Gli Arcadi di Terra d’Otranto (5/x): Tommaso Maria Ferrari (1647-1716) di Casalnuovo

di Armando Polito

Va detto preliminarmente che dal punto di vista toponomastico l’attuale Manduria costituisce un caso curioso. Essa è Manduria in Tito Livio1 (I secolo a. C.-I secolo d. C.) e in Plinio2 (I secolo d. C.), Manduris nella Tabula Peutingeriana3, Μανδύριον (leggi Mandiùrion) in Stefano Bizantino4 (V-VI secolo d. C.), ancora Manduris nell’Anonimo Ravennate5 (VII secolo d. C.) e Amandrinum in Guidone6 (XII secolo d. C.). Distrutta dai Saraceni, fu rifondata nell’XI secolo con il nome di Casalnuovo. Tale nome conservò fino al 1789, quando con decreto di Ferdinando I di Borbone riassunse l’antico nome. Ecco perché nei cataloghi degli Arcadi si legge di Casalnuovo.

Il nome pastorale del Ferrari, che era entrato in Arcadia il 20 aprile 16927, era Filarete Nuntino.  Filarete è voce composta dal greco φἱλος (leggi filos)=amico e da ἀρετἡ (leggi aretè)=valore. Per quanto riguarda Nuntino, invece, ha tutta l’aria di essere una forma aggettivale, ma non riesco ad individuare la voce primitiva.

Il Ferrari era figlio di Francesco Antonio e di Vittoria Bruni, sorella del celebre Antonio8 . Per la biografia rinvio a Notizie storiche degli Arcadi morti, De’ Rossi, Roma, tomo I, pp. 59-62 (in cui si indica il 1692 come data del suo ingresso nell’Arcadia) e al testo del Concina che più avanti citerò.

A lui Domenico  De Angelis (nome pastorale Arato Alalcomenio) dedicò la Vita di Antonio Caraccio di Nardò detto Lacone Cromizio in Le vite degli Arcadi illustri, Antonio de’ Rossi,Roma, 1708, parte I, pp. 141-168. Per rendersi conto del suo prestigio è sufficiente dare una rapida scorsa ad un testo che è una sorta di relazione sui suoi funerali, del quale riproduco di seguito il frontespizio.

Non potevo da questo volume non riprodurre, traducendoli, alcuni documenti in latino.

(Iscrizioni elaborate dai padri dell’ordine dei Predicatori ad ornamento dell’apparato funebre. Davanti alla facciata del tempio. Per il fratello Tommaso Maria Ferrari, illustrissimo cardinale di Santa Romana Chiesa, maestro sapientissimo dell’ordine dei Predicatori, ascritto alla famiglia di questo sacro convento, vengono allestiti in questo tempio i trofei, non i funerali. Non parole di lutto, ma di plauso. Chiunque sia tu che entri, risparmia le lacrime, abbandonati all’ossequio: certamente la dottrina e la pietà immortale di un grande eroe a fatica devono essere celebrate dal pianto, a fatica possono essere eguagliate dalle lodi)

(Ai quattro lati del cenotafio. I Al cardinale Tomaso Maria Ferrari del titolo di S. Clemente sul monte Celio, tre volte mirabile per sapienza, avvedutezza, prudenza, tre volte famoso per carità, modestia, scrupolo religioso, Napoli resa famosa, Bologna edotta, Roma abbellita al tre volte massimo, la casa dedicata al divino spirito a quello che un tempo fu suo alunno celebra, adorna, dedica le esequie, il tempio, gli animi)

 

(II Al fratello Tommaso Maria Ferrari, uomo ugualmente illustrissimo e sapientissimo, nato a Manduria nella Iapigia, per aver onorato l’ordine dei Predicatori e il Collegio Apostolico con somma virtù e mirabile dottrina, per aver unito felicemente lo splendore insigne della dignità con l’umiltà insigne dell’animo, la città di Napoli, l’ordine dei Predicatori, la chiesa dedicata al divino spirito, onorata dai meriti e dalle virtù di tanto grande uomo, celebrano il rito funebre con animo grato, com’è giusto)

(III Ahimè, crudele furore della morte! Essa che ancora  con impeto eccessivamente frettoloso con un sol colpo ha sottratto l’eminentissimo fratello Tommaso Maria Ferrari, ha privato la città del dottore, la religione del decoro, le terre della luce. Ma state lontano, gemiti, lontano lamenti funebri: la morte non ha rapito queste dignità che non con un solo titolo l’eternità da tempo ha rivendicato a sé)

(IV A Tommaso Maria Ferrari, accolto dall’ordine dei Predicatori nel senato dei padri porporati per la sapienza unita alla mansuetudine, per la dignità alla modestia, per la povertà alla generosità, tutte con felice e straordinario legame, la religione cattolica, la chiesa romana, onorate dall’impegno, dalla fatica, dalle virtù di tanto grande uomo, posero per gratitudine in questo tempio questa testimonianza di lode ad immortale memoria dell’eroe di recente perduto)

(Emblemi ricavati dallo stemma gentilizio del cardinale Ferrari, collocati sulle parti più alte della piramide mortuaria. I Simbolo: un galero rosso insegna della dignità cardinalizia. Motto: Ha conservato la virtù per il decoro. II Simbolo: Tre stelle. Motto: Non con impari luce. III Simbolo: Tre monti. Motto: Alquanto emergente dall’ombra. IV Simbolo: Un compasso. Motto: Col peso e con la misura)

Per lo stemma vedi più avanti il primo dei cinque ritratti riprodotti.

Del Ferrari non resta alcuna pubblicazione, ad eccezione di Testamento fatto dalla chiara memoria dell’eccellentissimo, e reverendissimo signor cardinale frà Tommaso Maria Ferrari del titolo di S. Clemente dell’Ordine de’ Predicatori, consegnato, et aperto per gl’atti del sig. Francesco Antonio Paolini notaro capitolino nel dì 20 Agosto 1716., in cui rese l’anima à Dio, Conti, Roma, 1716.

Un catalogo delle opere manoscritte, tutte di argomento teologico, è in Daniele Concina, De vita ac rebus gestis P. Thomae Mariae Ferrarii Ord. Praed S. R. E. Cardinalis tit. S. Clementis libri tres, Eredi di Giovanni Lorenzo Barbiellini, Roma, 1755, pp. 107-109.

La sua firma è in calce ad una lettera del 18 dicembre 1700 (nell’immagine che segue tratta da http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AIT-PI112_MG.91.44-45&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU) diretta a Guido Grandi da Cremona, camaldolese, accademico della Crusca e lettore di matematica nell’Università di Pisa, socio della colonia camaldolese dell’Arcadia col nome pastorale di Dubeno Erimanzio.

 

Molto Rev(erend)o P(ad)re

Per rendermi V(ostra) P(ersona) più grata la notizia, che mi porta d’esser giunta in cotesta Città ad esercitarsi nella lettura destinatale da S(ua) A(ltezza)ha voluto accompagnarla con parzialissimi annunzii di bene p(e)le vicine s(an)te feste. Io resto molto tenuto alla P(ersona) V(ostra) che coll’unione di q(uan)ti uffici m’habbia confermato la sua bontà, il suo affetto; e mi allegro insieme vivam(en)te seco del campo, che se l’apre di palesare la propria virtù in un luogo reso celebre dal valore di tanti soggetti. Dell’elezzione poi di V(ostra) S(ignoria) hà essa motivo ben giusto di godere quanto fà; già che l’ottime parti, che sempre più s’ammirano nella s(an)ta sua ripromettono alla chiesa, ed al mondo ogni mag(gio)re bene. Mi raccomando alle orazioni sue, e resto con pregarle da Dio veri contenti. Roma 18 dec(emb)re 1700 Di V(ostra) P(ersona) Affez(ionatissi)mo  F(errari) Tom(mas)o M(ari)a Car(dinale) [di] S(an) Clem(en)te.

In basso a sinistra: P(er) D(on) Guido Grandi Pisa

 

Del Ferrari non ho reperito scritto alcuno inserito in qualche raccolta10, mentre, per quanto riguarda la documentazione iconografica, riproduco di seguito ben cinque suoi ritratti. Il primo è una stampa custodita nel British Museum a Londra (https://www.britishmuseum.org/research/collection_online/collection_object_details/collection_image_gallery.aspx?assetId=1613192980&objectId=3733761&partId=1).

In alto a sinistra lo stemma del papa Innocenzo XII, in alto a destra quello del Ferrari (vedi sopra l’ultima iscrizione tratta dal volume celebrativo dei funerali).  Al centro Presb(iter) (Presbitero; il Ferrari fu cardinale presbitero col titolo di S. Clemente). Nella didascalia si legge: Fr(ater) Thomas Maria Ferrari Ordin(is) Predicatorum, Sac(ri) Palatij Apost(olici) Magister. Manduriensis. Creatus S(anctae) R(omanae) E(cclesiae) Cardinalis die 12 Decembris 1695 (Fratello Tommaso Maria Ferrari dell’ordine dei Predicatori, maestro del Sacro Palazzo Apostolico. Di Manduria. Creato cardinale di Sacra Romana Chiesa il giorno12 dicembre 1695).

Nel margine inferiore, fuori campo, il nome dell’editore: Io(hannes) Iacobus de Rubeis Formis Romae ad Templum Pacis cum Privilegio S(ummi) P(ontificis)  (per i tipi di Giovanni Iacopo de Rossi a Roma presso il Tempio della Pace con privilegio del Sommo Pontefice). Mancano, dunque, i nomi del disegnatore/pittore e dell’incisore.

Meno anonimo è, invece, il ritratto presente in un volume (di seguito il frontespizio) dal titolo Effigies nomina et cognomina SD.N. Innocentii P.P. XI. et RR. DD. S.R.E. Cardd. nunc viventium custodito nella Biblioteca centrale di Lovanio (http://depot.lias.be/delivery/DeliveryManagerServlet?dps_pid=IE4793452).

In basso a sinistra: Cyrus Ferrus del(ineavit) (Ciro Ferro/Ferri lo disegnò); al centro: Aedit(um) a Io(hanne) Iacobo de Rubeis Romae ad Templum Pacis cum privil(egio) S(ummi) pont(ificis) (Pubblicato da Giovanni Iacopo de Rossi a Roma presso il Tempio della Pace con privilegio del Sommo Pontefice); a destra g(érard) Audran sculp(sit) Ro(mae) (Gérard Audran l’ha inciso).

L’editore, dunque, è lo stesso del ritratto precedente, cioé Giovanni Iacopo de Rossi (1627-1691); in più conosciamo il nome del disegnatore (Ciro Ferri, 1634-1689) e quello dell’incisore (Gérard Audran, 1640-1703).

Il volume  è datato nella relativa scheda al 1676. Credo che si tratti di un errore, giacché l’opera si presenta come una raccolta di ritratti, il primo dei quali è quello di Innocenzo XII (papa dal 1691), il secondo di Clemente XI (papa dal 1700); seguono i ritratti di cardinali, il primo dei quali è quello di Emmanuel Théodose de la Tour d’Auvergne (creato cardinale nel 1669) e l’ultimo di Vincenzo Grimani (creato nel 1697). L’errore dev’essere stato indotto proprio dal frontespizio e in particolare dal nome di Innocenzo XI, che fu papa dal 1676. Tale frontespizio, dunque, sicuramente non anteriore al 1676 (e non posteriore al 1691, anno di morte dell’editore) venne utilizzato anche per le raccolte pubblicate successivamente dai suoi eredi. Lo dimostra chiaramente proprio il ritratto del Ferrari.

Riecheggia strutturalmente il precedente. La didascalia appare meno dettagliata: FR(ATER) THOMAS MARIA  S(ANCTAE) R(OMANAE) E(CCLESIAE) PRESBYTER CARDINALIS FERRARI ORD(INIS) PRAEDICATORUM MANDURIENSIS CREATUS DIE XII DECEMBRIS MDCXCV (Fratello Tommaso Maria Ferrari cardinale presbitero di Santa Romana Chiesa dell’ordine dei Predicatori di Manduria creato il giorno 12 dicembre 1695). Obiit anno1716 (Morì nell’anno 1716) è un’aggiunta fatta dalla mano se non di un vandalo almeno di qualcuno poco rispettoso dell’integrità del documento originale).

In basso a sinistra: L. David Pinxit (L. David l’ha disegnato) e a destra Benedictus Fariat Scul(psit) (Benedetto Fariat l’ha inciso). Sappiamo così che il disegnatore fu Ludovico Antonio David (1648-dopo il 1709), pittore nato a Lugano, e l’incisore il francese Benoît Farjat (1646 – 1724).

