Nardò, San Biagio nella chiesa di Santa Teresa. Si rinnova il rito della benedizione della gola

Nardò. La statua di S. Biagio venerata nella chiesa di S. Teresa (Maccagnani, cartapesta, 1886) (foto Raffaele Puce)

 

Dopo il culto e il protettorato di san Gregorio l’Illuminatore, che si festeggia il 20 febbraio, la città di Nardò celebra un altro santo dell’Armenia, Biagio, vissuto tra il III e il IV secolo a Sebaste in Armenia. Per sua intercessione si rinnova, come ogni anno, l’antichissimo rito della benedizione della gola nella chiesa di Santa Teresa (nei pressi della Posta centrale).

Tra i quattordici santi ausiliatori, patrono degli otorinolaringoiatri, i fedeli si rivolgono a San Biagio, medico in vita, per la cura dei mali fisici e particolarmente per la guarigione dalle malattie della gola, tanto che tra i diversi miracoli a lui attribuiti si menziona a simbolo quello del salvataggio di un bambino col rischio di soffocamento a causa di una lisca di pesce.

Il suo martirio, avvenuto intorno al 316, è da ricollegare al rifiuto di abiurare la fede cristiana. La leggenda riporta che fu decapitato dopo essere stato a lungo torturato con pettini di ferro che gli straziarono le carni. Lo strumento del martirio fu preso a simbolo del santo e poiché simile a quelli utilizzati dai cardatori di lana e dai tessitori, questi ultimi lo vollero designare quale loro protettore. Il corpo fu sepolto nella cattedrale di Sebaste.

Nel 732 una parte dei suoi resti mortali furono imbarcati per essere portati a Roma. Una tempesta bloccò il viaggio a Maratea (Potenza), dove i fedeli accolsero le reliquie; lo elessero protettore e ne conservarono parte dei resti (torace) nella basilica sul monte San Biagio (a Carosino, provincia di Taranto, è custodito un pezzo della lingua, chiuso in un’ampolla incastonata in una croce d’oro; a Ostuni si conserva un osso usualmente posto sulla gola di ogni fedele in pellegrinaggio al santuario; nella cattedrale di Ruvo di Puglia si venerano i resti del braccio esposti entro un reliquiario a forma di arto benedicente). Particolarmente sentito il culto in Avetrana.

In provincia di Lecce, oltre al culto riservato a Nardò, è nota la devozione degli abitanti di Salve nel cui territorio ricade la masseria e la cappella di Santu Lasi, termine dialettale con cui si designa il santo.

Il motivo dell’antica venerazione nella chiesa di Santa Teresa a Nardò potrebbe ricollegarsi non tanto alla protezione per le comuni malattie delle prime vie aeree, quanto alla grave malattia infettiva della difterite, di cui sono accertate epidemie nella prima metà del XVII secolo in città e che procurarono non pochi lutti, specie tra i più piccoli, deceduti per asfissia a causa del morbo.

Non è da escludere che il particolare culto cittadino sia strettamente collegato con la locale famiglia dei baroni Sambiasi, anticamente Sancto Blasio, i cui discendenti fecero realizzare in suo onore ben due chiese.

La prima fu fatta costruire nel 1623 dal barone Giuseppe Sambiasi sull’attuale Via De Pandi, che la istituì con atto notarile del 10 aprile, ad laudem et gloria di S. Biagio, dotandola di 48 ducati di annuo censo. Della chiesa, aperta al culto fino alla metà del secolo XIX, oggi non restano che i muri laterali e parte della volta. I fregi e i decori in pietra leccese sopravvissuti documentano quanto fosse valida dal punto di vista artistico.

L’altra chiesetta, comunemente detta di S. Biagio in Via Lata, per distinguerla dalla precedente, fu edificata nel pittagio San Salvatore.

Pur se non frequentissima, l’iconografia a volte ritrae Biagio come santo guaritore e intercessore, altre ancora nel momento del martirio, più spesso come vescovo, con mitra, pastorale e libro, a mezzo busto o a figura intera.

A Nardò si contano due raffigurazioni scultoree del santo armeno, entrambe in cartapesta policroma. Una certamente proviene da abitazione privata, anche se attualmente custodita nella chiesa di San Giuseppe, forse donata dal proprietario; l’altra è oggetto di venerazione da parte dei fedeli nella chiesa di Santa Teresa e veniva portata in processione la mattina del 2 febbraio.

A grandezza naturale, quest’ultima è eccellente cartapesta policroma. Il santo, a figura intera, caratterizzato dalla folta barba grigia come nel primo, indossa i paramenti vescovili orientali con la caratteristica mitra sormontata dalla croce, il pastorale dalle estremità ricurve verso l’alto, il classico omoforion (lunga sciarpa ornata di croci). La mano destra rivolta in alto e l’espressione estasiata del bambino indicano che il miracolo è già avvenuto e il santo, pur continuando a fissare il piccolo, sembra congedarsi dopo aver ringraziato il Padre per l’evento miracoloso appena compiuto.

Un’iscrizione sul basamento documenta che fu realizzata a spese dei fedeli neritini nell’anno 1886, dal validissimo Antonio Maccagnani (1807-1892) o dal più giovane Achille De Lucrezi (1827-1913). La resa plastica, i particolari assai curati e i tratti somatici delle due figure, ma anche l’equilibrio fra le parti e la posa ieratica del santo, portano a considerare l’opera tra le più qualificate dei migliori cartapestai leccesi.

Il rito della benedizione della gola viene esercitato nella chiesa neritina il 3 febbraio, sin dalle prime ore e fino a tarda serata (con interuzione dalle 12 alle 15), e i festeggiamenti in onore del santo sono preceduti da un triduo, che si tiene nella medesima chiesa di Santa Teresa, per interessamento e cura della confraternita del SS.mo Sacramento.

 

 

 

 

Due preziosi antichi dipinti per il patrimonio di Specchia

di Marcello Gaballo e Giovanni Perdicchia

È recente notizia che il Comune di Specchia ha acquisito due importanti opere pittoriche provenienti dalla collezione dei conti Risolo di Specchia, un tempo esposte nella pregevole quadreria del palazzo marchesale già castello baronale.

Questo grazie all’iniziativa del prof. Giovanni Perdicchia, che per diversi anni ha lavorato alla riscoperta della storia del castello e delle opere artistiche che si trovavano al suo interno, accertando anche l’esistenza della collezione. Dopo il sopralluogo, con la mediazione del professore e con il fondamentale apporto di Stefano Tanisi, si è avuta la possibilità di riportare nel palazzo due delle opere individuate tra le numerose tele che per decenni erano state spostate dal sito originario. Il trasferimento avvenne in un’abitazione privata da parte degli eredi della famiglia che, per il ramo di Specchia, si è estinta nei primi anni ‘80 del secolo scorso con la scomparsa di Gioacchino Risolo e per ultima di Gisella Risolo (+1984).

veduta dall’alto di Specchia (tutte le foto, se non diversmanete specificato, sono di Giovanni Perdicchia)

 

Sempre Specchia, vista dall’alto

 

Ad oggi la consistenza della raccolta originaria, che era esposta in almeno tre dei saloni del palazzo, è impossibile a quantificarsi, non essendosi rinvenuto alcun inventario dei beni mobili, che sicuramente doveva esistere prima dei passaggi di proprietà tra le diverse famiglie che nei secoli si sono succedute.

Si è propensi a credere che la quadreria non sia stata formata dai Risolo, che a Specchia dimorarono solo dal 1810 con Domenico, trattandosi di una raccolta assai vetusta e comprendente opere di elevata qualità che, sulla base delle testimonianze raccolte, risalgono prevalentemente al periodo compreso tra XVII e XVIII secolo.

Più facile pensare ad un nucleo originario voluto dal potente e colto Andrea Gonzaga, che nel 1567 divenne primo marchese di questa Terra, e che vi abitò con la sua corte facendo di Specchia il centro del suo Stato.

La raccolta forse fu poi accresciuta dal nipote Ferrante II, che nel 1589 vendette l’immobile e quanto in esso presente al conte di Lavello Ettore Brayda, che acquisì anche il titolo di marchese di Specchia.

Non è da escludere che nuove acquisizioni furono fatte da Ottavio Trane, IV marchese, cresciuto con il padre alla corte dei Gonzaga, che nel 1599 acquistò dal Brayda il marchesato di Specchia, comprendente anche i feudi di Tiggiano, Montesano e Melissano. Fu Ottavio ad ingrandire il castello con il suo pregevole portale in bugnato, esteso per circa 2500 metri quadrati, con oltre cento stanze, molte delle quali adornate di opere di gran pregio.

Palazzo Protonobilissimo Risolo a Specchia

 

Palazzo Protonobilissimo Risolo a Specchia

 

portale di accesso al Palazzo marchesale

 

Probabilmente contribuì ad accrescere la quadreria sua figlia Margherita (1612-1704), che nel 1633 era andata in sposa a Desiderio Protonobilissimo, barone e poi principe di Muro Leccese. Dai due il palazzo e quanto vi era in esso conservato passò ai figli ed eredi, dei quali ultimo esponente fu Giovan Battista IV, che morì senza eredi nel 1774.

La mancanza di documenti impedisce di formulare certezze sulla consistenza della raccolta, che nel tempo divenne assai pregevole, sulla base di alcune testimonianze raccolte.

In queste stanze, come annotò nel 1888 Cosimo De Giorgi, si ritrovavano dipinti dallo stesso attribuiti ad Annibale Carracci, Giorgio Vasari, Luca Giordano, Aniello Falcone, Cristiano Bader, Francesco Solimena, Paolo De Matteis, Bartolomeo Schedoni, Domenico Brandi: “Questo castello che fronteggia la piazza principale del paese e domina la campagna sottostante dalla parte di oriente, appartiene oggi ai signori Risolo […] però non è più un castello feudale ma un palazzo abitato da gentilissimi signori […] Entriamo ora nel palazzo Marchesale e diamo uno sguardo alla pinacoteca alquanto pregevole”.

Marti invece ne fece menzione nel 1932, limitandosi a scrivere che “nel Castello Palazzo […] si conservano molti quadri di vera importanza artistica”.

La scarsità di notizie sulla consistenza delle opere in esso presenti non aiuta a confermare il giudizio dei due studiosi appena menzionati. Tuttavia, conoscendo le capacità e la fondatezza dei loro studi, non vi è motivo di dubitare che si trattasse di una raccolta notevole, considerato anche il rango e la sensibilità dei possessori e dei loro avi.

Da questa raccolta dunque provengono le tele acquisite poche settimane fa dal Comune di Specchia. Si tratta di due grandi dipinti ad olio su tela, sufficienti a dare un’idea dell’originaria collezione.

Entrambe ritraggono scene trattedalla Bibbia e documentano come i soggetti siano trattati con dettaglio e consapevolezza della narrazione.

Gesù che scaccia i mercanti dal tempio (ph Stefano Tanisi)

 

La prima tela raffigura Gesù che scaccia i mercanti dal tempio (227×168 cm), la seconda Mosè ed il ritorno delle spie (145×196 cm).

Mosè ed il ritorno delle spie, la seconda tela acquisita (ph Stefano Tanisi)

 

Purtroppo i numerosi guasti e perdite di colore impediscono una attenta lettura delle due pregevoli opere.

Sarà dunque l’indispensabile restauro a svelarci quanto ancora non si riesce a leggere e che potrebbe aprire importanti sviluppi nella storia del collezionismo salentino e italiano.

Libri| Opere in cartapesta di Antonio Malecore a Nardò

 

L’artistico Presepio in cartapesta nella chiesa del Sacro Cuore di Gesù in Nardò è stato progressivamente realizzato in un ventennio (1978-1998) dal maestro Antonio Malecore (1922-2021), l’ultimo esponente della celebre bottega artigiana ancora attiva sino a qualche decennio fa nel cuore della Lecce antica.

La qualità di alto profilo delle undici statue che lo formano, mediamente alte più di un metro, fa ritenere il gruppo tra le opere più importanti di Malecore, che per ognuna di esse ha conservato il rigore compositivo e la coerenza stilistica ereditati dai suoi maestri e dallo zio Giuseppe Malecore.

Il merito per il bel Presepio di Nardò, vanto della comunità parrocchiale e della confraternita che ogni anno cura differenti scenografie, spetta a don Salvatore Leonardo (1939-1997), parroco di questa comunità, che aveva notato e apprezzato la particolare qualità esecutiva di Malecore, straordinario nell’infondere tratti di umanizzazione e realismo alle figure presepiali.

La pubblicazione, con l’introduzione di Stefania Colafranceschi dal titolo Il Presepio, universo simbolico nei linguaggi della tradizione, è corredata dalle belle illustrazioni di Lino Rosponi.

E’ un doveroso omaggio di Marcello Gaballo a Malecore e al parroco, per ricordarli e per generare conoscenza e interesse verso questo originale e prezioso manufatto artistico, utile alla narrazione del territorio e soprattutto per rievocare al meglio la lieta Novella, in coincidenza con la commemorazione degli 800 anni del Natale di Greccio (1223-2023), dove San Francesco volle far rivivere  agli astanti la Nascita del Dio incarnato.

Il libro è inserito nella Collana Artefatti di Puglia, dedicata dall’editore all’artiginato artistico regionale e destinata al grande pubblico. Dalla maiolica ai fischietti, dalle oreficerie del Gargano ai carri allegorici, passando per strumenti musicali, luminarie, tele, merletti, ricami e intrecci, ed ora per la cartapesta leccese di Malecore.

In linea con i precedenti titoli, sono pagine da leggere e da sfogliare che diventano repertorio storico ed iconografico della cultura artigianale e delle arti applicate di Puglia, dal periodo arcaico fino all’età moderna e contemporanea.

 

Marcello Gaballo, Opere in cartapesta di Antonio Malecore a Nardò. L’artistico Presepio nella parrocchia del Sacro Cuore, Claudio Grenzi Editore, colore, Foggia 2023.

 

Tra Fede e Tradizione le confraternite della Diocesi di Nardò- Gallipoli: un lavoro corale

 

di Antonio Epifani

 

“L’originalità del volume è che i curatori si muovono con la delicatezza dell’ape sul fiore, con passione e profondità perchè vivono dentro le confraternite e possono perciò descriverne luoghi e tradizioni con competenza

(dalla presentazione del Vescovo Mons. Fernando Filograna).

 

Interessantissima risulta la recente pubblicazione del testo dal titolo Tra fede e tradizione le Confraternite della Diocesi di Nardò – Gallipoli (Claudio Grenzi editore-Foggia), curato con maestria e in maniera attenta, approfondita e impeccabile da Marcello Gaballo e da Fabio Cavallo. L’opera presenta una varietà tematica stimolante che ha come punto focale la vita, la testimonianza scritta e verbale, le attività delle varie confraternite che da secoli hanno operato e operano sul territorio dell’intera diocesi, forgiando in maniera attenta la vita spirituale e sociale non soltanto dei confrati ma dell’intero territorio su cui manifestano il loro impegno.

L’opera, dopo la presentazione del Vescovo, del Vicario generale e dell’Assistente diocesano per le confraternite, è introdotta dal diacono Luigi Nocita, direttore dell’Ufficio Confraternite dicoesane. Segue un’interessante e approfondita ricerca sul fenomeno confraternale, redatta da Marco Carratta, che ripercorre già a partire dall’Alto Medioevo la storia di queste associazioni che nascono per iniziativa dei religiosi o di singoli individui, con lo scopo di svolgere attività caritatevoli, di amministrare il culto, ma soprattutto per combattere la Riforma Protestante e promuovere gli ideali che nasceranno da una chiesa post – tridentina. Nel secondo saggio, sempre di Carratta, emerge invece la componente politica che in maniera attiva partecipava alla vita della confraternita. Il re quando necessario oltre a dare approvazione ai capitoli che regolavano la vita della confraternita concedeva anche l’assenso alla sua fondazione. E a tal proposito ci propone l’esempio della Confraternita della Ss. Annunziata di Nardò, che nel settembre del 1777 ottenne dal re il regio assenso sulle regole e sulla fondazione.

Significativo risulta il patrimonio architettonico e i beni mobili di grande valore conservati nelle varie chiese confraternali, in massima parte inedito, che è possibile gustare e ammirare attraverso il ricchissimo corredo fotografico che il volume ci propone.

 

Il lavoro di stesura, che ha visto coinvolti tantissimi autori delle singole schede, molti dei quali priori o confratelli, interessa ogni paese della diocesi di Nardò-Gallipoli ed è arricchito anche da alcune significative pagine che tracciano la storia e le vicende delle confraternite ormai estinte, con adeguata e ricca bibliografia. Caso emblematico l’assenza dei sodalizi nella città di Copertino e nel piccolo centro di Seclì. A tal proposito risulta significativa e molto gradita dalla piccola comunità di Seclì, la scelta dell’immagine di copertina (foto Lino Rosponi), che ha come raffigurazione una parte della preziosa tela dell’Allegoria del Corpo e Sangue di Cristo, comunemente conosciuta con il titolo di SS. Sacramento. La parte raffigurata mostra i confrati incappucciati in adorazione che seguono la Croce e  il vessillo dell’omonimo sodalizio agli inizi del XVII sec.  Una tela di Donato Antonio D’Orlando, celebre artista neretino. Sulla quarta di copertina una recente foto, anche questa emblematica, di alcuni confratelli incappucciati che escono in processione da una chiesa di Gallipoli (foto Massimiliano De Giorgi).

 

Tra le tante sorprese che riserva il volume di circa 650 pagine, mi preme sottolineare l’esistenza di una pergamena miniata policroma della Confraternita del Ss. Sacramento di Parabita, con stemma civico e del feudatario dell’epoca, dalla quale si apprende che il cardinale De Cupis, già amministratore apostolico e poi vescovo della diocesi di Nardò, fa trascrivere al notaio Mario Capoccinus la copia legale della lettera apostolica in cui si parla delle indulgenze che papa Paolo III concesse alla Cofraternita del Ss. Sacramento di Roma, e quindi l’estensione dei privilegi al locale sodalizio parabitano. Il culto all’Eucarestia risulta quindi attestato a Parabita, così come in altri paesi della diocesi, soprattutto nel XVI sec.

Dalla lettura il testo appare come uno scrigno che custodisce gelosamente i suoi tesori che vengono rivelati al lettore, che ha il compito di leggere in maniera attenta le varie vicende passate e presenti che hanno caratterizzato la vita delle tante confraternite. Il volume inoltre può essere considerato come un vero e proprio manuale sulla storia dei vari sodalizi e come punto di partenza per ulteriori approfondimenti e studi che vadano ad arricchire il già vasto patrimonio che siamo chiamati a custodire e trasmettere alle generazioni future.

In ultimo è importante sottolineare l’attenzione che i curatori e l’Ufficio Diocesano per le Confraternite hanno avuto nell’elaborare due edizioni, una con copertina cartonata e l’altra con copertina flessibile. di maggiori dimensioni e minor costo, distribuita da pochi giorni da Amazon.

Libri| Tra fede e tradizione. Le Confraternite della diocesi di Nardò-Gallipoli. Un volume, tanta Storia

di Nunzia Piccinno

 

La recente novità editoriale Tra fede e tradizione. Le Confraternite della diocesi di Nardò-Gallipoli, a cura di Marcello Gabalo e Fabio Cavallo, è stata pubblicata per i tipi della Claudio Grenzi Editore (ottobrel 2023).

L’opera consta di 645 pagine, cartonata, con sovraccoperta a colori,che riproduce  sul fronte il particolare di una tela, del pittore neritino Donato Antonio D’Orlando (1562/ 1636), raffigurante l’Allegoria del Sangue e del Corpo di Cristo (inizi XVII sec.), conservata nella chiesa matrice di Seclì. Vi compaiono i confratelli incappucciati dell’antica confraternita del Sacramento, i quali, preceduti da un portacroce, sono prostrati in adorazione di Gesù che versa il proprio sangue in un calice sorretto da un angelo. L’abito dei confratelli presenta l’emblema del sodalizio, con il calice e l’ostia.

La scelta di questa immagine esprime in maniera appropriata quanto è contenuto nel poderoso volume, che si apre con il contributo di quattro presentazioni, a firma di importanti figure diocesane (in primis il Vescovo della diocesi di Nardò- Gallipoli, Mons. Fernando Filograna, seguito da Mons. Giuliano Santantonio Vicario generale della diocesi, e Don Giuseppe Casciaro, Assistente spirituale diocesano delle Confraternite). L’Introduzione è a cura di Luigi Nocita, direttore dell’Ufficio Diocesano delle Confraternite.

Il Vescovo esordisce citando un brano dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (nn. 123-126), laddove Papa Francesco sottolinea che la fede incarnata in una cultura trova le sue modalità di trasmissione nelle diverse forme di pietà popolare. Una di queste è quella che si ritrova nella storia delle Confraternite. Il presule elogia il lavoro svolto dai curatori dell’opera, con l’ausilio dei Priori e di vari studiosi, grazie ai quali è venuta alla luce la presente pubblicazione.

L’augurio è quello che anche oggi, epoca caratterizzata da innumerevoli sfide, le Confraternite possano svolgere il prezioso ruolo di “scuole di fede popolare, fucine di santità […]” e sappiano “rispondere”, attraverso un cammino sinodale e missionario, “ai bisogni e alle urgenze del nostro tempo”.

Nel suo intervento Mons. Giuliano Santantonio fa notare come il volume presenti una panoramica del fenomeno confraternale, che pone al centro realtà che non avevano ancora goduto delle “luci della ribalta”. Egli, tuttavia, non esclude il rischio di un inesorabile declino dovuto a pratiche percepite come obsolete e ripetitive, ragion per cui ritiene che vadano recuperate le basilari istanze spirituali e sociali che ne costituiscono la genesi.

Don Giuseppe Casciaro, nel congratularsi per il lavoro svolto, rammenta il percorso pastorale della Chiesa Diocesana a partire dall’insediamento nella sede episcopale diocesana di S. E. Mons. Fernando Filograna.

Il Diacono Prof. Luigi Nocita, denota come numerosi confratelli avvertissero da tempo l’esigenza di conoscere l’origine della propria istituzione e gli sviluppi successivi, pienamente soddisfatti con i testi che si susseguono. L’opera difatti consente di cogliere con uno sguardo d’insieme le varie realtà confraternali della diocesi, quasi sempre differenti nelle tradizioni e nel carisma.

Marco Carratta propone due illuminanti saggi introduttivi. Il primo, Per una storia del fenomeno confraternale, contiene i dati storici relativi a numerose Confraternite, le quali risultano attive già nell’Alto Medioevo, divenendo una componente fondamentale della società nel XIII secolo. Esse sorgono per iniziativa di singoli o sospinte da vari ordini religiosi, i quali, come interpreti delle inquietudini presenti nel popolo dei fedeli, si adoperano per arginare fratture emergenti nel rapporto tra Chiesa e laicato pio. E’ attraverso di esse che nel XVII secolo vengono promossi gli ideali post-tridentini, atti a combattere la Riforma Protestante (Scisma occidentale). Le confraternite hanno svolto attività di assistenza reciproca, di apostolato, invogliando i propri adepti ad atti di devozione e aderenza alla liturgia. Compito del Vescovo era di vigilare su tali organizzazioni laicali, la cui stagione più proficua è quella del secolo XVII. In seguito varie riforme secolari riducono la loro sfera di azione.

Nel secondo saggio, I rapporti tra le istituzioni secolari e confraternite durante il regime borbonico. L’esempio della Confraternita dell’Annunziata e del Carmine di Nardò, Carratta indaga i rapporti tra istituzioni secolari e Confraternite, registrandosi in questo periodo una maggiore incidenza dell’azione del potere politico.

In seguito il libro passa in rassegna le diverse Confraternite (59), trattate singolarmente con propria scheda, raggruppate in ordine alfabetico per ognuno dei Comuni della Diocesi. Si parte da Alezio per finire con Tuglie. Risaltano per ovvi motivi di consistenza numericica le realtà confraternali di Gallipoli e Nardò, i cui sodalizi occupano buona parte delle schede riportate.

Di ogni Comune la prima parte è dedicata alle confraternite tuttora esistenti, le quali vengono descritte a partire dall’anno della fondazione, con il relativo Statuto, le regole adottate, le principali opere artistiche di cui sono in posseso, l’abito usato nelle cerimonie religiose, il gonfalone. Alla fine di ogni scheda viene riportata la composizione dell’attuale Consiglio, in cui vengono elencati il nome del Priore, degli assistenti, dei consiglieri e delle altre cariche sociali, del Padre spirituale, con il numero totale degli iscritti, distinti per sesso (i dati sono aggiornati all’anno 2022).

Il ricco apparato iconografico, in buona parte realizzato da Lino Rosponi, si avvale di numerosi altri fotografi, e attira l’attenzione del lettore per i molteplici aspetti che in buona parte erano sconosciuti o comunque poco noti.

Un vero e proprio repertorio storico d’insieme, supportato dalle ricerche dei tanti studiosi che firmano le schede, molti dei quali priori delle stesse. Senz’altro apprezzabile la completa bibliografia e le fonti di archivio riportate a fine scheda,  utili per chi intende approfondire le tante realtà. Anche i rimandi alle varie opere d’arte commissionate dalle Confraternite si rivelano importanti, aprendo nuovi campi di ricerca.

Con questo volume la storia delle varie confraternite della diocesi di Nardò-Gallipoli, non sarà più un segreto. Ne risulta un testo basilare per chiunque voglia  studiare o soltanto conoscere il mondo confraternale diocesano.

Da segnalare nel ricco apparato iconografico frontespizi di libri confraternali, documenti manoscritti, incisioni, tele, statue, tabernacoli, altari, reliquiari, bastoni di priori, stendardi, tabelle di legno, tronetti eucaristici, ostensori, scapolari, abiti devozionali, repositori. Interessanti anche le foto di processioni e di confratelli, di alcune pratiche di pietà, tant che difficilmente se ne potrebbe rinvenire l’eguale.

Nel volume trovano posto anche le Confraternite ormai estinte, anche queste trattate con altrettanta cura e con ampia documentazione. Si ricava, ad esempio, che due paesi della diocesi (Seclì e Copertino) oggi risultano sprovvisti di queste realtà. Ciò dispiace soprattutto per la città che ha dato i natali al santo dei voli e che un tempo era provvista di numerose Confraternite.

Ma sono tanti gli approfondimenti, tra i quali l’antichissima Confraternita della Misericordia di Nardò, anche questa estinta. Alle “Misericordie” attuali, di recente istituzione ed operanti in alcuni Comuni della Diocesi, è dedicato un apposito capitolo.

In conclusione viene offerta la visione panoramica delle antiche e attuali confraternite, con interesanti statistiche che mostrano i dati riassuntivi e globali relativi al numero degli iscritti, distinti per sesso.

Finalmente, chiunque vorrà informarsi su una qualsiasi confraternita diocesana, avrà a disposizione il testo adatto, indispensabile per ogni membro delle confraternite, per il clero e per gli studiosi della materia.

Tra fede e tradizione: un volume sulle Confraternite della diocesi di Nardò-Gallipoli

 

di Alessio Stefàno

Nel noto Dizionario di erudizione storico ecclesiastica di Gaetano Moroni Romano (1842), una “Confraternita” (o Sacrum sodalitiu, Sacra sodalitas) viene definita come «società, e adunanza di persone divote stabilite in alcune chiese, o oratorii per celebrare alcuni esercizi di religione, e di pietà, o per onorare particolarmente un mistero, od un santo, non che per esercitare uffici caritatevoli»[1].

Le Confraternite, per mezzo delle quali «si ricavò gran profitto spirituale da ogni classe di persone, particolarmente dai laici», si distinguono tra loro «per colore, e per la forma dell’abito de’ confrati, pegli statuti e regole che osservano, per le chiese e i cimiteri che hanno, per le processioni e opere di pietà che eseguiscono».

Specie in alcune aree dell’ecumene cristiana occidentale, il fenomeno delle Confraternite risulta ancor oggi molto vivo, e risulta coinvolgere in parte attiva un gran numero di persone, le quali attraverso tali forme di aggregazione ricevono l’opportunità di vivere in maniera più profonda e partecipativa la vita religiosa nella propria comunità. Com’è noto, il Meridione e la Puglia, ma in particolar modo il Salento, rappresentano ancora oggi delle aree in cui tale realtà appare quanto mai diffusa e radicata, e dal fenomeno la stessa Diocesi di Nardò-Gallipoli appare essere tutt’altro che esente. Anzi, si potrebbe dire che ancora oggi, qui più che in altri luoghi, il fenomeno confraternale incide vivacemente nella vita e nelle vicende della comunità ecclesiale locale.

Mosse da tale consapevolezza – ma anche dal fatto che la funzione delle Confraternite oggi si esplica anche nell’ambito della valorizzazione del patrimonio culturale, materiale e immateriale – molte pie associazioni, specie negli ultimi decenni, hanno sentito la preoccupazione di mettere per iscritto la loro storia, con lo scopo di offrire ai propri aderenti ed alle città che le ospitano una realistica ed esaustiva narrazione delle loro origini, nonché delle peculiari forme in cui si andavano a declinare gli aspetti devozionali.

In questa rinnovata temperie di “riscoperta delle origini” mancava tuttavia un’opera organica che andasse a render conto della varietà e della ricchezza di queste associazioni di fedeli che per secoli hanno avuto un forte impatto nella vita religiosa locale. Da qui, l’esigenza di un volume che andasse a racchiudere una qualificata e organica trattazione sulla storia e sulle vicende delle confraternite della diocesi di Nardò-Gallipoli.

L’idea è stata maturata e sviluppata nel corso di ben due anni in seno all’Ufficio Diocesano delle Confraternite, con il plauso e l’incoraggiamento del Vescovo e dell’Ufficio Diocesano per i Beni culturali. Ha preso così avvio un esteso studio, che si è avvalso del contributo di ben 54 autori i quali, con rigore metodologico e attraverso l’ausilio delle fonti conservate negli archivi confraternali, parrocchiali, diocesani e dell’Archivio di Stato di Lecce, si sono preoccupati di ricostruire le vicende di ciascuna delle 55 confraternite presenti nei sedici comuni della diocesi, dalle origini sino ai nostri giorni, studiandone gli indirizzi comuni e le attività prevalenti, l’abito e il gonfalone, le azioni cultuali di rilievo. Particolare attenzione è stata inoltre data al patrimonio artistico custodito nei rispettivi oratori, documentando opere di grande pregio, molte delle quali poco note o del tutto sconosciute.

