1796) e Antonio Bortone (1844-1938), pittore l’uno e scultore di fama europea l’altro, entrambi figli illustri di Ruffano, hanno ricevuto una illuminata e completa rivisitazione storica grazie ad Aldo de Bernart. “Parabitano per nascita, ruffanese per adozione, gallipolino per discendenza”⁵, a questi “tre centri gravitazionali della sua vita”⁶ egli ha dedicato molto della sua missione di studioso, come sottolinea Paolo Vincenti tracciandone l’esauriente profilo biografico e intellettuale, a complemento del quale passa in rassegna la collana intitolata “Memorabilia”, una serie di raffinate plaquettes stilate nell’ultimo quindicennio, in tiratura limitata di copie, che restano impareggiabile documento dell’attenzione per il territorio, per i suoi aspetti inediti, da parte del Maestro.

Gino De Vitis ne ricorda, inoltre, il “sentito trasporto” per Supersano dove era di frequente invitato “per celebrazioni di vario genere, quando la figura del prof. de Bernart era vista come la necessaria presenza dell’uomo colto e vero conoscitore della nostra storia”⁷. Nel 1980 il “Nostro Giornale” ospitava una ‘perla’ di de Bernart, “La foresta di Supersano”, prezioso contributo sul Bosco di Belvedere, l’immenso latifondo di querce ormai scomparso, del quale solo pochi esemplari testimoniano oggi la superba bellezza ma la cui “storia è narrata nel ‘Museo del Bosco’ (MuBo) di Supersano, nato dall’esigenza di far conoscere questo particolare ecosistema del territorio salentino, attestato storicamente almeno dall’età romana fino agli inizi del secolo scorso”⁸. L’incanto del Belvedere tornava nelle parole di de Bernart che catturava l’ascolto e seduceva con la sua voce “dolce e suadente, sicura e melodiosa”⁹, come ha scritto Gigino Bardoscia con amicale devozione.

Note di affetto e stima risuonano nel commiato alla “guida sapiente e sicura”¹⁰ che Vincenzo Vetruccio pronunciava nel giugno 1990 per il Dirigente de Bernart che lasciava il servizio scolastico attivo. Discorso riportato nella prima sezione del volume, incentrata su “L’uomo e l’intellettuale”, mentre la seconda tratta “L’eredità della ricerca” e la terza è riservata ad “Arte, storia, cultura del Mezzogiorno” per lumeggiare il rapporto di imprescindibile osmosi tra de Bernart ed il contesto in cui egli si è formato ed ha operato.

Il 19 settembre scorso, durante la presentazione del libro a Vigna Castrisi, il prof. Francesco De Paola ha svolto una magistrale disamina dei contenuti del volume, avendone seguito l’intera gestazione perchè incaricato, assieme al prof. Giuseppe Caramuscio, della cura dell’opera.

Da parte dell’Amministrazione Comunale di Ortelle si è voluto onorare, infatti, Aldo de Bernart con un consesso di studiosi presieduto dal prof. Mario Spedicato e la presenza dei figli Ida e Mario, amorosi custodi della sua memoria.

Coltivare il ricordo, proseguire gli itinerari di ricerca di Maestri come de Bernart è quanto mai necessario oggi, per vincere ansietà e paure, opporre alla ferocia dei tempi la difesa che viene dai valori della conoscenza, della comprensione del passato, dell’intelligente visione del futuro.

Ida e Mario de Bernart , la sera del 20 giugno a Ruffano, Teatro Paisiello
Ida e Mario de Bernart , la sera del 20 giugno a Ruffano, Teatro Paisiello

Note:

¹ F.De Paola-G.Caramuscio (a cura di), Luoghi della cultura e cultura dei luoghi, Lecce, Edizioni Grifo 2015

² A. Laporta, Ritratto di Aldo de Bernart, “Anxa News”, 5-6 Maggio Giugno 2013, pp. 6-9

³ F. De Paola, nota a Caro Aldo, ti scrivo…in Luoghi della cultura e cultura dei luoghi, cit. p.77

⁴ A. Laporta, Ritratto di Aldo de Bernart,  cit.