Fuori campo: Dominicus de Rubeis Haeres Io(hannis) Iacobi de Rubeis formis Romae ad Templum S(anctae) M(ariae) de Pace cum priv(ilegio) S(ummi) P(ontificis) et Super(iorum) perm(issu) (Domenico de Rossi erede con i tipi di Giovanni Iacopo de Rossi presso il tempio di Santa Maria della Pace con privilegio del Sommo Pontefice e col permesso dei Superiori).

La pubblicazione di questo ritratto, perciò, dev’essere successiva al 1691, data di morte di Giovanni Iacopo, di cui Domenico era figlio ed erede.

Il terzo è in Giacinto Gimma, Elogi accademici della società degli Spensierati di Rossano, A spese di Carlo Troise stampatore accademico della medesima società, Napoli, 1703, p. 269.

THOMAS MARIA FERRARI S(ANCTAE) R(OMANAE) E(CCLESIAE) CARDINALIS ACADEMICUS INCURIOSUS

(Tommaso Maria Ferrari cardinale di Santa Romana Chiesa accademico incurioso)

L’accademia degli Spensierati era stata fondata da Giacinto Gimma (Bari, 1668-Bari, 1735) a Rossano nel 1695 e successivamente assunse il nome di Accademia degli Incuriosi. Il Gimma fu anche socio dell’Arcadia col nome pastorale di Liredo Messoleo.

A p. 281 il Gimma riporta tre testi encomiastici del Ferrari elaborati da accademici Incuriosi, i primi due da Simone Viglini, l’ultimo da Padovano Guasco.

Il primo è un anagramma puro, una prova di abilità secondo un gusto, si direbbe enigmistico, in voga in quel tempo. Di seguito la traduzione dei due testi: Tommaso Maria Ferrari dell’ordine dei predicatori/Qui, a Roma, presso le prime funzioni della vita pubblica rara dottrina per gli dei, sale della terra.

Il secondo è un epigramma in distici elegiaci. Traduzione (con correzione della punteggiatura originale): Perché per te il cognome Ferrari , quando l’aurea virtù e la sorte ti diedero grandi doni, mentre la porpora ti circonda e il tirio galero ti adorna, o rara gloria del nostro suolo? Qual è dunque il motivo? Lo dirò: certamente così chiamato per nulla insuperbito oltrepasserai i limiti, il che è tutto il bene di te.

L’ultimo è un distico elegiaco. Traduzione:  Sarai detto Ferrari dal ferro. Ma i nomi sbagliano. Ti dia il nome la calamita, mentre a te attrai i cuori.

Il quarto ritratto è in Vincenzo Maria Coronelli, Ordinum religiosorum in ecclesia militanti catalogus, eorumque indumenta iconibus expressa …, s. n., Venezia, 1707.

 

Nella cornice dell’ovale: F(RATER) THOMAS MARIA S(ANCTAE) R(OMANAE) E(CCLESIAE) PRESBYTER CARDINALIS FERRARI, ORDINIS PRAEDICATORUM MANDURIENSIS, CREATUS XII DECEMBRIS MDCXCV (Fratello Tommaso Maria Ferrari cardinale presbitero di santa romana chiesa, dell’ordine dei predicatori, di Manduria, creato il 12 di dicembre 1695).

In basso a destra il nome dell’incisore: Ant(onius) Luciani Scul(psit). Antonio Luciani fu attivo fra la fine del XVII secolo e gli inizi del successivo. Fu autore di numerosi ritratti di personaggi importanti e di antiporte di pubblicazioni di pregio, fra cui una raccolta di componimenti di poetesse dell’Arcadia, della quale riproduco di seguito il frontespizio.

Teleste Ciparissiano è il nome pastorale di Giovanni Battista Recanati, nobile veneziano.

Ed ecco l’antiporta del Luciani.

 

In basso: Antonius Balestra invenit (Antonio Balestra disegnò) e A(ntonius) Luciani sculpsit (Antonio Luciani incise). Antonio Balestra (1666-1740), nativo di Verona, operò prima a Roma e poi a Venezia.

Il quinto ritratto, di anonimo,  è in Domenico Martuscelli (a cura di) Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1828, tomo XIV. La biografia del Ferrari è di Giambattista Lezzi (vissuto nel XVIII secolo, originario di Casarano, fu primo bibliotecario della Biblioteca arcivescovile Annibale De Leo di Brindisi, designato dallo stesso fondatore).

 

(CONTINUA)

Per la prima parte (Premessa)

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/

Per la seconda parte (Francesco Maria dell’Antoglietta di Taranto):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/15/gli-arcadi-di-terra-dotranto-2-x-francesco-maria-dellantoglietta-di-taranto/ 

Per la terza parte (Tommaso Niccolò d’Aquino di Taranto)

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/23/gli-arcadi-di-terra-dotranto-3-x-tommaso-niccolo-daquino-di-taranto-1665-1721/ 

Per la quarta parte (Gaetano Romano Maffei di Grottaglie)  

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-4-x-gaetano-romano-maffei-di-grottaglie/    

Per la sesta parte (Oronzo Guglielmo Arnò di Manduria,  Giovanni Battista Gagliardo, Antonio Galeota e Francesco Carducci di Taranto) : https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-6-x-oronzo-guglielmo-arno-di-manduria-giovanni-battista-gagliardo-antonio-galeota-e-francesco-carducci-di-taranto/

Per la settima parte (Antonio Caraccio di Nardò): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/17/gli-arcadi-di-terra-dotranto-7-x-antonio-caraccio-di-nardo/

 Per l’ottava parte (Donato Capece Zurlo di Copertino): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-8-x-donato-maria-capece-zurlo-di-copertino/

Per la nona parte (Giulio Mattei di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/28/gli-arcadi-di-terra-dotranto-9-x-giulio-mattei-di-lecce/ 

Per la decima parte (Tommaso Perrone di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/ 

Per l’undicesima parte (Ignazio Viva di Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/11/gli-arcadi-di-terra-dotranto-ignazio-viva-di-lecce-11-x/

Per la dodicesima parte (Giovanni Battista Carro di Lecce):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/18/gli-arcadi-di-terra-dotranto-12-x-giovanni-battista-carro-di-lecce/

Per la tredicesima parte (Domenico De Angelis di Lecce):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-13-x-domenico-de-angelis-di-lecce-1675-1718/

Per la quattordicesima parte (Giorgio e Giacomo Baglivi di Lecce):

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-14-x-giorgio-e-giacomo-baglivi-di-lecce/

Per la quindicesima parte (Andrea Peschiulli di Corigliano d’Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-15-x-andrea-peschiulli-di-corigliano-dotranto/

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1 Ab Urbe condita, XXVII, 15,4: Q. Fabius consul in Sallentinis Manduriam vi cepit (il console Quinto Fabio prese con la forza Manduria in Salento).

2 Naturalis historia, II, 103: In Sallentino iuxta oppidum Manduriam … (Nel territorio salentino presso la città di Manduria …).

3 Copia risalente al XII-XIII secolo di una carta topografica romana del IV secolo d.C.

4 Ἐθνικά, al lemma Μανδύριον: πόλις Ἰαπυγίας. Ὁ πολίτης Μανδυρίνος (città della Iapigia. Il cittadino è detto mandyrino).

5 Cosmographia, IV, 31 e V, 1.

6 Geographia, 72.

7 Giovanni Mario Crescimbeni, L’Arcadia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1711, p. 340.

8 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/08/30/antonio-bruni-1593-1635-manduria-suo-campione-vendite/.

9 Nel 1700 Guido Grandi ormai è già in grado di competere con i maggiori matematici viventi e per questo il Granduca di Toscana  Cosimo III de’ Medici gli assegna la cattedra di filosofia straordinaria nell’Università di Pisa (diventerà ordinaria nel 1706).

10 Non così per atti ufficiali da lui emessi dal 1688 al 1714:

http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ARMLE043362&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU&fulltext=1

http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ARMLE043412&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU&fulltext=1

http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ARMLE043384&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU&fulltext=1

http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ARMLE043542&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU&fulltext=1

http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ARMLE043524&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU&fulltext=1

 

La freccia e il delfino: alla scoperta di un antico (e dimenticato) palazzo di Manduria

Fig. 1 – Manduria, palazzo Ciracì, angolo fra vico Commestibili e vico Carceri Vecchie, particolare dello stemma

 

di Marcello Semeraro

Lo stemma oggetto del presente studio si trova a Manduria, posto sull’angolo dell’edificio dove si incontrano vico Commestibili e vico Carceri Vecchie (fig. 1). Si tratta di una porzione dello storico palazzo Ciracì (oggi De Laurentiis), il cui prospetto principale domina il tratto iniziale di via del Fossato. Il palazzo attuale si presenta pesantemente rimaneggiato, fra abbellimenti del XVIII secolo e trasformazioni successive, ma conserva ancora tracce di architetture cinquecentesche, a testimonianza di una storia piuttosto movimentata[1].

L’esemplare araldico, rimasto fino ad ora anonimo, è costituito da uno scudo sagomato e accartocciato, il cui campo appare suddiviso in due metà da una linea di partizione chiamata partito: a destra[2] si vede una freccia cadente (vale a dire con la punta verso il basso), mentre a sinistra compare un delfino uscente da un mare ondato e accompagnato in capo da tre gigli male ordinati (cioè posti 1, 2). Dall’osservazione del contenuto blasonico si evince chiaramente che la composizione in oggetto, databile al XVI secolo[3], presenta tutte le caratteristiche di un’arma di alleanza matrimoniale, una combinazione araldica che si ottiene associando due stemmi diversi in uno stesso scudo per mezzo di una partizione (generalmente un partito o un inquartato).

In questo tipo di rappresentazione araldica l’arma del marito precede quasi sempre quella della moglie ed è così anche nel nostro caso. Lo stemma visibile nel primo quarto è attribuibile ai Saetta, famiglia di «nobili viventi» originaria di Lecce, che nella prima metà del XVI secolo si trasferì a Manduria-Casalnuovo, dove si distinse nel commercio di grano e nell’esercizio di importanti cariche amministrative (alcuni dei suoi membri furono sindaci, auditori, erari e luogotenenti)[4].

Tale attribuzione trova un importante riscontro nell’arma assegnata ai Saetta che figura nello stemmario Montefuscoli – un manoscritto araldico risalente al XVIII secolo, conservato presso la Biblioteca Universitaria di Napoli –, la quale differisce dall’esemplare manduriano per la presenza di due stelle ai lati della freccia (fig. 2).

Fig. 2 – Arma Saetta, Imprese ovvero stemme delle famiglie italiane raccolte da Gaetano Montefuscoli da diversi libri genealogici, blasonisti ed altri, Napoli, Biblioteca Universitaria, MSS. 121, vol. III, p. 131

 

Quest’ultima figura è evidentemente allusiva al cognome (freccia-saetta) e riconduce l’insegna innalzata da questa famiglia alla categoria delle armi parlanti, un tipo di composizione molto frequente nel blasone europeo[5].

Proseguendo nella lettura dello stemma litico in esame, si nota che la figura principale che carica il secondo quarto del partito è un delfino, il «re dei pesci», un animale non molto frequente in araldica, impiegato spesso come figura parlante[6] (fig. 3).

Fig. 3 – Stemma della famiglia veneziana Dolfin, Insignia …VII. Insignia Venetorum nobilium II (A-IP), Monaco di Baviera, Bayerische StaatsBibliothek, Cod. icon. 272, fol. 136r

 

Grazie all’ausilio dei dati genealogici contenuti nel Librone Magno – il celebre manoscritto iniziato dall’arciprete Lupo Donato Bruno nel 1572 e continuato da altri dopo la sua morte, che contiene le genealogie di tutte le famiglie casalnovetane dalla metà del Quattrocento alla fine del Settecento – è stato possibile risalire con certezza all’unione matrimoniale che rese possibile la rappresentazione contenuta nel nostro scudo (fig. 4)[7]. Mi riferisco alle nozze fra Bonifacio Saetta, un mercante di origini leccesi, capostipite del ramo casalnovetano, e Giulia Maria Delfino, appartenente ad un’influente famiglia di notai locali[8], alla quale, ovviamente, si riferisce lo stemma raffigurato nel secondo quarto[9].

Fig. 4 – Genealogia della famiglia Saetta, Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3, fol. 641r

 

Il nostro Saetta fu un personaggio di primo piano nella vita politica ed economica casalnovetana della seconda metà del XVI secolo. Fu auditore (assessore) nel 1564-1565 e nel 1567-1568, luogotenente-castellano nel 1558-1559 e infine sindaco nel 1575-1576[10]. Lo storico Gérard Delille lo descrive come uno dei principali alleati e partner commerciali di Pirro Varrone, l’ebreo convertito al cristianesimo che per circa un trentennio fu il vero detentore del potere politico ed economico del paese[11].