Dal paziente e corale lavoro, mirabilmente coordinato e curato da Marcello Gaballo e Fabio Cavallo, ha visto la luce un corposo e importante volume – ben 650 pagine! – intitolato “Tra fede e tradizione. Le Confraternite della diocesi di Nardò-Gallipoli”, pubblicato dall’editore Claudio Grenzi di Foggia, ed inserito come quinto numero della Collana “Analecta Nerito Gallipolitana”. Un prodotto di pregio, ricchissimo di illustrazioni e fotografie, appositamente realizzate o messe a disposizione da 24 fotografi, cui si sono affiancati vari collezionisti da ogni parte d’Italia.

Ma l’importanza del volume risiede anche nel fatto che questo costituirà un fondamentale punto di partenza, una tappa obbligata insomma, per ogni studio successivo che voglia occuparsi delle singole Confraternite e del fenomeno nel suo complesso. Con questo studio «si apre insomma un tracciato di ricerca che si presenta assai promettente e che ci si augura che possa appassionare una larga schiera di addetti ai lavori»[2].

Il volume, inoltre, si inserisce senz’altro nella vivace temperie di promozione dello spirito sinodale che la Chiesa dei nostri giorni va riscoprendo, con il recupero, in particolare, di due istanze che stanno alla radice del fenomeno confraternale, ma che restano di assoluta attualità: quella spirituale e quella sociale[3].

Alla fine del suo messaggio introduttivo al libro il Vescovo mons. Fernando Filograna esprime l’auspicio che ancora oggi le Confraternite possano rappresentare «scuole di fede popolare, fucine di santità, luoghi di recupero di identità ed autenticità, bagaglio di tradizioni» e possano rispondere, «con creatività e coraggio, alle urgenze del nostro tempo». E si può dire che sono senz’altro questi gli intenti che hanno portato allo sviluppo della ricerca e alla nascita di questo pregevole volume.

Il libro verrà presentato mercoledì 18 ottobre 2023 a Tuglie, nell’oratorio “Mons. Tramacere”, alle ore 19, da Mons. Domenico Giacovelli, Vicario episcopale per la Cultura della Diocesi di Castellaneta. Modererà Mons. Giuliano Santantonio, Vicario generale della diocesi di Nardò-Gallipoli, mentre i saluti istituzionali e le conclusioni saranno affidate al Vescovo Mons. Fernando Filograna e al Diacono Luigi Nocita, direttore dell’ufficio diocesano per le confraternite.

 

Note

[1] G. Moroni Romano, Dizionario di erudizione storico ecclesiastica, Vol. XVI, Venezia, Tipografia Emiliana, 1842, pp. 117-ss.

[2] Dalla premessa al volume di Mons. Giuliano Santantonio, Vicario Generale della Diocesi di Nardò- Gallipoli e Direttore dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi.

[3] Ibid.

Francesco Toto, “il Salentino”, apprezzato costruttore di violini, viole e violoncelli

 

di Marcello Gaballo

Non si finisce mai di indagare e conoscere la creatività dei salentini, che nella terra natìa e in tutto il mondo hanno lasciato il segno delle proprie capacità manuali, artistiche, scientifiche e letterarie.

Questa volta, grazie ad una provvidenziale segnalazione, focalizziamo l’interesse su Francesco Toto, nato a Lecce nel 1972, che per giusto merito è stato inserito nel Libro d’Oro del MAM – Maestro d’Arte e Mestiere, promosso dalla Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte. In questo speciale registro sono inseriti i Maestri d’Arte italiani ritenuti dai maggiori esperti come “eccellenti”, individuati in 23 diverse categorie dell’artigianato artistico italiano: dalla ceramica alla gioielleria al legno e arredo, dai metalli alla meccanica al mosaico, dalla pelletteria alla stampa d’arte al restauro, dalle professioni del teatro al tessile.

 

Francesco Toto consegue il diploma presso l’Istituto Statale d’Arte “G. Pellegrino” di Lecce, dove acquisisce una formazione di base apprendendo la manualità per la lavorazione del legno. Inizialmente interessato agli strumenti a corda, e soprattutto alle chitarre, che suona con discreta abilità, comincia a studiare gli strumenti ad arco e ad affascinarsi alla loro tecnica costruttiva.

E’ Cremona la città che può formarlo in tale predisposizione ed interesse, essendo questo centro da sempre legato alla tradizione musicale e liutaria. Ed è qui che si trasferisce dopo il diploma, ma non trovandola pienamente aderente alle sue aspettative decide di trasferirsi in Germania, per frequentare con buoni risultati una scuola di restauro di questi strumenti.

Tornato a Cremona, qui vuole arricchire il suo bagaglio formativo, assimilando la tecnica costruttiva degli strumenti ad arco, come tramandato per secoli dai grandi maestri liutai. Qui finalmente, presso la Scuola Internazionale di Liuteria, si specializza nella costruzione di strumenti ad arco di alta qualità (violino, viola, violoncello e basso), acquisendo le tecniche costruttive tradizionali dei grandi liutai cremonesi, compresa la loro manutenzione e riparazione.

 

 

 

 

Appreso il metodo, grazie alla competenza di vari maestri che ha frequentato e alla sua dedizione, non tarda a trasformare il suo talento in professione producendo violini, viole e violoncelli. Per i violini si ispira ai modelli storici Guarneri e Stradivari, mentre per i violoncelli utilizza un modello disegnato da lui, che poi propone agli allievi italiani e stranieri che oramai da tempo lo seguono.

Il suo laboratorio, caratteristicamente ricolmo dei tanti attrezzi da lavoro e di sagome di strumenti, ha sede nel cinquecentesco palazzo Barbò-Meroni, nel centro storico di Cremona, e qui il maestro riceve gli esigenti committenti desiderosi di poter avere uno strumento personale.

 

 

 

Toto costruisce anche quartetti d’archi come, ad esempio, quello realizzato nel 2016 per il grande baritono Maestro Leo Nucci.

Impossibile elencare le diverse mostre che hanno ospitato le sue opere. Basti ricordare che nel 2018 Francesco Toto viene invitato alla Tokyo Stradivarius festival exhibition, la più importante mostra mai realizzata su Antonio Stradivari in Oriente, nella quale sono state esposte 21 opere del Maestro Antonio Stradivari e un suo violoncello in rappresentanza della liuteria contemporanea Italiana.

 

 

 

Arduo anche elencare i riconoscimenti ottenuti, tra i quali senz’altro il prestigioso certificato di merito rilasciato nel 2002 al XV Concorso Internazionale della Violin Society America e la medaglia d’argento concessa nello stesso anno al Concorso Internazionale di Mittenwald. Nel 2006 ha ottenuto il primo premio per la sezione violoncelli all’XI Concorso Triennale Internazionale degli strumenti ad arco di Cremona e la medaglia d’oro del Centro di Musicologia “Walter Stauffer”.

Francesco Toto è stato presidente dell’Unione Liutai Cna e membro del Comitato Scientifico del Museo del Violino di Cremona, mentre attualmente è  rappresentante nazionale strumenti musicali Cna Artigianato Artistico.

Nonostante la sua lontananza resta sempre viva la sua “salentinità e, non a caso, su ogni sua “creatura” applica un’etichetta quantomai esplicativa: “Francesco Toto il Salentino”, come ama definirsi.

Insomma, un altro importante tassello per “Leccellenza” e per quel genio salentino che abbiamo il dovere di conoscere e del quale possiamo e dobbiamo sentirci fieri.

Al via i restauri dell’organo monumentale della Cattedrale di Nardò (1897)

di Marcello Gaballo

In questi giorni si è finalmente dato inizio al restauro del monumentale organo a balcone della Cattedrale di Nardò, del 1897, che da decenni è rimasto inattivo a causa di una grave infestazione di termiti, che avevano gravemente intaccato e corroso in più parti la struttura in legno di noce  di sostegno, compreso il balcone e le parti scolpite di ornamento. Da anni si parlava dell’urgente azione di recupero, al fine di non perdere una delle opere più significative del massimo tempio presente in città.

 

 

Un po’ di storia

Nel corso degli importanti lavori di restauro eseguiti tra il 1892 e il 1899 nella Cattedrale, il vescovo tarantino monsignor Giuseppe Ricciardi (1890-1908) si preoccupò di dotare il sacro tempio di un nuovo organo polifonico a canne, per dare solennità alle cerimonie di inaugurazione e quelle che si sarebbero succedute nel tempo. Tutta la città contribuì alle ingenti spese dell’edificio, ma fra tutti si distinsero i fratelli De Pandi, che fecero realizzare a proprie spese il pavimento, la famiglia Vaglio, che offrì la balaustra del presbiterio, e Luigi Antico che fece restaurare a sue spese l’altare di S. Michele.

Dopo un primo preventivo dell’organaro barese Luigi Mentasti di Paolo, datato 1895, la scelta ricadde sulla ditta del cremasco Pacifico Inzoli, già impegnata per altri organi pugliesi e che lo realizzò nel 1897: PREMIATA E PRIVILEGIATA FABBRICA D’ORGANI/ CREMA/ INZOLI CAV. PACIFICO, come si legge sulla placchetta posta al disopra delle due tastiere.

La trattativa andò a buon fine anche per l’intermediazione del vescovo di Crema Ernesto Fontana (1830-1910), amico del nostro vescovo Ricciardi, del quale si conservano alcune lettere nell’archivio storico diocesano, in cui lo rassicurava circa il valore e la fama goduta dalla Casa d’organi “Pacifico Inzoli” di Crema: “…Fabbricatori d’organi a Crema si trovano quattro; ma Inzóli e Tamborini la vincono sugli altri: Inzoli poi credo che la vinca su tutti e che siasi acquistata una fama molto estesa e molto meritata. Egli è passionato dell’arte sua e costruisce gli organi secondo le esigenze delle leggi liturgiche e della musica sacra… Inzoli è uomo bravo, onesto e cristiano”.

Foto di Pacifico Inzoli

 

La Casa era stata fondata in Crema nel 1867, premiata con medaglie d’oro e diplomi d’onore (all’Esposizione di Bologna nel 1888 e all’Esposizione Eucaristica di Milano nel 1895) e aveva già realizzato oltre 200 organi, tra i quali i monumentali per la Cattedrale di Cremona, per S. Ignazio in Roma, per il  Santuario di Pompei.

In un vano ricavato nella struttura muraria perimetrale della navata destra, accanto alla cappella della Madonna delle Grazie o della Sanità, fu collocato l’organo a balcone su sue piani, dei quali il vano superiore fu riservato ai corpi fonici e la consolle, l’inferiore per la manticeria. L’elegante prospetto in legno di noce, la cassa e la cantoria, furono intagliati in stile neogotico, dagli stessi ebanisti della Scuola d’Arte di Maglie (LE), diretta da Egidio Lanoce (1857-1927), che avevano realizzato il seggio vescovile, le ante dell’altare delle reliquie e i battenti lignei della porta che dalla cattedrale immette alla scala dell’episcopio.

Un’epigrafe marmorea in latino, posta nel 1898 sulla parete muraria, al lato destro della facciata dell’organo, ricorda come l’opera fu donata alla città dalla nobildonna Clementina Personè (1840 ca.-1899), moglie del barone Giovan Bernardino Tafuri di Melignano (1827-1900), che può essere così tradotta: “In questa chiesa dedicata alla Vergine, recentemente riportata al suo primigenio splendore, affinché le divine lodi risuonino alte e muovano i cuori dei fedeli di Cristo ai pietosi affetti, Clementina Personè, moglie di Bernardino Tafuri, curò a sue spese questo campione della musica e della cosa sacra, con solerzia, nell’anno 1898” (traduzione di Elsa Martinelli).

Epigrafe marmorea a lato dell’organo, nella quale sono riportati i nomi dei donatori

 

Primo organista del nuovo organo accordato sotto la diretta revisione dell’Inzoli fu il neritino Giovanni Boccardo, conosciuto col cognome di Manfroci perché allevato ed educato dalla famiglia Manfroci, poco noto ma organista di grande livello. Non da meno fu il successore Maestro Egidio Schirosi (1895-1991), che fu anche direttore e compositore, che amava definirsi “organista dell’insigne Basilica Cattedrale”.

 

Note tecniche dell’organo di Nardò

L’organo, entro tre campate in altrettante cuspidi (7/7/7), mostra n. 21 canne in zinco dalle bocche non allineate, con andamento contrario a quello delle sommità, con labbro superiore a scudo. Nota della canna maggiore: Do1 del Principale 8. Due tastiere originali, a finestra, di n. 58 tasti (Do1-La5): diatonici ricoperti in osso, cromatici in ebano. Trasmissione meccanica a bilico. Gran’Organo al manuale inferiore, Espressivo al superiore. Pedaliera originale, diritta, di n. 27 pedali (Do1-Re3). Trasmissione meccanica con leva pneumatica Barker. Registri azionati da pomoli, a tiro, in quattro colonne ai lati delle tastiere: 5+4 pomoli a lato sinistro, 4+5 pomoli a lato destro.

 

 

 

A Lecce in mostra l’attività pittorica e scientifica di Paolo Emilio Stasi

 

di Marcello Gaballo

Nel centenario della scomparsa di Paolo Emilio Stasi (Spongano 16 gennaio 1840 – 4 marzo 1922), il Museo Castromediano di Lecce ha organizzato un evento per ricordare una delle personalità più importanti e poco note della cultura di Terra d’Otranto di fine Otto e inizi Novecento.

Figura eclettica e poliedrica, di lui vengono esposte per la prima volta le opere d’arte, i reperti archeologici, le fotografie, documenti e altri materiali provenienti da collezioni private e degli eredi, dalle raccolte del Museo Castromediano.

Non è vasta la bibliografia che lo riguarda, ma è sufficiente per inquadrare al meglio questo valido artista che è da ritenersi tra gli esponenti della pittura napoletana del tardo Ottocento.

Nella capitale partenopea Stasi, studente di farmacia negli anni 1865-66, si forma all’Accademia di Belle Arti di Napoli, alla scuola dei maggiori maestri di quel periodo, tra cui il salentino Gioacchino Toma.

Rientrato nel 1870 nella sua Spongano fu maestro di disegno presso il Ginnasio “Capece” di Maglie e produsse un discreto numero di dipinti a vario soggetto, prediligendo la ritrattistica e il paesaggio, con i toni dell’Impressionismo e del post-Impressionismo francese, opere tutte finora poco indagate ed apprezzate.

Per niente trascurabile la committenza proveniente dal mondo ecclesiastico, che a più riprese e da diversi luoghi del Salento richiese dipinti a tema sacro da esporre nelle chiese. Di lui ritroviamo infatti una Deposizione dalla Croce nella chiesa madre di Castrignano del Capo (dove  è anche presente una Madonna del Rosario), che l’artista replica come tema per la chiesa madre di Nociglia.

Ma oltre ad essere artista Paolo Emilio Stasi restò alla storia per aver scoperto nel 1904, in maniera del tutto casuale, la grotta Romanelli, fra Castro e Santa Cesarea Terme, dove si era recato per dipingere su commissione un quadro della Madonna di Lourdes, scorgendovi un reperto fossile e alcuni graffiti, poi indagati con l’ausilio del paleontologo Ettore Regalia del Gabinetto Paleontologico di Firenze.

Le successive esplorazioni sul territorio e il desiderio di approfondire questo particolare ed avvincente ramo della scienza, gli procurarono nuovi ritrovamenti e lo portarono a dirigere gli scavi nella grotta Zinzulusa a Castro e nei cunicoli dei Diavoli a Porto Badisco, con rinvenimento di ceramiche e numerosi frammenti vascolari. Fu sempre lui a rinvenire, nel 1910, il dolmen di Castro.

 

La mostra, coordinata da Luigi De Luca, direttore del Polo biblio-museale di Lecce, curata da Brizia Minerva, Annalucia Tempesta, Michele Afferri e Salvatore Bianco, sarà visitabile fino al 31 gennaio 2023, tutti i giorni dal martedì alla domenica, dalle 9 alle 20.

Si prevede a breve la pubblicazione di una monografia che illustrerà la sua vita, ricostruendone l’attività artistica e scientifica. Questa affiancherà un’edizione a stampa di 316 pagine, già in circolazione dal 2021: Paolo Emilio Stasi, pittore e archeologo. Arte e scienza in Terra d’Otranto tra fine ‘800 e inizi ‘900. Pagine sparse e documenti inediti sulla vita e sull’opera di Paolo Emilio Stasi scritti e raccolti da Cesare Teofilato, curata da Glauco Teofilato, con grafica di Daniele Coricciati e foto di Raffaele Puce, edita dall’Associazione Esterno Notte.

Libri| Arte barocca nella chiesa del Rosario di Copertino

 

ARTE BAROCCA NELLA CHIESA DEL ROSARIO DI COPERTINO

di Marcello Gaballo, Giovanni Greco e Alessandra Marulli, per la collana Analecta Nerito Gallipolitana,  Grenzi Editore, Foggia (pagine 115, copertina cartonata, riccamente illustrato a colori con foto di Lino Rosponi e rilievi di Fabrizio Suppressa)

 

Questa sera 12 dicembre 2022 alle ore 19, nella chiesa del Rosario di Copertino, Via Cosimo Mariano, si terrà la presentazione del volume che illustra la scultura barocca dei due maestosi altari realizzati tra metà 600 e inizi ‘700 da Ambrogio Martinelli e Giuseppe Longo. Nel volume, dopo le vicende storico-artistiche dell’edificio anticamente officiato dai padri Domenicani, si illustrano anche le coeve emergenze pittoriche, tra le quali l’imponente tela della Madonna del Rosario dipinta dal celebre pittore Gian Domenico Catalano.

particolare di uno degli altari esaminati nel volume (foto Lino Rosponi)

 

L’iniziativa editoriale, corredata di una mostra didattica curata da Alessandra Marulli, è stata promossa dal parroco don Antonio Pinto, che nella prefazione scrive come dal lavoro, ricco di rimandi archivistici e nuove fonti documentarie, siano “emerse inaspettate e inusuali immagini e simbologie recondite che incantano per la loro resa plastica e per la delicata e incisiva policromia… Solo ora si può finalmente godere del tripudio di angeli e angioletti festanti, nelle loro mutevoli pose, che si inerpicano in ogni dove delle due barocche macchine d’altare, a solennizzare incredibile sequenza di santi e sante che proiettano efficacemente l’uomo nello spazio divino”.

Santa Caterina da Siena, particolare della tela della Madonna del Rosario dipinta da Gian Domenico Catalano (foto Lino Rosponi)

 

L’odierna presentazione del volume, sarà preceduta dai saluti istituzionali del vescovo della diocesi di Nardò-Gallipoli, mons. Fernando Filograna, dal sindaco Sandrina Schito, dal presidente della provincia di Lecce Stefano Minerva e dall’assessore regionale all’Istruzione e alla Formazione Sebastiano Leo.

Particolare della tela di San Domenico, dipinta dal Carella, nell’altare di Ambrogio Martinelli (foto Lino Rosponi)

 

Gli interventi sono affidati a mons. Giuliano Santantonio, vicario generale e direttore dell’ufficio Beni culturali della Diocesi; Luigi De Luca, funzionario della Regione Puglia e direttore del polo Bibliomuseale di Lecce; Aldo Patruno direttore generale del Dipartimento Turismo, economia della cultura  e valorizzazione del territorio. Modera il parroco don Antonio Pinto, mentre gli intermezzi musicali sono a cura del M° Maurizio Coppini.

La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò nel simposio mondiale di studi giuseppini in Messico

 

di Marcello Gaballo

A Città del Messico, dal 18 al 25 settembre, si terrà il XIII Simposio Internazionale su San Giuseppe, cui partecipano i più importanti studiosi mondiali della figura del padre di Gesù, al fine di valorizzazarne la figura e porre attenzione riscoprendo e attualizzando il suo ruolo come guida, educatore, capo autorevole e vigile della Sacra Famiglia.

La confraternita di San Giuseppe di Nardò già alcuni anni addietro, per celebrare i suoi 400 anni, organizzò un seminario di studi sul santo di cui porta il nome, con particolare attenzione sul loro oratorio edificato a Nardò nei primi decenni del 1600, poco dopo la sua fondazione (1619) e prima dell’accelerazione impressa alla devozione giuseppina dal decreto dell’ 8 maggio 1621 con il quale papa Gregorio XV estendeva la festa del 19 marzo alla chiesa universale.

In quell’occasione la confraternita realizzò anche un corposo volume che coinvolse tutta l’Italia, con qualificati interventi e ricco di testimonianze iconografiche sparse nei musei italiani, nelle varie chiese e confraternite dedicate al santo patriarca, quasi sempre influenzate dalla devozione nei vari secoli. Alle tradizionali iconografie con Gesù tra le sue braccia o in atto di sorreggerlo, furono affiancati gli insoliti aspetti della sua intima partecipazione alla vita della divina famiglia, ritratto quasi sempre pensieroso, ma anche nei gesti di sollecitudine che ogni buon padre manifesta oppure ripreso in mansioni lavorative del falegname, in azioni umili e concrete, come preparare la zuppa o attizzare il fuoco.

Sempre in quel seminario furono esaminate le pitture e la fabbrica della chiesa neritina, comparandone l’arte e il culto in essa presenti con le varie espressioni giuseppine in diocesi e nei paesi vicini, in Puglia e nelle varie regioni italiane. Soprattutto si mise in evidenza l’altare maggiore, autentica e sorprendente espressione del barocco leccese, e il suo meraviglioso altorilievo della “Fuga in Egitto”, in verità La Sacra Famiglia in Viaggio, posto nella parte superiore dell’altare maggiore. Un tema questo che ha avuto fortuna proprio a partire dal XVI
secolo, epoca del capolavoro neritino, che per questo si ritiene proveniente da altro edificio più antico. In quell’occasione la studiosa ed esperta iconografa romana Stefania Colafranceschi, ebbe a dire che questo capolavoro di scultura “richiama lo sguardo per la suggestione del sorriso che promana dai volti, e riecheggia negli angioletti sui lati, due per parte, e in quelli della trabeazione, anch’essi sorridenti. Tutti sorridono verso l’osservatore, mentre Giuseppe guarda più in su, al cielo, verso un angelo guida che idealmente segna la via…  Sorride Maria, il bambino Gesù, l’angelo intento a raccoglie i datteri dalla palma prodigiosa, secondo l’episodio narrato dai vangeli apocrifi. Sorride anche l’asino, partecipe del destino di salvezza che in quel viaggio si attua. Divino e umano, in cammino… Ad una visione ravvicinata, l’opera rivela la sua raffinatezza esecutiva e il vigore plastico: dalle vesti mosse dell’arcangelo, la veste militare e i calzari, al panneggio del manto di Maria, alla botticella scanalata di san Giuseppe, all’accurata resa dei capelli e della barba di san Giuseppe, fino alla criniera e lo zoccolo sollevato dell’asino, e non ultima, la palma leggermente inclinata, forse in parte perduta”.

particolare dell’altare maggiore della chiesa di San Giuseppe a Nardò (le due foto sono di Lino Rosponi)

 

La preziosità di questo altorilievo e delle altre testimonianze artistiche che si osservano nella chiesa neritina hanno suggerito alla studiosa di riproporre nel più grande appuntamento mondiale sul santo le peculiarità del poco noto tempio sacro. La chiesa di San Giuseppe a Nardò (Lecce): espressione di pietà e delle pratiche liturgiche confraternali è il titolo del suo intervento, previsto alle ore 10 di venerdì 23 settembre, come può leggersi nel programma dei lavori allegato.

 

Qui il programma dettagliato:

Programa XIII Simposio Internacional sobre san José

 

Altri link utili sulla chiesa e confraternita di San Giuseppe di Nardò:

De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Un convegno e un libro per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

De Domo David e la confraternita di San Giuseppe di Nardò. La recensione su L’Osservatore Romano di padre Tarcisio Stramare – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

De Domo David e l’edizione di Nardò, dalla Congregazione degli Oblati di San Giuseppe – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Libri| Racale in età feudale

 

Lunedì 12 settembre, alle ore 19.30, il prof. Mario Spedicato, con la moderazione di Paola Ria, presenterà nella biblioteca Comunale di Racale il volume di Antonio Sebastiano Serio Racale in età feudale.Territorio vassalli utili signori fra XI e XVIII secolo, a cura di Marcello Gaballo, Claudio Grenzi Editore, inserito nella Collana Analecta Nerito-Gallipolitana.

Antonio Sebastiano Serio non è nuovo a simili imprese editoriali: oltre al volume Racale. Note di storia e di costume, di cui è stato co-autore Giuliano Santonio, ha pubblicato uno studio di grande interesse sulla Chiesa di S.Maria La Nova a Racale e, di recente, Casarano nel Tardo Medioevo.

Racale in età feudale è un volume di ben 900 pagine, frutto di accurati studi tra archivi locali e nazionali, che ha richiesto buona parte della vita dell’Autore che – come scrive don Guliano Santantonio nell’Introduzione – con “questo volume offerto alla pubblica fruizione, è un atto di amore alla sua città natale, che ha dapprima servito come amministratore e che poi ha voluto conoscere fino in fondo scavando lungamente e indagando faticosamente nei meandri spesso oscuri della sua parabola storica. Ognuno si potrà facilmente rendere conto che si è trattato di un’impresa a dir poco ciclopica, che ha richiesto più di quarant’anni di ricerca e che lascia un segno indelebile nella storia di Racale e costituisce per questa città uno straordinario valore aggiunto: nessuno potrà in seguito ignorare questo basilare e imprescindibile lavoro. Lo dico non certo per piaggeria, di cui non vedo quale potrebbe essere per me il vantaggio, e senza esagerazione, ma a ragion veduta: chi ha contezza di cosa significhi raccogliere, interpretare e raccontare in modo veritiero e imparziale ciò che fa la storia di un luogo, me ne darà conferma”.

L’incredibile supporto bibliografico, il numero di note, i rimandi documentari tratti dall’Archivio di Stato di Napoli e di Lecce e l’analisi puntigliosamente scientifica delle fonti, , ne fanno un’opera davvero straordinaria e – scrive sempre Santantonio – “non sono molti i centri abitati che, al di là di improbabili e fantasiose congetture prive di riscontri e quasi sempre mosse da spirito campanilistico, possono vantare una ricostruzione della propria vicenda storica nel corso del II millennio (fino all’abolizione del feudalesimo) così completa, dettagliata e suffragata da fonti documentali di assoluta attendibilità, come quella che ci viene consegnata attraverso il poderoso volume Racale in età feudale… 

Un altro elemento di pregio che spicca in questo lavoro è che l’autore non si è accontentato di indagare le figure di rilievo sul piano socio-politico, ma ha provato a trarre fuori dall’oblio nomi, volti, vicende di quante più persone è stato possibile e che nel corso del tempo hanno costituito la comunità racalina, restituendo loro un’identità che, pur nell’umiltà del lignaggio, ha contribuito a costruire quel patrimonio immateriale di valori, di stili di vita, di esperienze, che tramandato di generazione in generazione rappresenta la tradizione peculiare e distintiva di un paese come Racale. E’ come dire che una storia fatta solo dai “grandi” mancherebbe di completezza e non basterebbe per dare piena ragione degli sviluppi che ne sono conseguiti.  Per altro canto, è un modo per certi versi nuovo e sicuramente suggestivo quello di narrare la storia non come fredda sequenza di fatti, ma come attenzione alle persone, al loro vissuto, ai loro sentimenti, alle loro relazioni e alle vicende che le hanno caratterizzate: ne viene fuori un afflato di umanità, capace di restituire sensazioni ed emozioni, che sono poi il filo rosso che collega tra loro le generazioni che si succedono, promuovendo il senso di appartenenza e di radicamento in un luogo…”.

Questo è il ricco piano dell’opera, attraverso i titoli dei 35 capitoli:

CAPITOLO I. Le origini
CAPITOLO II. L’età normanno-sveva e i feudatari della famiglia de Tallia
CAPITOLO III. Feudatari la cui Signoria è documentata da un falso della storiografia del XVII secolo (Guglielmo Bonsecolo), o da dati problematici (Guglielmo Pisanello), o da equivoci storiografici (De Monti e Malaspina)

CAPITOLO IV. Le figlie di Agnese de Tallia e l’avvento nel Regno di Carlo
d’Angiò

CAPITOLO V. L’età primoangioina e la divisione in due quote della terra dei de Tallia

CAPITOLO VI. La famiglia di Pietro de Marra

CAPITOLO VII. Risone II de Marra, II Signore di Racale

CAPITOLO VIII. Pietro II e Risone III de Marra, III e IV Signore di Racale

CAPITOLO IX. Giovannuccio de Marra, V Signore di Racale

CAPITOLO X. Giovannotto de Marra, VI Signore di Racale

CAPITOLO XI. Riccardo de Marra, VII e ultimo Signore di Racale

CAPITOLO XII. La famiglia di Riccardo de Marra

CAPITOLO XIII. Bucio Tolomei de Senis e l’insediamento su Racale di una nuova famiglia di feudatari

CAPITOLO XIV. Salvatore Tolomei de Senis e la sua famiglia

CAPITOLO XV. Racale ai tempi di Salvatore Tolomei de Senis

CAPITOLO XVI. Buccio e Marcantonio Tolomei: la conquista ottomana di Otranto e veneziana di Gallipoli

CAPITOLO XVII. Bindo Tolomei e la conquista spagnola del Regno

CAPITOLO XVIII, Alfonso Tolomei e la scomparsa dell’antica chiesa matrice
di S. Giorgio

CAPITOLO XIX. Porzia Tolomei contessa di Potenza

CAPITOLO XX. La terra ai tempi della Signoria di Porzia Tolomei

CAPITOLO XXI. La popolazione nel XVI secolo

CAPITOLO XXII. I feudatari della fine del XVI

CAPITOLO XXIII. I Cappello feudatari di Racale fra fine XVI e inizio XVII secolo

CAPITOLO XXIV. Il clero tra XVI e XVII secolo: rissosità, litigi e bravate nei regesti
dei processi del tribunale ecclesiastico diocesano

CAPITOLO XXV. Ferrante Beltrano conte di Mesagne e Signore di Racale

CAPITOLO XXVI. Racale al tempo di Ferrante Beltrano

CAPITOLO XXVII. La Signoria di Maria Beltrano e il miracolo del 1653

CAPITOLO XXVIII. 1664-1695. Racale nelle mani di diversi affittatori

CAPITOLO XXIX. L’apprezzo del 1682

CAPITOLO XXX. L’acquisto di Racale da parte di Felice Basurto e la refuta in
favore del figlio Domenico

CAPITOLO XXXI. Racale nella prima metà del XVIII secolo

CAPITOLO XXXII. Il duca Francesco Paolo Basurto senior e lo smantellamento delle opere di fortificazione della terra

CAPITOLO XXXIII. La fine del feudalesimo

CAPITOLO XXXIV. L’amministrazione della giustizia feudale

CAPITOLO XXXV. Sindaci ed eletti universali

Corredano il volume tre utilissimi indici, indispensabili per districarsi nella mole di nomi e luoghi puntaualmente menzionati tra i testi e le note: Indice delle sigle, Indice dei personaggi e Indice dei toponimi.