⁵ L.C. Fontana, Bibliografia degli scritti di Aldo de Bernart, in AA.VV., Studi in onore di Aldo de Bernart, Galatina, Congedo Editore 1998, p. 1

⁶P. Vincenti, Aldo de Bernart:profilo biografico e intellettuale, in Luoghi della cultura e cultura dei luoghi, cit., p.13

⁷ G. De Vitis, Aldo de Bernart, la necessaria presenzadi un uomo colto, ivi , p.71

⁸ M.A. Bondanese, Il plurimillenario Bosco del Belvedere negli scritti di de Bernart, ivi, p. 100.

Per un’agile guida al Museo del Bosco, si veda M.A. Bondanese, Supersano Arte e Tradizione, Scoperta e Conoscenza, CentroStampa, Taurisano 2014

⁹ G. Bardoscia, Per il professore Aldo de Bernart, in Luoghi della cultura e cultura dei luoghi, cit.,            p. 58

¹⁰ V. Vetruccio, Aldo de Bernart: il cursus honorum di un Maestro, ivi, p. 90

Vuoti a Perdere e Viola

Un affresco italiano e salentino di Pervinca Paccini in

VUOTI A PERDERE e VIOLA

 

di Maria Antonietta Bondanese

 

In guerra contro il “mercato del nulla”, il vuoto dei valori, la comunicazione ipertrofica ma illusoria di “estranei viventi tra estranei”, Montale pubblicava nel 1966 la raccolta di saggi Auto da fé, esplicito atto d’accusa di una società tecnologica, mediatica ma senz’anima. Nel solco montaliano, la casa editrice milanese Autodafé, artigianale e di qualità, propone libri di narrativa aperti sulla realtà sociale dell’Italia d’oggi. Realtà che, tra le diverse possibili, trova una rappresentazione ricca di significati nelle opere di Pervinca Paccini, dove al lettore sono dati scenari in cui ricomporre la dispersione irrelata delle cose e rintracciare, tra analogie e differenze, anche la personale esperienza.

Complesso è lo sfondo che l’Autrice ricostruisce nell’antologia di racconti Vuoti a perdere, dando volti, nomi, immagini ad aspetti della vita problematici o marginali, destinati a rimanere muti ma che, grazie alla sua scrittura, diventano invece chiari, eloquenti. Ciò che era messo da parte o sottaciuto è riscoperto e finalmente si riesce a vederlo, ad esserne consapevoli. Funzione, questa, insostituibile del racconto o del romanzo, che lasciano modo a chi legge di trasformare una sensazione, una intuizione in pensiero e conoscenza. Quello che oggi, nell’universo dell’informazione istantanea e globale, finisce con l’essere smarrito. In un tempo che Bauman ha definito “puntillistico”, senza dimensioni, il tempo del web, della gigantesca rete in cui si consuma un’emotività potente ma effimera, crolla l’attitudine alla profondità, alla riflessione. La molteplicità dei contatti dissimula la sommarietà dei rapporti. Così che a rimanere sconosciuto è proprio il mondo abituale, a rimanere sconosciuto è chi ci passa accanto. Attraverso una parola letteraria lucida, a tratti ironica e graffiante, a volte densa di lirismo e di malinconia ma sempre concreta e coinvolgente, Pervinca Paccini inchioda la nostra attenzione sugli altri, sulla umanità in noi e attorno a noi. Umanità ristretta a livello biologico, senza redenzione, nel testo intitolato Carne, dove «fra gli ideali scarnificati e la carneficina degli ideali» di un “io” narrante autocritico e disilluso, monta la nausea per la “carne”, la calca che affolla le metropolitane, gli ipermercati urbani, votata al consumo ma deprivata della solidarietà. Una indifferenza che annienta la giovane rom dagli «occhi di ossidiana», Brenda, la cui vicenda di ordinario razzismo distilla tragica nello spazio bianco su cui amaro si chiude il racconto.