Una volta assodata con certezza l’attribuzione dello stemma al nostro Bonifacio e alla moglie Giulia Maria, ho provveduto ad interpellare altre fonti storiche alla ricerca di riscontri sul nome dei Saetta quali antichi proprietari del palazzo. La prova decisiva, in tal senso, è arrivata dagli Stati delle Anime, vero e proprio censimento della popolazione locale, che veniva compilato dai parroci solitamente in occasione della benedizione pasquale.

Dagli Status Animarum del 1693, in particolare, si evince che i discendenti di Bonifacio abitavano in una casa di loro proprietà sita «in via vulgariter dicta delle Stalle» (fig. 5)[12]. Nell’antica toponomastica di Casalnuovo, con questa denominazione, attestata sin dal 1508, si indicava proprio quella poi sarebbe diventata l’attuale vico Carceri Vecchie, esattamente dove si affaccia uno dei due prospetti sul cui angolo campeggia il nostro stemma[13].

Fig. 5 – Status Animarum (1693-1726), Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti , Manoscritti, MS. Rr/9, fol. 270r

 

Malgrado le trasformazioni subite dall’attuale palazzo nel corso del tempo, non vi sono ragioni per credere che l’insegna in esame si trovi al di fuori del suo contesto originario. È da ritenere, pertanto, che l’edificio di cui essa marca la proprietà sia effettivamente quello dove vissero i Saetta.

Gli studi più recenti dello storico svizzero Manfred Welti – che saranno pubblicati prossimamente e ai quali ho avuto modo di contribuire – dimostrano che lo stipite del ramo casalnovetano ebbe ottimi rapporti con Giovanni Bernardino Bonifacio (1517-1597), marchese d’Oria e signore di Casalnuovo e Francavilla, noto agli studiosi per il suo duplice aspetto di fine umanista e di precoce aderente alla riforma protestante, fuggito in modo rocambolesco nel 1557 con la conseguente confisca dei feudi[14].

Sul lato opposto di vico Carceri Vecchie si vedono ancora oggi i resti di un portale in stile catalano-durazzesco che secondo i più recenti studi sarebbe stato l’ingresso del cinquecentesco palazzo dei Bonifacio, feudatari di Casalnuovo[15]. Va da sé che se tale ipotesi fosse dimostrata, significherebbe le due famiglie abitavano proprio nelle immediate vicinanze.

Giunti a Casalnuovo in un periodo di eccezionale sviluppo, dovuto sia alla ricchezza derivata dall’agricoltura, sia al notevole flusso immigratorio [16], e approfittando della relativa apertura della nobiltà locale, i Saetta divennero in poco tempo una delle casate più potenti e cospicue del paese, arrivando a ricoprire più volte la carica più importante, quella di sindaco, alla quale, all’epoca, potevano avere accesso solo i maggiorenti del posto. Tuttavia, del loro stemma e del loro antico palazzo, situato in prossimità della cinta muraria, non è rimasta alcuna traccia nella storiografia locale. Ma il colpo più duro alla loro memoria è sicuramente quello inferto dall’incuria dell’uomo, che ha avuto come conseguenza il degrado dell’area compresa fra vico Commestibili e vico Carceri Vecchie. Se è vero che il compito della ricerca storica è anche quello di far conoscere il passato al fine di preservarne la memoria, l’auspicio è che i risultati di questa breve indagine possano contribuire alla conoscenza, alla valorizzazione e al recupero di un pezzo importante della storia e dell’architettura dell’antico centro abitato di Casalnuovo.

 

 

[1] Sul palazzo si veda C. Caiulo, Schede sull’architettura storica a Manduria, in «Quaderni Archeo», 8 (2007), p. 51.

[2] Va ricordato che in araldica la destra corrisponde alla sinistra dell’osservatore (e viceversa), perché lo scudo va considerato dal punto di vista del portatore.

[3] Al di sotto dello scudo, nello spazio di muro ricavato per collocare lo stemma sull’angolo, si legge il numero 62, probabilmente ciò che resta della data relativa all’anno in cui fu collocata l’insegna (1562?).

[4] Cfr. G. Delille, Le Maire et le Prieur. Pouvoir central et pouvoir local en Méditerranée occidentale (XVe-XVIIIe siècle), Roma 2003, pp. 181, 190 e cap. 7 (tab. 1); B. Fontana, Le famiglie di Manduria dal XV secolo al 1930, Manduria 2015, p. 173. Per le informazioni sulle cariche ricoperte dai Saetta, si vedano le schede (ad vocem) compilate dallo storico francese Gérard Delille, conservate in un apposito fondo presso della Biblioteca comunale Marco Gatti di Manduria; per la lettura dell’albero genealogico, invece, cfr. Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3, fol. 641r.

[5] Si chiamano armi parlanti quelle che contengono figure che richiamano, direttamente o indirettamente, il nome della famiglia del possessore dello stemma. Si tratta di una tipologia di armi che esiste sin dalla nascita del sistema araldico nel XII secolo e che costituisce circa il 20% degli stemmi medievali, con un aumento significativo in epoca moderna, grazie soprattutto alla diffusione che esse ebbero fra i non nobili e le comunità (cfr. M. Pastoureau, Une écriture en images: les armoiries parlantes, in «Extrême-Orient, Extrême-Occident», 30 [2008], pp. 187-198). L’indice di frequenza di questa categoria di armi è particolarmente elevato anche in Terra d’Otranto, Manduria compresa, come dimostrano i seguenti casi: un basilisco per i Basile, una candela per i Candeloro, un calice per i Coppola, un cuore per i Corrado, un leone per i De Leonardis, un fagiano per i Fasano, una fontana per i Fontana, un Gatto per i Gatti, un lupo per i Lupo, un colombo per i Palumbo, ecc. (cfr. N. Palumbo, Araldica civica e cenni storici dei comuni di Terra Jonica, Manduria 1989, pp. 355-362).

[6] Occorre ricordare che araldica il delfino è considerato un pesce e non un cetaceo, nozione, quest’ultima, che si affermerà solo a cavallo fra XVIII e il XIX secolo. È il re della fauna marina del blasone, l’equivalente acquatico del leone e dell’aquila. La sua rappresentazione araldica ha ben poco di naturalistico e risente, invece, di un tipico processo di «demonizzazione» dell’antico. Si raffigura normalmente in palo, con il corpo ricurvo a semicerchio, la testa e la coda rivolte verso il fianco destro dello scudo. Il muso ha un aspetto ferino, mentre la testa (che talvolta è coronata) è munita di bargigli e di cresta. Sul delfino araldico si vedano soprattutto M. Pastoureau, Traité dhéraldique, Paris 20085, pp. 152, 153, e M. C. A. Gorra, Il delfino nel mito, nell’estetica, nell’araldica, in «Il delfino e la mezzaluna», 1 (2012), n. 1, pp. 7-12.

[7] Cfr. Librone Magno cit., fol. 641r; sul manoscritto, invece, si veda G. Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli (XV-XIX secolo), Torino 1988, p. 207.

[8] Sulla famiglia Delfino si vedano Fontana, Le famiglie di Manduria cit., p. 74, e P. Brunetti, Manduria tra storia e leggenda, dalle origini ai giorni nostri, Manduria 2007, p. 253.

[9] Benché non sia stato possibile trovare ulteriori riscontri sull’uso di tale stemma da parte di questa antica famiglia casalnovetana, faccio comunque notare che molte delle casate italiane il cui nome evoca un delfino presero proprio il cetaceo come figura parlante del proprio scudo (fig. 3). Qualche esempio di trova in G. B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890 (rist. anast. Bologna 1965), vol. 1, pp. 355, 363.

[10] Fra i suoi discendenti si segnalano: il figlio Giovanni Bernardino, che fu erario negli anni Ottanta del Cinquecento; Giacinto, figlio di un altro Bonifacio Saetta e di Argentina Bruna, priore del Monte di Pietà (1655-1656, 1656-1657), erario (1657-1658, 1669-1670) e sindaco (1659-1660, 1676-1677, 1683-1684); e, infine, il figlio di quest’ultimo, Bonifacio, sposato con Anna Rosa Papatodero, sindaco nel 1697-1698. Anche queste informazioni sono state desunte dalle già citate schede di Gérard Delille (v. supra, nota 4). Da un atto notarile del 1588, inoltre, si ricava il succitato Giovanni Bernardino fu anche barone di Giurdignano (cfr. M. Alfonzetti, M. Fistetto, I protocolli dei notai di Casalnovo nel Cinquecento: regestazione degli atti notarili dei notai casalnovesi conservati nell’Archivio di Stato di Taranto, Manduria 2003, p. 342, n. 399).

[11] Cfr. Delille, Le Maire cit., pp. 190, 212.

[12] Cfr. Status Animarum (1693-1726), Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti , Manoscritti, MS. Rr/9, fol. 270r.

[13] Cfr. P. Brunetti, Manduria-Casalnuovo: le strade, le piazze, Oria 1999, p. 24; Id., Manduria tra storia cit., p. 268.

[14] Su Giovanni Bernardino Bonifacio si veda M. E. Welti, Dall’umanesimo alla riforma. Giovanni Bernardino Bonifacio marchese di Oria (1517-1557), Brindisi 1986.

[15] Cfr. Caiulo, Schede sull’architettura cit., p. 53; N. Morrone, Architettura del Rinascimento a Manduria, disponibile al seguente indirizzo: <https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/09/architettura-del-rinascimento-a-manduria/>.

[16] Brunetti, Manduria tra storia cit., pp. 258-263.

La salina di Avetrana. Spola tra Torre Colimena e Gallipoli per la raccolta del sale

di Antonio FAITA

 

Avetrana, questo piccolo centro dalle origini romane, si trova all’ estremità sud-orientale del territorio tarantino, un tempo provincia di Terra d’Otranto, che dista dal mare soltanto pochi chilometri[1], fu governata, a partire dal XV secolo, dai Montefusco, poi passò ai Pagano, agli Albrizi, ai Romano, a Bisanzio Filo, agli Imperiali, e, infine, a Massenzio Filo, ultimo signore di Avetrana[2].

I due studiosi Michele Mainardi e Ivana Quaranta, da tempo, si sono occupati del territorio di Avetrana, grazie anche alla costanza, eseguita con zelo anche nei minimi dettagli, nel reperire nuovi documenti d’archivio.

Come ci riferiscono i due studiosi, la storia di Avetrana è strettamente legata alle vicende e alle attività che si svolgevano nella vicina salina, posta ad alcune centinaia di metri da Torre Colimena.

La Salina di Avetrana era una delle più importanti del Regno e riusciva a soddisfare i bisogni dell’intera provincia di Terra d’Otranto. È stata attiva fino al 1812 come si rileva da alcuni documenti inediti e non fino al 1731, come si è creduto sino ad oggi[3]. Inoltre, dalla lunga documentazione consultata, emerge anche la lunga polemica amministrativa tra i due municipi rivendicanti la stessa porzione di costa: Avetrana e Manduria.

Infatti, risultava che il corpo idrico apparteneva al territorio manduriano ma, per storia e vicinanza geografica, è stato, se non di diritto, almeno de facto, sotto il raggio d’azione dei signori di Avetrana[4].

Il sale, da sempre, è stato al centro di complesse strategie commerciali e di aspre tensioni politiche. Indispensabile per la conservazione degli alimenti, oltre che per l’alimentazione umana ed animale, era prodotto abbondantemente in Puglia: agli inizi dell’età moderna, sono attestate saline a Manfredonia, nei pressi di Barletta,  a Brindisi, nei pressi di Taranto e ad Avetrana.

La gestione delle saline pugliesi fu prerogativa, sin dal XIII secolo, della Regia Curia angioina che controllava ogni atto produttivo. Gli Aragonesi, in seguito, minuziosamente, governarono le attività commerciali collegate all’approvvigionamento salino delle città[5].

Sin da tempi antichi, la città di Gallipoli, oltre ad essere città demaniale, godeva di concessioni e di privilegi che puntualmente venivano confermati dai sovrani che si succedevano. Un privilegio ferdinandeo datato 14 agosto 1487 concesse ai gallipolini l’esenzione dal pagamento alla Regia Corte della gabella sul sale prodotto, per uso proprio, nei piccoli recipienti e nelle conche marine esistenti sull’isola di Sant’Andrea[6]. Ma non sempre era sufficiente a soddisfare i propri bisogni, perciò si era costretti a importarlo da altre città.