 

L’olocausto di Nardò. Un tributo doveroso ai suoi Martiri, a 375 anni dalla loro tragica fine

Nardò, Piazza Salandra

di Marcello Gaballo

Per non dimenticare la nostra storia riproporrò, come negli altri anni, una sintetica cronaca delle tristi vicende che colpirono la città di Nardò, oberata dalle tasse e soggetta ai soprusi del famigerato Giangirolamo Acquaviva d’Aragona, duca di Nardò e conte di Conversano, tristemente noto come il Guercio di Puglia, uno dei più crudeli feudatari dell’epoca. Pagine terribili, di una crudeltà  che non trova eguali nella storia della città, che i suoi stessi abitanti conoscono molto poco, che nelle scuole non vengono lette e che, per noncuranza, vengono rimosse dalla memoria collettiva. 

Insisto nel riproporre il triste anniversario, consapevole di essere ripetitivo, per non lasciar cadere nel silenzio i gloriosi martiri, che neppure la chiesa locale nei secoli ha voluto riconoscere. Il torbido contesto storico in cui si svolsero i fatti, gravido di passioni, di avidità e di odio, ma soprattutto la paura dei potenti feudatari ha condizionato i pareri del coevo celebre amministrativista dell’epoca Giovan Bernardino Manieri, così come  ha chiuso la bocca allo storico locale Giovan Bernardino Tafuri, che un secolo dopo scelse di ignorare del tutto le vicende del 1647. Colpiscono anche le lodi servili alla famiglia feudataria da parte del  francescano Bonaventura da Lama, che, timido o intimidito, dimenticò anch’egli il sacrificio degli ecclesiastici e dei tanti cittadini. 

E riporto quanto Francesco Danieli ha scritto a tal proposito: “mentre inermi cittadini e convinti ecclesiastici venivano ammazzati e oltraggiati per la giustizia, seduto alla sua comoda poltrona, il vicario Giovanni Granafei non mosse un dito. Connivente col potere feudale, fece finta di niente e si adoperò come meglio riuscì per tenere nascosti quegli eventi a chi doveva prendere provvedimenti. Il vescovo di Nardò Fabio Chigi, che mai mise piede in diocesi, era troppo impegnato negli affari diplomatici per interessarsi alla “sua” gente! Di lì a qualche anno, il Granafei l’avrebbero creato arcivescovo… il Chigi papa (Alessandro VII)”. 

Troppe colpe e troppi assordanti silenzi, rotti solo nel secolo scorso dagli obiettivi e informati Ludovico Pepe, Francesco Castrignanò, Pantaleo Ingusci, Giovanni Siciliano, Emilio Mazzarella, Vittorio Zacchino.  

Fate leggere queste pagine ai vostri piccoli, ai ragazzi, ai maestri delle scuole elementari e agli insegnanti delle medie. Forse è giusto che oltre che celebrare il glorioso Pietro Micca ricordino e facciano ricordare anche i gloriosi martiri di Nardò. 

Ha scritto Ingusci: “I neretini in tutte le ore della loro vita ricordino e onorino questi martiri, che purtroppo sinora non hanno ricordato e onorato abbastanza. Li onorino, mantenendo alti gli ideali per i quali essi caddero,non vi rinuncino mai, perchè sono l’essenza della civiltà umana. E siano essi convinti come lo  furono quei martiri ed eroi, che la libertà è  così cara come sa chi per lei vita rifiuta”. 

Ha rincalzato Zacchino: “Tali semi, purtroppo, sono stati  ben presto soffocati dalle erbacce della dimenticanza, della disaffezione,

Santa Maria della Rosa a Nardò

Nobili committenze. Santa Maria della Rosa a Nardò. 27.a Giornata FAI di primavera, Nardò 23-24 marzo 2019 / Marcello Gaballo, con un contributo di Donato Giancarlo De Pascalis

Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, 2019

46 p. : ill. ; 24 cm

[ISBN] :978-88-94229-77-6

Per la scheda e per le bibliotehe in cui si trova:

Risultati ricerca – OPAC SBN

Per sfogliare:

(PDF) Nobili committenze. | Santa Maria della Rosa a Nardò Marcello Gaballo – Academia.edu

 

L’ultima pubblicazione su Santa Maria al Bagno

Paolo Pisacane – Marcello Gaballo, Santa Maria al Bagno e l’accoglienza ai profughi ebrei, con contributi di Salvatore Inguscio, Emanuela Rossi e Alfredo Sanasi, ediz. Mario Congedo, Galatina 2021.

 

 

dalla prefazione di Giancarlo Vallone

Questo volume su Santa Maria può essere letto a diversi livelli di profondità, ma già nel suo impianto, ch’è quello d’una redazione collettiva, esprime l’esigenza d’un rispetto pieno delle ben diverse competenze necessarie a raggiungere il fine, e la diversità di queste competenze espone a sua volta la complessità della storia di questa importante località.

È, anzi, indiscutibile la sua antichità come nucleo abitativo, perché il contributo iniziale di Salvatore Inguscio ed Emanuela Rossi, ripercorre  appunto la vicenda degli scavi  e dei reperti di epoca neolitica, e successive, della Grotta del Fico,  esaminata nel 1961 da Arturo Palma di Cesnola (1928-2019) e da altri collaboratori, ed in seguito oggetto di studi ripetuti, durante i quali, come ben giustamente si ricorda, un operaio avvertì l’équipe dell’esistenza di altre grotte abitate  in epoche remote nella baia di Torre Uluzzu,  fornendo così la possibilità di provare il passato preistorico all’area costiera neretina.

Spetta ad Alfredo Sanasi il compito più arduo, quello di legare Santa Maria alla tradizione quanto meno romana di Nardò, ed è in questo buona guida uno degli ultimi scritti di Francesco Ribezzo (ed. 1952)…

 

… il progresso dei tempi, e in particolare la lunga stagione medievale, consente sguardi più approfonditi perché le testimonianze e i documenti si moltiplicano, grazie soprattutto al fatto che in Santa Maria l’importante Ordine Teutonico possedeva un’abbazia, poi col tempo trasformata in masseria (la masseria ‘del Fiume’ già ‘del bagno’); e se pure di essa sopravvive soltanto, immersa nell’abitato, una torre (cinquecentesca) d’avvistamento, la documentazione superstite è invece apprezzabile, ed è stata oggetto, per vari profili ed epoche, di più studi, dal Coco a Benedetto Vetere allo stesso Marcello Gaballo che ora ne fa chiara sintesi in un capitolo di questo volume, mettendo a frutto anche gli studi di H. Houben nel frattempo venuti alla luce…

… Si devono a Paolo Pisacane gli ultimi capitoli del volume, ed è in questi capitoli che muta notevolmente il modello di informazione e di comunicazione proposto ai lettori. Intanto Pisacane narra le vicende di Santa Maria in concreto dalla fine dell’Ottocento in poi, cioè dal momento in cui Santa Maria, dove qualche stabilimento balneare c’era stato anche in antico, rinasce nella forma di centro di villeggiatura secondo la mentalità borghese, perché la ‘villeggiatura’, l’affrontare ‘in villa’ la calura estiva, esprime una mentalità ed è un’invenzione di tipica matrice borghese…

… La memoria che ci offre Paolo Pisacane nei primi suoi capitoli è anzitutto quella che gli ha trasmesso la sua famiglia, che dalla fine dell’Ottocento risiede stabilmente a Santa Maria, ed i ricordi che ci vengono incontro sono legione: l’edificazione delle ville ed i palazzi signorili sulla piazza, gli stanziamenti di famiglie di pescatori (i primi residenti), gli spacci ed attività commerciali della prima ora…

 

C’è tuttavia un capitolo molto importante tra quelli proposti da Pisacane ed è quello che narra la vicenda, dalla fine del 1943 al 1947, dei molti ebrei, liberati dai campi di concentramento, ma anche di slavi evacuati dai loro territori: tutti internati nel campo-profughi nr. 34 che, appunto, faceva centro in Santa Maria, con gli aggregati di Santa Caterina, delle Cenate e Mondo nuovo (altri campi erano a Leuca, a Santa Cesarea, a Tricase marittima). La presenza di case e ville abitate solo d’estate, semplificava i problemi di insediamento di tutta questa gente priva di qualunque proprio sostegno, ma a volte anche violenta.

Si tratta di una storia della cui importanza ci si è accorti ad iniziare dalla metà degli anni Ottanta dell’altro secolo ed è una storia che senza la vigile curiosità e l’attenzione di Paolo Pisacane non si sarebbe potuta scrivere, o non si sarebbe potuta scrivere con la complessità di temi che oggi conosciamo…

Libri| Santa Maria al Bagno

 

Venerdì 10 settembre 2021, alle ore 20, sul piazzale antistante la chiesa di Santa Maria al Bagno, sarà presentato il volume Santa Maria al Bagno e l’accoglienza ai profughi ebrei, di Paolo Pisacane e Marcello Gaballo, con contributi di Salvatore Inguscio, Emanuela Rossi e Alfredo Sanasi, edito da Mario Congedo di Galatina. La presentazione sarà a cura del prof. Giancarlo Vallone, docente presso l’Università del Salento, e del magistrato Francesco Mandoj, Procuratore antimafia. Sarà anche presente l’editore Mario Congedo.

Grazie alla redazione collettiva si aggiungono ulteriori tasselli per una migliore conoscenza della complessa storia dell’importante località, a cominciare dalla preistoria, per proseguire con il periodo romano e messapico, quello medievale con le vicende dei cavalieri teutonici e della masseria Fiume, la cinquecentesca torre sulla costa poi diventata “Quattro Colonne” con le innovazioni dell’Ing. Caroli e di Egidio Presicce.

Molto corposa è la storia contemporanea del borgo, con le vicende dell’accoglienza agli slavi ed ebrei (1943-1947), tutti internati nel campo-profughi nr. 34 che, appunto, faceva centro in Santa Maria, con gli aggregati di Santa Caterina, delle Cenate e Mondo nuovo, la successiva scoperta dei murales conservati in una casetta da sempre semidiruta, e dei quali fu autore uno di questi profughi, Zivi Miller, e la nascita del Museo della Memoria e dell’Accoglienza, sino alla realizzazione dell’Oasi, che la fece diventare uno dei centri più noti della riviera jonica, rinomato centro di svago e di villeggiatura estiva.

Il volume di grande formato e particolarmente curato, contiene una ricchissima documentazione fotografica in buona parte inedita, proveniente da archivi privati.

 

In copertina: Santa Maria al Bagno, notturno di Khalil Forssane

Libri| La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

a cura di Marcello Gaballo, prefazione di Antonio Bini

Mario Congedo Editore, 2021

 

I familiari, gli amici e i colleghi hanno offerto questa collettanea di studi monopolitani e salentini all’illustre Bartolomeo Lacerenza (Monopoli, 1940 – 2019), già dirigente di Istituti d’Arte, poi Licei artistici, quale testimonianza di riconoscenza, gratitudine ed affetto.

Trascorsi i primi 15 anni di vita a Gallipoli si trasferì con la sua famiglia a Monopoli, dove insegnò per molti anni Storia dell’arte nell’allora Istituto d’Arte (Palazzo Palmieri).

Quale dirigente scolastico operò nell’Istituto d’Arte di San Giovanni in Fiore, quindi a Locri. Nei rimanenti anni e fino al 2006 ha guidato l’Istituto Statale d’Arte di Nardò, accorpato a quello di Galatina, poi Liceo artistico.

Componente della Commissione diocesana per i beni culturali ed ecclesiastici della Diocesi di Nardò-Gallipoli, è stato autore e curatore di numerose iniziative culturali, espositive ed editoriali, prevalentemente a carattere storico-artistico e sulla storia locale, depositate nelle biblioteche italiane. Alcuni dei lavori da lui curati rappresentano tuttora la base imprescindibile per ogni studio sugli argomenti da lui promossi e trattati, e valgano per tutti gli studi promossi sulla cattedrale di Nardò e sui due fratelli napoletani Antonio e Ferdinando Sanfelice, il vescovo e l’architetto.

Ha recensito e presentato varie opere pittoriche di artisti monopolitani e salentini, tra i quali Ciccio Mistrotti, Giuseppe Pavone, Eupremio Petrelli, Gianfranco Russo e Pasquale Urso, con stile di grande esperto e critico.

Guida per i suoi studenti, mostrava sempre pacatezza fatta di ascolto, pazienza e comprensione, spronandoli all’osservazione e ricerca del bello.

Semplice e modesto, dignitoso e riservato, lasciava trasparire dietro i suoi modi gentili e il suo sorriso fraterno la profonda umanità e la sua sincera amicizia, e per questo unanimamente apprezzato.

Libri| La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

a cura di Marcello Gaballo, prefazione di Antonio Bini

Mario Congedo Editore, 2021

 

Una collettanea di studi dedicati a Bartolomeo Lacerenza (Monopoli, 1940 – 2019), già dirigente di Istituti d’Arte, poi Licei artistici, curata da Marcello Gaballo.
Contiene numerosi saggi inediti, prevalentemente di storia dell’arte, che riguardano soprattutto le città pugliesi di Galatina, Monopoli e Nardò, dove ha vissuto ed operato il dedicatario, per il cui nome è inserita un’ampia raccolta di raffigurazioni del santo.
Edito da Mario Congedo di Galatina (Lecce) il volume, in quarto, è riccamente illustrato, di circa 350 pagine, con inserti a colori, rilegato in brossura e con alette, dodicesimo dei supplementi della prestigiosa Collana della Diocesi di Nardò-Gallipoli.
Pregevoli le incisioni riprodotte, conservate nella Casanatense di Roma, e le miniature dell’Estense di Modena, ma non da meno sono le diverse pale d’altare poco note e presenti in remoti luoghi italiani.
L’edizione offre altresì immagini e foto di luoghi pugliesi, a corredo dei saggi, molte delle quali poco note al pubblico e di notevole arricchimento per la storia dell’arte italiana.

 

Indice
p. 5 ANTONIO BINI, Meuccio ovvero della scuola, dell’arte, della persona
9 RAFFAELLA LACERENZA, Ex abundantia cordis…
13 FULVIO RIZZO, Bartolomeo Lacerenza e la scuola del territorio Conoscere, curare, valorizzare il patrimonio culturale
17 DON SANTINO BOVE BALESTRA, Il preside, l’amico, il docente, il
pioniere
19 STEFANIA COLAFRANCESCHI, San Bartolomeo tra arte e devozione
49 DOMENICA SPECCHIA, Lineamenti storico-artistici delle architetture
nella città di Galatina nei secoli
65 ANTONELLA PERRONE, L’attività di Giovanni Maria Tarantino presso
la chiesa dei Battenti di Galatina. Appunti di cantiere
81 MICHELE PIRRELLI, Monopoli e il Salento: contatti dal Quattrocento
all’Ottocento
95 DOMENICO L. GIACOVELLI, L’epilogo “monopolitano” della sede di
Mottola e l’infelice sorte del suo palazzo vescovile
107 ARMANDO POLITO, Camillo Querno, l’Arcipoeta di Monopoli alla
corte di Leone X
121 RUGGIERO DORONZO, La giovinezza di “Alessandro Franzino [Fracanzano] Veronese” e l’Assunzione della Vergine a Monopoli
139 CLAUDIO ERMOGENE DEL MEDICO, La reale confraternita del SS. Sacramento di Monopoli e la particolare devozione all’Eucarestia degli
Acquaviva d’Aragona in Puglia
149 MARINO CARINGELLA, Addenda a Fabrizio Fullone, pittore martinese
del ‘600
171 MARCELLO GABALLO, San Bartolomeo dei Marra. Una chiesetta e
una tela secentesche nel cuore della città di Nardò
201 MICHELE MARTELLA, Due opere restaurate dell’oratorio dell’Annunziata di Castelspina di Alessandria
207 FABRIZIO SUPPRESSA, Nardò e i suoi campanili. Tra arte, storia e architettura
221 MARCELLO GABALLO – ALESSIO PALUMBO, La vigilia della rivolta:
Giovanni Granafei e le lotte di potere nella Nardò ante 1647

235 RUGGIERO DORONZO, Per Marianna Elmo. Il San Giovanni Battista
nel deserto a Nardò
243 MARCELLO GABALLO, Tra granai e dimore storiche nel 1600. Inventario dei possedimenti della nobildonna copertinese Elisabetta Ventura, vedova di Giovan Pietro Valentino
265 ARMANDO POLITO, Una “biblioteca” giuridica del 1600 in casa del
copertinese barone Valentino
283 MIRKO BELFIORE, Il sisma del 1743 in Terra d’Otranto nelle testimonianze dirette tra Nardò e Francavilla Fontana
297 PIETRO DE FLORIO, La pittura en plein air di Arturo Santo (1921-
1989)
305 BARTOLOMEO LACERENZA, I cromatismi di Petrelli
309 BARTOLOMEO LACERENZA, La coerenza temporale e ambientale di
Gianfranco Russo
315 BARTOLOMEO LACERENZA, Recuperato a Monopoli un dramma pastorale di Marco Gatti, letterato e riformatore dell’istruzione pubblica nel Regno delle Due Sicilie

I conventuali e la chiesa dell’Immacolata a Nardò, note di storia ed arte

 

I conventuali e la Chiesa dell’Immacolata a Nardò, note di storia ed arte / Marcello Gaballo

Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, 2018

33 p. : ill. ; 24 cm

[ISBN] :978-88-94229-75-2

 

Per la scheda e le biblioteche dove si trova:

Risultati ricerca – OPAC SBN

Sfoglia qui:

I_conventuali_e_la_chiesa_dellImmacolata_a_Nardò_Note_di_storia_ed_arte

La chiesa e il monastero di Santa Teresa a Nardò: arte ed architettura

La chiesa e il monastero di Santa Teresa a Nardò: arte ed architettura.

Nardò : Fondazione Terra d’Otranto, 2018

45 p. : ill. ; 24 cm  [ISBN] :978-88-94229-74-5

Per la scheda della pubblicazione e dove consultarlo leggi qui:

Risultati ricerca – OPAC SBN

Per sfogliare:

(PDF) La chiesa e il monastero di Santa Teresa a Nardò. Arte ed architettura | Marcello Gaballo – Academia.edu

 

Diego Ferdinando di Mesagne (1611-1662), ovvero raramente il figlio d’arte supera il padre, per lo più nemmeno lo eguaglia (1/2).

di Marcello Gaballo e Armando Polito

La vita dei cosiddetti “figli d’arte” ha probabilmente aspetti più negativi che positivi e il fenomeno che possiamo chiamare “professione ereditaria”, non è certo recente.

I personaggi di oggi costituiscono una coppia, una delle tante, del passato i cui componenti, padre e figlio, sono caratterizzati dall’aver esercitato la stessa professione: quella di medico. Nel nostro caso il figlio è Diego, il padre Epifanio (1569-1638).

Cominciamo, per motivi, come si conviene, anzitutto cronologici da Epifanio. E lo facciam nel modo più immediato, oggi alla moda, cioè con il suo ritratto, riservandoci dopo un approfondimento meno frivolo di quanto, in generale, lo sia la sola immagine.

La tavola è a corredo della biografia di Epifanio Ferdinando in Domenico De Angelis, Le vite de’ letterati salentini, Raillard, Napoli, t. II, 1713.

Ingrandiamo due dettagli:

Nel primo: Epiphanio Ferdinando Messapien(si) Medico et Philosopho/Dominicus De Angelis Lycien(sis) D(onum) D(edit) D(edicavit)

A Epifanio Ferdinando di Mesagne1 medico e filosofo/Domenico De Angelis di Lecce come dono diede dedicò.

Nel secondo: F. De Grado sculp(sit).

Francesco De Grado incise.

Il De Grado fu un apprezzatissimo incisore (sculpsit=incise) attivo a Napoli tra il 1694 ed il 1730.

Questa seconda  tavola è a corredo della biografia di Epifanio Ferdinando a firma di Pasquale Panvini in Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, tomo VI, Gervasi, Napoli, 1819. Da notare che la data di morte (1635) che non coincide con quella (1638) registrata nella biografia scritta dal De Angelis. Nel dettaglio ingrandito: 

 

C(arolus) Biondi inc(idit)=Carlo Biondi incise

Anche Carlo Biondi fu un incisore abbastanza famoso, attivo a Napoli nel XIX secolo. La derivazione del suo ritratto da quello del De Grado è troppo evidente  per parlarne. Non possiamo, però, non fare osservare che, se per i tratti somatici il Biondi era giocoforza costretto a seguire il De Grado, sul piano dell’originalità avrebbe potuto farsi sentire meglio, magari giocando sui dettagli. Lo ha fatto sì, ma rendendo uniforme lo sfondo con l’eliminazione del tendaggio che nel primo ritratto conferiva profondità e per il resto conservando l’ovale ma riducendolo col taglio (di mano e libretto) all’altezza della penultima coppia di bottoni. Come vedremo alla fine con Ferdinando e Diego, anche qui l’ultimo arrivato non rimedia una bella figura.

Per chi ha interesse a conoscere tutti i dettagli registrati della vita di Epifanio rinviamo alle due opere appena citate, il che consentirà di cogliere la grande differenza di spessore professionale tra padre e figlio.

Siamo un popolo che scrive tanto, senza saperlo fare e legge poco o nulla, non sapendo fare, nemmeno quello, complice il degrado sempre più spinto della scuola.

Fino a qualche decennio fa non era così e non lo era ancor più qualche secolo fa, sicché nel passare al vaglio quegli autori si può assumere come parametro di giudizio il numero delle loro pubblicazioni, prima ancora della qualità.

Nel nostro caso, poi, giudicare in base a questi parametri è ancora più semplice, dal momento che Diego, come brutalmente anticipiamo, non pubblicò nulla, per Epifanio, invece, lascimo parlare i titoli (con i relativi frontespizi quando reperiti in rete).

Theoremata medica et philosophica, Tommaso Baglioni, Venezia, 1611

+

Ci piace segnalare che dei quattro componimenti encomiastici in latino che precedono il testo vero e proprio uno è del nostro concittadino Scipione Puzzovivo. Il lettore non neritino ci perdonerà se lo riportiamo e lo traduciamo:

(Esastico di Scipione Puzzovivo, dottore di entrambi i diritti, all’autore

Nessuno meglio di te, Ferdinando, cura coloro che agita la maligna violenza della spada o una febbre maligna e non si potrebbe trovare facilmente chi insegni più correttamente queste arti, delle quali questo libro spiega mille punti. Da te dunque venga chiunque voglia o essere considerato dotto o diventare sano con serietà scientifica)

De vita proroganda, seu iuventute conservanda et senectute retardanda, Gargano e Nuccio, Napoli, 1612.

Purtroppo in rete non è reperibile alcun esemplare di questa edizione. Dato il tema trattato, il libro dovette andare a ruba, ma è strano che non abbia avuto subito una o più ristampa. La ristampa anastatica con traduzioni  a cura di Maria Luisa Portulano-Scoditti e Amedeo Elio Distante è uscita nel 2004 per i tipi di Sulla rotta del sole,  Mesagne. Gli stessi autori hanno il merito, con questa ed altre pubblicazioni che volta per volta verranno segnalate,  di aver riportato alla ribalta la figura del mesagnese, a parte la citazione fatta da Ernesto De Martino in La terra del rimorso (1961) di alcune testimonianze sul tarantismo presenti nell’opera del mesagnese che subito dopo nominerem.

Centum historiae, seu observationes, et casus medici, omnes fere medicinae partes …, Tommaso Baglioni,  Venezia, 1621

Segnaliamo: Amedeo Elio Distante, Maria Luisa Portulano-Scoditti Epifanio Ferdinando: le “Centum Historiae” e la medicina del suo tempo, s. n., Mesagne, 2000.

Aureus de peste libellus, varia, curiosa, et utili doctrina refertus, atque in hoc tempore unicuique apprime necessarius, Domenico Maccarano, Napoli, 1626.

Segnaliamo l’edizione a cura degli stessi autori menzionati per Centum historiae: La peste. Epifanio Ferdinando,  s. n., s. l., 2001.

Oltre alle quattro opere a stampa ricordate, il De Angelis nella sua opera citata all’inizio ci ha lasciato un lungo elenco di titoli di Epifanio rimasti manoscritti. Lo riproduciamo da p. 229 in modo che il lettore abbia contezza della molteplicità di interessi nutriti dal mesagnese (dalle voglie delle donne in gravidanza al vulcanismo, dal tarantismo alle api, dai gechi all’obesità, dalle comete al modo per generare figli maschi, etc. etc.

Purtroppo, a quanto ne sappiamo, di tanta produzione solo della Messapographia, seu Historia Messapiae è custodita nella Biblioteca Arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi una copia (ms. D/13), dal titolo Antiqua Messapographia,  eseguita da Ortensio De Leo nel 1752 (come recita una nota a c. 2r). Di seguito il frontespizio.

A proposito di quest’opera ricordiamo che la stessa biblioteca custodisce un manoscritto (ms. M/4) del XIX secolo che ne contiene in due libri la traduzione fatta dal latino all’italiano da Antonio Mavaro, giurista mesagnese vissuto tra il XVIII e il XIX sec. (di seguito il frontespizio.

Nella carta 1r che più avanti riprodurremo il Mavaro ha avuto la felice idea di riportare due composizioni scritte, una in latino l’altra in italiano, in lode di Epifanio e della sua Messapographia dal canonico Francesco Roma, all’epoca vicario foraneo. In calce le trascriveremo, tradurremo la prima e commenteremo entrambe, non senza aver prima  sottolineato che questo tipo di omaggio è frequente nelle opere a stampa di quei tempi (vedi l’esastico di Scipione Puzzovivo prima riportato) e che la loro presenza, di cui nessuno avrebbe sospettato l’ esistenza senza la pubblicazione  pur manoscritta del Mavaro, alimenta l’ipotesi che tutto fosse pronto o quasi  per consegnare il libro alla stampa ma qualcosa lo impedì. Forse le pessime condizioni di salute nell’ultimo decennio di vita e la volontà venuta meno a causa della malattia di fare l’ultima revisione. Scrive il De Angelis a p. 227 della sua opera:

carta 1r

Ad Epiphanium Ferdinandum Medicum praestantissimum in Librum de antiqua Messapographia D. Franciscus Roma Canonicus Messapiensis. Epigramma.

Messapi! Regale decus ne longa vestustas/obrueret tenebris, dirueretque solo/Ferdinandus, adest, fama clarissimus atque/Euboica fulcit moenia ducta manu./Et solide munit sic cuncta, ut temporis ictus/non timeant imbrem, praecipitemque Notum./Perpetuo stabunt cunctis miranda per Orbem,/sed magis a casu, qui eripuit Patriam./Qui inde fugat morbos. Qui Cives eripit Orco,/et famae tradit nomina cuncta virum.   

Traduzione: Ad Epifanio Ferdinando medico validissimo per il libro sull’antica Messapografia Don Francesco Roma canonico mesagnese. Epigramma.

Messapi! Perché il lungo trascorre del tempo non avvolgesse nelle tenebre una nobiltà regale e non l’abbattesse al suolo è venuto Ferdinando chiarissimo per fama e sorregge con la mano tesa le mura euboiche2. E fortifica tutte le cose  così saldamente che esse non temono le offese del tempo, non la pioggia e l’impetuoso Noto3. Tutte resteranno per sempre degne di ammirazione per tutti sulla Terra, ma più (lontano) dalla sventura che ci ha rapito la Patria. (Ferdinando) che mette in fuga da qui le malattie. (Ferdinando) che sottrae i cittadini alla morte e consegna alla fama tutti i nomi degli uomini.

L’epigramma è costituito da cinque distici elegiaci di buona fattura. Da notare i congiuntivi imperfetti obrueret e dirueret in dipendenza dal presente abest. Secondo la consecutio temporum classica ci saremmo aspettato obruat e diruat. Tuttavia c’è da ipotizzare che quel presente sia stato usato, non sappiamo quanto consapevolmente, quasi a mo’ del perfetto greco, per cui, per esempio un οἶδα  alla lettera significherebbe vidi ma si traduce con so. Qui il processo, però, è inverso, cioè adest alla lettera significherebbe è presente ma è come se derivasse da un è arrivato. Questo valore logico di perfetto attribuito a ciò che grammaticalmente è presente giustifica gli imperfetti congiuntivi, non solo, ma dà quasi l’idea che Epifanio sia in grado non solo di frenare gli effetti nefasti del tempo ma, addirittura, di sanare in qualche modo quelli già atto.

                                                           Sonetto dello stesso Autore

Visse Messapia già da mano altera/eretta e cinta da superbe mura:/ma qual cosa mortal che poco dura/sull’alba del natal vidde4 la sera./Cadde, ma ne’ tuoi scritti oggi qual’era5/anzi più bella assai si raffigura;/cadde ma la tua penna oggi la fura6/a morte, e la richiama a vita vera./Tanto può dotta penna. In marmi egreggi7/tuo nome inciso il Mondo già ne attende./Già ti cede Messapo i suoi gran preggi8./Eresse egli Città che alle vicende/del tempo cader vide i propri freggi9/ma eterna il tuo saper oggi la rende.