Storie di solitudini, schegge di singole vite vibrano in una pluralità di voci, che parlano di una quotidianità fatta di precarietà e di inquietudine. «Che te ne fai dell’orgoglio? Serve solo a rendere più tagliente il freddo e più densa la solitudine», avvilita se lo chiede la moglie tradita ma rassegnata al perdono, nello sfiorire della femminilità. «Mi sento in colpa perché non voglio ingrassare, perché non sono come vorrei, perché non sono come gli altri, perché mi sento sporca come una fogna», confessa la ragazza anoressica dalla sua spirale d’infelicità. Fra il dramma della coppia che si ama ma che non scorge più futuro «con i piedi ancora nel giorno e il cuore nella notte», il livore reciproco di coniugi anziani ma comunque inseparabili, il malessere si stempera però in gradazioni diverse, dal tragico all’umoristico. Fino al comico, nella vicenda di Gregorio, barista di professione, «ficcanaso» per passione, burlone non meno spassoso di Bruno e Buffalmacco, le simpatiche canaglie di Boccaccio. Figura stravagante, resiliente, attraverso la quale filtra in modo scherzoso l’interesse dell’Autrice al vissuto delle persone, quasi una dichiarazione di poetica sottotraccia: «Mi intrufolo nelle storie che mi raccontano e – quel che è peggio – non mi basta ascoltare. Mi immedesimo. Ci metto il becco. Fatti gli affaracci tuoi!, mi sono più volte minacciato da solo davanti allo specchio mostrandomi i denti e il pugno. Ma che ti frega degli altri?» Sconfitti ed emarginati o caustici ed integrati, i personaggi delle varie storie non sono mai ridotti però a tipi o categorie della commedia umana. Con pochi tratti e mimesi straordinaria, l’Autrice li salva dall’anonimato e li scolpisce nel nostro ricordo.

Intrico di memoria individuale e collettiva, il romanzo Viola si oppone all’ «inedia morale», al «sonno dei ghetti quotidiani», alla stagnazione del senso civico di partecipazione, all’isolamento prodotto dall’individualismo senza misura di oggi. Le speranze di una generazione «figlia dei grandi movimenti, quegli anni settanta così nitidi, così inflessibili nelle loro leggi per le quali si stava da una parte o dall’altra….così sicuri di poter cambiare il mondo», tornano nell’evocazione dei protagonisti che, pur nel disincanto dell’età matura, ancora avvertono «la fame di utopie». La «giovinezza che si riempiva la bocca di slogan gridati come si recitano le preghiere» prorompe di nuovo da queste pagine, con gli eskimo indossati «come una tonaca» e quella intransigenza che «uno dopo l’altro, andava smantellando i dogmi dei padri in nome di altre verità rivelate». La storia si dipana in Viola entro quattro “movimenti” costruiti, con modulato ritmo narrativo, sul rinvio tra passato e presente. La contestazione e i volantinaggi, i collettivi e le manifestazioni di ieri non sono resoconto di cronaca ma azioni e parole di protagonisti in carne ed ossa, che sognavano allora l’esodo da un mondo invecchiato. Oggi, però, ormai adulti, non saprebbero dire perché a quella rivolta etica abbia corrisposto non un disegno diverso di vita ma la rimozione, l’inerzia, o la deriva della violenza e del terrorismo. Interrogativi inespressi ma che il romanzo fa trapelare nel suo vivido affresco di un’epoca controversa che, nel bene e nel male, ha lasciato una eredità con cui dover fare i conti. Immobile, ferma nel tempo, resta soltanto l’immagine di Viola. Una giovinezza spezzata. Una morte improvvisa in circostanze non chiare il cui enigma irrisolto genera tensione, dolore e spinge infine la sorella Giulia alla ricerca della verità. Una ricerca a ritroso, che a tratti si tinge di giallo, a tratti porta a chiedersi cosa si è diventati nella trappola degli anni. Quando, per strada, si sono perduti persone, affetti e «in qualunque direzione si guardi, si vede solo il vuoto». Rimpianto che in Gabriele, a fianco di Giulia nell’indagine, è nostalgia delle origini, della «terra rossa e riarsa del Sud», del cielo del Salento dove «gli ulivi sono sculture antiche che le cicale svegliano ogni giorno». Radici che trattengono Gabriele dal farsi «sopraffare dall’insensatezza» di un presente contraddittorio, dalle domande inevase su Dio e sulla morte, «una bestemmia quando è così bastarda da incapricciarsi della giovinezza». Perché Viola è non solo romanzo di formazione, generazionale, politico ma anche narrazione di una crisi epocale e anelito a spalancare ancora una volta «le porte della speranza».

 

 

 

 

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