Esso era prodotto in parte nel Regno ed una certa quantità veniva dalla Spagna, parte era importata dalle saline della Sicilia e dalla Sardegna. La produzione era assegnata in precedenza ed i vari comuni sapevano da quali centri dovevano ritirare le loro spettanze. Le città esenti da contribuzioni fiscali dovevano comprarlo sul mercato e così anche coloro che non erano soggetti al focatico (imposta applicata su ciascuna abitazione)[7]. Da un regesto datato 4 settembre 1503 si evince che: «Il Gran Capitano vicerè e luogotenente generale, concede all’Università (di Gallipoli) l’esenzione da ogni pagamento di dogana; pel rispetto dei suoi privilegi e, in particolare, di quello relativo al sale, per cui possono prenderne, a solo prezzo di costo, dalla salina di Casalnuovo»[8].

E, ancora, in un altro regesto del 23 giugno 1526, Carlo V, oltre ad approvare i precedenti privilegi, conferma che «siano riconosciuti i duecento tomoli di sale della regia salina di Casalnuovo già concessi per l’uso cittadino»[9].

Molti sono i documenti notarili nei quali si fa cenno al sale della salina di Casalnuovo (attuale Manduria), presso la torre detta “della Colimena”, questo sino al VII secolo, per poi essere sostituita con il nome di Avetrana. A supporto di ciò, sono alcuni regesti notarili datati 1710 e successivi, attraverso i quali veniamo a conoscenza dei relativi movimenti, via mare, della merce. Il caricamento e lo scaricamento del sale, per rifornire il fondaco di Gallipoli, venivano scrupolosamente registrati dai padroni dei barconi e delle tartane (e dai loro esigenti committenti).

Essi, di fronte ad un notaio, precisavano le regole dei contratti che non lasciavano spazio a tempi morti[10]: Nell’anno 1710[11], giorno 10 del mese di agosto, il signor Domenico Corsano, di Reggio Calabria, Padrone della «Topa»[12], nominata Santa Maria di Porto Salvo, trovandosi, in quell’anno a Gallipoli, per aver trasportato dalla Calabria «doghe per fabbricar botti», ricevette, nel predetto giorno, dalle mani del signor Giovan Battista Tiriolo la somma di ducati 191 e grana 75 in moneta d’argento, per aver condotto, in quattro viaggi, come previo accordo, tomola 3.835 di sale dalla «salina dell’Avetrana per questo Regio fundico de Gallipoli», alla ragione di grana 5 a tomolo per il noleggio della stessa imbarcazione.

In effetti, il Padron Domenico Corsano, fu incaricato di recarsi presso la salina dell’Avetrana , dal signor Giovan Battista Tiriolo «Locotenente del Regio Fundico de Sali in questa città di Gallipoli, agendo in nome e parte della Regia Corte» e a sua volta su incarico, del Dottor signor Nicolò de Ferrante «Amministratore Generale del Regio Arrendamento de Sali in demanio in questa Provincia di Terra d’Otranto». Una volta raggiunta con la sua «Topa» la spiaggia «e proprie nella Torre della Columena» gli sarebbero stati consegnati, dal signor Onofrio de Vito, «Locotenente di quel loco», tomola 3.835 di sale, così come fu stabilito. Lo stesso incarico fu confermato anche per l’anno 1711 al Padrone Domenico Corsano che, il giorno 13 luglio, davanti al notaio Carlo Megha[13] e alla presenza dei testimoni, il Clerico Domenico Antonio Maggio e Donato Maria Roncella, riscuoteva dal signor Giovan Battista Tiriolo, la somma di ducati 289 e grana 90, per aver condotto con la sua «Topa», in sei viaggi, tomola 5.798 di sale, dalla salina «dell’Avetrana per il Regio Fundico de Sali in questa città di Gallipoli».

Così avvenne anche nel 1712, con tre incarichi consecutivi, a distanza di pochi mesi nello stesso anno: il primo avvenne il 26 febbraio per un carico di tomola 890 da fare in un unico viaggio per la somma pattuita di ducati 44 e grana 5[14]; il secondo incarico avvenne il 12 luglio, per un carico di tomola 1.964 da fare in due viaggi e riscuotendo la somma di ducati 98 e carlini 1[15]; il terzo incarico, il giorno 17 settembre, per un carico di tomola 3.945, da fare, in quattro viaggi e per la somma pattuita di ducati 195 e grana 25[16].

Ciò fa dedurre che, tra il Padrone Domenico Corsano e il Locotenente del Regio Fundico di Gallipoli, si era instaurato un rapporto ben consolidato basato sulla fiducia e sulla professionalità, un rapporto che continuerà anche negli anni a venire. La salina di Avetrana, non fu più attiva dagli inizi dell’ottocento (1812), senza conoscerne i motivi. I due studiosi Mainardi e Quaranta, dubitano che sia stato il Comune di Avetrana a decidere della sua sorte, poiché l’estrazione del sale era l’unica fonte di occupazione per la gente del luogo; invece, ipotizzano che sia stato il governo centrale a volere la sua dismissione e, tale supposizione trova conferma nell’importanza, sempre crescente, della Salina di Barletta, il cui sale costava meno ed era di ottima qualità.

Infatti, il 30 maggio1713[17], fu affidato l’incarico di recarsi presso la salina di Barletta al veneziano Giovanni Gachino, Padrone della Marsigliana nominata Sant’Antonio di Padova, per caricare in un solo viaggio, tomola 4.600 di sale e condurlo presso«il Regio Fundico de Sali in questa città di Gallipoli» per la somma di ducati 333 e grana 50. Il bassofondo salmastro della salina di Avetrana, pur rappresentando una fonte di lavoro per la popolazione dei paesi circostanti, a dire del popolo, era anche causa di malattie come la malaria e di morte, per le sue acque stagnanti[18].

Durante il primo ventennio del XX secolo, la salina fu inclusa nel progetto di bonifica di Porto Columena ma, successivamente, fu scartata perché, a parere degli ingegneri che si occupavano delle azioni di risanamento igienico, il bacino lacustre poteva produrre, al massimo, cattivo odore, ma non poteva essere causa dei miasmi, in quanto privo di vegetazione. A provocare le febbri erano, invece, le vicine paludi poste lungo il litorale, e il governo decise che era lì che si doveva intervenire[19].

 

[1] Cfr, MAINARDI M. – QUARANTA I, “Documenti per la storia del territorio di Avetrana”, in L’Idomeneo: rivista della sezione di Lecce –Società di storia patria per la Puglia, n° 4, Ed. Panico, Galatina 2002, p. 26;

[2] Cfr, Ibidem, p. 27;

[3] Cfr, Ibidem;

[4] Cfr. MAINARDI M., “Per una geografia del sale in Terra d’Otranto. La salina di Avetrana”, in L’Idomeneo: rivista della sezione di Lecce –Società di storia patria per la Puglia, n°3, Ed. Panico, Galatina 2000, p. 127;

[5] Cfr, Ibidem, p. 116;

[6] PINDINELLI E., “L’archivio delle scritture antiche dell’Università di Gallipoli”, Tip. Corsano, Alezio 2003; Cfr., NATALI F., “Gallipoli nel Regno di Napoli. Dai Normanni all’Unità d’Italia”, Ed. Congedo, Galatina 2007, p. 93;

[7]Cfr, NATALI F., “Gallipoli nel Regno di Napoli. Dai Normanni all’Unità d’Italia”, a nota, p. 139;

[8] Cfr, PINDINELLI E., “L’archivio delle scritture antiche dell’Università di Gallipoli”, p. 58;

[9] Cfr, Ibidem, p. 72;

[10] MAINARDI M., “Per una geografia del sale in Terra d’Otranto. La salina di Avetrana”, p. 122;

[11] ASLecce, Protocollo notarile, Carlo Megha coll. 40/13, Anno 1710, “In Dei nomine amen”, ff. 234/v-236/r;

[12] Topa/o = imbarcazione veneziana, barchetta chioggiotta con la quale i pescatori trasportano il pesce ai luoghi di destinazione, a fondo piatto, con murate quasi verticali nella parte centrale e con prua slanciata.

[13] ASLecce, Protocollo notarile, Carlo Megha coll. 40/13, Anno 1711, “In Dei nomine amen”, ff. 153/r-155/v;

[14] ASLecce, Protocollo notarile, Carlo Megha coll. 40/13, Anno 1712, “In Dei nomine amen”, ff. 82/v-84/r;

[15] Ibidem, ff. 210/v-211/v;

[16] Ibidem, ff. 252/v-253/v;

[17] ASLecce, Protocollo notarile, Carlo Megha coll. 40/13, Anno 1713, “In Dei nomine amen”, ff. 141/v-143/v;

[18] Cfr, MAINARDI M. – QUARANTA I, “Documenti per la storia del territorio di Avetrana”, p. 27;

[19] Cfr, Ibidem, p. 28;

L’iconografia araldica del portale della Collegiata di Manduria: ipotesi e indirizzi di ricerca

di Marcello Semeraro

 

In due articoli apparsi recentemente sulle pagine web di ManduriaOggi, lo studioso Giuseppe Pio Capogrosso ha avanzato alcune ipotesi di lettura sulla decorazione araldica presente sul magnifico portale rinascimentale della chiesa Matrice di Manduria, realizzato, com’è noto, da Raimondo da Francavilla nel 1532 (fig. 1).

Fig. 1 – Manduria, Chiesa Matrice della SS. Trinità, facciata, particolare del portale d’ingresso
Fig. 1 – Manduria, Chiesa Matrice della SS. Trinità, facciata, particolare del portale d’ingresso

 

Si tratta, lo ricordiamo, di un insieme formato da quattro stemmi litici disposti a coppie ai lati del portale, due sopra e due sotto. La coppia superiore, collocata alla base delle colonnine della sovrapporta, è costituita da due scudi sagomati con forme diverse; quella inferiore, visibile sotto i capitelli delle paraste, è invece composta da due scudi gemelli appesi a chiodi mediante guiggie. Ques’ultima coppia non pone particolari problemi interpretativi: si tratta della più antica raffigurazione a noi nota dell’arma dell’Universitas di Casalnuovo (oggi Manduria), recante il solo albero di mandorlo sradicato[1] (figg. 2 e 3).

Fig. 2 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del primo dei due stemmi dell’Universitas di Casalnuovo (foto di Giuseppe D’Angeli)
Fig. 2 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del primo dei due stemmi dell’Universitas di Casalnuovo (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Fig. 3 - Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo dei due stemmi dell’Universitas di Casalnuovo (foto di Giuseppe D’Angeli)
Fig. 3 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo dei due stemmi dell’Universitas di Casalnuovo (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Più problematica risulta, invece, la lettura della coppia di stemmi sovrastanti, caratterizzata, come si vede nelle illustrazioni (figg. 4 e 5), da abrasioni di notevole entità che ne rendono difficile l’immediata decifrazione.

Fig. 4 - Manduria, Chiesa Matrice, particolare del primo stemma della coppia superiore, recante il partito Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)
Fig. 4 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del primo stemma della coppia superiore, recante il partito Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Figg. 5 e 5a - Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo stemma Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)
Figg. 5 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo stemma Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Figg. 5 e 5a - Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo stemma Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)
Figg. 5a – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo stemma Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Capogrosso ha identificato correttamente la prima di queste due armi (quella di sinistra, fig. 4), riconoscendo in essa uno stemma d’alleanza matrimoniale che riunisce, per mezzo di uno scudo partito, le insegne araldiche di Roberto Bonifacio (signore di Casalnuovo, fra alterne vicende, dal 1522 al 1536) e della moglie Lucrezia Cicara[2] (figg. 6 e 7).

Fig. 6 – Bayerische Staatsbibliothek (Biblioteca Nazionale Bavarese), BSB Cod.icon. 279 (1550-55), fol. 35r. Arma della famiglia Bonifacio: «d’oro, alla banda scaccata di due file d’argento e di rosso, accostata da due leoni illeoparditi dello stesso»
Fig. 6 – Bayerische Staatsbibliothek (Biblioteca Nazionale Bavarese), BSB Cod.icon. 279 (1550-55), fol. 35r. Arma della famiglia Bonifacio: «d’oro, alla banda scaccata di due file d’argento e di rosso, accostata da due leoni illeoparditi dello stesso»
Fig. 7 - Bayerische Staatsbibliothek (Biblioteca Nazionale Bavarese), BSB Cod.icon. 279 (1550-55), fol. 40r. Arma della famiglia Cicara: «d’oro, a due scaglioni d’azzurro, quello superiore troncato; al capo cucito del primo, caricato di un uccello di nero, posato sulla partizione»
Fig. 7 – Bayerische Staatsbibliothek (Biblioteca Nazionale Bavarese), BSB Cod.icon. 279 (1550-55), fol. 40r. Arma della famiglia Cicara: «d’oro, a due scaglioni d’azzurro, quello superiore troncato; al capo cucito del primo, caricato di un uccello di nero, posato sulla partizione»

 

Per il secondo stemma lo studioso manduriano propone, invece, un’ipotesi di lettura che a nostro avviso risulta priva di fondamento. A detta del Capogrosso, l’insegna riprodurrebbe «il simbolo araldico della chiesa parrocchiale SS. Trinità (all’epoca eretta in Arcipretura, ma non ancora in Collegiata, sebbene fosse già servita, per il culto, collegialmente) rappresentato così come più tardi comparirà miniato nel Librone Magno delle famiglie mandurine».