Che rabbia fa leggere nell’elenco dei titoli dei manoscritti lasciatoci dal De Angelis quel Dilucida, et compendiosa tractatio de Terraemotu, et incendio Montis Vesuvii, et de remediis  ad futuros Terraemotus pensando che sicuramente l’eruzione del Vesuvio è quella disastrosa del 1631 e che il nostro sarebbe stato una fonte salentina  certamente attendibile da aggiungere altre salentine in passato oggetto di studio.

Per oggi basta con Epifanio. Alla prossima, con Diego.

(CONTINUA)

________________

1 Alla lettera Messapiensis significa messapo, della Messapia, ma in dediche ed iscrizioni assume il significato ristretto di mesagnese. Sui problemi etimologici posti da Mesagne vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/16/la-menza-e-giove-menzana-altre-perle-dalla-rete/.

http://www.vesuvioweb.com/it/wp-content/uploads/Aniello-Langella-e-Armando-Polito-Leruzione-del-Vesuvio-del-1631-letta-attraverso-le-epigrafi-di-Torre-del-Greco-e-di-Portici-vesuvioweb-2011.pdf.

2 Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, IX, 2, 13: Ἐν δὲ τῇ Ἀνθηδονίᾳ Μεσσάπιον ὄρος ἐστὶν ἀπὸ Μεσσάπου, ὃς εἰς τὴν Ἰαπυγίαν ἐλθὼν Μεσσαπίαν τὴν χώραν ἐκάλεσεν (Nel territorio di Antedonia [regione della Beozia] c’è il monte Messapio [così chiamato] da Messapo, colui che dopo essere andato in Iapigia chiamò la regione Messapia).

3 Vento del sud.

4 Forma normalmente in uso nel XVII secolo.

5 Su questa grafia errata che si trascina e prolifera fino ai nostri giorni vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2015/07/05/quale-il-problema-e-che-sei-una-capra-direbbe-vittorio-sgarbi/. Non ho mai incontrato qual’era per qual era nella letteratura del XVII secolo, ragione per la quale penso che molto probabilmente l’errore di scrittura qui è da imputare più al Mavaro che al nostro Epifanio.

6 ruba, sottrae.

7 Forma normalmente in uso nel XVII secolo, giustificata dal fatto che egregio deriva dal latino egrègiu(m), composto da e-=fuori+grex/gregis=gregge. La geminazione della g in egreggio è dovuta proprio al gregge e non grege italiano.

8 Forma normalmente in uso nel XVII secolo.

9 Forma normalmente in uso nel XVII secolo.

10 http://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/12/leruzione-del-vesuvio-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano-con-una-sorpresa-finale/

 

Francesco Porrata Spinola di Galatone e l’eruzione del Vesuvio del 1631

Il busto di San Gregorio Armeno tra i tesori in argento della diocesi di Nardò

di Marcello Gaballo

Oggetto di grande venerazione da parte della città di Nardò è il reliquiario a braccio con la reliquia di San Gregorio, copia di un precedente trafugato negli anni ’80 e poi rifatto nel 1989 dalla Ditta Catello di Napoli

Non da meno è il mezzobusto del Santo protettore della città di Nardò, già restaurato dall’Istituto Centrale del Restauro di Roma nel 1986, che viene portato processionalmente la sera del 19 febbraio tra le vie principali della città, subito dopo il pontificale del vescovo in Cattedrale, accompagnato dalle confraternite cittadini, le Autorità religiose e civili ed un seguito di fedeli che stanno sempre più riscoprendo il culto del santo.

Mercoledì 12 febbraio 2020, in Cattedrale, sarà presentato al pubblico il busto argenteo, egregiamente restaurato ed ultimato nelle settimane scorse, con la presenza degli artefici dell’importante intervento (Mariana Cerfeda e Giuseppe Tritto) e di uno dei più qualificati conoscitori dei manufatti in argento presenti in Puglia, Giovanni Boraccesi, che qualche anno fa scrisse un volume sui tesori argentei della Cattedrale di Nardò, per le edizioni Congedo (Capolavori di oreficeria nella Cattedrale di Nardò, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardo’ e Gallipoli – Nuova Serie – Supplementi V, Congedo, Galatina 2013).

Il santo, nel busto che si presenta, indossa i paramenti vescovili e mentre con la mano sinistra stringe un libro, la palma del martirio e la croce patriarcale, con la destra impartisce la benedizione; sul petto è inserita la reliquia. Nel dito anulare destro è infilato un anello d’argento con smeraldo. E’ merito dello stesso Boraccesi aver individuato in Nicola Alvino, apprezzato argentiere napoletano, l’artefice della preziosa opera.

L’occasione è utile per riproporre quanto già scrissi diversi anni fa nel libro sui Sanfelice a Nardò (Antonio Sanfelice vescovo della diocesi di Nardò. La straordinarietà e la lungimiranza dell’uomo e del pastore attraverso i documenti di archivio, in Antonio e Ferdinando Sanfelice: il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento, a cura di M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Congedo, Galatina 2003), poiché si continuava ad avere incertezza sul prezioso busto settecentesco, allora datato con approssimazione.

Le notizie furono desunte da una serie di atti notarili conservati nell’Archivio di Stato di Lecce, attestando come l’opera fosse stata realizzata a Napoli nel 1717, come si evince pure dall’iscrizione incisa sulla stessa.

A distanza di un anno dalla consegna al clero e alla città di Nardò il busto richiedeva già  un intervento di restauro, a causa dei cedimenti di alcune delle lamine argentee che lo ricoprivano. In un atto del notaio neritino Emanuele Bonvino del 1718 si legge che il mastro argentiere Giovan Battista Ferreri di Roma era stato saldato dall’economo della cattedrale sac. Domenico Grumesi, per conto di Mons. Sanfelice (1707-1736):

Costituito personalmente avanti di noi in testimonio publico il Sig.re Gio: Batt(ist)a Ferrieri della città di Roma, al p(rese)nte in questa Città di Nardò mastro Argentiere, il quale spontaneam(en)te e per ogni miglior via, avanti di noi dichiarò come hoggi p(rede)tto giorno esso Sig. Gio: Batt(ist)a have presentato al Sig. D. Domenico Grumesi economo di questa mensa vescovile qui p(rese)nte una tratta pagabile ad esso da Mons(igno)re Il(ustrissi)mo R(everendissi)mo D. Antonio Sanfelice vescovo di questa Città sotto la data in Napoli li 15 del corrente mese di Giugno in somma di ducati quindici, come dalla suddetta tratta alla quale et havendo esso Sig. Gio: Batta richiesto detto Sig.re D. Dom(eni)co per la consegna e soddisfatione delli suddetti ducati quindici, e conoscendo il medesimo esser cosa giusta e volendo soddisfare la tratta suddetta che può hoggi p(rede)tto giorno esso Sig.re Gio: Batta presentialmente e di contanti avanti di noi numerati di moneta d’argento ricevè et hebbe detti ducati quindici dallo detto Sig.re D. Dom(eni)co p(rese)nte date et numerate di proprio denaro detto Il(ustrissi)mo e R(everendissi)mo Mons(ignor) Vescovo come disse, e sono a saldo, e complimento e fino al pagam(ento) della statua d’Argento del nostro Prò(tettore) S. Gregorio Armeno fatta fare nella Città di Napoli da detto Ill.mo R.mo Sig.re come disse, così d’Argento, metallo , oro, indoratura e manifattura e di qualsi’altra spesa vi fusse occorsa…

Nell’ atto dunque l’argentiere si dichiara soddisfatto della somma avuta, impegnandosi per il futuro di apportarvi ogni restauro, senza nulla pretendere, fatta eccezione per l’argento che gli sarebbe stato fornito per le necessarie riparazioni.

Essendo stato il busto realizzato a spese del Vescovo probabilmente egli ne restava anche proprietario, visto che con altro atto del medesimo notaio, ma del 20 febbraio 1722, il Sanfelice donò alla Cattedrale il nostro busto, il braccio d’ argento di S. Gregorio e quello, anch’ esso argenteo, col dito di S. Francesco di Sales, che tuttora si conserva nello “stipo dei santi” della Cattedrale.

Per amor di completezza occorre dire che tale donazione includeva altre suppellettili preziosissime, come alcuni “reliquiari d’ argento lavorati in Roma”, due “dossali o baldacchini”, un paliotto d’ argento, una cartagloria e la croce tempestata di smeraldi. Quasi tutti questi preziosi ora trovano posto nel Museo Diocesano di Nardò.

De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò

De domo David

Il 9 novembre 2019, nella chiesa di San Giuseppe a Nardò, è stato presentato il volume De Domo David. La confraternita di San Giuseppe Patriarca e la sua chiesa a Nardò. Studi e ricerche a quattro secoli dalla fondazione (1619-2019), Edizioni  Fondazione Terra d’Otranto 2019, 640 pagine, colore, formato A/4, circa 800 illustrazioni, a cura di Marcello Gaballo e Stefania Colafranceschi. Edizione non commerciale

INDICE

Joseph il giusto nei mosaici dell’arco di Santa Maria Maggiore a Roma

Domenico Salamino

 

La Fuga in Egitto. Suo importante significato teologico

Tarcisio Stramare

 

Dal Sogno al Transito: iconografie nella chiesa confraternale di San Giuseppe a Nardò

Stefania Colafranceschi

 

San Giuseppe e la Sacra Famiglia nel fondo antico della Biblioteca Casanatense di Roma

Barbara Mussetto

 

La pala marmorea dei Mantegazza nella chiesa di Santa Maria Assunta in Campomorto di Siziano (Pavia)

Manuela Bertola

 

Iconografie di San Giuseppe negli affreschi delle confraternite dei Battuti in diocesi di Concordia-Pordenone

Roberto Castenetto

 

La basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo e i suoi arazzi

Giovanni Curatola

 

Hierónimo Gracián e il suo Sommario (1597)

Annarosa Dordoni

 

Le confraternite dei falegnami in Romagna

Serena Simoni

 

La confraternita del SS. Crocifisso e S. Giuseppe nella chiesa di San Giuseppe in Cagli (PU)

Giuseppe Aguzzi

 

La confraternita di San Giuseppe dei Falegnami di Todi e la chiesa di San Giuseppe

Filippo Orsini

 

San Giuseppe in due dipinti astigiani di età moderna

Stefano Zecchino

 

La confraternita di San Giuseppe a Borgomanero

Franca Minazzoli

 

Il culto di San Giuseppe nella città di Napoli e un piccolo esempio di devozione: il quadro di Giovanni Sarnelli nell’Arciconfraternita di San Giuseppe dei Nudi

Ugo Di Furia

 

 Ite ad Joseph. San Giuseppe nella statuaria lignea tra Otto e Novecento: alcuni esempi

Francesco Di Palo

 

L’oratorio di San Giuseppe di Isola Dovarese. Una pregevole testimonianza settecentesca

Sonia Tassini

Testimonianze giuseppine nella chiesa di San Vincenzo Martire in Nole (Torino)

Federico Valle

 

L’oratorio di S. Giuseppe di Cortemaggiore (Piacenza)

Annarosa Dordoni

 

San Giuseppe a Chiusa Sclafani (Palermo) tra arte e devozione

Maria Lucia Bondì

 

San Giuseppe nell’arte. Sculture lignee di Francesco e Giuseppe Verzella tra Sette e Ottocento in ambito pugliese e campano

Antonio Faita

 

Memento mori: il Transito di San Giuseppe

Biagio Gamba

 

Storia e tecnica delle immagini devozionali a stampa

Michele Fortunato Damato

 

Dal XVI al XIX secolo, quattro secoli di pizzo su carta

Gianluca Lo Cicero

 

Stampe popolari giuseppine nel museo di Pitrè di Palermo

Eliana Calandra

 

Le confraternite di S. Giuseppe in Puglia tra storia e religiosità popolare

Vincenza Musardo Talò

 

Le Regole della confraternita di San Giuseppe Patriarca di Nardò, un esempio «moderno» del fenomeno confraternale

Marco Carratta

 

Arte e devozione ad Altamura. La cappella di San Giuseppe in cattedrale

Ruggiero Doronzo

 

Alcuni esempi di iconografia giuseppina a Taranto

Nicola Fasano

 

In margine all’iconografia di San Giuseppe: il ciclo pittorico di Girolamo Cenatempo nella cappella del Transito di San Giuseppe a Barletta

Ruggiero Doronzo

 

 Sponsus et custos. Iconografia, culto e devozione per San Giuseppe nell’arco jonico occidentale. Exempla selecta

Domenico L. Giacovell

 

La raffigurazione di San Giuseppe negli argenti pugliesi

Giovanni Boraccesi

 

Esempi di iconografia giuseppina tra Puglia e Campania. Proposte per Gian Domenico Catalano, Giovan Bernardo Azzolino, Giovanni Antonio D’Amato, Giovan Vincenzo Forlì

Marino Caringella

 

Postille iconografiche su Cesare Fracanzano. Alcuni esempi della devozione giuseppina

Ruggiero Doronzo

 

I Teatini e il culto di san Giuseppe a Bitonto

Ruggiero Doronzo

 

Esempi di antiche pitture parietali giuseppine nel leccese

Stefano Cortese

 

La figura di san Giuseppe nella pittura post tridentina in diocesi di Lecce

Valentina Antonucci

 

San Giuseppe nella pittura d’età moderna nelle diocesi di Otranto e Ugento

Stefano Tanisi

 

Da comparsa a protagonista. Giuseppe in alcune opere pittoriche e in cartapesta della diocesi di Nardò-Gallipoli

Nicola Cleopazzo

 

La devozione a san Giuseppe in Parabita (Lecce). Il culto e le raffigurazioni del santo

Giuseppe Fai

 

Integrazioni documentarie e nuove fonti archivistiche per la storia della chiesa e della confraternita di San Giuseppe a Nardò

Marcello Gaballo

 

Esemplificazioni iconografiche giuseppine a Galatone (Lecce)

Antonio Solmona

 

L’altare maggiore della chiesa di San Giuseppe a Nardò

Stefania Colafranceschi

 

Vedute di Nardò nella tela dell’altare maggiore in San Giuseppe a Nardò

Marcello Gaballo

 

Comparazioni strutturali e integrazioni architettoniche settecentesche nella chiesa di San Giuseppe a Nardò

Fabrizio Suppressa

 

L’altorilievo neritino de La Sacra Famiglia in Viaggio nella chiesa di San Giuseppe

Stefania Colafranceschi

Un convegno e un libro per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò

La Confraternita di San Giuseppe di Nardò per commemorare i 400 anni dalla fondazione (1619-2019) ha promosso un convegno di studi incentrato sulla chiesa e il santo titolare, che si terrà nella sua chiesa sabato 9 novembre alle ore 15.30.

Per l’occasione è stato realizzato un volume di carattere interdisciplinare che verrà presentato in coincidenza con l’evento, dal titolo “De Domo David. La confraternita di San Giuseppe Patriarca e la sua chiesa a Nardò. Studi e ricerche a quattro secoli dalla fondazione (1619-2019)”.

 

Il programma prevede, dopo i saluti del Vescovo della Diocesi di Nardò-Gallipoli Mons. Fernando Filograna e del Priore Mino De Benedittis, un primo intervento di p. Alberto Santiago della Congregazione Oblati di San Giuseppe, che presenterà i contenuti del libro, cui seguirà la prof.ssa Stefania Colafranceschi, esperta di iconografia, che illustrerà “L’iconografia di San Giuseppe, dal Sogno al Transito”. Gli altri interventi, moderati dal rettore della chiesa Mons. Giuliano Santantonio, prenderanno in esame tematiche attinenti il santo, con particolare attenzione al ciclo giuseppino e alla sua iconografia, attraverso testimonianze artistiche di Nardò e di altri centri in Italia.

Don Domenico Giacovelli, direttore dell’Ufficio Diocesano Beni Culturali della Diocesi di Castellaneta, si soffermerà in particolare sulla Fuga in Egitto, uno dei temi prevalenti nell’apparato artistico della chiesa neritina, per via del raffinatissimo altorilievo situato al di sopra dell’altare maggiore. Due storici dell’arte –Ruggiero Doronzo e Nicola Cleopazzo– svolgeranno una disamina della produzione figurativa in Puglia e nella diocesi di Nardò-Gallipoli, attestando la profonda devozione e le relative forme rappresentative del “Custode” per eccellenza.

Marcello Gaballo, curatore della pubblicazione insieme alla prof.ssa Colafranceschi, tratterà delle nuove fonti archivistiche, che consentono di inquadrare e comprendere nelle sue articolazioni la storia della Confraternita di San Giuseppe, che è una delle più antiche tra quelle ancora attive a Nardò, e una delle poche intitolate al santo, presenti nella diocesi.

Altri due interventi, dell’architetto Fabrizio Suppressa e di Stefania Colafranceschi, punteranno invece ad illustrare gli aspetti architettonici dell’edificio secentesco, e l’iconografia del suo apparato plastico e pittorico, con particolare riguardo al pregevole dipinto dell’altare maggiore e alla Fuga in altorilievo che svela, per la raffinatezza esecutiva e l’altissima qualità di ispirazione, l’opera di maestranze che qui hanno lasciato un’impronta di rilevante valore stilistico.

L’ingresso è libero, sino ad esaurimento dei posti disponibili.

Brindisi. Santa Maria del Casale e l’affresco di Goffredo I di Charny, il Cavaliere della Sindone

di Marcello Gaballo

Il Salento è una terra ricca di tesori nascosti che attendono ancora di essere svelati e valorizzati. È quindi con grande piacere che riferiamo di una importante scoperta, fatta di recente dal nostro collaboratore Marcello Semeraro, studioso di araldica e sigillografia medievali, nella chiesa di Santa Maria del Casale in Brindisi.

In un corposo articolo che sarà pubblicato sul prossimo numero, di imminente uscita, della qualificata Rivista di storia della Chiesa in Italia, lo studioso oritano analizza e attribuisce una parata di stemmi cavallereschi affrescata sulla parete meridionale del santuario brindisino, rimasta fino ad ora anonima (fig. 1).

Santa Maria del Casale, Charny
fig. 1

 

L’ipotesi avanzata da Marcello Semeraro, supportata da una serie di riscontri storici e araldici, è quella di un affresco votivo commissionato dal cavaliere francese Goffredo I di Charny – considerato il primo possessore dell’attuale Sindone di Torino – e dai suoi compagni d’armi in occasione della tappa brindisina del viaggio di andata o di ritorno dalla crociata di Smirne (figg. seguenti).

 Santa Maria del Casale e l’affresco di Goffredo I di Charny

 Santa Maria del Casale e l’affresco di Goffredo I di Charny

L’esame incrociato dei dati ricavati dalle testimonianze araldiche (stemmari e sigilli medievali) e dalle fonti storiche relative alla crociata smirniota consente, inoltre, all’autore non solo di ricostruire il contesto politico e devozionale della committenza, ma anche di circoscriverne cronologicamente l’esecuzione agli anni 1344-1346, a ulteriore dimostrazione dell’importanza dell’araldica quale scienza documentaria della storia.

Nella sua accurata indagine, alla quale ovviamente si rimanda per maggiori dettagli, lo studioso si dimostra abile nel tenersi alla larga da ogni scivolone nel quale sarebbe stato facile incorrere quando si tratta di Geoffroy de Charny, la cui storia personale è molto spesso mal raccontata in pubblicazioni dedicate principalmente alla Sindone di Torino, che qui rimane opportunamente sullo sfondo, sebbene non manchi chi, fra i sostenitori di una provenienza orientale della reliquia, ipotizza che il cavaliere francese l’abbia trovata proprio a Smirne, attraverso percorsi su cui esiste poca concordia e nessun elemento di certezza.

 Santa Maria del Casale e l’affresco di Goffredo I di Charny

Il contributo di Semeraro – che si avvale, fra l’altro, della collaborazione di Andrea Nicolotti (fra i massimi studiosi della Sindone) e di alcuni fra i maggiori araldisti europei – mette insomma in luce un singolare aspetto della natura storica del Sud Italia in quanto snodo fondamentale della circolazione europea di uomini e idee, e cerniera tra Mediterraneo occidentale e orientale.

Sullo sfondo campeggiano la città di Brindisi, il suo porto e il santuario mariano costiero di Santa Maria del Casale, uno straordinario monumento tutt’altro che provinciale, la cui fortuna si giocò soprattutto nel più ampio contesto della politica euro-mediterranea del Trecento e delle ambizioni, mai realizzate fino in fondo, di conquista dell’Oriente da parte dei sovrani della dinastia angioino-napoletana e dei principi del ramo tarantino.

 Santa Maria del Casale e l’affresco di Goffredo I di Charny

L’auspicio, pertanto, è che questa importante scoperta possa offrire alla ricerca storica sul «cavaliere della Sindone» e sulla chiesa di Santa Maria del Casale un solido terreno per futuri e auspicabili approfondimenti.

A proposito della prima attestazione della lingua volgare a Nardò

Si evidenzia un saggio scritto dal prof. Vito Luigi  Castrignano dell’Università del Salento, dal titolo °A proposito di un’epigrafe salentina in volgare (Nardò, entro il 1456)”, pubblicato nella prestigiosa REVUE DE LINGUISTIQUE ROMANE, edita dalla SOCIÉTÉ DE LINGUISTIQUE ROMANE, volume 80, Strasburgo 2016, concernente l’iscrizione in volgare neritino che si legge in cattedrale, nella navata sinistra, sotto l’affresco della metà del sec. XV e raffigurante San Nicola, la Madonna col Bambino e Santa Maria Maddalena orante.

Inserita in un cartiglio, l’iscrizione, a detta del Professore “con qualche cautela, può essere considerata la prima attestazione conosciuta del volgare a Nardò”.

2016_A_proposito_di_un_epigrafe_salenti

 

Sul volume in cui è comparso lo studio vedi qui:

Sancta Maria de Nerito. Arte e devozione nella Cattedrale di Nardò (1413-2013)

Il testamento di Nicola Massa, barone di Collepasso e Neviano, a favore della chiesa dell’Incoronata di Nardò ed altri conventi del Salento

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Marcello Gaballo – Armando Polito, Il testamento di Nicola Massa, barone di Collepasso e Neviano, a favore della chiesa dell’Incoronata di Nardò ed altri conventi del Salento

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 213-234

 

ITALIANO

 Il contributo evidenzia le peripezie di Anna Massa Capece, figlia del barone Nicola Massa di Nardò e di Beatrice Capece, ormai prossima al matrimonio con il duca di Lizzano Ottavio Clodinio. Questi, già reo di offese alla persona, alla reputazione ed ai beni del futuro suocero, mando dei sicari per ucciderlo, ma l’agguato fallì. La reazione di Nicola, essendo la figlia ancora intenzionata a convolare alle programmate nozze, fu immediata e drastica.

 

ENGLISH

This input highlights the vicissitudes of Anna Capece, daughter of the baron Nicola Massa of Nardò and Beatrice Capece, now closet o marriage with the duke of Lizzano Ottavio Clodinio. This one, already guilty of offenses to the person, reputation and property of his future father-in-law, sent assassins to kill him, but the ambush failed. Nicola’s reaction, being the daughter still intent on getting married in the planned wedding, was immediate and drastic.

 

Keyword

Marcello Gaballo, Armando Polito, Nicola Massa, Chiesa Incoronata

Libri| La chiesa dei SS. Medici Cosma e Damiano a Nardò

“I Lions per la cultura”

Il libro che dà il via al restauro di un gioiello neretino

La Chiesa dei SS. Medici Cosma e Damiano

 

Un tempo, non c’era casa a Nardò in cui non ci fosse un’immagine dei SS. Medici Cosma e Damiano, venerati nella chiesa omonima a loro dedicata, situata sulla strada che da Nardò porta a Lecce,, risalente agli inizi del Quattrocento. Era una originaria cappella contenente una icona della Vergine col Bambino che sorgeva su “loco Memore de li Iudei”, cioè un cimitero ebraico, situato, come di norma, fuori dalle mura urbiche, presso corsi o depositi d’acqua. Fatto questo che giustifica l’antico nome della Chiesa di S. Maria da Ponte, per un ponte a tre arcate ricostruito nel 1595 sul vicino torrente Asso, le cui acque, ancora oggi, vi fluiscono accanto.

Eppure sfugge spesso alla vista di chi giunge a Nardò dal capoluogo, questo “notevole esempio di architettura tardo rinascimentale salentina”.

Il Lions Club Nardò, in collaborazione con la Banca Generali, ha sostenuto la pubblicazione del pregevole volume, edito da Mario Congedo e curato dal Dott. Marcello Gaballo, con testi dello stesso, di Fabrizio Suppressa e Domenico Ble, in cui le foto (di Lino Rosponi e Stefano Santoro) e le ricostruzioni di una storia lunga circa sette secoli testimoniano, attraverso le decorazioni floreali, i putti, gli amorini, due dei quali sorreggono un cartiglio con la dedicazione alla Madonna delle Grazie,, la cifra stilistica dell’edificio, che nonostante i rifacimenti nei secoli, ha conservato i codici di appartenenza al circuito artistico che va da S. Caterina di Galatina alla Chiesa del Carmine di Nardò e alle relative maestranze in esse operanti.

E’ un segnale d’allarme che il Lions Club Nardò intende dare in aiuto al restauro della Chiesa a difesa del patrimonio storico-artistico-culturale della propria città, affinché esso non cada nell’oblio, nell’indifferenza e nell’incuria, cancellando la memoria della propria identità.

Il volume, la cui prefazione è stata curata dalla Presidente del Club, Maria Rosaria Manieri, in un certo numero di copie, sarà a disposizione degli intervenuti, nella serata della presentazione, il 17 febbraio 2019, nella Chiesa dei SS. Medici, alle ore 18.00.

Il ricavato della vendita sarà destinato alla nostra Fondazione , la LCIF – We serve.

 

Antonietta Orrico – Officer Comunicazione LC Nardò

Le costruzioni a secco del Salento, patrimonio dell’umanità. Se ne discute il 13 a Nardò

Dopo il rinvio dello scorso 4 gennaio a causa delle avverse condizioni metereologiche viene rinnovato l’appuntamento voluto dalla Fondazione Terra d’Otranto, con il patrocinio della Città di Nardò, che avrà per tema “Le costruzioni a secco del Salento, testimoni del nostro sentire più intimo e del nostro passato, patrimonio dell’umanità”.

L’incontro – dibattito avrà inizio sempre alle 19.30, nella chiesa di Santa Teresa a Nardò, su Corso Garibaldi.

Confermate le presenze di Cristian Casili, agronomo e consigliere regionale, di Don Francesco Marulli, Direttore dell’Ufficio Diocesano per la Pastorale sociale e il lavoro, di Mino Natalizio, assessore all’Ambiente del Comune di Nardò, di Fabrizio Suppressa, architetto, e di Pier Paolo Tarsi, docente nei Licei.

La novità, rispetto a quanto già pubblicizzato, è la partecipazione di Glauco Teofilato, che sarà portavoce per gli studi condotti da suo padre Cesare sulle Specchie salentine, testimonianze delle epoche primitive che corrono tra l’Età della pietra e quella dei metalli, che si trovano nell’archivio di materiale edito ed inedito che lo studioso ha ereditato. Modera Marcello Gaballo, presidente Fondazione Terra d’Otranto.

Nel corso della serata è prevista la proiezione di numerose slides, partendo dai monumenti megalitici particolari di Terra d’Otranto, sino alle costruzioni più moderne con le pietre informi che i nostri contadini aggregavano per liberare dai sassi l’area dei loro lavori agricoli.

Dizionarietto etimologico salentino sulle malattie e stati parafisiologici della pelle, con alcune indicazioni terapeutiche presso il popolo di Nardò (3/3: OCCA ARDUTA-UECCHIU TI PESCE)

di Marcello Gaballo e Armando Polito

OCCA ARDÚTA Stomatite. Occa è dal latino bucca(m)=guancia, poi bocca, con aferesi di b– e passaggio –u->-o-; ardùta è participio passato di ardìre=ardere, dal latino ardère; la voce dialettale, a parte il passaggio –ì->-è- si è mantenuta più fedele, per quanto riguarda l’accento, alla voce originaria latina più dell’italiano àrdere. Vedi anche mpoddhe an bocca.

OLA Nevo congenito, voglia. La variante del Leccese (Aradeo e Cutrofiano) cula consente agevolmente di individuare l’etimo nel latino gula(m)=gola e le varianti vola del Brindisino (Brindisi, Mesagne, Ceglie Messapico, Oria, Ostuni) e vula del Leccese (Alessano, Lucugnano, Martano, Patù, Ruffano, Tiggiano e Tricase) attestano la forma intermedia da cui, per aferesi di v– è nata ola. Vale la pena ricordare che secondo la credenza popolare, la ola (di vino, di caffé, etc. etc.) era la conseguenza della relativa voglia, rimasta insoddisfatta, della gestante. Anche se la scienza ufficiale ha sempre riso di questa circostanza, il fenomeno non è inquadrabile in quella sfera indistinta dei rapporti tra soma e psiche che è alla base delle cosiddette malattie psicosomatiche? Se è così, c’è da aspettarsi una drastica diminuzione del verificarsi del fenomeno, così come è avvenuto, ormai da tempo fino alla totale scomparsa, delle tarantolate?

Naevus cerasus (voglia di ciliegia) e Naevus araneus (voglia di ragno). Da William James Erasmus Wilson, Portraits of diseases of the skin, op. cit. Due esempi, di nevi dovuti, secondo la ricordata credenza popolare il primo ad una voglia alimentare, il secondo alla puntura di un ragno.

 

PANERÍZZU Panereccio o patereccio. Dal basso latino panarìtiu(m), a sua volta dal classico paronýchia (o paronýchia)  greco paronuchìa composto da parà=presso e onux=unghia. Il passaggio dell’originaria –r– greca ad –n– nella voce del basso latino potrebbe essere l’indizio di un incrocio antichissimo con pane, la cui conferma potrebbe essere ravvisata nella terapia che prevedeva, oltre agli empiastri di foglie di malva fresche o secche tenuti in loco per almeno un’ora, anche l’applicazione di pane bagnato.