Tuttavia, un’osservazione attenta del contenuto blasonico dello scudo, condotta anche mediante l’ausilio di foto ad alta risoluzione, smentisce l’ipotesi di attribuzione proposta dall’autore manduriano. Malgrado le vistose abrasioni, nella parte sinistra (destra per chi guarda) dello scudo si intravedono chiaramente gli scaglioni e il volatile, vale a dire le figure araldiche dell’arma Cicara (figg. 5 e 5a).

Ciò significa che il partito d’alleanza coniugale Bonifacio/Cicara è rappresentato anche nel secondo scudo della coppia superiore[3]. In effetti, la disposizione delle armi sul portale suggerisce un ordine funzionale alla rappresentazione di una gerarchia di poteri: sopra gli stemmi dei feudatari (arma di dominio), sotto quelli della locale Universitas (arma di comunità).

Ricordando che in contesti simili la ripetizione delle stesse armi all’interno dello stesso scudo è una costante legata essenzialmente a ragioni di simmetria, osserviamo, tuttavia, che il secondo scudo della coppia superiore presenta una foggia diversa rispetto al primo e appare scolpito su una lastra rettangolare che risulta decisamente fuori contesto. Entrambi gli scudi, inoltre, sono applicati alla base delle colonnine mediante staffe metalliche, particolare che li distingue nettamente dagli stemmi sottostanti, che invece appaiono scolpiti direttamente sulle paraste e costituiscono parte integrante della ricca iconografia presente sul portale del 1532.

Come spiegare, dunque, tutte queste anomalie? L’ipotesi più probabile, allo stato attuale delle ricerche, è quella di una collocazione successiva dei due stemmi superiori rispetto a quelli inferiori. È possibile, in particolare, che l’applicazione degli attuali scudi sulle colonnine della sovrapporta sia avvenuta utilizzando manufatti originariamente collocati altrove, reimpiegati, forse, per sostituire una precedente coppia di scudi gemelli Bonifacio/Cicara gravemente danneggiati o magari rimossi sotto i colpi della damnatio memoriae che colpì la figura di Giovanni Bernardino Bonifacio (*1517 †1597), figlio e successore di Roberto, sospettato di eresia e fuggito in modo rocambolesco nel 1557, con la conseguente confisca dei feudi di Oria, Casalnuovo e Francavilla.

Non è nemmeno da escludere che gli stemmi Bonifacio/Cicara appartengano allo stesso Giovanni Bernardino e che la damnatio memoriae abbia colpito proprio le sue insegne[4]. Nel testamento firmato il 16 gennaio 1534, Roberto Bonifacio dichiara il figlio erede universale, disponendo altresì che «se habbia finche vivera a cognominare del cognome nostro de Bonifatio, et Cicaro, cognome de la signora marchesa mia consorte». Quest’ultima circostanza può aver fornito a Giovanni Bernardino l’occasione per combinare all’interno di uno scudo partito le armi paterne con quelle materne, traducendo in tal modo araldicamente la volontà espressa dal padre di mantenere sempre vivi i cognomi Bonifacio e Cicara: ne avrebbe avuto, del resto, tutto il diritto.

Il fatto è che dell’arma usata dall’illustre umanista napoletano non resta oggi più alcuna traccia visibile. Mancano, infatti, altre attestazioni su monumenti, stemmari o altri manufatti con cui poter fare un raffronto, per cui la nostra resta solo una mera ipotesi, da prendere con le dovute cautele[5].

Come abbiamo già ricordato poc’anzi, quella con l’albero di mandorlo rappresentato a radici nude costituisce la più antica raffigurazione dell’arma civica di Manduria-Casalnuovo giunta fino a noi.

Si tratta di una testimonianza di notevole importanza perché documenta come agli inizi del Cinquecento l’Università di Casalnuovo – i cui primi statuti risalgono agli anni 1463-64, durante il periodo aragonese – fosse già dotata di una personalità giuridica e di un assetto politico-amministrativo tali da giustificare l’uso di un stemma. Quest’ultimo, infatti, trovava posto su tutta una serie di supporti (sigilli, monumenti, altri manufatti) atti a rendere visibili certi diritti e certe prerogative dell’amministrazione locale, separati, e a volte anzi contrapposti, a quelli dello Stato rappresentato dalla Corona e dal feudatario.

La presenza degli emblemi della municipalità sul portale rinascimentale voluto da Raimondo da Francavilla potrebbe allora essere messa in relazione con la funzione pubblica che la chiesa Matrice ebbe già nel Cinquecento come sede del Consiglio municipale[6], il che spiegherebbe anche l’eventuale presenza, ab origine o comunque entro il 1557, di un apparato araldico istituzionale composto da quattro armi, due del feudatario (sopra) e due dell’Università casalnovetana (sotto).

Un’altra ipotesi tira in ballo il giuspatronato detenuto dall’Universitas sulla stessa vhiesa Madre[7] e in tal caso gli stemmi ne rappresenterebbero il signum.

È innegabile, comunque sia, il fascino esercitato da questi documenti figurati che rappresentano visivamente i primi passi dell’autonomia amministrativa di Manduria-Casalnuovo nel senso moderno del termine.

L’iconografia complessiva del portale della chiesa Matrice attende ancora di essere debitamente studiata: l’auspicio è che la nostra ricerca, passibile di ulteriori sviluppi, rappresenti un primo passo in questa direzione.

 

BIBLIOGRAFIA

T. Albanese, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms. D/15.

P. Brunetti, Manduria: tra storia e leggenda, dalle origini ai giorni nostri, Manduria 2007.

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F. Filo Schiavoni, M. Annoscia, …Tra i segni di tanta vita e di tanta storia: Manduria in immagini e documenti fra 800 e 900, Manduria 1994.

S. Fischetti, Novità archivistiche su Manduria-Casalnovo: emblema civico e inediti, in «Cenacolo», Rivista storica di Taranto, n. s. XV (XXVII), 2003, pp. 89-114.

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M. E. Welti, Dall’umanesimo alla riforma. Giovanni Bernardino Bonifacio marchese di Oria (1517-1557), Brindisi 1986.

 

[1] Riteniamo che Casalnuovo, come molti altri centri minori, si sia dotata di uno stemma civico fra la fine del XV secolo e la prima metà del XVI. Il Cinquecento, in particolare, è il periodo della definizione dell’emblema civico casalnovetano, che si stabilizzerà solo a partire dal secolo successivo. Ci riproponiamo di parlarne più diffusamente in un apposito articolo di prossima pubblicazione.

[2] Altri due esemplari recanti il partito Bonifacio/Cicara si trovano scolpiti al lati del basamento del monumento sepolcrale dedicato ad Andrea Bonifacio (figlio di Roberto e Lucrezia, morto nel 1515, all’età di sette anni), situato nella chiesa dei Santi Severino e Sossio di Napoli. Il sito Nobili napoletani ne fornisce una riproduzione fotografica al seguente indirizzo: http://www.nobili-napoletani.it/Bonifacio.htm.

[3] Dall’analisi degli ornamenti esterni emerge, inoltre, che gli scudi della coppia superiore avevano in origine il medesimo timbro, ovvero una corona composta da un semplice cerchio, probabilmente decorato con gemme, che appare ancora integro nel primo scudo e frammentario nel secondo: un altro particolare che accomuna i due manufatti.

[4] E in tal caso bisognerebbe spostare il terminus post quem per la datazione della collocazione degli stemmi superiori al 1536, data della morte del padre Roberto.

[5] Sebbene non se ne conoscano esempi, Giovanni Berardino fece sicuramente uso di uno stemma, come dimostra la testimonianza de visu fornita dallo storico oritano Domenico Tommaso Albanese (*1638 †1685), contenuta in una pagina del manoscritto Historia Dell’antichità d’Oria. L’Albanese ricorda come ancora ai suoi tempi le armi del marchese di Oria decorassero gli stalli del coro della chiesa di San Francesco d’Assisi, stalli che lo stesso Bonifacio commissionò e dei quali, ahimè, si è persa oggi ogni traccia. Cfr. D. T. ALBANESE, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms. D/15, c. 311v.

[6] Dall’inizio del XVI secolo fino alla fine del XVIII tutti i Consigli municipali di Casalnuovo erano composti da un sindaco e da quattro auditori (assessori), scelti fra i nobili viventi, e da otto eletti, scelti fra i popolari. I membri del Consiglio erano responsabili, sui loro beni patrimoniali, dell’amministrazione della loro carica.

[7] L’Università aveva l’obbligo di provvedere alla manutenzione della chiesa e ad altre spese necessarie al suo funzionamento.

Uno stemma coniugale nella biblioteca di Manduria

DUE SPOSI, UNO SCUDO: ANALISI E ATTRIBUZIONE DELLO STEMMA CONSERVATO NELLA BIBLIOTECA COMUNALE MARCO GATTI DI MANDURIA

di Marcello Semeraro

Manduria

L’araldica intrattiene stretti rapporti con l’antroponimia. Gli studi di Michel Pastoureau sulle armi parlantisono così chiamate quelle armi che contengono figure che richiamano direttamente o indirettamente il nome della famiglia del possessore dello stemma[1] – dimostrano come in questo particolare ambito gli interessi delle due discipline convergano[2].

Si tratta di una tipologia di armi che esiste sin dalla nascita del sistema araldico nel XII secolo e che costituisce circa il 20% degli stemmi medievali, con un aumento significativo in epoca moderna grazie soprattutto alla diffusione che queste armi ebbero fra i non nobili e le comunità[3].

L’individuazione della natura parlante di uno stemma può talvolta costituire l’unico mezzo che l’araldista ha per riconoscere armi che altrimenti, a causa della lacuna nelle fonti araldiche di un determinato territorio, resterebbero anonime. Istruttivo è il caso dell’esemplare araldico oggetto di questa disamina.

Si tratta di uno stemma litico di grandi dimensioni, privo del suo contesto originario, che giace come pezzo erratico all’ingresso della biblioteca comunale “Marco Gatti” di Manduria (fig. 1).

Non esistono, che io sappia, studi specifici su questa insegna, ma solo descrizioni occasionali e attribuzioni parziali che certamente non aiutano a individuarne committenza, cronologia e provenienza[4]. La presente indagine si propone dunque di colmare questa lacuna, cercando altresì di situare il manufatto nello spazio e nel tempo. Osservando la composizione dello stemma, l’araldista riconosce facilmente all’interno dello scudo ovale e accartocciato[5] un’arma d’alleanza matrimoniale che riunisce, per mezzo di uno scudo partito[6], due insegne araldiche differenti, appartenenti di due persone sposate. Associazione del blasone del marito (posto a destra, sinistra per chi guarda) con quello del padre della sposa (a sinistra, destra per chi guarda) lo scudo partito rappresenta, sin dal XIII secolo, il procedimento più impiegato per indicare due famiglie unite in matrimonio e mostra, in particolare, come una donna sia stata donata da un uomo a un altro uomo.

Dal punto di vista cronologico, la forma dello scudo[7] e lo stile generale della composizione invitano a datare il manufatto in esame a un periodo compreso fra la seconda metà del XVI secolo e gli inizi del XVII.

Nel secondo quarto[8] del partito si riconosce chiaramente l’arma della famiglia Pasanisi[9], dalla quale proviene la sposa: d’azzurro, inquartato da un filetto in croce d’argento: nel 1° e nel 4° un leone d’oro; nel 2° e nel 3° tre anelletti intrecciati del secondo[10].

Se dunque l’identificazione della famiglia di provenienza della moglie non pone problemi, non altrettanto si può dire per quella del marito, rappresentata nella prima parte dello scudo. Il blasone che si vede (troncato: nel 1° tre stelle male ordinate[11]; nel 2° un quadrupede[12] dormiente) costituisce, infatti, un vero e proprio apax che non trova altre attestazioni su stemmari, monumenti o altre testimonianze materiali o narrative.

In casi di questo genere può rivelarsi fruttuoso il ricorso alla genealogia familiare, restringendo ovviamente il campo di ricerca al periodo documentato dalla cronologia dello stemma. Per Manduria, la fonte per eccellenza per questo genere di ricerche è il Libro Magno delle famiglie di Casalnuovo, il celebre manoscritto iniziato dall’arciprete Lupo Donato Bruno nel 1572 e continuato da altri dopo la sua morte, che contiene le genealogie di tutte le famiglie casalnovetane dalla metà del Quattrocento alla fine del Settecento[13].

Ebbene, fra tutte le famiglie i cui membri, fra seconda metà del XVI secolo e gli inizi del XVII, presero in moglie una Pasanisi, solo una può aver portato uno scudo recante un quadrupede rappresentato nell’atto di dormire, posizione, quest’ultima, piuttosto rara nelle armi, tanto da costituire nel caso specifico la chiave di lettura per la decifrazione dell’intero manufatto araldico. Mi riferisco alla famiglia Dormio, di origine mesagnese, definita “nobile” dal Foscarini, diramata a Lecce nel XVII secolo, estinta nel 1883 e titolare di vari feudi in Terra d’Otranto[14].

Sebbene di questa schiatta non sia noto il blasone, l’estrema caratterizzazione della posizione del quadrupede che si vede nel quarto in esame, la sua natura parlante allusiva al cognome (Dormio/animale dormiente) e l’impossibile sovrapposizione con lo stemma di altre casate imparentate con i Pasanisi nel periodo di riferimento contribuiscono a rendere inequivocabile tale l’attribuzione. Dall’esame comparato dei dati provenienti dal Libro Magno e dagli atti notarili emerge che negli anni ottanta del XVI secolo i fratelli Donato Antonio e Alessandro, figli di Francesco Dormio di Mesagne, impalmarono le sorelle Minerva e Pollonia Pasanisi, figlie del notaio Carlo e di Isabella Barbera[15].

Lo stemma partito per alleanza matrimoniale è attribuibile, dunque, a una di queste due coppie. Ci chiediamo, a questo punto, se sia possibile risalire all’edificio sul quale lo stemma era originariamente collocato. Purtroppo la decontestualizzazione del manufatto e l’assenza di informazioni sulle circostanze che ne determinarono il trasferimento in biblioteca non permettono di dare risposte adeguate a questo quesito. Occorre dunque indirizzare la ricerca altrove, segnatamente agli atti notarili.

Una prima verifica effettuata sui regesti dei rogiti del XVI secolo ha offerto, da questo punto di vista, un quadro interessante ma parziale che va necessariamente approfondito attraverso ulteriori e più complete indagini. Le ricerche, in particolare, vanno condotte sia su eventuali beni immobili facenti parte del patrimonio dotale assegnato ai due fratelli mesagnesi, sia su quelli da loro acquisiti per compravendita[16]. Come si vede, il materiale documentario per future e auspicabili investigazioni non manca.

L’attribuzione dello stemma conservato nella biblioteca Marco Gatti pone comunque l’accento sull’importanza dell’araldica come scienza documentaria della storia, in particolare sulla sua utilità nella risoluzione di problemi legati alla committenza e alla cronologia di un determinato manufatto. L’auspicio è che gli storici e gli storici dell’arte ne facciano tesoro!

 

Note

[1] Qualche esempio: una scala per gli Scaligeri, una colonna per i Colonna, tre pignatte per i Pignatelli, un castello per Castiglia, un leone per León, ecc. La relazione parlante che si stabilisce fra le figure dello scudo e il cognome può articolarsi in modo diretto, allusivo o attraverso un gioco di parole.

[2] Cfr. M. Pastoureau, Une écriture en images: les armoiries parlantes, in “Extrême-Orient Extrême-Occident”, 30 (2008), pp. 187-198.

[3] Anche in Terra d’Otranto l’indice di frequenza delle armi parlanti fu particolarmente elevato, Manduria compresa, come dimostrano i seguenti casi: un basilisco per i Basile, una candela per i Candeloro, un calice per i Coppola, un cuore per i Corrado, un leone per i De Leonardis, un fagiano per i Fasano, una fontana per i Fontana, un Gatto per i Gatti, un lupo per i Lupo, un colombo per i Palumbo, ecc. Cfr. N. Palumbo, Araldica civica e cenni storici dei comuni di Terra Jonica, Manduria 1989, pp. 355-362.

[4] Vedi, ad esempio, P. Brunetti, Manduria: tra storia e leggenda, dalle origini ai giorni nostri, Manduria 2007, p. 253. L’autore assegna genericamente lo stemma alla famiglia Pasanisi, ma, come vedremo più avanti, questa attribuzione è vera solo per la seconda parte dell’arma.

[5] Dietro lo scudo si vedono inoltre dei nastri svolazzanti, aventi una semplice funzione decorativa.

[6] Si dice partito lo scudo diviso in due parti uguali da una linea verticale.

[7] Sull’evoluzione della forma dello scudo v. O. Neubecker, Araldica: origini, simboli e significato, Milano 1980, pp. 76-77.

[8] Il quarto (detto anche punto dell’arma) indica ciascuna delle singole armi che, nella loro interezza, compongono stemmi più complessi, purché ognuno di essi rappresenti un’arma separata.

[9] Una delle più importanti e antiche famiglie di Manduria, proveniente da Pasano, antico villaggio costiero in agro di Sava e forse originaria dell’area greco-bizantina. Documentata sin dal XIV secolo con Pietro Pasanisio, la casata (tuttora fiorente) annoverò fra i suoi membri notai, giureconsulti, chierici e sindaci e si imparentò con importanti famiglie feudali come i Montefuscolo, i Luzzi e i dell’Antoglietta. Cfr. B. Fontana, Le famiglie di Manduria dal XV secolo al 1930: capostipiti, provenienza, uomini illustri, Manduria 2005, pp. 153-154.

[10] Lo stemma inquartato dei Pasanisi, del quale esistono varianti soprattutto nella rappresentazione degli smalti, è stato impropriamente blasonato dallo studioso Nino Palumbo come Pasanisi-Dragonetti (cfr. Araldica civica cit., p. 361), dal nome della diramazione omonima generata agli inizi del Settecento dal matrimonio fra Francesco Antonio Pasanisi e Laudonia Dragonetti. L’esame comparato delle testimonianze araldiche superstiti e della genealogia familiare permette invece di affermare che l’uso dell’inquarto è comune a tutti i rami della famiglia, perlomeno sin dal XVI secolo. Istruttivo è, sotto questo profilo, il caso dell’esemplare Pasanisi che appare nel secondo quarto dello scudo partito oggetto di questo studio. Allo stato attuale delle ricerche non è possibile fornire una spiegazione certa circa l’origine dell’arma inquartata innalzata dalla storica famiglia manduriana.

[11] Si dice di più figure uguali fra loro e poste a triangolo, ma con la maggior parte di esse verso la punta dello scudo anziché, come invece avviene di norma, verso il capo.

[12] Utilizzo volutamente il termine quadrupede perché non è stato possibile individuarne l’esatta natura. Potrebbe essere un felino o un cane, ma comunque si tratta di un animale non inquadrabile in una specifica tipologia araldica.

[13] Cfr. Libro Magno delle famiglie di Casalnuovo, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3; G. Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli (XV-XIX secolo), Torino 1988, p. 207.

[14] A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903, rist. anast. Bologna 1978, p. 88.

[15] L’atto di costituzione della dote apportata da Minerva a Donato Antonio fu rogato a Casalnuovo dal notaio Felice Pasanisi l’11 novembre 1581. Il dotante fu Isabella Barbera, madre della futura sposa, in quanto vedova del notaio Carlo Pasanisi. Un altro istrumento, rogato dallo stesso notaio il 22 ottobre 1588, riporta invece i capitoli matrimoniali firmati da Francesco Dormio e Isabella Barbera in occasione delle nozze dei rispettivi figli Alessandro e Pollonia, celebrate nella chiesa matrice di Casalnuovo il giorno dopo. Cfr. M. Alfonzetti, M. Fistetto, I protocolli dei notai di Casalnovo nel Cinquecento: regestazione degli atti notarili dei notai casalnovesi conservati nell’Archivio di Stato di Taranto, Manduria 2003, pp. 212 (n. 14) e 239 (nn. 31, 32). Grazie al Libro Magno (cfr. cc. 487r e 811r) sappiamo inoltre che Donato Antonio e Minerva ebbero tre figli (Teodoro, Giovanni Giacomo e Artemisia) e che altrettanti ne ebbero Alessandro e Pollonia (Francesco Antonio, Anna e Caterina).

[16] L’1 marzo del 1592 Geronimo delli Fiori, di Casalnuovo, vende a Alessandro e Donato Antonio Dormio una casa dotata di un giardino retrostante e di un luogo aperto davanti, sita nel Borgo della Porta Grande, nel luogo detto avante la Porta Grande, per 110 ducati. Il 3 agosto 1592 Antonio Schiavone, di Casalnuovo, vende a Donato Antonio Dormio 10 pezze di vigna, site in Casalnuovo, in località Piterta, ed un clausorio parietato, con dentro una casa, corte, giardino e 30 tomoli di zafferano, sito nello stesso feudo, alla via della Vetrana, per 190 ducati. Il 20 febbraio 1587 Donato De Ugento vende a Donato Antonio Dormio una casa palacciata, sita intus terram Casalis novi, in Plateam pubblicam dicte terre, per 70 ducati. Cfr. Alfonzetti, Fistetto, I protocolli cit., pp. 264 (n. 55), 271 (n. 109) e 320 (n. 253).

Un basilisco cinquecentesco a pochi passi dalla chiesa Matrice di Manduria*

di Marcello Semeraro

La corretta attribuzione di uno stemma anonimo costituisce spesso, in mancanza di altri dati, un elemento decisivo in grado di illuminare il “contesto” su cui esso in origine era collocato. È il caso dell’esemplare murato sulla parete esterna dell’edificio ubicato fra vico Campanile e via Marco Gatti n° 5, a due passi dalla chiesa matrice di Manduria, attualmente adibito a casa canonica (fig. 1).

Fig. 1 - Manduria, edificio di via Marco Gatti n° 5, stemma (foto di Giuseppe D’Angeli)
Fig. 1 – Manduria, edificio di via Marco Gatti n° 5, stemma (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Benché il manufatto in questione si presenti in uno stato di conservazione precario, con vistose abrasioni che ne compromettono la chiara leggibilità, è stato possibile, attraverso l’analisi araldica, risalire perlomeno alla famiglia titolare dello stemma, che è già un bel risultato per chi si occupa di ricerche storiche locali, tanto più che sulle origini dell’edificio su cui è apposta l’insegna le fonti storiografiche sembrano tacere. L’arma in argomento è contenuta in uno scudo col capo sagomato a tre punte; dalla punta centrale spuntano una decorazione fogliacea e un anello sostenuto da un gancio reggi-scudo (fig. 2).

Fig. 2 - Manduria, via Marco Gatti n° 5, particolare dello stemma murato (foto di Giuseppe D’Angeli)
Fig. 2 – Manduria, via Marco Gatti n° 5, particolare dello stemma murato (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Due cartocci ornano il lato sinistro (destro per chi guarda) e la punta dello scudo, mentre dietro di esso appaiono nastri svolazzanti e accollanti. L’intera composizione è racchiusa da una cornice modanata, la cui decorazione originaria risulta tuttavia abrasa. All’interno dello scudo campeggia un basilisco, il mostruoso gallo serpentiforme con il corpo intriso di veleno, capace di uccidere con il solo sguardo[1] (fig. 3).

Fig. 3 - Il basilisco, creatura mostruosa che si voleva generata da un uovo deposto da un gallo anziano, ma covato da una bestia velenosa come il rospo, l’aspide o il drago. Figura ibrida, ha la testa, le ali e le zampe di un gallo, ma il corpo termina a forma di serpente. È sormontato da una cresta carnosa simile ad una corona (da cui il nome che significa “piccolo re”). È il “re dei serpenti” e tutti lo temono, tranne la donnola, come si vede in questa splendida miniatura. Londra, British Library, Royal MS 12 C XIX, fol. 63r.
Fig. 3 – Il basilisco, creatura mostruosa che si voleva generata da un uovo deposto da un gallo anziano, ma covato da una bestia velenosa come il rospo, l’aspide o il drago. Figura ibrida, ha la testa, le ali e le zampe di un gallo, ma il corpo termina a forma di serpente. È sormontato da una cresta carnosa simile ad una corona (da cui il nome che significa “piccolo re”). È il “re dei serpenti” e tutti lo temono, tranne la donnola, come si vede in questa splendida miniatura. Londra, British Library, Royal MS 12 C XIX, fol. 63r.