PANNA Cloasma gravidico. La voce corrisponde all’italiano panna nel significato traslato di pellicola, da panno, perché copre il latte come un panno, che, a sua volta è dal latino pannu(m).

PELLE SCARDE SCARDE Psoriasi. Scarda nel dialetto neretino indica la squama del pesce ed è dal germanico skarda=spaccatura. Per la geminazione nella locuzione del plurale di scarda vedi mpoddhe mpoddhe.

Da Robert Willan e Thomas Bateman, Delineations of cutaneous diseases, op. cit.

 

PIÁCA ‘MBIRMINÓSA Piaga infetta. ‘Mbirminòsa corrisponde all’italiano verminòsa [dal latino verminòsu(m)=corrotto, dal latino tardo vèrmine(m), dal classico vermis] con aggiunta in testa della preposizione in (che ha poi subito l’aferesi di i-) e passaggio v>b, il che ha comportato pure  il passaggio n>m.  

PITÍTA Pipita. Più fedele della voce italiana nell’etimo, che è il latino pituìta(m).  

PITUCCHI Pediculosi del capo. Il plurale del parassita per indicare per sineddoche (parte per il tutto)  l’inconveniente; come l’italiano pidocchio, dal latino tardo pedùculum, diminutivo del classico pedis=pidocchio.

PRUTICÉDDHU Gelone; la voce è una forma diminutiva da prutìre, corrrispondente all’italiano prùdere, da un latino *prùdere, dal classico prurìre. Da notare come la voce neretina appare come un incrocio del classico prurìre, del quale ha conservato l’accento, e di* prùdere, del quale ha assunto la dentale –d– (passata poi a –t-) al posto della –r– presente nella voce classica.  Terapia: immersione della parte interessata nell’ acqua di risulta dei rrupìni (lupini) e della rrupinèlla (lupinella) o in quella di mare; qualcuno rimediava pure bagnando con la propria urina o applicandovi le foglie bollite della sòrula (sorbo) o della lazzalòra (lazzeruolo) oppure strofinandovi le foglie del chiàpparu (cappero) raccolte con la mano sinistra (!).

PRUTÍTU Prurito. Participio passato sostantivato di prutìre, per il quale vedi pruticèddhu.

PUÉRRU Verruca. Come l’italiano porro, dal latino porru(m) di origine preindoeuropea, che, però, indicava solo l’ortaggio. Terapia: si era soliti ungere la verruca col latte ti fica (lattice di fico) ricavato dal frutto non maturo o dalle foglie o  applicarvici una buccia di pomodoro, che si teneva in loco per due o tre giorni con apposita fasciatura; chi aveva più stomaco vi strofinava una cozza nuta (Tandonia Sowerby, Férussac, 1823),  specie di lumaca senza guscio.

Da Max Leidesdorf, Lehrbuch der psychischen Kraukheiten, F. Enke, Erlangen, 1865

 

PUNGITÓRA Puntura di ape o di vespa. Stesso etimo dell’obsoleta voce italiana pungitura, che è da pungere, a sua volta dal latino pùngere. Terapia: prima di tutto estrazione del pungiglione, poi strofinamento della parte con uno spicchio d’aglio o applicazione di  un impasto formato da terra rossa e saliva.

RRANFATÚRA Graffio da unghia. Da rranfàre, a sua volta da ranfa=grinfia, che trova il corrispondente italiano nella voce di basso uso ranfia (zampa artigliata di un animale), dal longobardo *rampf.

(R)RAPPULISCIAMIÉNTU Atrofia cutanea senile. Da rappulisciàre, forma verbale incoativa con infisso –isc– da ràppulu=ruga, diminutivo dell’osoleto italiano rappa=ruga, grinza, a sua volta  dal gotico *rappa=rogna.

RASCIÚLU Orzaiolo. La voce italiana è dal latino tardo hordèolu(m), diminutivo del classico hòrdeum=orzo, per la forma simile a un chicco d’orzo, forse con influsso del tardo varìola=vaiuolo; la voce neretina ha seguito la seguente trafila: hordèolu(m)>*horadèolu(m) (epentesi di –a-)>*radèolu(m) (aferesi di ho-) *radìolu(m) (passaggio –e->-i-)>*radjòlu(m)(passaggio –i->j– e diastole)>*rasciòl(um) (passaggio –dj->-sci-)>rasciùlu (passaggio –o>-u-).

RIU Escoriazione in cui il sangue, coagulandosi, ha già formato la crosta. Per il Rohlfs corrisponde all’italiano letterario rio=malvagio, sfavorevole e ha, naturalmente la stessa etimologia: dal latino reu(m)=colpevole. Appare più probabile, tuttavia, che derivi dal latino rivu(m)=ruscello (dal verbo greco reo=scorrere), pur con riferimento alla fase della fuoruscita del sangue.

ROSSA Rosolia. L’uso di un aggettivo in forma sostantivata legato al sintomo più appariscente della malattia conferisce alla voce quel carattere allusivo che in italiano, per esempio, c’é in la bionda=la birra e in le bionde=le sigarette.

Da Robert Willan e Thomas Bateman, Delineations of cutaneous diseases, op. cit.
Da Robert Willan e Thomas Bateman, Delineations of cutaneous diseases, op. cit.

 

Orticaria, scabbia, scarlattina, rosolia; da Friedrich Eduard Bilz, La nouvelle médication naturelle, Bilz, Parigi, 1898

 

(R)RUSSICAMIÉNTU Eritema da calore. Da rrussicàre, forma verbale frequentativa, con infisso –ic-,  da russu=rosso, dal latino russu(m). Vedi anche mpiccicacchiamièntu.

RUGNA Scabbia umana. Come il corrispondente italiano rogna, da un latino  *rònea(m), variante di arànea= ragnatela. Era difusa la convinzione che la malattia potesse essere causata per aver mangiato troppi rrupìni (lupini). Terapia: unguento di olio d’oliva e trattamento con lo zolfo abitualmente usato per irrorare la vigna.

Da Thomas Bateman, Delineations of cutaneous diseases, Longman, Hurst, Rees, Orme and Brown, Londra, 1817

 

SCANDÍA Rossore che appare all’improvviso in volto; la voce è da s– (dal latino ex=fuori) e dal verbo candère=essere infuocato.

SCRASCIATÚRA Graffio. Da scràscia=rovo, secondo il Rohlfs  ”da una base preromanica *scaràgia o *scràja”. In realtà va detto che scaragia comparirebbe in un testo latino (traduzione di un originale etrusco)  che Curzio Inghirami dice di avere rinvenuto a Scornello presso Volterra il 9 ottobre 1635 (Etruscarum antiquitatum fragmenta, Francoforte, 1637, pag. 177): Publicam pecuniam, aut sacram si quis abstulerit scaragia morte damnabitur  [Se qualcuno avrà sottratto denaro pubblico o sacro sia condannato a morte col rovo (?)]. Il punto interrogativo posto accanto a rovo in  traduzione era doveroso e perchè non siamo a conoscenza di simile supplizio nel mondo etrusco e perché il testo di cui ci dà notizia l’Inghirami è andato perduto, il che rende impossibile anche datarlo. Nella migliore delle ipotesi potrebbe il traduttore dall’etrusco aver operato una semplice trascrizione in caratteri latini (anche perché si tratta di una locuzione tecnica) e perciò scaragia potrebbe essere di origine etrusca. Poi, come se non bastasse, non è da negare assolutamente, vista la congruenza semantica e fonetica, un rapporto con l’albanese škjer o škjir=strappare (G. Rohlfs, Nuovi scavi linguistici in Magna Grecia, Palermo, 1972, pag. 139. Per finire, la nostra voce è apparsa, pur nella variante del caso, in altro distretto territoriale: scraja=scheggia (Giuseppe Cremonese, Vocabolario del dialetto agnonese, Bastone, Agnone, 1893, pag. 109; Agnona è una frazione di Carro, comune in provincia di La Spezia). Per il graffio procurato da un’unghia vedi rranfatùra. 

SCUCCULÁTU Affetto da alopecia. Da s– (dal latino ex) estrattiva e còccalu=cranio, dal greco kòkkalos=pinolo, diminutivo di kokkos=chicco, dal quale è il latino coccu(m)=nocciolo del frutto.

 

Ferdinand von Hebra, Atlas der Hautkrankheiten, Imprimerie impériale, 1858-1866, Vienna, 1858-1866

 

SENGA AN FACCE Cicatrice del volto. Senga è deverbale da signàre (dal latino signàre, da signum=segno), con metatesi –gn->-ng– forse per influsso del francese seing=scrittura.

SÉRCHIE Ragadi del seno. Secondo il Rohlfs sèrchia è dal latino saetula(m)=setola; secondo il Garrisi “forse da un incrocio tra i latini saetula e siliqua”. Considerando che silìqua è il baccello dei legumi non si capisce cosa c’entrino quest’ultimo e il precedente saetula. Si propone, perciò, la derivazione deverbale dal latino sarculàre=sarchiare (le ragadi possono essere ben considerate come una sarchiatura del capezzolo). Le sèrchie erano quasi sempre una controindicazione all’ allattamento per il vivo dolore che suscitavano nella donna con la suzione. Si cercava di farle cicatrizzare con il solito olio di oliva o con appositi medicinali. Qualcuno era solito trattare la parte con acqua in cui erano stati bolliti dei semi di mela cotogna.

(S)SANGULITTAMIÉNTU Esito di ferite multiple da taglio. Da ssangulittàre, da *sangulentàre, a sua volta dal latino medioevale sangulèntus, variante di sanguinolèntus; trafila: *sangulentàre>*sangulettàre (assimilazione –nt->-tt-)>*sangulittàre (passaggio –e->-i-)>ssangulittàre (raddoppiamento espressivo di s-).

Terapia: strofinamento sulla ferita della corteccia rossa del tralcio di vite o del baccello della fava verde, il succo di uva (meglio se acerba),  un pizzico di cenere, il velo della cipolla, la linfa del ficodindia, lu llippu1 ti lu lampasciòne (la vischiosità del muscari comosum) o la polpa fresca della pastanàca (carota); piu’ frequente era l’uso di porre la buccia del pomodoro o qualche goccia di aceto o, addirittura, la lingatera (ragnatela), di cui erano ben note le qualita’ emostatiche, mentre gli anziani esperti ricorrevano al seme pulvurulento della irsìcula2, un fungo bianco rotondeggiante, che si dice avesse la capacità di bloccare l’ emorragia e di far guarire piu’ in fretta la ferita;  altra pianta adoperata per bloccare le emorragie era l’erva ti tàgghiu (vulneraria).

SPINNATU Affetto da calvizie. Corrisponde all’italiano spennato, da spennàre, a sua volta da s– estrattiva (dal latino ex=lontano da) e penna [dal latino pinna(m)]. Terapia (particolarmente usata per la caduta stagionale dei capelli): strofinamento sul cuoio capelluto di alcune foglie di ortica cantarìnula (ortica) appena raccolta o lu ‘mpiastru (l’empiastro) ottenuto facendo bollire per dieci minuti foglie e steli della pianta; Si poteva anche usare l’ infuso di bucce di marange (arance amare), ottenuto facendole bollire con la lisciva, con cui si risciacquavano poi i capelli.

STAMPE STAMPE Pitiriasi. Da stampa con la stessa etimologia della voce italiana (da stampàre, a sua volta dal franco *stampon=pestare). Sulla geminazione della voce di base vedi mpoddhe mpoddhe.

Da Thomas Bateman, Delineations … op. cit.

 

TIGNA Tigna. Come si vede, è l’unica voce che coincide con la forma italiana, anche perchè la fonetica d’origine [latino tìnea(m)=tarlo] non lasciava scampo.

UÉCCHIU TI PESCE Tipo di callo caratterizzato da un’ipercheratosi centrale e una zona circostante di eritema che trae il nome dalla somiglianza con l’occhio del pesce. Terapia: uno spicchio d’aglio pestato e tenuto fermo sul callo con un cerotto per due o tre giorni; qualcuno, prima di applicarlo, lo metteva a bagno nell’ olio di oliva caldo.

__________

1 Dal latino lippu(m)=cisposità, connesso con il greco λίπος (lipos)=grasso; lampascione è dal latino medioevale lampagione(m), attestato anche nella variante lampadione(m).

2 Stesso etimo di issica (vedi), di cui è diminutivo; il fungo ha l’aspetto di un piccolo otre; trafila per irsìcula, partendo dal latino : vesica>vesìcula (diminutivo del precedente)>*vessìcula>*essìcula>ersìcula (dissimilazione)>irsìcula.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/04/dizionarietto-etimologico-salentino-sulle-malattie-e-stati-parafisiologici-della-pelle-con-alcune-indicazioni-terapeutiche-presso-il-popolo-di-nardo-1-3-bruscatura-fuecu-ti-santantoni/

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/09/dizionarietto-etimologico-salentino-sulle-malattie-e-stati-parafisiologici-della-pelle-con-alcune-indicazioni-terapeutiche-presso-il-popolo-di-nardo-2-3-gnuricamientu-nfucamientu-tii-facce/

 

 

Dizionarietto etimologico salentino sulle malattie e stati parafisiologici della pelle, con alcune indicazioni terapeutiche presso il popolo di Nardò (2/3: GNURICAMIENTU-‘NFUCAMIENTU TII FACCE)

di Marcello Gaballo e Armando Polito

GNURICAMIÉNTU Cianosi. GnuricamIèntu è da gnuricàre=annerire, a sua volta dal latino nigricàre=esser nero, da niger=fosco  

GNURICAMIÉNTU TI SOLE Abbronzatura ed elastosi solare. Per l’etimo di gnuricamièntu vedi il lemma precedente. Terapia: empiastro di prezzemolo. Si coglie l’occasione per ricordare che a natura, fra i tanti rimedi, fornisce anche quelli utili per la pulizia delle pelle, che dai nostri avi la si voleva bianca e lucida, comu queddha ti li signure, ritenendo la pelle scura e abbronzata un segno di popolanità e propria delle contadine. Le nostre nonne raccoglievano la linfa della vigna ancora verde in un vasetto ben pulito, per spalmarlo poi, in modiche quantità, sulle macchie della pelle esposta a lungo al sole cocente; I chicchi ancora verdi dell’ orzo, stemperati nel latte, danno un liquido lattiginoso che veniva utilizzato per togliere le impurita’ delle pelle, rendendola cosi’ piu’ lucente; la lanuggine che riveste la parte interna del baccello delle fave verdi veniva sfregata ogni sera sul viso per ravvivarne il colorito e qualcuno otteneva lo stesso risultato col succo fresco delle minuncèddhe (cocomeri). Ancora: la farina di fave e quattro semi freddi mischiati col latte tiepido rendevano piu’ chiara la pelle, togliendo quelle antiestetiche macchie che si formano dopo l’ esposizione al sole; un ultimo cosmetico si otteneva nel seguente modo: si raccoglieva ed essiccava la pianta della malva in tutte le sue parti e si faceva bollire col decotto di lengua ti cane o lengua ti pècura (piantaggine); col liquido ottenuto si detergeva la pelle macchiata dal sole, che così diventava piu’ chiara e lucida.

GNURICATÚRA Ecchimosi. Per l’etimo vedi gnuricamièntu. Terapia: empiastro di prezzemolo.

INTISCIAMIÉNTU Eczema da freddo. Da intisciàre che corrisponde, con slittamento semantico attivo (screpolare col vento) all’italiano di basso uso venteggiare=tirare vento. Terapia: frizioni serotine con olio d’oliva e cera.

ISSÍCA Vescica, classico esito dei sistemi correttivi di una volta che prevedevano l’uso della curèscia (corregia, cintura dei pantaloni) o, peggio ancora, della ugghina (nerbo di bue), forma aggettivale dal latino medioevale bùbula=bue. Issica, rispetto al corrispondente italiano vescica presenta maggiore fedeltà fonetica, a parte la geminazione di –s-, al latino vesica.

MBRIÁCULA il Rohlfs registra la voce per Squinzano (Le) e Lizzano (Ta) col significato di “infiammazione, gonfiore del dito, giradito”, per San Cesario di Lecce (Le) con quello di neo, voglia e, nel plurale mbriàcule, probabilmente per Brindisi, come testimonianza letteraria tratta dal Libro di Sydrac (codice del XV secolo) nel significato di “vescicole sulla pelle, così dette perché curate dal popolo con zaffi imbevuti di vino”; lo studioso, inoltre, invita ad un confronto “con il calabrese mbriàca, mbriàcula=giradito, dal latino tardo ebriàcus=ubriaco”. Va aggiunto che mbriàcula è, perciò, diminutivo femminile di mbriàcu=ubriaco, corrispondente all’italiano di basso uso imbriàco, che è dal citato latino ebriàcus attraverso la trafila ebriàcu(m)>*ebbriacu(m) (geminazione di –r-)>*embriàcu(m) (dissimilazione –bb>-mb-)>imbriàco (passaggio e->i– e regolarizzazione della desinenza); da quest’ultimo, poi, per aferesi di i– è nato il neretino mbriàcu.

MILUNGIÁNA Bernoccolo. Corrisponde all’italiano melanzana (dall’arabo badinjan, con influsso di mela), in palese uso metaforico. Terapia: simile a quella della cilona (vedi).

MINNÉDDHA Fibroma pendulo. Diminutivo di menna=mammella, voce per la quale il Rohlfs invita ad un confronto “con il siciliano e calabrese minna” (variante, fra l’altro, presente nel Leccese),“ di origine onomatopeica”. Non è da escludere, invece, il legame con la radice indoeuropea men– collegata all’idea di sporgenza, alla base, fra gli altri  del latino mèntula=pene (da cui il salentino mènchia) e adminìculum= puntello (da cui il neritino minnìcculu=capezzolo). Terapia: asportazione domestica che ne prevedeva la recisione tramite rapido strozzamento del peduncolo utilizzando un filo di cotone molto resistente.

 ‘MPICICACCHIAMIÉNTU Eritema da calore. Da ‘mpicicacchiàre, forma semanticamente riduttiva (come, in italiano, bruciacchiare da bruciare) di ‘mpicicàre=rendere nero come la pece, sporcare, composto da in=dentro e *picicàre, verbo denominale con infisso iterativo –ic– da pice (a Nardò pece), dal latino pix=pece, a sua volta dal greco pissa con lo stesso significato.

MPODDHA Bolla più o meno piccola sulla pelle, provocata dalla puntura di un insetto o dallo sfregamento ripetuto della mano contro un oggetto (chi prova ad usare per la prima volta una zappa per un certo periodo di tempo inevitabilmente incorrerà in questo inconveniente). Il Rohlfs non propone nessun etimo, ma c’è da credere che lo abbia fatto per l’assoluta corrispondenza all’italiano ampolla [dal latino ampùlla(m), diminutivo di àmphora, a sua volta dal greco amforèus=anfora, voce composta da amfì=da ambo le parti, intorno e fero=porto (non sapremmo decidere se con riferimento alla sua natura di contenitore privilegiato nello spostamento di merci o alle due anse)]. Da notare nella voce neretina la caduta di a– per aferesi (in tal caso andrebbe più correttamente scritta ‘mpoddha) o più probabilmente per deglutazione perchè scambiata come componente di articolo (*l’ampoddha>la mpoddha>mpoddha).

MPODDHE AN BOCCA Stomatite. Per mpoddhe vedi mpoddha. E’ usata anche la locuzione occa ardùta (vedi).

MPODDHE MPODDHE Pemfigo. Vedi mpoddha; da notare come la geminazione della voce serva ad indicare la pluralità di elementi che compongono il fenomeno, come succede in italiano negli aggettivi per una delle formazioni del superlativo (esempio: lento lento).

‘MPURAGNAMIÉNTU Follicolite purulenta. Da mpuragnìre, da un latino *impuraneàre (formato da in=dentro e *puràneus=purulento, dal classico pus/puris=marciume), da cui *impuragnàre che, a sua volta, con aferesi di i– e cambio di coniugazione con passaggio –a->-i– attraverso una forma intermedia *mpuragnère, ha dato ‘mpuragnìre.

MURÍDDHU Morbillo. Dal latino medioevale morbìllu(m)=piccolo morbo, diminutivo del classico morbus=morbo, con sincope di –b– attraverso una forma intermedia murvìddhu (attestata ad Aradeo).

Esantemi: rosolia, morbillo, scarlattina, erisipela; da Pierre François Olive Rayer, Traité des maladies de la peau, Baillière, Parigi, 1835

 

MURTICÉDDHA Pelle d’oca. Diminutivo di morte (come botticella da botte). La voce era usata per lo più nell’espressione è ppassata la murticèddha (alla lettera è passata la piccola morte) ad indicare l’effetto (la pelle d’oca) di uno spavento non proprio mortale ma nemmeno tanto leggero. Il neretino per indicare la stessa senzazione usa anche la locuzione sta mmi rrìzzicanu li carni=mi si stanno arricciando le carni; rrizzicàre è da rizzu=riccio, probabilmente dal nome dell’animale terrestre o marino, che è dal latino errìciu(m), a sua volta da er/eris.

NECA Candidosi orale o stomatite da Candida. Da nèvica, con sincope di –vi-.

NEU Nevo o neo. Come l’italiano nevo, dal latino naevu(m), con sincope di –v– intervocalica nella voce dialettale e nella corrispondente italiana neo.   

‘NFUCAMIÉNTU TI FACCE Rossore cutaneo da ipertensione. ‘Nfucamièntu è da ‘nfucare, a sua volta da un latino *infocàre (con sostituzione, rispetto al classico offocàre, di ob con in=dentro), con aferesi di i– e passaggio –o->-u-.

(CONTINUA)

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/04/dizionarietto-etimologico-salentino-sulle-malattie-e-stati-parafisiologici-della-pelle-con-alcune-indicazioni-terapeutiche-presso-il-popolo-di-nardo-1-3-bruscatura-fuecu-ti-santantoni/

 

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/15/dizionarietto-etimologico-salentino-sulle-malattie-e-stati-parafisiologici-della-pelle-con-alcune-indicazioni-terapeutiche-presso-il-popolo-di-nardo-3-3-occa-arduta-uecchiu-ti-pesce/

Dizionarietto etimologico salentino sulle malattie e stati parafisiologici della pelle, con alcune indicazioni terapeutiche presso il popolo di Nardò (1/3: BRUSCATURA-FUECU TI SANT’ANTONI)*

di Marcello Gaballo e Armando Polito

* Estratto da Il delfino e la mezzaluna, Fondazione Terra d’Otrnto IV nn. 4-5, agosto 2016, pp. 179-193

Da Jean Louis Alibert, Clinique de l’hôpital Saint-Louis ou traité complet des maladies de la peau, Cormon et Blanc, Paris, 1833

 

Premessa

Sono state raccolte le voci e le locuzioni dialettali riferentisi, direttamente o indirettamente, all’argomento indicato nel titolo e, dopo aver a lungo riflettuto, si è deciso, anziché inserirle in una struttura narrativa certamente più accattivante ma più dispersiva e certamente non adatta alla consultazione tipica di un dizionario,  di riportarle in ordine alfabetico unendo ad ogni lemma il corrispondente nome scientifico e/o comune e le relative osservazioni di natura filologica1 e altra. Il che non impedirà al lettore di cogliervi, anche attraverso le terapie anticamente praticate il ricordo della civiltà contadina e dello stretto contatto, diremmo partecipe, affettuoso, diretto ma pieno di rispetto, in qualche caso poetico, nella varietà delle ardite metafore, tra l’uomo e la natura, cosa che raramente è dato di ravvisare nella coeva terminologia scientifica. Di quella dei nostri giorni (pur con il dovuto rispetto per gli evidenti e perciò innegabili, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, progressi della medicina ufficiale) si preferisce non dire…

BRUSCATÚRA Eczema o dermatite.  Da bruscàre, voce per la quale il Rohlfs propone solo un confronto “col toscano bruscàre=abbrustolire”, voce che è da un latino *brusicàre, da *brusiàre probabilmente di origine preindoeuropea; tuttavia, una certa incongruenza semantica (la dermatite non si spinge, di regola, fino all’”abbrustolimento” della pelle) induce a ipotizzare l’etimo da brusca (spazzola per strigliare il cavallo), dal latino tardo bruscu(m)=pungitopo, a sua volta dal classico ruscus. Il toponimo Brusca, indicante una masseria in territorio di Nardò, potrebbe avere la stessa etimologia, connessa con la diffusione in zona dell’arbusto prima indicato, utilizzato per la strigliatura dei cavalli.

Eczema rubrum, da Robert Willan e Thomas Bateman, Delineations of cutaneous diseases, Longman, Londra, 1817

 

BRUSCIATÚRA Ustione. Corrisponde all’italiano bruciatura, da bruciare e questo da un latino brusiàre, probabilmente di origine preindoeuropea. Terapia: applicazione della polpa della patata cruda (l’amido del tubero procurava sollievo) o di un empiastro di farina e vino, o di un unguento di olio di oliva e zolfo in polvere abitualmente usato per la vigna, o col sapone fatto in casa, o con un balsamo formato da cera gialla, olio e tuorlo d’uovo; qualcuno bagnava la parte con l’acqua di calce, cioè l’acqua in cui era sedimentata la calce viva. Ancora oggi qualcuno usa spalmare del dentifricio (magari alla menta, per avere la sensazione di freschezza).

Opération après brûlure de la face et du cou (Operazione dopo l’ustione della faccia e del collo), da London medical gazette, Longman, Rees, Orme, Londra, 1848

 

CADDHU Ipercheratosi o callosità. Come l’italiano callo, dal latino callu(m). Per un particolare tipo di callo e per la terapia in generale vedi uècchiu ti pesce.

CANIGGHIÓLA Forfora. Diminutivo di canìgghia=crusca, da un latino *canìlia=cose da cani, neutro plurale sostantivato da *canìlis, dal classico canis=cane; evidente la somiglianza tra la forfora e la crusca, già evidente per i latini per i quali furfur (per lo più usato al plurale) significava forfora oppure crusca.

CARÁNDULA Linfadenite. Deformazione della voce italiana di basso uso glàndula [dal latino glàndula(m), da glans/glandis=ghianda] che è la madre di ghiàndola.Trafila: glàndula>*galàndula (epentesi di –a– come in cancarèna rispetto all’italiano cancrena)>caràndula (passaggi g->c– e l->-r-).

CESTA Cisti. Come la voce italiana, dal latino medioevale cystis/cýstidis=vescica, a sua volta dal greco kustis; in più la terminazione in –a dovuta, più che a regolarizzazione della desinenza, ad un probabile incrocio con cesta [dal latino cista(m), a sua volta dal greco kiste)]; dopo l’incrocio, per evitare confusioni, per indicare il cesto il dialetto ha usato solo cistu [dal latino medioevale cistu(m), dal classico già citato cista], mentre l’italiano ha sviluppato cesta e cesto.

CILÓNA Lipoma, tartaruga. Il corrispondente italiano formale sembrerebbe essere chelone (tartaruga marina), dal latino scientifico Chelòne, dal greco chelòne=tartaruga, da x¡luw (chèlus), con lo stesso significato, forse connesso con kele=tumore. tutto ciò induce a pensare che la voce salentina sia direttamente dal greco chelòne, con  influsso di kele per quanto riguarda l’assenza di aspirazione (cilòna e non chilòna) e, forse, per il significato di lipoma che potrebbe essere stato traslato solo parzialmente per metafora da quello di tartaruga. Terapia: contenimento mediante una moneta mantenuta premuta con bendaggio.

Lipoma pedicolato del tessuto sottocutaneo della gamba e della parte profonda dell’avambraccio; da Willan e Thomas Bateman, Delineations of cutaneous diseases, op. cit.

 

CRANIÉDDHI Follicolite. Corrisponde all’italiano granello (cranièddhu a Vernole indica il seme dell’uva), diminutivo di grano, dal latino granu(m). Manifestazione meno evidente dello stesso disturbo è quella dei friulìti (vedi). 

ERME SOTTA PELLE Vitiligine. Basta la traduzione italiana: verme sotto pelle.

Da Larousse médical illustré, Larousse, Parigi, 1924

 

FAU Ascesso. Corrisponde, per analogia di forma, con particolare riferimento all’ascesso multiplo, ed etimo all’italiano favo, dal latino favu(m); nella voce dialettale è avvenuta la consueta sincope di –v- intervocalica. Terapia: empiastro di lampascione (muscari comosum) o di fiori e foglie di malva.

Da Pierre Louis Alphée Cazenave, Traité des maladies du cuir chevelu, J. B. Baillière, Parigi, 1850

 

FOCA Orticaria conseguente al contatto con i parassiti del grano. Il Rohlfs invita ad un confronto col “calabrese fucìda=macchia rossa di scottatura  sulle gambe, che risulta da un incrocio del greco foìs=macchia di scottatura col latino focus”. Si ritiene che l’incrocio non valga per la voce neretina che sarebbe direttamente dal latino medioevale foca2, dal classico focus. L’intenso prurito con cui si accompagna veniva sedato con impacchi caldi oppure con bagno in acqua in cui erano state immerse foglie di malva; qualcuno ungeva olio d’ oliva o cospargeva con una lozione ottenuta facendo bollire della cenere di legna in acqua di cisterna.

FREE ALLI MUSI Herpes simplex labialis. Per free vedi friulìti.

FREE TI PILU Mastite. Per free vedi friulìti. Si riteneva causata dalla presenza di qualche pelo nei condotti del latte, tale da impedirne la normale fuoriuscita. In entrambi i casi si ricorreva ad una cura con empiastri di finocchio e cavolo sulla mammella.

FRIULÍTI Follicolite meno evidente dei cranièddhi (vedi). Il Rohlfs non propone nessun etimo, il Garrisi, piuttosto confusamente,  un “incrocio tra latIno fricatus e leccese free e freculare + suffisso diminutivo -ulu”. Si ritiene, dopo aver detto che, inequivocabilmente, –iti è il suffisso tipico delle infiammazioni, che la voce abbia il suo nucleo nel latino febris=febbre; da un diminutivo *febrìola con l’aggiunta del suffisso –iti si passa a febrioliti, da questo, seguendo per febri– il normale sviluppo dialettale [free, da febre(m)>fevre(m)> freve (metatesi a distanza)>free (sincope di –v– intervocalica)] *freeolìti>*freolìti>friulìti.