 

Considerato dai bestiari medievali il “re dei serpenti”, il basilisco è tuttavia una figura piuttosto rara nelle armi, che per via della sua natura ibrida viene non di rado confusa con il gallo o il drago. Cronologicamente parlando, il manufatto sembra avere fattezze stilistiche riconducibili al XVI secolo, datazione deducibile sia dalla forma primitiva del cartoccio, sia dallo stile generale dell’intero decoro araldico[2].

Fra le famiglie nobili e notabili di Manduria solo una può aver innalzato uno stemma come questo: i Basile[3], il cui scudo raffigura proprio un basilisco e non un gallo, come erroneamente ha sostenuto lo studioso Bruno Perretti[4]. La presenza di questa creatura mitologica nell’arma in esame si spiega facilmente se si considera la relazione parlante che la figura intrattiene con il cognome: basilisco/Basile[5].

La famiglia è documentata a Casalnuovo sin dalla seconda metà del XV secolo e viene indicata anche come Basili, Di/De Basili o De Basiliis/De Basilijs negli atti notarili, nel Libro dei Battezzati del XVI secolo e nel Librone Magno[6]. Diramatasi anche in Oria, annoverò fra i suoi membri notai, giureconsulti e chierici, come Don Pietro De Basiliis, secondo arciprete di Manduria (1556-1575).

Individuata la committenza dello stemma nella famiglia Basile, resta da spiegare la natura dell’edificio che lo ospita nel periodo in cui fu murato il manufatto araldico. Le poche notizie riportate dalla storiografia locale non aiutano in tal senso, giacché documentano solo i passaggi di proprietà a cui fu sottoposto l’immobile a partire dal XVIII secolo[7].

Occorre dunque interrogare le fonti storiche dirette. Un primo esame condotto sulla regestazione degli atti notarili dei notai casalnovesi del XVI secolo[8], sul Librone Magno[9] e su altri documenti d’archivio (visite pastorali e relazioni delle proprietà capitolari), sebbene non abbia sciolto l’enigma, ha comunque fornito dei dati interessanti che andrebbero approfonditi attraverso successive ricerche. Queste fonti documentano le vicende di una famiglia agiata, imparentata con alcune fra le maggiori famiglie manduriane (come i Pasanisi e i Rosea), titolare di beni immobili e fondiari (alcuni dei quali lasciati al Capitolo della chiesa matrice[10]), nonché di giuspatronati su varie cappelle[11].

L’apposizione dello stemma familiare – segno di riconoscimento, marchio di proprietà e motivo decorativo – si rivela dunque compatibile con lo status sociale e patrimoniale acquisito dalla famiglia nel corso del Cinquecento. Lascio volentieri agli studiosi di storia manduriana la possibilità di sviluppare una pista di ricerca che potrebbe rivelarsi di sicuro interesse per la conoscenza di un tassello dimenticato della storia e dell’architettura locali.

 

*Un ringraziamento particolare va all’artista manduriana Paola Lagamba, che ha sottoposto alla mia attenzione l’esemplare oggetto di questa breve disamina, e a Giuseppe D’Angeli, per le foto che gentilmente mi ha fornito.

[1] Cfr. M. Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Torino 2012, pp. 47, 152, 158, 192-193, 195, 241, 249-250.

[2] Sull’evoluzione della forma dello scudo nel XVI secolo v. O. Neubecker, Araldica: origini, simboli e significato, Milano 1980, pp. 76-77; S. TIBERINI, Araldica e storia sociale: possibili esempi perugini tra medioevo ed età moderna, in “Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria”, CXI (2014), pp. 293-303.

[3] Con questo nome si conoscono varie famiglie, non è chiaro se semplicemente omonime o discendenti da un medesimo ceppo. Per i Basile di Napoli cfr. V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, suppl. 1°, Milano 1935, pp. 302-305; cfr. anche la voce presente nel sito Nobili Napoletani, al seguente indirizzo: http://www.nobili-napoletani.it/Basile.htm. Recentemente, proprio su queste pagine, mi sono occupato della famiglia Basile di Francavilla e del suo stemma scolpito sulla facciata dell’omonimo palazzo: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/04/lo-stemma-del-palazzo-basile-francavilla-fontana-un-curioso-caso arma-parlante/.

[4] Cfr. B. Perretti, Manduria: architettura, arte, società, Manduria 2005, p. 118.

[5] Si chiamano armi parlanti quelle che contengono una o più raffigurazioni che alludono (direttamente o indirettamente) al nome della famiglia: una scala per gli Scaligeri, una Colonna per i Colonna, tre pignatte per i Pignatelli ecc. La relazione parlante può annodarsi anche soltando con una parte del nome, come avviene nello stemma Basile oggetto di questo studio o in quello della città svizzera di Basilea, nel quale il basilisco che allude al nome (basilisk/Basel) viene impiegato come ornamento esterno dello scudo. Si calcola che circa un 20/25% degli stemmi europei sia classificabile come parlante. Cfr. M. Pastoureau, Figures de l’héraldique, Paris 1996, p. 82.

[6] Cfr. B. Fontana, Le famiglie di Manduria dal XV secolo al 1930: capostipiti, provenienza, uomini illustri, Manduria 2005, p. 44.

[7] Cfr. Perretti, Manduria: architettura cit., p. 118.

[8] Cfr. M. Alfonzetti, M. Fistetto, I protocolli dei notai di Casalnovo nel Cinquecento: regestazione degli atti notarili dei notai casalnovesi conservati nell’Archivio di Stato di Taranto, Manduria 2003, alle voci De Basiliis/De Basilijs.

[9] Cfr. Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3, cc. 27r e 28v.

[10] Cfr. L. Tarentini, Manduria sacra, ovvero Storia di tutte le chiese e cappelle distrutte ed esistenti dei monasteri e congregazioni laicali dalla loro fondazione fino al presente, Manduria 1899, rist. anast. Manduria 1999, p. 17.

[11] ADO, Visita pastorale Mons. Lucio Fornari, 1603-1604, b. 2, consultata in copia fotostatica presso la Biblioteca diocesana di Oria.

Manduria: un’iscrizione, un romanzo storico, un reportage

di Armando Polito


I tre nomi comuni  che nel titolo accompagnano quello della città in cui sono nato risultano collocati in ordine cronologico. Nella trattazione, tuttavia, comincerò dal reportage perché questo mio post non sarebbe stato scritto se non avessi letto ieri quello a firma di Alessandro Romano in Fra le “SCRASCE”  su Facebook. Ad essere pignoli, però, va detto che Alessandro l’aveva già pubblicato il 4 settembre 2015 sul suo blog (http://www.salentoacolory.it/la-chiesa-ipogeo-di-san-pietro-mandurino/), cui, infatti, il post facebookiano rimanda.  Le ragioni di tanta pignoleria cronologica si capiranno fra poco.

Da lì ho tratto la foto dell’epigrafe che, naturalmente, è la protagonista più antica. Di seguito le mie trascrizione e traduzione, nonché qualche nota esplicativa. Per il contesto dell’epigrafe e per tutto il resto rinvio al post di Alessandro.

 

D(EO) O(PTIMO) M(AXIMO)

TEMPLUM HOC VETUSTISSIMUM APOSTOLORUM PRINCIPI SACRUM MANDURIENSIUM PIETATIS NOBILE MONUMENTUM SAECULORUM DECURSU FERE COLLAPSUM IOANNES BAPTISTA LABANCHI URITANUS PRAESUL INCOLATUS SUI HIC ANNO TERTIO RESTAURARI CURAVIT ET SOLEMNI RITU DIVINO CULTUI RESTITUIT DIE ANTIOCHAENAE  CATHEDRAE DICATA ANNI DEI MDCCXXIV

A Dio Ottimo Massimo. Giovanni Battista Labanchi vescovo di Oria1 nel terzo anno di sua residenza qui curò che questo tempio antichissimo  consacrato al principe degli Apostoli, nobile testimonianza della religiosità dei manduriani, quasi crollato per il trascorrere dei secoli, fosse restaurato e con rito solenne lo restituì al culto divino nel giorno dedicato alla cattedra di Antiochia2 dell’anno di Dio 1724

Non c’è nulla di strano che un’epigrafe entri nel tessuto narrativo di un romanzo, tanto più se esso è storico. Nel nostro caso si tratta de Il segreto della cripta messapica di Pietro Francesco Matino, CIESSE Edizioni, 2015. La lettura, per quanto parziale in rete (https://books.google.it/books?id=K99nBwAAQBAJ&pg=PT60&dq=IOANNES+BAPTISTA+LABANCHI&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjb6JC0wv_WAhUGuxQKHcKZDrYQ6AEIJjAA#v=onepage&q=IOANNES%20BAPTISTA%20LABANCHI&f=false) mi consente di precisare che il romanzo risulta stampato nel mese di marzo (esso precede,quindi, di pochi mesi il post di Alessandro; è solo una precisazione di natura cronologica, non avendo il reportage e il romanzo  nulla in comune se non il dettaglio dell’epigrafe) e di riprodurre in formato immagine la trascrizione che vi si legge.

Lascio al lettore scoprire, originale sotto gli occhi, le differenze sulle due tracsrizioni e dare un giudizio sulla maggiore o minore fedeltà dell’una rispetto all’altra. Si tratta, comunque di dettagli di scrittura epigrafica  che non avrebbero comportato alterazione del significato se nel romanzo fosse stata fornita la traduzione.

 

________________

1 Dal 27 maggio 1720  al 23 luglio 1745.

2 Secondo il Martirologio romano Il 22 febbraio; quello dedicato alla cattedra di Roma il 18 gennaio. Oggi le due commemorazioni avvengono il 22 febbraio.

 

L’antica casa Carcioffa di Manduria e il suo stemma

di Marcello Semeraro

Fra gli stemmi più curiosi che si possono osservare nel centro storico di Manduria, un posto di primo piano spetta sicuramente a quello della famiglia Carcioffa, antica casata di origine albanese, oggi estinta.

L’arma si trova scolpita sulla facciata dell’edificio sito al civico n° 15 di Piazza Plinio ed è racchiusa da uno scudo ovale, con contorno a cartoccio (nella parte superiore) e a foglie di acanto (in quella inferiore), ornato da nastri accollanti e svolazzanti (fig. 1).

 

Fig. 1 - Manduria, casa Carcioffa, particolare dello stemma murato sulla facciata
Fig. 1 – Manduria, casa Carcioffa, particolare dello stemma murato sulla facciata

 

Il manufatto, diversamente da quanto dovette essere in origine, si presenta oggi acromo e costituisce l’unica attestazione a noi nota del blasone di questa antica famiglia. All’interno dello scudo è rappresentata una pianta di carciofo, gambuta e fiorita di sette pezzi, sostenuta da due leoncini controrampanti; il tutto è posto su un terreno e accompagnato, nei cantoni destro e sinistro del capo, da due stelle di otto raggi. L’araldista riconosce subito che si tratta di un caso di stemma parlante, una particolare tipologia di arma, cioè, che contiene raffigurazioni che alludono (direttamente o indirettamente) al nome di famiglia.

Nel caso specifico, la relazione che si stabilisce fra la figura principale dello scudo e il cognome (ovvero fra il significante e il significato) è talmente diretta da risultare chiara e comprensibile anche a chi sia digiuno di cose araldiche. Cronologicamente parlando, l’esemplare litico è databile alla prima metà del Seicento e presenta, nella tipologia di scudo e nei suoi ornamenti esterni, delle affinità stilistiche con altri manufatti coevi, come ad esempio l’arma della baronessa Filippa di Cosenza, visibile all’interno della chiesa di San Giovanni Battista di Oria e realizzata, come recita la sottostante epigrafe, nel 1613, ovvero quasi tre secoli dopo la sua morte (1348).

Seicentesca è, del resto, la stessa casa Carcioffa, un edificio che ricalca una tipologia costruttiva che proprio in quel secolo si sviluppò a Casalnuovo (l’antico nome di Manduria) durante la signoria degli Imperiali. Come abbiamo già accennato, la famiglia Carcioffa è di origine albanese e come tale viene annoverata nel Librone Magno delle famiglie manduriane, il celebre manoscritto iniziato nel 1572 dall’arciprete della Collegiata Lupo Donato Bruno, sulla cui attendibilità non sussistono dubbi (figg. 2 e 3).

Fig. 2 - Note genealogiche sulla famiglia Carcioffa. Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, ms. Rr/1-3 (1572-1810), c. 806v.
Fig. 2 – Note genealogiche sulla famiglia Carcioffa. Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, ms. Rr/1-3 (1572-1810), c. 806v.