FRÚNCHIU Foruncolo. Stesso etimo del corrispondente italiano: dal latino furùnculu(m)=tralcio secondario, gemma,  poi foruncolo, diminutivo di fur =ladro (la gemma “sottrae” nutrimento alla pianta, il foruncolo all’organismo); trafila furùnculu(m)>*frùnculu(m) (sincope della prima u)>*frunclu(m) (ancora sincope della terza u originaria diventata nel frattempo seconda)>frùnchiu (passaggio –clu>-chiu).

FUÉCU TI SANT’ANTONI Herpes zoster. La locuzione dialettale (che corrisponde alla popolare italiana Fuoco di Sant’Antonio) è legata secondo alcuni alla tradizione per cui Sant’Antonio era considerato come colui che combatteva il demonio che appariva sotto forma di serpente. Il nome scientifico, infatti, è, per Herpes, dal latino herpes in cui, oltre che erpete, indicava anche (in Plinio) un animale da identificare probabilmente con una specie di serpente; herpes, a sua volta è dal greco herpes con gli stessi significati già indicati per la voce latina, anzi il suo collegamento col verbo serpo=io striscio convaliderebbe l’ipotesi dell’identificazione dell’animale col serpente (la malattia è vista come una sorta di serpente di fuoco che si annida nell’organismo), confermando, ancora una volta, nella locuzione dialettale la commistione di elementi naturalistici e fideistici e, dunque, un livello, più profondo rispetto a quello della scientifica. La seconda parte, zoster, è dal greco zostèr=cintura, zona, fascia. C’è da dire che secondo altri la denominazione è dovuta alla confusione antica della malattia con il più grave ergotismo (intossicazione causata dalla presenza di segale cornuta nelle farine alimentari): nel Nord Europa, dove il pane veniva fatto con la segale, spesso si contraeva questa malattia, dovuta al fungo (ergot) che infettava la segale; tra gli effetti di questa intossicazione vi erano anche le allucinazioni e questo portava la gente a mettere in relazione la malattia con il demonio o con forze maligne, non essendo conosciuta al tempo la causa di queste alterazioni; i malati, recandosi in pellegrinaggio verso i santuari di Sant’Antonio in Italia, man mano che scendevano verso Sud cambiavano alimentazione mangiando pane di grano, e ciò attenuava o eliminava i sintomi dell’intossicazione. Tale effetto veniva attribuito ad un miracolo ad opera di Sant’Antonio. Non a caso l’ordine dei Canonici Regolari di Sant’Antonio di Vienne venne istituito nel 1095  a seguito del voto fatto dal nobile Gastone, che aveva avuto un figlio guarito dall’ergotismo, per grazia ricevuta al santuario di Saint Antoine Abbaye, vicino a Vienne, dove all’inizio del millennio un nobile francese, Jocelin de Chateau Neuf, di ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa, aveva portato le spoglie di Antonio abate, avute in dono, pare, dall’imperatore di Costantinopoli. Gli Antoniani all’inizio usavano contro la malattia cospargere le parti malate di vino nel quale erano state immerse le sacre reliquie; successivamente (esaurimento delle reliquie?…), quando fu loro concesso il diritto di allevare maiali che circolavano liberamente nelle città e nei luoghi ove sorgevano i loro conventi, disposizione che risultava necessaria dal momento che i maiali girando in villaggi e città provocavano numerosi danni. L’allevamento vero e proprio, tuttavia, era svolto per conto dei monaci, gratuitamente e per devozione dei contadini i quali, ad opera compiuta ricevevano protezione per se stessi e per i lavori da effettuare durante il ciclo annuale di produzione. Il maiale in questo modo era “sacralizzato” e perdeva la sua connotazione demoniaca, dal momento che diventava il tramite più vicino perché le masse contadine ottenessero rassicurazione e promesse di fecondità e fertilità.  L’iconografia rappresenta il Santo con il bastone tipico degli eremiti, un maiale ai piedi, a simboleggiare il demonio, un campanello e la fiamma. Proprio a causa del simbolo del maiale, S. Antonio divenne in breve il protettore degli animali domestici, mentre la fiamma ricorda la sua capacità di guaritore dell’ergotismo.Terapia: applicazione di empiastri di malva sulle parti interessate. Sull’ antica origine “sacrale” del nome della malattia vale la pena spendere ancora qualche parola: È la malattia alla quale Plinio (I secolo d. C.) ha dedicato il numero maggiore di passi della sua Naturalis historia con la proposta di un numero notevole di differenti terapie, il che è un indizio, se non della sua frequenza e gravità anche ai suoi tempi, certamente della difficoltà di trattarla. Pure a livello di nomenclatura si alterna il singolare ignis sacer (fuoco sacro) (23 ricorrenze) o (con inversione delle componenti) sacer ignis (sacro fuoco) (1 ricorrenza) al plurale ignes sacri (fuochi sacri) (15 ricorrenze) o sacri ignes (sacri fuochi) (2 ricorrenze). Nel brano XXVI,74 (riportato più estesamente in basso) è contenuta in pratica l’etimologia della attuale denominazione scientifica (Herpes zoster): Ignis sacri plura sunt genera, inter quae medium hominem ambiens, qui zoster vocatur, et enecat, si cinxit (Molti sono i tipi di fuoco sacro, tra i quali quello, chiamato zoster, che circonda l’uomo a metà e lo ammazza pure, una volta che lo ha cinto). Il passo, secondo noi, è molto importante perché rappresenta la cerniera tra il concetto di cintura (zoster)  e quello di una  specie di serpente che abbiamo presunto nella prima parte del lavoro alla voce in questione. Va ricordato, infatti, che negli affreschi di Pompei la divinità più raffigurata è il serpente agatodemone (voce greca che alla lettera significa buon demone), protettore del focolare e simbolo di fertilità e che lo stesso Plinio usa la voce herpes nel brano che segue: XXX, 39 Herpes quoque animal a Graecis vocatur, quo praecipue sanantur quaecumque serpunt (Erpes è pure chiamato dai Greci un animale col quale soprattutto si sanano tutte le malattie che serpeggiano): l’animale in questione è  preceduto nel brano dal nome di altri animali (cosses=tarli e terreni=lombrichi) qualificati come vermium genera (specie di vermi), dalle coclearum terrena (lumache di terra) e seguito dal draco (specie di serpente, spesso tenuto come animale domestico). Tutti gli animali citati sono accomunati, in ordine crescente si dimensioni, dall’idea dello strisciare e il misterioso herpes appare come una cosa di mezzo tra un verme (cosses) ed un serpente (draco).  A proposito del serpente, poi, va detto che è abbastanza frequente nel mondo classico la doppia valenza sacrale  favorevole o nefasta dello stesso animale e questa ambiguità verrà ereditata dal mondo cristiano trovando amplissima testimonianza nei bestiari medioevali.

Da William James Erasmus Wilson, Portraits of diseases of the skin, Churcill, Londra, 1855

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/09/dizionarietto-etimologico-salentino-sulle-malattie-e-stati-parafisiologici-della-pelle-con-alcune-indicazioni-terapeutiche-presso-il-popolo-di-nardo-2-3-gnuricamientu-nfucamientu-tii-facce/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/15/dizionarietto-etimologico-salentino-sulle-malattie-e-stati-parafisiologici-della-pelle-con-alcune-indicazioni-terapeutiche-presso-il-popolo-di-nardo-3-3-occa-arduta-uecchiu-ti-pesce/

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1 Laddove sono citati il Rohlfs e il Garrisi, le relative etimologie sono state riportate, rispettivamente, dal Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976 e dal Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990; in assenza di indicazione la proposta etimologica  e l’eventuale trafila è da intendersi autonoma.

2 Du Cange, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, Favre, Niort, 1883, pag. 531: “FOCA 2 pro Focus. Vide in Camba 3” (Foca 2 per Focus. Vedi in Camba 3). A Camba 3 (op. cit. , pag.39):”Brassiatorum officina, seu locus ubi cerevisia coquitur et conficitur, qui vulgo Brasseriam vel Braxatoriam nuncupamus” [(Laboratorio di birrai o luogo dove si cuoce e prepara la birra, che popolarmente chiamiamo Birreria o Birratoria (chiedo scusa per Birratoria,  espediente per superare l’intraducibilità di Braxatoriam dopo essermi giocato con Brasseriam Birreria Brasseriam)]. Non ci sarebbe da meravigliarsi se l’attuale significato della  voce neretina fosse stato mediato proprio dalla fabbricazione della birra ottenuta, come si sa, per fermentazione del malto e di altri cerali aromatizzati col luppolo, ingredienti che molto probabilmente erano ben noti nel nostro territorio.

 

Le vicende del palazzo dei baroni Sambiasi a Nardò

UN VOLUME RICOSTRUISCE LE VICENDE DEL PALAZZO DEI BARONI SAMBIASI

La presentazione domenica 24 giugno (ore 20:30) in quello che oggi è Palazzo Sambiasi

 

di Danilo Siciliano

È in programma domenica 24 giugno alle ore 20:30 presso le sale di Palazzo Sambiasi (ex Monastero di Santa Teresa), in corso Garibaldi, la presentazione di Un palazzo un monastero – I Baroni Sambiasi e le Teresiane a Nardò, volume edito da Mario Congedo Editore, inserito nella collana della Diocesi di Nardò-Gallipoli e realizzato con Fondazione Terra d’Otranto e associazione Dimore Storiche Neretine. L’autore è Marcello Gaballo con la collaborazione di Domenico Ble, Daniele Librato, Armando Polito, Marcello Semeraro e Fabrizio Suppressa. L’introduzione è a cura di Annalisa Presicce. Il volume ricostruisce e chiarisce finalmente le vicende storiche e architettoniche di quello che fu il palazzo dei Baroni Sambiasi del ramo di Puzzovivo, che fu accorpato al monastero delle Carmelitane Scalze, soppresso nel periodo cosiddetto “murattiano”, agli inizi dell’Ottocento. Il palazzo assunse l’attuale conformazione grazie all’intervento di Giovanbattista Mandoj, il cui stemma è rappresentato nella facciata del palazzo. Si tratta di un volume ricchissimo di immagini in bianco e nero e a colori e di rilievi grafici del palazzo e del monastero.

All’incontro di presentazione interverranno Annalisa Presicce, il direttore dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi don Giuliano Santantonio, il magistrato Francesco Mandoj (discendente di Giovanbattista Mandoj) e dell’autore Marcello Gaballo. Interverranno per un saluto anche Sua Eccellenza mons. Fernando Filograna, il sindaco Pippi Mellone, l’assessore allo Sviluppo Economico e al Turismo Giulia Puglia, l’assessore alla Cultura Ettore Tollemeto, l’editore Mario Congedo, il presidente dell’associazione Dimore Storiche Neretine Antonello Rizzello.

I baroni Sambiasi e le monache di Santa Teresa a Nardò

Sarà presentato Domenica 24 giugno un nuovo libro sulla città di Nardò, presso le sale del Relais Santa Teresa, su Corso Garibaldi (vicino le Poste), alle ore 20.30.

Inserito nella Collana della Diocesi di Nardò-Gallipoli, edito da Mario Congedo di Galatina, è stato scritto da Marcello Gaballo con la collaborazione di Domenico Ble, Daniele Librato, Armando Polito, Marcello Semeraro e Fabrizio Suppressa, con prefazione di Annalisa Presicce.

Il volume sarà presentato da Annalisa Presicce, da Francesco Mandoj, da don Giuliano Santantonio e dall’autore.

In formato A/4, 228 pagine, ricco di illustrazioni in b/n e colore, con numerosi rilievi e planimetrie.

Ricostruzione del palazzo Sambiasi, del monastero e della chiesa di Santa Teresa

 

INDICE

Prefazione di Annalisa Presicce

 

Capitolo primo

Genealogie e architetture a palazzo Sambiasi. Gli archivi e la ricostruzione, di Marcello Gaballo

Premessa

  1. Sulla storia della famiglia Sambiasi e le vicende legate al palazzo

1.1. La prima traccia dei Sancto Blasio a Nardò

1.2. I Sambiasi baroni di Puzzovivo, Flangiano e Puggiano

1.3. Vicende patrimoniali di palazzo Sambiasi

1.4. Il palazzo di Alfonso Sambiasi

1.5. Il palazzo di Francesco Sambiasi

1.6. I Della Ratta e le vicende patrimoniali di palazzo Sambiasi

1.7. Ultime vicende patrimoniali di palazzo Sambiasi. Da Giambattista Mandoj ai nostri giorni

  1. Palazzo Delli Falconi
  2. Il salone di palazzo Sambiasi
  3. L’epigrafe MATURE CONSULAS NE TE PENITEAT (Provvedi tempestivamente per non pentirti), di Armando Polito

 

Capitolo secondo

Sulla chiesa di Santa Croce annessa al palazzo Sambiasi, di Marcello Gaballo e Armando Polito

  1. La chiesa attraverso le fonti pastorali. Brevi cenni storici
  2. La chiesa di Santa Croce nella visita pastorale del vicario Granafei

 

Capitolo terzo

Le Teresiane a Nardò. Origine ed epilogo di un monastero, di Marcello Gaballo

  1. Un secondo monastero femminile per la città di Nardò
  2. Suor Teresa e il progetto realizzato

2.1. Lidia Gaetana Adami fondatrice del monastero teresiano di Nardò

2.2. Sulla famiglia Basta di Monteparano. Le origini e il sostegno a suor Teresa

2.3. Le fonti su Masseria Sciogli. Dai Giulio ai Basta al monastero di Santa Teresa

  1. Dalla ricostruzione post-sismica alla soppressione. Gli ultimi settant’anni del monastero

3.1. Una nuova chiesa per il monastero di Santa Teresa. Il terremoto del 1743

3.2. Il monastero di San Gregorio Armeno di Napoli. Gli amministratori e la gestione dei beni delle Teresiane di Nardò

  1. Appendice documentaria

4.1. Cessione scambievole di Oratorij (1837)

4.2. Cessione scambievole di Oratorij (1838)

4.3. Cronotassi delle priore del monastero di Santa Teresa

 

Capitolo quarto

La chiesa di Santa Teresa. Gli artisti, le opere, il culto, di Marcello Gaballo

  1. Il profilo architettonico
  2. Due tele di Vincenzo Fato nella chiesa delle Teresiane a Nardò
  3. La statuaria nella chiesa di Santa Teresa

3.1. Il Redentore, Santa Lucia, Sant’Agata

3.2. La statua di S. Espedito e la Fondazione del nobile Enrico Personè

3.3. Il culto di San Biagio a Nardò. Due testimonianze iconografiche

3.4. Sulla ragione della statua della Madonna del Buon Consiglio nella chiesa di S. Teresa

3.5. La tela di San Carlo Borromeo orante, di Domenico Ble

 

Capitolo quinto

Araldica a Nardò. Lo stemma lapideo settecentesco del vescovo Carafa sulla facciata della chiesa di Santa Teresa, di Marcello Semeraro

 

Capitolo sesto

La mirabile e singolare volta della chiesa di Santa Teresa, di Fabrizio Suppressa

 

Capitolo settimo

Araldica carmelitana a Nardò. Lo stemma carmelitano: origine e sviluppi, di Marcello Semeraro

7.1. Gli esemplari neritini

 

Capitolo ottavo

Lavori di ristrutturazione e ammodernamento della chiesa di Santa Teresa dal 1800 ai nostri giorni, di Fabrizio Suppressa

  1. Appendice
  2. Appendice
  3. Appendice

 

Capitolo nono

La confraternita del SS.mo Sacramento a Nardò, dalla cattedrale alla chiesa di Santa Teresa, di Marcello Gaballo

  1. La cappella del SS.mo Sacramento in cattedrale
  2. Altri atti notarili e documenti d’archivio. I dati raccolti sulla confraternita del SS.mo Sacramento

2.1. Disposizioni per attuare il lascito del duca di Nardò Belisario Acquaviva d’Aragona in favore della cappella del SS.mo Sacramento nella cattedrale di Nardò, di Armando Polito

2.2. Legati da soddisfare da parte della confraternita

2.3. PLATEA della confraternita

2.4. Un rarissimo libro nell’archivio confraternale

  1. Appendice

3.1. Cronotassi delle cariche della confraternita del SS.mo Sacramento

3.2. Prefetti, cappellani e padri spirituali della confraternita

3.3. La visita pastorale del vescovo Antonio Sanfelice nel 1719 alle confraternite e congregazioni esistenti in cattedrale: Santa Maria della Misericordia, del Santissimo Corpo di Cristo e della Santissima Eucaristia, di Armando Polito

 

Capitolo decimo

Spoglio degli assensi conservati nell’archivio storico diocesano di Nardò riguardanti la confraternita del Santissimo Sacramento e del monastero di Santa Teresa, di Daniele Librato

Bibliografia generale

 

La Cattedrale di Nardò sotto i riflettori per la celebrazione della Messa del 13 maggio

Un evento importante per la Cattedrale neritina, da giorni sotto le luci e i riflettori della RAI, che l’ha scelta per riprendere la consueta Messa domenicale.

Domenica 13 maggio infatti la troupe RAI1, già in città da diversi giorni, riprenderà per trasmettere in diretta la celebrazione officiata dal parroco don Giuliano Santantonio.

L’inedita occasione punterà anche a far conoscere le meraviglie racchiuse nel maggiore monumento cittadino, sul quale si sono sovrapposti oltre mille secoli di storia.

L’attuale Cattedrale difatti sorge sul sito un tempo occupato dal complesso basiliano di Sancta Maria de Neritono, cui Goffredo il Normanno nel 1061 concede numerosi privilegi. Nel 1080 si inizia a ricostruire la nuova chiesa, consacrata il 15 novembre 1088 ed affidata dallo stesso Goffredo ai monaci benedettini (1090), i quali istituiscono nel monastero cattedre di letteratura greca e latina, di eloquenza e di matematica.

Nel 1413 Giovanni XXIII (1410-1415), il pontefice scismatico Baldassarre Cossa, eleva a Diocesi la Contea di Nardò e a Cattedrale la chiesa monastica di S. Maria de Neritono, costituendo vescovo l’abate Giovanni de Epiphanis; in quell’occasione, Nardò diviene sede di episcopato.

Nel 1433 vi predica San Bernardino da Siena, chiamatovi da mons. Giovanni Barella. La sede neritina conserva il rito greco, accanto a quello latino, sino al vescovato di mons. Ambrogio Salvio (1569-1577).

Con decreto del 12 ottobre 1803 la Cattedrale è dichiarata Chiesa Regia e il 20 agosto 1879 monumento nazionale. Il 2 giugno 1980 viene elevata a dignità di Basilica Minore dalla Santa Sede, mentre il 30 settembre 1986 mons. Aldo Garzia è nominato vescovo della nuova circoscrizione diocesana di Nardò-Gallipoli.

Nel corso dei secoli la Cattedrale è oggetto di numerose trasformazioni. Originariamente edificata in pietra leccese in stile romanico-normanno, presentava una larghezza pressoché uguale a quella attuale, aveva un portico anteriore e terminava all’altezza dell’attuale presbiterio. Internamente era suddivisa in tre navate scandite da pilastri ed archi a tutto sesto, terminanti ognuna con un’abside. Risale alla fine del XIII secolo la ricostruzione del campanile in carparo (staccato dal corpo della chiesa) di forma quadrangolare. I terremoti che interessano Nardò tra il 1230 e il 1249 danneggiano la navata nord della chiesa, che viene ricostruita con archi a sesto acuto in carparo, con capitelli e cornici delle semicolonne addossate ai pilastri in pietra leccese.

La seconda trasformazione del tempio si colloca intorno alla seconda metà del XIV secolo: le navate sono allungate, mediante tre archi a sesto acuto, con l’aggiunta del coro e delle due cappelle laterali.

Il pulpito della cattedrale di Nardò

 

L’addizione di nuove cappelle, addossate alle pareti laterali, prosegue fino all’inizio del XV secolo.

Il terremoto del 1456 provoca il crollo della parte superiore della torre campanaria, danneggiando anche la chiesa, che il vescovo Ludovico De Pennis fa ristrutturare, avviando importanti lavori di consolidamento. Le capriate lignee delle navate laterali sono sostituite con volte a botte, mentre le pareti di rivestimento vengono in parte affrescate.

Dopo la battaglia di Lepanto (1571) la Cattedrale subisce ulteriori modifiche durante l’episcopato di mons. Ambrogio Salvio (1569- 1577). Successive modifiche sono apportate dai vescovi Lelio Landi  e Girolamo De Franchis (1617-1634); Orazio Fortunato (1678-1707) sostituisce il pavimento, trasforma la porta rivolta verso la piazza e realizza il controsoffitto. Al posto dell’altare di San Martino il presule commissiona nel 1680 il cappellone dedicato a San Gregorio Armeno.

All’inizio del XVIII secolo la Cattedrale è nuovamente pericolante e in molti ritengono che l’antica chiesa dovesse essere abbattuta e ricostruita ex novo. Il vescovo Antonio Sanfelice (1708-1736), sensibile al valore storico ed artistico del vetusto edificio, commissiona il restauro al fratello Ferdinando (1675-1748): il celebre architetto apporta importanti modifiche e nel 1725 ricostruisce la facciata dell’edificio e riveste con stucchi buona parte della struttura.

Cattedrale di Nardò, particolare degli affreschi del Maccari nel coro

 

Considerato l’urgente bisogno di restaurare la chiesa, anche a seguito dei danni riportati dal sisma, mons. Michele Mautone (1876-1888) progetta di demolirla per ricostruirla integralmente.

È il suo successore, Giuseppe Ricciardi (1888-1908), a promuovere i nuovi lavori di restauro il consolidamento degli affreschi medievali e dell’intera struttura; il rifacimento del tetto ligneo sulle navate minori, dopo la demolizione delle volte esistenti. Sono inoltre ricostruiti le absidi minori, il ciborio, gli affreschi del presbiterio ad opera di Cesare Maccari e la maggior parte delle cornici e dei capitelli. Furono anche sostituite le capriate sulla navata centrale e furono realizzate le arcate lungo il fianco meridionale. Tra il 1977 ed 1982, sotto l’episcopato di Mons. Mennonna, la chiesa è nuovamente oggetto di lavori di restauro durante i quali si procede a rifare il pavimento, consolidare e sostituire le coperture, restaurare gli affreschi, l’organo, il campanile e la facciata.

 

Per approfondire sulle opere d’arte in essa presenti:

Il Crocifisso nero nella cattedrale di Nardò

Cinque francobolli per ricordare il sesto centenario della Cattedrale di Nardò e della civitas Neritonensis

L’affresco di Sant’Agostino nella cattedrale di Nardò

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/01/su-alcune-reliquie-conservate-nella-cappella-di-tutti-i-santi-nella-cattedrale-di-nardo-2/

Sancta Maria de Nerito. Arte e devozione nella Cattedrale di Nardò (1413-2013)

Un “bestiario” medievale sulle antiche travi della Cattedrale di Nardò (1).

Ecclesia Mater. La fabbrica della Cattedrale di Nardò attraverso gli atti delle visite pastorali

Gli argenti della Cattedrale di Nardò, una raccolta straordinaria

Un busto di San Gregorio Armeno tra i tesori della cattedrale di Nardò

6 dicembre. San Nicola. Tre affreschi del santo di Myra nella cattedrale di Nardò

Finalmente riemerge il dipinto del Solimena nella cattedrale di Nardò

Su alcune reliquie conservate nella cappella di Tutti i Santi, nella cattedrale di Nardò

San Bernardino. Un affresco del santo senese nella cattedrale di Nardò

Da Sancta Maria de Nerito a cattedrale. Un millennio di storia nella chiesa madre di Nardò (XIII secolo)

Riemerge un Sant’Onofrio tra gli affreschi medievali della Cattedrale di Nardò

Santi patroni e filantropi nel “cielo” ligneo della Cattedrale di Nardò

Lineamenti diacronici storici e religiosi della Cattedrale di Nardò

Galeazzo Pinelli, il marchese “fatuo” di Galatone, nella celebrazione del Fapane di Copertino

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Non è raro ancora oggi incontrare in pubblicazioni di carattere letterario e storico-scientifico se non vere e proprie dediche, espressioni di ringraziamento allo sponsor privato o a qualche ente pubblico patrocinatore a vario titolo, non escluso, in qualche caso quello economico. Dobbiamo dire, però, che tale fenomeno ha negli ultimi tempi registrato un drastico calo, che non crediamo sia da attribuire più di tanto ai morsi della crisi, ma piuttosto, purtroppo, alla scarsa considerazione in cui il prodotto culturale di un certo livello è precipitato.

Il confronto con il passato, sotto questo punto di vista, è impietoso e, senza andare troppo lontano scomodando Augusto e Mecenate e per restare al secolo di nostro interesse, basta ricordare che in pratica non c’è quasi pubblicazione risalente al XVII secolo che non contenga all’inizio una corposa dedica a questo o a quel personaggio, naturalmente importante. Saremmo ipocriti se non ammettessimo che, sostanzialmente, tutto è sotteso e condizionato dal do ut des, nel senso che il dedicatore e il dedicatario erano legati da un doppio filo: il primo da quello della speranza di ottenere qualche privilegio, favore o protezione; il secondo dal ritorno d’immagine, tanto più quando, oltre la dedica, era l’intera opera o una cospicua parte di essa a celebrare la sua persona.

Altra cosa sono gli esiti artistici, perché non tutti possono essere all’altezza di Virgilio, capaci, cioè di sganciarsi dalla contingenza e dall’individualismo della celebrazione per toccare corde universali e, in un certo senso, senza tempo.

Non lo è  neppure l’autore che stiamo per presentare Perché lo facciamo, allora? Perché qualsiasi creazione artistica, anche se non è un capolavoro, è, pur sempre, figlia del suo tempo e, dunque, preziosa per la ricostruzione della relativa temperie spirituale, a parte l’aiuto che non pochi dettagli possono offrire per certi approfondimenti, conferme o smentite di verità che sembrano irreversibilmente consolidate dalla storia ed in essa registrate.

Vedremo così, attraverso la lettura diretta, come il nostro autore non sfigura nella vasta schiera barocca, in cui la metafora, il riferimento mitologico e i giochi di parola sono, com’è noto, gli ingredienti immancabili. Sarebbe, tuttavia, riduttivo declassare il suo spessore all’ossequio a certi canoni dominanti nella cultura del tempo, se non si cogliesse, emergente, come vedremo, qua e là, l’originalità dell’invenzione, alla quale, poi, la tecnica è asservita.

Questo autore è Giuseppe Domenichi Fapane di Copertino, sul quale è in avanzata fase di realizzazione un lavoro monografico. Qui basti dire che coltivò in modo quasi privilegiato l’epigramma e i sei volumi di Castaliae stillulae1 videro la luce in tempi diversi: il prImo per i tipi di Pietro Micheli a Lecce nel 1654; il secondo per i tipi di Luca Antonio Fusco a Napoli nel 1658, il terzo per i tipi di Paolo Frambotti a Padova nel 1659; il quarto per i tipi degli Eredi di Paolo Vigna a Parma nel 1662; il quinto per i tipi di Sermantelli a Firenze nel 1667 e il sesto per i tipi di Ambrogio De Vincentiis a Genova nel 1671. L’OPAC registra per il primo e per il terzo volume la presenza di un esemplare a Bari e di un’altro a Lecce; per il quarto uno solo a Lecce; per il quinto uno a Lecce e l’altro a Napoli; nessun esemplare risulta registrato per il secondo e per il sesto volume. Si tratta, dunque, di un libro rarissimo e quest’aggettivo va ridimensionato in unico per quanto riguarda il sesto volume che, irreperibile nell’OPAC, è custodito, invece, nella Biblioteca comunale “Achille Vergari” di Nardò (XLIV A-24). Ne riproduciamo di seguito il frontespizio.

Vi si legge: Castaliae stillulae quingentae quae sextum rivulum Permessi conficiunt hoc est epigrammaton Iosephi Domenichi Fapanis à Cupertino liber sextus. Venetiae. Apud Io(hannem) Ambrosium De Vincentiis. 1671 (Cinquecento gocce di Castalia che costituiscono il sesto ruscelletto del Permesso2, cioè il libro VI degli epigrammi di Giuseppe Domenichi Fapane da Copertino. Genova, Presso Giovanni Ambrogio De Vincentiis. 1671).

Segue una tavola con replica sintetica in alto a destra del titolo dell’opera (CASTALIA) e del nome dell’autore (DOMENICHI) e in basso a sinistra il numero del volume (LIBER VI).

Segue la dedica PERILLUSTRI DOMINO LAURENTIO CRASSO MAGNO VIRO  virtute maximo (All’illustrissimo don Lorenzo Grasso3 grande uomo, grandissimo per valore).

Le pagine 193-207 contengono quindici epigrammi (come per gli altri il metro è il distico elegiaco) dedicati a  Galeazzo Gaetano Pinelli, figlio di Cosimo (+ 1685) e di Anna Maria Ravaschieri4. Di questi epigrammi quattordici traggono spunto da un episodio sacro di cui si dirà e solo l’ultimo rientra nei canoni della poesie encomiastica. Li presento in una sorta di piccola antologia nel testo originale che ho provveduto a dotare della mia traduzione e delle mie note di commento.

1) MATER HEBRAEA in obsidio Solymae Filium trucidans DOMINO GALEATIO PINELLO Galatulae Marchioni, Cosmae Ducis Acherintiae filio, Domino, et Patrono 

Devoro, quem genui: Genitrix, Homicida Vicissim;/cogit et ad facinus, quod mea cordas? fames./Impia nec dicar, fili; mea viscera prendo;/de me sumpsisti tu tamen ista, tibi./Exigo, quod tribui, debes, bone parvule, Vitam;/restituas Ventri, quae tibi Ventre dedi.

LA MADRE EBREA che nell’assedio di Gerusalemme trucida il figlio5. A DON GALEAZZO PINELLI marchese di Galatone, figlio di Cosimo duca di Acerenza, signore e protettore

Divoro colui che ho generato, io a turno genitrice e omicida. Mi costringe pure alla scelleratezza, perché mio cuore?, la fame. E non sia detta empia, o figlio: prendo le mie viscere; da me tuttavia tu le prendesti per te. Mi riprendo, buon fanciullo, tu lo devi, la vita che ti ho dato, Restituisci al ventre ciò che col ventre t’ho dato.

2)  Saeva fames urget, matrem consumere Natum;/Viscera Visceribus, te mea, condo meis./Vivere ni poteris, saltem des funere Vitam;/ne te, quae fecit Vivere, Viva cadat./Crudelem fortasse Vocas? crudelis et ipse;/ni tibi fata paro; tù mihi tata paras. 

Una fame feroce incalza una madre a divorare il figlio. Metto le mie viscere nelle mie viscere. Se non potrai vivere, almeno possa tu dare la vita con la morte, perché non cada da viva colei che ti fece vivere. Forse mi chiami crudele? Crudele è pure tu: se non ti procuro la fine tu la procuri a me.

3) Mando meum Genitum; proprio quem lacte nutrivi;/ne paream Genitrix Viscera sumo mea./Prodiit ex Utero: redeat tumulatus in Alvum;/Cunarumque locus, sit sibi tumba levis./Quid dicet Natura dolens? moriremur uterque./Expedit, ut Genitus pro Genitrice cadat.  

Mangio mio figlio, che ho nutrito col mio latte, per non sembrare genitrice consumo le mie viscere. È uscito dal mio utero, ritorni tumulato nel ventre e il luogo del nido gli sia tomba leggera. Che dirà la natura dolente? Moriremo entrambi. Conviene che il figlio muoia per6 la madre.

4) Fili, mater obit: debes quoque fata subire/.neuter erit, possit qui superare famem./Si moriar, moreris.Vivam? moriare, necesse est,/alteruter nostrum contumulandus erit./Condo te in hoc Utero: me tù dum condere nescis./Quique magis debet, convenit ante Mori./ 

Figlio, la madre muore; devi subire pure tu lo stesso destino. Non ci sarà nessuno dei due che possa vincere la fame. Se morirò, morirai, Vivrò? Muoia tu!, è necessario, l’uno o l’altro dovrà essere sepolto insieme, Ti seppellisco in quest’utero, mentre tu non sai seppellire me e chi è maggiormente in debito è opportuno che muoia prima. 

5) Nate, meus sanguis; miserae succurre Parenti;/quam male suada fames nunc iugulare parat;/ si bene quod de tè merui, nunc reddere oportet;/nec poteris matris tù superesse malis./Ut Vivam, pereas, potero sic esse superstes;/et Geniti  dicar morte, renata Parens.

Figlio, mio sangue, aiuta la misera madre  che la malamente persuasiva fame ora si prepara ad uccidere. Se bene qualcosa pe te ho meritato, ora è necessario renderlo. Né tu potresti sipravvivere alla sventura della madre. Muori tu affinché io viva, così potrò essere superstite e grazie alla morte del figlio sarò chiamata madre rinata.

6) Ecce homicida ferox: cultro  te mactat acuto;/ut saturet, fili, sic moribunda famem./Materno hoc debet sanè gaudere sepulchro;/Gaudet, ut haec  secum te  tumulare Parens,/Conficior miserè:  tecum nec vivere possum,/nec sinè te; mecum  vivere,  Nate, Velis. 

Ecco la feroce omicida: ti uccide con l’acuminato coltello, perché, figlio, io moribonda sazi la fame. Devi senz’aktro godere di questo sepolcro materno, come gode questa madre  a seppellirti con sé. Soffro miseramente: né posso vivere con te né senza di te. O figlio, tu vorresti vivere con me.

7) Eia peri! saeva haec tempus spectacula poscit;/viscera, quae  genuit matre voranda manent;/impietatis opus mandrtur sorte futuris;/ut genuisse satis, sic necuisse fui./Morior crassante  fame.  Non parcere Matri,/illa potest:  Nato cur moribunda Parens?

Ah, muoio! Il tempo richiede questo crudele soettacolo.Restano le viscere da divorare dalla madre che le ha generate. Sia consegnata dalla sorte ai posteri il gesto di empietà, Come sono stata sufficiente ad aver  generato, così ad aver ucciso. Muoio per la fame che cresce. Non risparmiare la madre, essa può. Perché per un figlio una madre moribonda?

8) Ne moriar miserè, miserè te occidere oportet/;Nate, meum Viscus impia fata  feras?/Iam periisse fame, Vilisque  miserrima, res est;/Ferro etenim praestat; nobiliusque mori./Hinc  iugulans te dedo neci; dicaris, ut ipse,/Matrem servasse , et te  eripuisse malis. 

Perché io non muoia miseramente bisogna uccidere te. Figlio, cuore mio, tu sopporteresti un empio destino? Già esser morti per fame è cosa vilie e miserrima; infatti  conviene ed è più nobile morire di spada. Perciò uccidendoti ti consegno alla morte. Si dirà come tu stesso abbia salvato la madre e ti sia sottratto alla sventura.

9) Hic periisse fame, potes hic occumbere ferro;/elige fata, puer; mors subeunda quidem./Est obiisse fame, miserum; cadere ense, decorum;/hinc furit aegra lues, hic ferit alma Parens./Praestat honore mori, quam sic discedere inertem;/quam cadere invisum, praestat amore Mori.

Puoi morire qui di fame, lì soccombere alla spada. Scegli il destino, figlio; certamente si deve andare incontro alla morte. Cosa misera è morire di fame, decorosa soccombere cadere in combattimnto. Da una parte infuria una penosa calamità, dall’altra infierisce la madre che dà la vita. Conviene morire con onore che andarsene così inerte, che morire odiato. Conviene morire per amore.   

Da notare il gioco di parole furit/ferit che si è tentato di conservare nella traduzione infuria/infierisce.      

10) Debeo et ipsa fame consterni, Mater, atroci;/et Genitus matri tristè superstes erit?/Non! moriare Puer; des escam  carne Parenti;( quae pia, lacte simul, haec tibi membra dedit./Horrendum fortasse putas  animare sepulchrum?/Quam magis  horrendum, te examinare7 fame./

Debbo pure io madre essere abbattuta da una fame atroce e il figlio sarà tristemente superstite alla madre? No! Muori tu, fanciullo, Con la tua carne dà cibo alla madre che affettuosa col latte ti diede nello stesso tempo  queste membra. Forse ritieni orrendo dar vita ad un sepolcro? Quanto è più orrendo chetu muoia!

11) Trado neci Genitum: Iugulo mea Viscera Mater;/liberer ut dira morte, peresa fame/.Tite,cape ex Solymae nunc obsidione Trophaeum;/nam mea dextra facit, quod tua dextra nequit,/Me saevam fortassis habes? te appello Tyrannum;/quando paras Hostes sic iugulare tuos,/Viva, Triumphales possem conducere Currus;/mortua, nec fastus concelebrare tuos./Pupus iners fuerat pompae, si mater obiret;/nam foret extinctus, me pereunte, puer./Expedit iste cadat, sequar ipsa ut moesta Triumphos;ut tibi multiolicem carmina, scissa comas./Debellare cupis Solimae, Rex maxime, Muros;/an Solymae Cives sub iugo habere tuo?/Sic credam, macto ergo meum generosa Virago/quem genui; hic alios nam generare queo./At quid stulta loquir, consumens tempora? in orbe/nonne unum praestat, quam periisse duos?/Lege famis rabidae crescet tuus iste Triumphus;nam vivet semper cum Genitrice Puer. 

Mando a morte il figlio, io, madre, uccido le mie viscere perché, divorata dalla fame, sia liberata da una morte crudele. Tito, cogli ora il trofeo dall’assedio di Gerusalemme! Infatti ora la mia destra fa ciò che tu non puoi.Forse mi ritieni crudele? Io chiamo te tiranno quando ti appresti ad uccidere così i tuoi nemici. Non posso vivere, se crudele non sacrifico il piccoletto; e non puoi vincere anche le donne ebree. Da viva potrei seguire i carri trionfali, da morta neppure celebrare i tuoi fasti. Il bambino inerte sarebbe dello spettacolo se la madre morisse; infatti, morendo io, sarebbe stato destinto a morire. Conviene che egli muoia perché io segua mesta i trionfi, perché con i capelli scompigliati moltiplichi per te i canti. Tu, re grandissimo, desideri sconfiggere le mura di Gerusalemme oppure tenere sotto il tuo giogo i cittadini di Gerusalemme? Così crederei, perciò io, generosa eroina, sacrifico colui che ho generato; qui infatti posso generarne altri. Ma, stupida, che dico, perderò tempo? Non conviene forse che al mondo ne muoia uno piuttosto che due? Questo tuo trionfo cresce per la legge della rabbiosa fame; infatti il figlio vivrà sempre con la madre.

12) Quid facis aegra parens? moriturus cedere debet/nunc puer iste; Velis tu properare necem,/sentiet et Titus saevos fortasse furores:/dum nescit nato parcere matris Amor./Pupus abest cum morte malis: tù mortis ab ore;/quos timuisse modos, corda Tyranna, solent.

 Che fai, infelice madre? Ora questo fanciullo destinato a morire deve sparire. Tu vorresti affrettare la morte; forse anche Tito sentirà i crudeli furori, mentre l’amore di una madre non sa risparmiare il figlio. Il piccolo insieme la morte si sottrae alla sventura, tu dal volto della morte, confini che i cuori tiranni son soliti temere.

13) Quem paris, occidis: prodest genuisse; furorem/ut bene deludant, Viscera parta famis./Fertilitas ex Ventre iuvat; dat sanguinis escam;/cum steriles opus est occubuisse fame./Non moreris. Natus Ventri prius iste doloris/dira elementa, pius nunc alimenta dedit. 

Uccidi quello che partorisci: giova l’aver generato affinché le viscere partorite opportunamente ingannino il furore della fame. L fertilità del ventre giova, dà l’alimento del sangue, mentre è sterile gesto morire di fame. Non morrai. Questo figlio prima ha procurato al ventre i tremendi sintomi del dolore, ora, generoso, l’alimento.

14) Mande, Parens, tua cara Caro est, quam lance reponis/.Sume cibum: scindas Viscera; pelle famem./Iam Genitum Vixisse sat est; tecumque Valebit/ vivere nunc iterum, cum moriturus erat./Crudelis pietas, natum consumere ad escam;/ut pia crudelitas, vivere velle malis. 

Mangia, madre, è la tua cara carne quella che poni nel piatto. Prendi il cibo, scindi le viscere, respingi la fame! Già è sufficiente che tuo figli abbia vissuto con te; sarà capace ora di vivere per la seconda volta, quando era destinato a morire. Crudele pietà è consumare per cibo il figlio affinché, pia crudeltà, tu preferisca voler vivere.

15) EIDEM DOMINO MARCHIONI Primogenia virtute,8 Magno suapte Maximo

 Pyrrhus Achilleides decoratus imagine Patris,/atque nepos Pelei, lumen utrisque fuit./Tu Ducis et Cosmae prognatus sanguine, et Annae/virtute illustras nomina Patris, Avi./Ille dedit galeam, Galeatius unde vocaris;/hic calamum, quo te, sic super astra, Vehis,/Hinc bene Mercurium possem te dicere: ni tu/solaris melius sphaera, vocandus eris./Et meritò, Mundus Pater est; tua Mater et Annus/splendere debebat solis imago suis.

AL MEDESIMO SIGNOR MARCHESE grande per il primigenio valore, grandissimo per il suo

Pirro9 discendente di Achille, onorato dall’immagine del padre, e nipote di Peleo, fu luce per entrambi. E tu generato dal sangue e del duca Cosimo e di Anna10, col valore illustri la fama il nome del padre, dell’avo. Quegli diede l’elmo, da cui sei chiamato Galeazzo11, questi la penna con cui ti spingi così al di sopra delle stelle. Perciò opportunamente potrei dirti Mercurio, se tu non dovessi essere chiamato meglio sfera solare. E meritatamente (tuo) padre è il mondo e tua madre l’anno. L’immagine del sole doveva splendere per i suoi.

Come il lettore avrà notato solo quest’ultimo epigramma può considerarsi direttamente celebrativo e contenente l’importante indicazione Ducis et Cosmae  prognatus sanguine, et Annae, che integra, con citazione della madre, il Cosmae ducis Acherontiae filio che si legge in testa al primo epigramma.

A beneficio del lettore riportiamo ll ramo dell’albero dei Pinelli riferito ad un adeguato spazio temporale e costruito in base ai dati presenti in Vittorio Zacchino, Galatone antica medioevale moderna, Congedo, Galatina, 1990.

Tenendo presente la data di pubblicazione del volume del Fapane (1671), notiamo la presenza di Galeazzo Francesco (aggiungiamo I per distinguerlo dal successivo), Galeazzo Francesco (aggiungiamo II per distinguerlo dal precedente)12 e Galeazzo Antonio. Il Galeazzo celebrato dal Fapane, non fosse altro che per evidentissimi motivi cronologici, non può essere né Galeazzo Francesco (I) né Galeazzo Francesco (II), ma Galeazzo Antonio (figlio di Cosimo e di Anna Ravaschieri, come ricordato dal Fapane nell’ultimo epigramma). Tuttavia si legge in Vittorio Zacchino, op. cit. p. 178 che alla morte di Cosimo, avvenuta nel 1685, per essere fatuo il primogenito D. Galeazzo, il duca Gaetano fu dichiarato erede in feudalibus con decreto di Vicaria  del 18 marzo \688, quindi titolare dello stato di Galatone.

Può sembrare a prima vista strano che il Fapane celebri, con lodi di ogni tipo, un fatuo. In italiano corrente fatuo, che è dal latino fatuu(m)=sciocco, insipido,  è sinonimo di vuoto, superficiale.  Risulta edulcorato, così, l’originario significato latino ereditato, invece, dal  dialettale salentino fatu. Va precisato, altresì, che fatuo è voce tecnica, giuridica usata passato come sinonimo di mentecatto. infermo di mente, come si legge, per esempio, in Index omnium materiaru, quae in Venetiarum Statutis continentur, alphabetico ordine digestous, et per D. Andream Trivisanum iuris doctorem noviter in lucem editus, Comino de Tridino del Monferrato, Veneizia, 1548, p. 47: Si veramente il fatuo moriva avanti, che alcuno de li figlioli, overo discendenti mascoli de etade de anni 14 sarà pervenuto, over se ello non ha lassado dopo la soa morte alcun figlio, over descendente, il tutor allhora …

È probabile che alla data del 1671 la condizione mentale del ventenne Galeazzo Antonio non fosse ufficialmente nota e che per il Fapane egli fosse destinato ad essere l’erede di Cosimo. Sembra infatti quasi una damnatio memoriae,il fatto che il nome di Galeazzo non compaia tra quello dei figli di Cosimo in Casimiro di S. Maria Maddalena, Cronica della Provincia de’ Minori Osservanti Scalzi di S, Pietro d’Alcantara nel Regno di Napoli, Abbate, Napoli, 1729, tomo I, ove, a p, 176 si legge: Da Essi [Cosimo Pinelli e Anna Ravaschieri] nacquero D. Gaetano, D. Benedetto, D. Oronzio, e D. Daniello, oltre alle Femmine e perché D. Gaetano e D. Benedetto morirono giovani, li succedè il terzo fratello. Don Oronzio adunque fu quinto Marchese di Galatone, duca di Acerenza e principe di Belmonte.

Se la nostra ricostruzione è esatta, siamo in presenza di lodi che, pur sincere con tutti i limiti imposti dal do ut des ricordato all’inizio, alla luce della storia appaiono tragicamente grottesche.

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1 Alla lettera Piccole gocce di Castalia. Già nel titolo il richiamo al mito: Castalia era una ninfa, una delle tante vittime della lussuria di Apollo (la più famosa,è Dafne mutata in alloro), che, per sfuggire alle attenzioni del dio si gettò nella fonte Castalia sul monte Parnaso; secondo un’altra versione del mito fu Apollo a tramutarla in una fonte, alle cui acque conferì il potere di far diventare poeta chiunque vavesse bevuto la sua acqua. Per le altre opere e per alcuni componimenti sparsi in varie raccolte altrui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/13/copertino-un-suo-figlio-marinista-giuseppe-domenichi-fapane/

2 Fiume della Beozia sacro alle Muse, che nasce sull’Elicona.

3 Autore di Epistole heroiche, Baba, Venezia, 1655; Istoria de’ poeti Greci e di que’ che in Greca lingua han poetato, Bulifon, Napoli, 1678; Elogii d’huomini letterati, Comi & La Noù, Venezia, 1666; Vita di S. Rocco, Conzatti, Venezia, 1666.

4 Per le loro nozze il neretino Antonio Caraccio scrisse l’epitalamio Il Fosforo (Micheli, Lecce, 1650).

5 L’episodio dell’ebrea che durante l’assedio i Gerusalemme ad opera di Tito, vinta dalla fame, divorò un figlioletto è in Giuseppe Ebreo, VIII, 13.

6 Con lo stesso valore ambiguo, che qui stupendamente conserva. del latino pro che può significare tanto a vantaggio di quanto  al posto di.

7 Errore, probabilmente di stampa, per exanimare.

8 Questa virgola va spostata dopo Magno.

9 Appellativo di Neottolemo, figlio si Achille, a sua volta figlio di Peleo e Teti.

10 Come detto all’inizio, Anna Maria Ravaschieri.

11 Fatto derivare dal latino galeatus=munito di elmo, participio passato di galeare, a sua volta da galea=elmo di cuoio.

12 A Galeazzo Francesco (II) un altro salentino, il Galatonese Giovanni Pietro D’Alessandro (1574-1649)  più di mezzo secolo prima aveva dedicato il poema Hierosolymae eversae, uscito per i tipi di Gargano e Nucci a Napoli nel 1613. inoltre a sua moglie Livia Squarciafico e al loro figlio Cosino il D’Alessandro aveva dedicato alcuni epigrammi. Di questi tratteremo a breve in un altro post, mentre ci pare opportuno dire qui qualcosa in più sul poema.

Hierosolymae eversae Io(hannis) Petri de Alexandro iure consulti Galatei, et academici Ociosi libri decem ad illustrissimum Galeatium Franciscum Pinellum III,  Acheruntiae ducem, et Galatulae marchionem. Neapoli In typographia Ioannis Baptistae Gargani & Lucretii Nucci. MDCXIII (I dieci libri della Gerusalemme abbattuta di Giovanni Pietro D’Alessandro giureconsulto galatonese e accademico oziosoa per l’illustrissimo Galeazzo Francesco Pinelli terzo duca di Acerenza e marchese di Galatone. A Napoli.nella tipografia di Giovanni Battissta Gargano e Lucrezio Nucco. 1613).

In basso lo stemma della famiglia Pinelli: scudo con sei pigne poste 3, 2, 1 e sormontato dalla corona ducale.

Riportiamo integralmente, con la nostra traduzione, la dedica che precede il testo del poema, anche perché potrebbe essere di non non poco aiuto, data l’affidabilità dovuta non solo alla cronologia (quanto più passa il tempo più diventa problematica la ricostruzione storica) ma anche al fatto che il dedicante non poteva certo inventarsi balle, a diradare qualche dubbio o a correggere qualche errore dovuto a confusione per omonimia, tutt’altro che infrequente nella ricostruzioni genealogiche.

Illustrissimo Domino Galeatio Francisco Pinello III Acheruntiae duci, et Galatulae marchioni, etc. Natura comparatum est, ut unius resolutio sit planè alterius rei generatio, quo sanè in Ecclesiae Dei Naturae parentis satis conspicuo exemplo est nobis compertum. Eversa enim funditus terrena Christiani nominis hoste, Sacra paulatim consurgit Hierosolyma, eiusdem assertrix, ut potè Catholicae Ecclesiae incrementu, et splendor. Id quod inter primarias Christiani Orbis familias non parum videtur auxisse PINELLA gens tua, summorum nimirum praesulum mater (Dux Illustrissime) ex his plurimum sibi vendicat BAPTISTA ille Pinellus immortalis memoriae Consentinus antistes Innocentii VIII Summi Pont(ificis) nepos, cuius virtus in dioecesi lustranda, moribus emendandis collapsa Ecclesiae disciplina erigenda; Templis exstruendis, xenodochiis instaurandis, egentium inopia sub levanda ita enituit, magnique viri Religio, pietas, prudentia, solertia eò ssanctitatis excrevit, ut in tantis saeculi tenebris non secus, ac divinum quodam lumen effulserit, utque meritò Brutii tanti praesulis memoriam cum Divorum veneratione propè coniunxerint. Huius pronepos DOMINICUS Romam in Aula diù versatus gravissimis Catholicae Ecclesiae muneribus obeundis ita respondit, ut ad Sacrae purpurae apicem, mox ad Collegii Principatum evectus fuerit. Quorum vestigiis planè inhaesit IOANNES VINCENTIUS Illustrissimi genitoris tui patruus, in quo exornando (npvit tota Italia, novit universa Europa) immensa scientiarum moles cum religione, et prudentia certarunt. Neque verò caeteros, Illustrissimae familiae tuae Regulos seculari ditione praestantes omittam, quippè qui et ipsi religione, iustitia, pietate, fortitudine Christianae Reipublicae administrandae, eidemque defendendae maximo sunt decori, et adiuvamento. Hos inter eminet BARTHOLOMEUS  Pinellus strenuus militiae Dux idemque summae pietatis Haeros, qui ducentis fermè ab hinc annis contrà summos Reges pro Ecclesiae libertate arma induere non est veritus. Mitto COSMUM seniorem, cuius eximia in tàm magna fortunae amplitudine, animi moderatio patruum nostrorum aetati conspecta, et posteritati in primis est memorabilis, COSMO GALEATIUS avus tuus est genitus, quem non magis paternae peramplae ditiones, quam suae ipsius virtutes, et merita extulerunt. Is omnia vitae munera persanctè implevit, prpinquos, et amicos liberalitate, et hospitalitate iuvit, subditis aequitate,iustitia, charitate imperavit, et Catholico PHILIPPO REGI II fidelem, et strenuam bello operam saepiùs navavit, quem Rex grato animo prosecutus Turonensis ditionis MARCHIONEM, MOX ACHERAUNTIAE Ducem creavit. De Illustrissimo  autem COSMO psatre tuo Acheruntiae Duce, et Galatulae Marchione quis noster erit semo, quod nam principium, quis nam finis? Satius est tacere, quam in tàm vasto laudum pelago pauca dicere. Quis enim eius in Deum religione, Templaque per ipsum innumerabilibus impensis Deo dicata, et immodica per eundem piè legata miserabilibus, et egenis, in amicos, propinquos, et subditos eiusdem pietatem, generositatem, caeterasquw animi, et corporis dotes, quis scientiarum numeros, quibus undique enituit enarrare valeat? Quisvè eius inarmis praestantiam satis commendet, quam cum multa alia, tùm potissimum expeditio contrà turcas  diebus fermè nostris aoud Tarentumostendit? Quis denique grave, et cum primis perspicax in arduis, maximisque rebus consilium praedicare satis praesumat? Ut non immerità à PHILIPPO III Augustissimo Magni Cancellariatus munere in Regno Neapolitano insigniri promeritus fuerit. Caeterum in te (Dux Illustrissime) contestatam maiorum tuorum in Deum religionem, animi candorem, morum suavitatem, gravitatem, totiusque vitae integritatem, quibus summa ingenii felicitas, et scientiarum in tenera adhuc aetate non levis cognitio accessit, estnè aliquis qui non admiretur, ac tantas animi tui et corporis dotes non colat, et recolat? Neque tantum paterna gens tua, sed et Illustrissima materna Grilla familia summa praestitit religionis dignitate; ex ea enim (materno latere) ortus est summus ille, et nunquam satis laudatus Catholicae pietatis assertor. Innocentius IIII aeternae memoriae Christi Vicarius, ut caeteros eiusdem Illustrissimae familiae S. R. E. Cardinales, et meritissimos praesules, et Haeroes toga, et armis clarissimos omittam. Iam verò pium EVERSAE HIEROSOLYMAE poema à me summis vigiliis elaboratum tibi pietate, et religione insigni Regulo, et ex antiquissima, et nobilissima familia longa piorum Haeroum serie sacrae Hierosolymae instauratrice progenito consecrare opere pretium duxi, quod praeterea naturalis mei erga te debiti, et Regii iuris obsequium postulat. Sume igitur hilari fronte (mi Dux, et Maecenas) addictissimi servi munus, tibi uni iure optimo omnique ex parte debitum. Deus Optimus Maximus te incolumem diutissimà servet, vota secundet, et ad maiora evehat. Neapoli Nonis Maii MDCXIII. Servus humilissimus Io(hannes) de Alexandro i(uris) C(onsultus) Galateus.   

All’illustrissimo don Galeazzo Pinelli terzo duca di Acerenza e marchese di Galatone etc.

Dalla natura fu disposto che la conclusione di un fatto fosse chiaramente  l’origine di un altro, come da noi fu scoerto senza dubbio nell’esempio abbastanza cospicuo della Chiesa di Dio padre della natura. La sacra terrena Gerusalemme di nome cristiano, infatti, abbattuta dalle fondamenta dal nemico a poco a poco risorge a sua difesa come potente incremento e splendore della Chiesa cattolica, cosa che non poco sembra aver accresciuto tra le primarie famiglie del mondo cristiano la tua famiglia Pinelli. madre di presuli certamente grandissimi (o duca illustrissimo), tra i quali rivendica a sé soprattutto quel Battista Pinelli d’immortale memoria arcivescovo di Cosenzab, nipote del sommo pontefice Innocenzo VIII. la cui virtù nel curare la diocesi, nel correggere i costumi, nel ripristinare la disciplina della chiesa venuta meno, nel costruire templi, nel restaurare foresterie, nell’alleviare la mancanza di mezzi dei bisognosi tanto brillò e la religiosità, la generosità, la prudenza e la solerzia di un uomo magnifico giunse a tal livello di santità che nelle tante tenebre del secolo risplendette non diversamenre da una luce divina e meritatamente i calabresi congiunsero quasi la memoria di un presule così grande con la venerazione degli Dei. Il pronipote di questi Domenicoc impegnato a lungo a Roma nell’affrontare pesantissimi incarichi della chiesa cattolica rispose così bene che fu innalzato al titolo della sacra porpora, poi alla direzione del Collegio. Di loro seguì certamente le orme Giovanni Vincenzo, zio del tuo illustrissimo padre, nel quale a distinguerlo (lo sa tutta l’Italia, lo sa l’Europa intera) l’immensa mole di conoscenza e la prudenza gareggiarono con la religiosità. Né certamente passerò sotto silenzio gli altri principid che si distinsero per potere secolare, i quali certamente pure loro per religiosità, giustizia, generosità, forza sono di massimo decoro ed aiuto ad amministrare lo stato cristiano ed a difendere lo stesso. Tra questi spicca Bartolomeo Pinelli strenuo comandante militare ed egli stesso eroe di somma generosità, che circa duecento anni fa non ebbe paura ad indossare le armi contro sommi re per la libertà della Chiesa. Aggiungo Cosimo il vecchio, la cui esimia moderazione d’animo in tanta ampiezza di fortuna, ben nota al tempo dei nostri padri, è memorabile sopra ogni altra anche per la posterità. Da Cosimo fu generato il tuo avo Galeazzo, che gli amplissimi poteri paterni elevarono non più delle sue virtù, e meritatamente. Egli santissimamente espletò tutti i doveri della vita, aiutò i congiunti e gli amici con generosità ed ospitalità, comandò i sudditi con equità, giustizia, carità e, fedele al re cattolico Filippo II più volte prestò anche la sua coraggiosa opera in guerra. Il re apprezzando con animo grato lo creò marchese del dominio di Tursie, poi duca di Acerenza. Sull’illustrissimo padre tuo Cosimo duca di Acerenza e marchese di Galatone quale sarà poi il nostro discorso, quale il principio, quale la fine? Sarebbe preferibile tacere che dire poco in un mare così vasto di lodi. Chi infatti sarebbe in grado di passare in rassegna la sua devozione a Dio, i templi da lui dedicati a Dio con incalcolabili spese, i non modesti suoi lasciti generosamente fatti a favore dei miseri e bisognosi , il suo affetto, la generosità e le altre doti dell’animo e del corpo nei confronti degli amici, dei parenti e dei sudditi, chi l’ampiezza di conoscenza, per le quali cose si distinse dappertutto? O chi potrebbe illustrare il suo valore nelle armi che tanto molte altre gesta quanto soprattutto la spedizione quasi ai nostri giorni contro i Turchi presso Taranto mostra?f Chi infine potrebbe presumere di celebrare a sufficienza insieme con le cose dette prima la saggezza profonda e perspicace in circostanze difficili e importantissime? Sicché non immeritatamente ottenne di essere insignito dell’incarico del gran cancelliarato nel regno di Napoli dll’augustissimo Filippo III. Del resto c’è forse chi non ammiri in te (o duca illustrissimo) la testimoniata devozione in Dio dei tuoi avi, il candore dell’animo, la dolcezza dei costumi, la serietà e l’integrità di tutta la vita, cui si aggiunse la fortuna di un sommo ingegno e fin dalla tenera età la conoscenza delle scienze, e non apprezzi e riapprezzi le doti così grandi del tuo animo e corpo? Nè solo la tua stirpe paterna ma anche l’illustrissima famiglia materna Grillog  si distinse per la somma dignità della religiosità; da essa infatti (dal lato materno) nacque quel sommo e mai sufficientemente lodato difensore della religione cattolica Innocenzo III di eterna memoria vicario di Cristo, per non dire  degli altri cardinali di Sacra Romana Chiesa e molto benemeriti presuli ed eroi famosissimi in pace e in guerra della stessa illustrissima famiglia. Infine ho considerato un privilegio consacrare con un’opera il poema religioso della Gerusalemme espugnata da me composto in lunghe veglie a te, principe insigne per generosità e religiosità e discendente da antichissima e nobilissima famiglia lunga serie di pii eroi,  restauratrice della sacra Gerusalemme; questo inoltre richiede il rispetto del mio debito naturale verso te e del regio diritto. Accetta dunque di buon  viso (o mio duca e mecenate) il dono di un servo obbligatissimo, a te solo dovuto a buon diritto e sotto ogni aspetto. Dio ottimo massimo ti conservi sano e salvo per lunghissimo tempo, assecondi i tuoi desideri e ti spinga ad imprese più grandi. Napoli, 7 maggio 1613. Umilissimo servo Giovanni De Alessandro giureconsulto di Galatone.

Per completezza aggiungiamo che Galeazzo Francesco (II) fu celebrato anche da Giovan Battista Basile (1566-1632) nell’ottava 49 del libro V del Teagene uscito postumo per i tipi del Facciotti a Napoli nel 1637:  Un Galeazzo ancor prodigo altrui,/quanto largo di pregio ò lui fù ‘l Cielo,/non vedrà mai ne’ fatti incliti sui/giunger del Tempo, ò de la Morte il telo./O mille volte fortunati, à cui/dato in forte à vestir terranno velo/sarà in quei lieti, e fortunati giorni,/quando un sì vivo lume il Mondo adorni!

Il leccese Iacopo Antonio Ferrari (1507-1587), infine, gli dedicò Antichità di Napoli (rimasto manoscritto) secondo quanto si legge nell’Apologia paradossica  pubblicata postuma per i tipi di Mazzei a Lecce nel 1707: … ed avendo poi io scritta al mio libro dell’antichità di Napoli all’illustre Signor Marchese  di Galatole Galeazzo Pinello…

Nell’immagine che segue, tratta da Scipione Mazzella, Desxcittione del Regno di Napoli, Cappelli, 1586, p.  426,  lo stemma di Galeazzo Pinelli marchese di Tursi.

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a L’accademia degli Oziosi fu fondata a Napoli nel 1611. Tra i suoi membri più illustri annoverò Giulio Cesare Capaccio, Giambattista Basile e Tommaso Campanella. Il D’Alessandro, oltre a Hierosolymae eversae  pubblicò pure: Dimostratione di luoghi tolti , et imitati da più autori dal Sig. Torquato Tasso nel Gofredo, overo Gerusalemme liberata, Vitale, Napoli, 1604 (dedicato a Girolamo De Monti marchese di Corigliano); Academiae Ociosorum libri III, Gargani e Nucci, Napoli, 1613 (dedicato a Pietro Ferdinando Castro marchese di Lemos e vicerè del Regno di Napoli); Arnus, Micheli, Lecce, 1636 (dedicato al cardinale Antonio Barberini, Suoi epigrammi in latino sono presenti in Alessandro Tommaso Arcudi, Galatina letterata, Celle, Genova 1709 (uno a p. 34 dedicato a Silvio Arcudi, un altro a p. 52 dedicato a Tommaso Cavazza (ma quest’ultimo epigramma era già uscito nella seione Epigrammatum liber posta in coda alla Dimostrazione di luoghi …, op. cit., p. 259); nella seconda parte della raccolta dedicata alle Esequie della Serenissima Reina Margherita d’Austria,  Longp, Napoli, 1612, p. 29 (un centone virgiliano di 91 esametri); in Giulio Cesare Grandi, Varii componimenti volgari, e latini in lode dell’illustrissimo signor Don Francesco Lanario, et Aragona hora  Duca di Carpignano , Cavaliero dell’habito di Calatrava, e del Consiglio di Guerra di Sua Maestà Cattolica ne’ stati di Fiandra, Governator Generale della Provintia di Terra d’Otranto, con la potestà ad modum belli, Cirillo, Palermo, 1621 (uno a p. 37) ; in Francesco Antonio Core, Historia della imagine miracolosa del Glorioso Crocifisso  della Pietà riverito nella Terra di Galatone, Roncagliolo, Napoli, 1625 .

b Dal 1491 al 1495.

c (1541-1611) nel 1563 entrò come referendario nel Supremo tribunale della Segnatura apostolica; nel 1585 Sisto V lo nominò cardinale, nel 1607 divenne decano dell’ordine cardinalizio.

d Traduciamo così Regulos che alla lettera significa reuccio e che qui ha solo un valore distintivo rispetto ai rappresentanti religiosi della famiglia.

e Crediamo che il Turonensis del testo sia un errore di stampa per Tursonensis.

f Il tarantino Cataldo Antonio Mannarino nella sua Oligantea delle lodi di Alberto I Acquaviva d’Aragonam, Carlini e Pace, Napoli, 1596.

g Cosimo Pinelli aveva sposato Nicoletta Grillo nel 1588.  Data la minore età, Francesco Galeazzo alla morte del padre (1601 o 1602)) aveva assunto il feudo sotto la tutela della madre.

Leonardo Prato: l’arco a Lecce e il monumento funebre a Venezia

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

Armando Polito – Marcello Gaballo, Leonardo Prato: l’arco a Lecce e il monumento funebre a Venezia

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 419-440

 

 

ITALIANO

Un monumento funebre nella chiesa veneziana dei santi Giovanni e Paolo e un antico arco nel cuore di Lecce accomunati da un unico destinatario, il frate guerriero Leonardo Prato, costituiscono l’occasione per un excursus sulla figura di questo poco conosciuto condottiero leccese e sui simbolismi contenuti nelle testimonianze architettoniche a lui dedicate. Lo studio dell’arco, in particolare, focalizza il proprio interesse sull’immagine di un putto su tartaruga: un’icona antica, dai reconditi significati, ripresa successivamente in vari contesti.

 

ENGLISH

A funeral monument in the Venetian church of St. Giovanni and St. Paolo and an ancient arch in Lecce’s hearth united by an only receiver, the warrior friar Leonardo Prato, form the occasion for an excursus on the image of this not very known Leccese condottiere and on the symbolism contained in the architectural testimonies dedicated to him. The study of the arch in particular focuses the interest on the image of a putto on a tortoise: an ancient icon, by secret meanings, taken up again later in various contexts.

 

Keyword

Armando Polito, Marcello Gaballo, Leonardo Prato, Venezia, Lecce

Otranto. La masseria Cippano e il suo stemma trafugato

di Marcello Gaballo

Chi ci segue ormai sa bene che è nostra prassi riprendere periodicamente dei post già pubblicati in questi sei anni, pubblicizzandoli attraverso i social. Così è stato anche per il bel contributo di Alice Russo apparso nel 2015:

che è stato riletto da tanti, tra cui anche Michele Bonfrate. E’ stato lui ad inviarci alcune foto del complesso masserizio fortificato ubicato in territorio di Otranto, sulla strada che conduce a Porto Badisco, ovvero la masseria Cippano, espropriata dalla Riforma Fondiaria alla famiglia dei De Marco di Casamassella.

Le foto che si ripropongono equivalgono ad importanti testimonianze, osservandosi in esse lo stemma che un tempo era collocato sulla caditoia corrispondente all’ingresso del piano superiore, trafugato da ignoti dopo il 1978.

Con precisione, come ci fa osservare Michele Bonfrate, che ringraziamo per la cortesia, si tratta di due foto del 1978-79 scattate dall’architetto Vincenzo Peluso che gliele fornì nel 2013.

 

La terza foto ritrae lo stemma oggi inesistente della masseria Cippano, pubblicata su Facebook dall’arch. Roberto Campa, di cui non si è potuto rintracciare l’autore nè risalire all’anno in cui fu eseguito lo scatto.

E’ grazie alle foto sopravvissute che ci è consentito di risalire ai proprietari che fecero incastonare nel parapetto della caditoia il signum proprietatis, ovvero lo stemma di famiglia. Si tratta di una ben definita testimonianza araldica racchiusa in uno scudo rotondeggiante ornato ai suoi bordi da elementi nastriformi accartocciati, quasi a richiamare un sole radiato. Nella parte superiore  è sormontato da un elmo con la sua visiera, anche questo lapideo e ben realizzato.

Nel centro dello scudo si osserva una mezzaluna (che in araldica si chiama “crescente”) disposta orizzontalmente e tre stelle di otto raggi, di cui due superiori ed una nella parte inferiore.

Gli elementi araldici rappresentati rimandano allo stemma della nobile ed antica famiglia otrantina De Marco, decorata del titolo baronale su diversi possedimenti di Terra d’Otranto, tra cui Casamassella, Giurdignano, San Cassiano, Vaste.

Lo stile del manufatto fa pensare ad un’epoca di realizzazione compresa tra il sec. XVII e XVIII, ma qui servono i documenti per confermare la proprietà dell’antico complesso, il cui nucleo originario è senz’altro precedente allo stemma che era qui presente.

Nella foto che segue si ritrae lo stemma di famiglia a Vaste, dal quale si evidenziano in maniera più chiara le diverse parti che lo caratterizzano

 

Dello stemma in verità conosciamo anche i colori che lo contraddistinguevano e il modo corretto di blasonarlo: d’azzurro al crescente montante d’argento e tre stelle dello stesso, due in capo ed una in punta.

In pratica, sullo sfondo azzurro vi erano la mezzaluna e le tre stelle di color argento. Solo per completezza occorre precisare che in alcune varianti dello stemma dei De Marco le tre stelle sono “comete”, come abbiamo potuto riscontrare a Presicce.

 

PROCUL OMNE VENENUM. Facebook (si fa per dire…) chiama, Fondazione Terra d’Otranto risponde (si fa per dire …)

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Sgombriamo preliminarmente il campo da qualsiasi equivoco in cui il titolo, lì per lì, potrebbe far incorrere. Mark Zuckerberg non si è messo in contatto con questo blog per porgere anche ad esso le sue scuse per qualche trafugamento di suoi dati, come ha fatto da poco col Congresso americano, i cui cervelli (come quelli di qualsiasi altro organo governativo di rappresentanza avrebbero dovuto da tempo quanto meno sospettare l’inconveniente. Invece,come al solito, si tenterà di chiudere, magari maldestramente, la strada dopo che le vacche sono fuggite e sono state messe e vendute sul mercato …

Eppure, senza Facebook, quanto stiamo scrivendo non avrebbe avuto occasione o ragione di esistere, perché esso nasce da una semplice richiesta di aiuto che Mario Cazzato ha rivolto in un commento ad un suo recentissimo post apparso, sul suo profilo facebookiano, l’11 aprile u. s.

Tutto ciò spiega il primo si fa per dire … del titolo; per quanto riguarda il secondo, esso si riferisce ai magri risultati del nostro tentativo di risolvere il quesito che poneva e che può condensarsi nella lettura dell’immagine che segue.

Il lettore che abbia interesse troverà notizie sul contesto nel post prima ricordato.

Cominciamo dalla parte testuale.

Nel cartiglio superiore si legge  PROCUL OMNE VENENUM, la cui traduzione è Lontano (da noi) ogni veleno. Si direbbe il motto riportato a caratteri maiuscoli sulla lista accartocciata che sovrasta lo stemma nobiliare, che araldicamente è ineccepibile e completo nelle sue diverse parti: lo scudo a testa di cavallo, sulla cui immagine interna torneremo tra poco, l’elmo, il cimiero (in questo caso una testa di cavallo o di liocorno) e gli svolazzi. Il tutto egregiamente intagliato ed evidente realizzazione di esperte maestranze. L’unica perplessità è suscitata dalla collocazione del motto che generalmente si tende a posizionare in basso rispetto allo scudo.

Le indagini fatte, anche per il poco tempo ad esse dedicato, non hanno consentito di sapere a quale famiglia il motto appartenesse, ma solo di ricostruire, in qualche modo, la sua origine. I testi citati di seguito sono stati trascritti fedelmente, errori di stampa (o meno …) compresi. Sulla famiglia alla quale sarebbe da ascrivere lo stemma torneremo alla fine.

In Advento del P. Maurilio di S. Britio, Vigone, Milano, 1665 a p. 92 inizia una predica sulla concezione di Maria Vergine dal titolo Monte Olimpo o l’altezza di Maria sopra tutte le Creature. Al suo interno (p. 1069 si legge: “Che nella cima dell’Olimpo non vi siino animali nocivi, alcuni, (non sò se vera, ò favolosamente) l’affermano; ma dell’Olimpo della Vergine posso ben dire procul omne venenum, mercè che Iddio nell’sstante della sua Concettione gli diede in dote Caelum, una cum Paradiso, come attesta Epiffanio.”.

Il concetto e la locuzione sono ribaditi in Teatro morale di Giovanni Battista Bovio da Novara, Bernabò e Lazzarini, Roma, Roma, 1749, p. 20: “Egli è volgato quel detto dell’Olimpo, qual’è situato tra la Macedonia, e la Tessaglia, Nubes excedit Olimpus. Fu effigiato con altri monti più bassi, che gli formano intorno umile, ed ossequiosa corona, col motto Ultra omnes, affinchè s’intendesse, che non ha superiore, ne pari. Nella cima di lui non vi sono animali nocivi,onde porta nel capo il motto: Procul omne venenum.”

La locuzione stessa, però, appare come la riduzione di una più estesa e che costituisce il motto della marca tipografica di Girolamo Cartolari attivo a Roma dal 1543 al 1559. Ecco come appare (invertita) in una pubblicazione del 1546.

Intorno ad un liocorno impennato; con in alto sole, luna e stelle e sullo sfondo un paesaggio, si legge, procedendo per ogni sIngola parola da destra verso sinistra:

SINT PROCUL OBSCURAE TENEBRAE ET PROCUL OMNE VENENUM (Siano lontano le oscure tenebre e lontano ogni veleno).

È un esametro, come appare evidente dalla scansione (in rosso la fine di ogni piede (I) e la cesura (II).

La èrima parte sembra riecheggiare un esametro di Tommaso di Kempes (1380 circa-1471), De imitatione Christi, XXI, 61: Sint procul invisae tardis de nubibus umbrae (Stiano lontano le odiate ombre che scendono dalle lente nuvole).

Difficile dire se ci sia un collegamento tra questo imotto  e il liocorno da una parte e, dall’altra, la sua presenza parziale e quello che si direbbe una viverna, cioè un drago con due zampe d’aquila, ali e, all’estremità della coda di serpente, un pungiglione in grado di iniettare, secondo la leggenda, un veleno mortale o, nel migliore dei casi, paralizzante. Se è così, all’immagine andrebbe attribuita una valenza apotropaica o scaramantica, anche se il motto ben si sarebbe adattato pure se il mostro fosse stato un generico drago, simbolo di vigilanza e protezione.

Chiudiamo con la trascrizione e traduzione dell’epigrafe sottostante.

LUCIAE BONATAE FOROIULIENSIS/ALOISII FIDELIS E MEDIOLANENSI NOBILITATE/OLIM CONIUGIS SACELLUM HOC AERE EX/CITATUM ET S(ANCTO) IO(ANNI) BAPTISTAE DICATUM/DIRUTUMQUE POSTEA AB EADEM FIDELI FAMI/LIA RESTITUTUM COENOBITARUMQUE DILI/GENTIA EXORNATUM UT PIO POSITUM/EST ANIMO ITA GRATO ADVERSUS VIRTUTE MULIEREM INSTAURATUM EST

Questa cappella di Lucia Bonati friulana1, già moglie di Luigi Fedele2, di milanese nobiltà, danneggiata da eventi atmosferici e dedicata a S. Giovanni Battista e andata in rovina, dalla medesima famiglia Fedele poi ricostruita e decorata  a cura dei cenobiti, come fu con pio animo costruita così  con (animo) grato nei confronti di una donna di virtù fu dedicata.

Sulla famiglia Bonati abbiamo trovato quanto segue. Esso è poco, ma ne confermerebbe, almeno l’origine lombarda.

Giovanni Battista Pacichelli in Il regno di Napoli in prospettiva, Parrino e Mutio, Napoli, 1703, p. 254 registra i Bonati fra le famiglie nobili di Milano, a p. 262 tra quelle di Orvieto

‘Vincenzo Lancetti in Biografia cremonese, Tipografia di Commercio al boschetto al commercio, Milano, 1820,, v. II, pp. 391-392, scrive:

“BONATI Traco, ed Albino, chiari nella storia di Crema del duodecimo secolo. Nell’assedio che Federico I pose a quel castello l’anno 1559, avvenne che i Cremaschi, presa di mira co’ loro mangani, un’alta macchina che secondo l’uso di quei tempi aveva fatto costruire per approcciare il castello, e non sapendo l’Imperatore come far cessare la tempesta di que’ massi, ordinò che parecchi prigionieri Cremaschi venissero alla macchina legati, acciò il timor di uccidere i loro parenti rallentasse la furia degli assediati. Ma in essi la carità della patria ad ogni altri riguardo prevalse, così che ove de’ loro rimasero uccisi, tra i quali fu il povero Tacco. Ridotte però le cose all’estremo, e convenendo trattare una capitolazione, la quale venne stipulata il giorno 25 di gennaio dell’anno 1160, ALBINO de’BONATI fu uno de’ due Comaschi, che il Consiglio elesse a parlamentare. Così il Fino nel primo libro della sua Storia,  i quale anche nell’atto di investitura della sovranità accordata al Benzoni nel 1403 offre un ZANINUS DE BONADIE Ttra gli accettanti. Egli è quindi probabile che da questa famiglia Cremasca sia discesa la linea tuttor fiorente de’ BONATI di Cremona; de’ quali (per non parlar dei viventi) nessun altro so ricordare che il prete ANTONIO morto nel 1718, di cui dà notizia l’iscrizione che Vaivani riporta al n. 438.”.

Ci rendiamo perfettamente conto che, anziché rispondere compiutamente alla domanda principale, di averne suscitate altre, e non poche; ma per questa colpa (se di colpa si tratta …)  il lettore se la prenda, eventualmente, con Mario Cazzato e, ancor prima, con Facebook …

__________

1 Anticamente Forum Iulii (mercato di Giulio Cesare) era l’attuale Cividale; poi il nome derivato, Friuli, pasò ad indicare l’intera regione. Appare perciò errata la traduzione da Forlì che si legge in http://www.artefede.org/public/ArteFede/santacroce_apparato1.html; Il nome omano di Forlì era Forum Livii, la cui forma aggettivale sarebbe stata, nell’iscrizione, FOROLIVIENSIS.

2 Così in Giulio Cesare Infantino, Lecce Sacra, Micheli, Lecce, 1634, p. 120:”Vi è ancora dentro la medesima Chiesa [S. Croce] una Cappella della famiglia Fedele, ove si vede una bella dipintura in tela di San Giovanni Battista: opera di Girolamo Imperato Napolitano.”.

Giornate FAI di Primavera. Nardò e la chiesa di Santa Teresa

 

La chiesa era di pertinenza del monastero delle Carmelitane Scalze, fondato dalla neritina Suor Teresa di Gesù (1656-1718), al secolo Lidia Adami.

Istituire un nuovo monastero a Nardò fu da subito sua ferrea intenzione, ma la costruzione dell’impresa conobbe diverse interruzioni nonostante ella si applicasse caparbia senza sottrarsi mai ai lavori. L’atteggiamento oppositivo dei concittadini non aiutò, così come il decesso del vescovo Tommaso Brancaccio (1669-1677) che tanto l’aveva sostenuta impugnando la donazione del palazzo di famiglia «mezzo diroccato e distrutto» del nobile Marco Antonio Sambiasi del 1676.

Suor Teresa di Gesù mai rinunciò al suo progetto prezioso e mai cedette alle ostilità manifeste, tanto che nel tempo riuscì ad assecondarne i lavori con l’appoggio di quanti le avevano offerto sostegno. Ultimata la parte inferiore dell’insediamento religioso e pronta a dedicarsi alla costruzione delle celle al piano superiore, chiese ai suoi padri spirituali l’autorizzazione a questuare in numerosi centri di Terra d’Otranto.

Cercò poi di risolvere l’annoso problema dei confinanti, che avrebbero potuto violare la riservatezza della clausura delle sorelle. Congiunto al monastero vi era infatti il palazzo dei baroni Delli Falconi, che dimoravano da oltre un secolo nel loro hospicium, provvisto di giardino e posto sull’attuale via Puzzovivo, alle spalle dunque della chiesa di S. Teresa.

Intorno alla metà del Seicento fu il barone Vitantonio Delli Falconi a cedere alle monache la quota del palazzo a lui spettante.

Il conservatorio tale rimase per circa sette anni prima di esser trasformato in monasterium con l’obbligo della clausura. L’approvazione e il riconoscimento dell’osservanza della regola delle carmelitane scalze per l’insediamento neritino si ebbe il 17 gennaio 1699, grazie alla postulazione del cardinale Giuseppe Renato Imperiali (1651-1737) dei principi di Francavilla che sostennero l’impresa con elargizioni e doni.

Le prime monache furono in numero di dodici e l’anno di noviziato si concluse nel 1700.

La chiesa annessa al monastero, antecedente rispetto all’attuale, consistente in un grande salone a pianterreno, «al piano delle Case donateli dalli Signori Sambiasi. In essa vi erano due altari, dei quali il maggiore dedicato a S. Teresa e l’altro a S. Giovanni della Croce.

ph Lino Rosponi

 

In quarant’anni non si smise mai di lavorare a una nuova sontuosa chiesa di maggiori dimensioni con ingresso sulla via principale e dunque aperta ai fedeli. Iniziata durante l’episcopato di mons. Francesco Carafa (1736-1751), come dimostra lo stemma del presule sulla facciata, non fu mai ultimata a causa del terribile sisma del 1743.

Per rimediare ai danni del sisma le monache dovettero procedere ad alcune operazioni, liberandosi di alcune proprietà o effettuando delle permute, col fine di poter ottenere liquidità per avanzare nella ristrutturazione dei locali in cui risiedevano. Per la chiesa attesero ancora qualche anno perché venisse completata dai fratelli Saverio, Gregorio e Cosimo De Angelis «mastri muratori della città di Nardò», originari di Corigliano d’Otranto, autori anche della progettazione.

Il completamento dell’opera avvenne a più riprese dal 1762 al 1769, sempre per intervento dei fratelli De Angelis che costruirono la bellissima e complessa struttura voltata, il coronamento della preesistente facciata e la scala balaustrata.

Il 10 novembre 1769 venne finalmente consacrata dal vescovo neritino Marco Petruccelli.

In obbedienza al decreto del 7 agosto 1809 di soppressione di ogni ordine religioso nel Regno di Napoli emanato da Gioacchino Murat (1767-1815) e che decretò la chiusura di 120 conventi nella sola Terra d’Otranto, il 29 novembre 1810 il monastero teresiano a Nardò dovette adeguarsi.

In uno dei due giardini dell’edificio è stata costruita l’attuale biblioteca comunale. La chiesa invece fu affidata alla confraternita del Sacramento, che ancora la tiene in cura.

 

ph Lino Rosponi

 

Successivamente al disastro sismico del 1743 i maggiori introiti derivanti dalle offerte dei numerosi benefattori e il discreto numero di fanciulle che decisero di monacarsi, delle quali molte discendenti da prestigiose famiglie di Terra d’Otranto, consentirono di realizzare una nuova e più capiente chiesa da sostituirsi a quella originaria a pianterreno, affiancata all’attuale e a navata unica, che sarebbe rimasta ad uso esclusivo delle claustrali nell’interno del monastero.

L’attuale corpo di fabbrica, risalente alla seconda metà del Settecento, fu realizzato in tufo, con una facciata che si sviluppa in due ordini sovrapposti, con una parte centrale concava e due corpi laterali che avanzano fin quasi a comprendere il convesso scalone antistante l’ingresso.

Quel che colpisce della parte inferiore della facciata è senz’altro il corpo centrale con lo stemma di mons. Carafa, Sulla parte più alta della facciata, sul frontone curvo, è scolpita invece l’insegna carmelitana delle monache, che mostra una croce accompagnata ai lati e in basso da tre stelle.

ph Fabrizio Suppressa

 

Nell’interno della chiesa

Internamente l’edificio religioso presenta un unico ambiente di grandi dimensioni a pianta rettangolare. Lateralmente, sotto grandi arcate, in grande equilibrio con tutto il contesto, trovano posto due cappelle, posizionate una di fronte all’altra.

Il presbiterio, elevato da due gradini, è rettangolare e illuminato da due finestre laterali. In esso domina l’altare maggiore dedicato alla santa titolare, in pietra leccese con mensa. Sopra la mensa campeggia al centro il tabernacolo, unico elemento in marmo presente in chiesa.

Le dorature, riprese nell’ultimo restauro, ne fanno un elemento di grande risalto, che ben si inserisce nella già sontuosa scenografia dello sfondo. Sulla parete frontale, nella parte più alta, un pregevole crocifisso ligneo sembra dominare tutta l’aula. Al di sotto di essa, in una interruzione del cornicione, un tempo trovava posto la grata da cui le monache potevano assistere ai sacri riti pur rimanendo nel loro monastero. Dopo la soppressione dell’ordine, acquisito il monastero da privati, lo spazio fu tamponato e sulla superficie fu realizzata una pittura con angeli genuflessi in adorazione dell’ostensorio eucaristico, adottato come emblema della confraternita che custodisce l’immobile.

ph Fabrizio Suppressa

 

Sempre in senso verticale, sotto il predetto dipinto, vi è la bellissima tela raffigurante l’Estasi di S. Teresa, rettangolare, con cornice di legno intagliato e dorato, di metri 2 x 2,75. La santa, nell’abbandono mistico della visione e quasi tramortita, è ritratta pallidissima e con gli occhi chiusi nell’abito dell’ordine. Di fronte a lei in volo da destra un giovane angelo pronto a colpirla con la freccia del divino amore con la sua punta d’oro. In alto emerge dalle nuvole la Madonna del Monte Carmelo abbracciata teneramente dal divin Figlio, accompagnata da S. Giuseppe, anch’egli a mezzo busto ed emergente dalle nubi, col tipico bastone fiorito.

Sulla parete della nostra chiesa, sempre sul presbiterio, risaltano anche le due nicchie laterali a livello del pavimento e fiancheggianti l’altare, probabilmente ospitanti confessionali per le monache come può ancora vedersi nella chiesa claustrale locale di Santa Chiara. Inquadrate da cornici, particolarmente elaborate nell’ornato della parte superiore, dopo la soppressione furono tamponate. Successivamente trovarono posto le due statue della Madonna del Buon Consiglio (a sinistra) e del Salvatore (a destra), protette da apposite vetrine.

Statua della Madonna del Buon Consiglio (ph Lino Rosponi)

 

Sul lato sinistro, come ancora per il presbiterio della chiesa di Santa Chiara, vi era una grata attraverso la quale le monache potevano ricevere l’Eucarestia durante la Messa. L’apertura, di cui restano tracce di un arco, fu poi trasformata in armadio a muro con ante lignee, speculare all’altro ricavato sulla parete opposta. La mensa, anteposta all’originaria addossata al muro frontale, è posta al centro; rimovibile, è post conciliare ed in evidente contrasto con tutto il resto. Coevo a questa potrebbe essere l’ambone posto a ridosso del presbiterio sotto l’organo.

Collocato in cornu Epistolae, ovvero sul lato destro dell’altare a sinistra dall’ingresso, l’organo è disposto su un elaborato balcone della seconda metà del secolo XVIII, interamente in legno, con parapetto curvilineo.

Al centro dell’organo, sulla parte convessa e più sporgente, è riprodotto lo stemma dei Tafuri, in scudo riccamente ornato e sormontato da corona baronale.

Elaborato anche l’impianto del pulpito contrapposto, a cornu Evangelii, ovvero sul lato destro dall’ingresso, evidentemente coevo per le stringenti similitudini del disegno generale, per i colori e per la ricchezza degli elementi decorativi. Di dimensioni inferiori rispetto alla cantoria, ospita nella parte centrale convessa uno scudo riccamente ornato, lo stemma dell’ordine carmelitano.

Sotto il pulpito, cui si accede tramite una porta nella cappella di destra aperta sulla scala conducente anche al campanile, trova posto una statua dell’Addolorata protetta da una vetrina.

Gli altari laterali, come il maggiore, sono lapidei, realizzati nella seconda metà del XVIII secolo, stilisticamente omogenei per il gusto rocaille e con dimensioni pressoché uguali, tra i sei metri di altezza e oltre quattro di larghezza.

La cappella di destra ospita una tela lobata superiormente raffigurante S. Teresa e S. Giuseppe, datata e firmata da Vincenzo Fato.

Fa pendant con questa la cappella opposta dedicata al dottore della Chiesa S. Giovanni della Croce, sacerdote dei Carmelitani che, su invito di Santa Teresa di Gesù, fu il primo tra i frati ad aggregarsi alla riforma dell’Ordine.

Cantoria con organo (ph Fabrizio Suppressa)

 

Sempre all’interno dell’aula si leggono due iscrizioni, delle quali una dipinta su un ovale con cornice e stuccati e posizionata sulla porta che immette in sacrestia. Ci informa così del barone Vito Antonio Tafuri offertosi di sostenere le spese per il restauro:

L’altra è riportata sulla controfacciata, al di sopra del portone, in un elegante cartiglio con volute ed elementi vegetali a ricordo della consacrazione della chiesa celebrata il 10 novembre 1769 dal vescovo Marco Aurelio Petruccelli:

Quello che caratterizza questa chiesa, rispetto alle altre presenti in città, è senz’altro la fitta trama ornamentale degli stucchi, specie sulla volta, che risulta unica del genere per eleganza compositiva, tanto da renderla una delle più belle pagine nel panorama dello stucco di questo secolo in Terra d’Otranto.

Statua del Salvatore (ph Fabrizio Suppressa)

 

La statuaria nella chiesa di Santa Teresa

Particolare attenzione merita la statua del Redentore collocata nella nicchia frontale, a destra dell’altare maggiore, il cui valore artistico è innegabile in considerazione della pregevole fattura.

In legno policromo, ha subito un ultimo restauro dal maestro Antonio Malecore di Lecce. La plasticità del modellato e l’anatomia curata del corpo non possono escludere di ascriverla a Giacomo Colombo.

Sempre sul presbiterio, sul lato opposto in cui è ubicata la nicchia con la statua di S. Espedito, si trova un altro manufatto in cartapesta policroma che raffigura Santa Lucia, anche questa protetta da vetrina. Sul basamento è visibile la firma della «Premiata Ditta De Pascalis – Lecce», una tra le più rinomate botteghe di cartapesta leccese, con la data «1926».

Nella cappella di sinistra, in una nicchia laterale, trova posto un’altra interessante testimonianza dell’arte della cartapesta leccese, la statua di S. Agata, che si suppone essere di mano diversa rispetto alle altre. La santa è rappresentata a figura intera con il tronco flesso e le braccia tese alle spalle per via delle mani legate tramite corda a una semicolonna.

ph Fabrizio Suppressa

 

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