 

Fig. 3 – Frontespizio stemmato del Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, ms. Rr/1-3 (1572-1810), c. 3r. La pluralità di insegne disegnate e acquerellate mette in scena la gerarchia dei poteri (religiosi e laici) esistenti all’epoca della compilazione del manoscritto (1572): il papa Gregorio XIII (in alto a sinistra), il re di Napoli Filippo II di Spagna (in alto a destra), l’arcivescovo di Oria Bernardino Figueroa (in basso a sinistra), il feudatario Davide Imperiali (in basso a destra). Al centro, lo stemma dell’Universitas, in alto quello del Capitolo della Collegiata di Manduria e in basso, quello dell’arciprete Lupo Donato Bruno.
Fig. 3 – Frontespizio stemmato del Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, ms. Rr/1-3 (1572-1810), c. 3r. La pluralità di insegne disegnate e acquerellate mette in scena la gerarchia dei poteri (religiosi e laici) esistenti all’epoca della compilazione del manoscritto (1572): il papa Gregorio XIII (in alto a sinistra), il re di Napoli Filippo II di Spagna (in alto a destra), l’arcivescovo di Oria Bernardino Figueroa (in basso a sinistra), il feudatario Davide Imperiali (in basso a destra). Al centro, lo stemma dell’Universitas, in alto quello del Capitolo della Collegiata di Manduria e in basso, quello dell’arciprete Lupo Donato Bruno.

È noto che il fenomeno dell’immigrazione albanese, iniziato nella seconda metà del ‘400 a seguito della caduta dell’Impero bizantino (1453), interessò una vasta area del tarantino ed ebbe una presenza significativa anche nella stessa Manduria.

 

Fra le famiglie manduriane di sicura origine albanese ricordiamo i Bianca, i Biasca, i Greca, i Magiatica, i Masculorum, i Piccinni, i Pellegrina, gli Sbavaglia e gli stessi Carcioffa.

Grazie agli studi condotti da Benedetto Fontana su documenti d’archivio, sappiamo quest’ultima famiglia ebbe una forma cognominale molto variabile fra i secoli XVI e XVII. Nel Libro dei Battezzati e negli Status Animarum, infatti, i Carcioffa sono indicati anche come “Fercata” (LB 1579), “Forcata alias Carcioffo” (LB 1584), “Scarcioppola” (SA 1665) e “Schiaccioppola” (SA 1693).

Se le origini di questa famiglia sono note, non altrettanto si può dire invece della sua supposta “nobiltà”. Secondo Pietro Brunetti, essa sarebbe provata proprio dall’uso dello stemma, “segno che tra gli immigrati vi furono anche famiglie nobili o, col tempo, divenute tali”. Si tratta, tuttavia, di un’affermazione priva di fondamento, che si basa su una percezione errata, ma purtroppo molto diffusa, del fenomeno araldico: la limitazione alla sola classe nobile del diritto allo stemma.

La realtà è invece un’altra: in nessuna parte dell’Europa occidentale, in nessun momento storico, l’uso dello stemma è stato appannaggio di una sola classe sociale. Ogni individuo, ogni famiglia, ogni gruppo è sempre stato libero di adottare un proprio stemma e di farne un uso privato, a condizione di non usurpare quelli altrui.

Le rare restrizioni documentate – che tuttavia restarono spesso lettera morta – hanno riguardato semmai l’uso pubblico delle armi, ma queste limitazioni non hanno mai interessato il Regno di Napoli, dove non è possibile rinvenire alcuna specifica regolamentazione in tal senso. In Terra d’Otranto, in particolare, sono numerosi gli esempi di armi appartenenti a famiglie borghesi o notabili che dir si voglia.

Del resto, il principio della libera assunzione degli stemmi fu enunciato già nel XIV dall’insigne giurista Bartolo da Sassoferrato, il quale nel suo trattato De insigniis et armis, assegnando all’arma una funzione simile a quella del nome, a tal proposito così scrisse: “[…] sicut enim nomina inventa sunt ad cognoscendum homines [… ] ita etiam ista insignia ad hoc inventa sunt […]”. Quanto ai Carcioffa, essi non raggiunsero mai nessuno status nobiliare, ma furono sicuramente una famiglia borghese e agiata. Tutto ciò non gli impedì affatto di dotarsi di un’insegna araldica e di impiegare, al momento della scelta, il procedimento più facile per crearsene una: l’arma parlante. Così facendo, aderirono a una pratica emblematica molto diffusa nell’araldica europea, il cui indice di frequenza, pari a circa il 20% degli stemmi medievali, crebbe ancora di più in epoca moderna, quando numerose famiglie non nobili e comunità fecero uso di insegne.

Quello delle armi parlanti, del resto, fu un fenomeno ben noto a Manduria. Ne cito qualche esempio, tratto dal saggio di Nino Palumbo Araldica civica e cenni storici dei comuni di Terra Jonica: una candela (Candeloro), un calice (Coppola), un leone (De Leonardis e Leo), un fagiano (Fasano), un ferro di cavallo (Ferri), una fontana (Fontana), quattro X (Quaranta), ecc.

La figura principale che campeggia nello scudo in esame – la pianta di carciofo, figura rarissima nelle armi – conferma, inoltre, una tendenza specifica che caratterizza l’araldica non nobile rispetto a quella nobile, vale a dire una maggiore diversificazione nel repertorio delle figure utilizzate. Gli studi di Michel Pastoureau hanno dimostrato come tale repertorio comprenda un maggior numero di oggetti della vita quotidiana, strumenti vari e figure vegetali, come quella che appare nell’arme Carcioffa.

Ora, agli occhi dell’osservatore moderno un emblema come può apparire burlesco e peggiorativo, ma occorre sottolineare che così facendo si incorre nell’anacronismo, il cancro della ricerca storica. Allo storico dei segni, invece, tale stemma appare per quello che è, ovvero un autentico documento di storia culturale e sociale, che, come tale, va compreso e contestualizzato. All’epoca, la famiglia era fiera di esibire il proprio emblema araldico, tanto che, nel pieno dello sviluppo urbanistico di Casalnuovo nel XVII secolo, decise di collocarlo non su un posto qualsiasi, ma sulla facciata della propria abitazione, con la triplice funzione di segno di riconoscimento, marchio di proprietà e motivo ornamentale.

Ancora oggi, dopo quattro secoli, lo stemma campeggia su questo antico edificio e si accompagna al motto di famiglia, CONSTANTIA ET LABORE, inciso sull’architrave della sottostante finestra, che risuona come una dichiarazione programmatica di intenti, un’ideale di vita che si beffa del trascorrere del tempo e delle mode. “Le blason est la clef de l’histoire“, disse Gérard de Nerval: mi piace concludere così queste brevi note.

 

Bibliografia

  1. Brunetti, Manduria, tra storia e leggenda. Dalle origini ai giorni nostri, Manduria 2007.
  2. Fontana, Le famiglie di Manduria dal XV secolo al 1930. Capostipiti, provenienza, uomini illustri, Manduria 2015.
  3. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903, rist. anast. Bologna 1978.
  4. Greco, Immigrazione di albanesi e levantini in Manduria desunta dal Librone Magno, in “Rinascenza Salentina”, 8 (1940), pp. 208-220.
  5. Palumbo, Araldica civica e cenni storici dei comuni di terra jonica: genealogie ed armi di feudatari e di casate estinte e viventi, Manduria-Bari-Roma 1989.
  6. Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014.
  7. Pastoureau, Une écriture en images: les armoiries parlantes, in “Extrême-Orient Extrême-Occident”, 30 (2008), pp. 187-198.

L’indizio e la prova: nuova luce sulla leggenda petrina di Bevagna

di Nicola Morrone

In uno dei nostri articoli più recenti ci siamo occupati di verificare se la nota leggenda del passaggio di San Pietro Apostolo per le nostre contrade, che la tradizione colloca intorno al 44 d.C., presentasse qualche elemento di verosimiglianza. Abbiamo pubblicato i risultati dell’indagine, conclusa nel 2015, su questo stesso sito.

Nel nostro studio sul narrato leggendario (che è riportato nel manoscritto di P. Domenico Saracino o.p.)[1], abbiamo integrato il quadro storico di riferimento con elementi di ordine archeologico, onomastico e toponomastico, concludendo che la leggenda dello sbarco di San Pietro a Bevagna, e della conversione al cristianesimo di Fellone, signore di Felline, poteva essere verosimile.

Il villaggio rurale di Felline e’ infatti storicamente esistito; Fellone, con ogni probabilità uno schiavo (o forse un liberto) gestiva il fundus di Felline e probabilmente l’industria fittile (figlina) e la fattoria (villa rustica) ad esso collegata, per conto del padrone; l’Apostolo fece con ogni probabilità naufragio nei pressi della rada di Bevagna, che conserva ancora tracce materiali di antichi naufragi. In attesa che l’area in cui sorge il Santuario di Bevagna sia oggetto di scavi archeologici che possano fare luce sul mito di fondazione petrino, offriamo in questa sede al lettore qualche ulteriore spunto di riflessione sul tema.

Anfora brindisina (Giancola)

Felline

La leggenda riportata dal Saracino colloca i fatti nel I sec.d.C. .Non si hanno molte notizie circa la configurazione del territorio di Manduria nell’epoca di riferimento .Le ricerche archeologiche di superficie permettono comunque di ipotizzare, con buon fondamento, l’esistenza di una “costellazione” di villae rustiche (fattorie) sorte intorno all’oppidum di Manduria, in un momento storico particolarmente favorevole, conseguente alla pax augustea. Si segnalano evidenze materiali nelle contrade Santa Maria di Bagnolo, Terragna, Scorcora, ecc.[2]

Tali villae erano inserite all’interno di fundi più o meno vasti, gestiti dai dipendenti dei padroni, tutti di condizione servile, e la gran parte di origine grecanica. I proprietari terrieri risiedevano per lo più a Brindisi, Taranto, o in centri cittadini minori. Talora , all’interno del fundus era collocata una figlina , cioè un’industria fittile (per la produzione di anfore, tegole, ecc) che in provincia si articolava su modelli organizzativi piuttosto semplici.

Oltre che sull’industria figula, l’economia delle villae rustiche del nostro territorio si basava essenzialmente sul pascolo, l’allevamento e la produzione cerealicola, vinicola e olearia[3]. Il villaggio rurale di Felline, sorto alla base della collinetta de Li Castelli, si configurò verosimilmente come un piccolo centro in cui dovette essere attiva una figlina, che al centro diede il nome e che si ricollegava, attraverso antichi tratturi, alla rete commerciale marittima. I principali scali per il traffico delle merci nel territorio di riferimento erano le rade di Punta Presuti (ancor oggi ricca di reperti fittili), Torre Columena e San Pietro in Bevagna. La tradizione ci ha consegnato perfino il nome del conduttore del fundus di Felline: si tratta di Fellone, l’uomo convertito da San Pietro.

Fellone

Nell’economia del discorso finora sviluppato, si può agevolmente inserire appunto la figura di Fellone, conduttore del fundus di Felline, che può essere storicamente esistito. Abbiamo verificato, alla luce delle più recenti ricerche epigrafiche, se il suo nome compare tra quelli documentati nel Salento in età romana. Nei cataloghi, redatti da C.Marangio e aggiornati a tutto il 2008, compaiono in effetti alcuni nomi che potrebbero essere ricondotti al nostro personaggio.

Nello studio pubblicato nel 2015 abbiamo ipotizzato, su base onomastica, che Fellone potesse avere qualche relazione con la gens dei Philonii, documentata a Brindisi in età repubblicana. Nella stessa città è attestata l’esistenza di tal Philonicus Appullei, conduttore di una figlina

In un’epigrafe rinvenuta a Latiano è documentata la presenza di tal Philonius. Potrebbe forse esserci qualche relazione tra il personaggio della leggenda petrina e tal Philogene, conduttore di una figlina di cui resta testimonianza in un bollo anforario rinvenuto ad Oria [4].

Alcune anfore greco-italiche recano pure il nome di tal φιλων, altro schiavo impegnato in una figlina. Il nome in oggetto sembra comunque avere , alla stregua di buona parte di quelli dei servi conduttori di fundi romani del Salento, origini greche, o grecaniche.

I ricchi proprietari romani, dopo la conquista del Salento, si appoggiarono infatti a manodopera servile locale, presente in abbondanza nei territori annessi[5].

Bollo Philonicus
Bollo Philonicus

 

Lo sbarco di San Pietro a Bevagna

La leggenda riportata dal Saracino vuole che San Pietro, proveniente dalla Palestina, sia sbarcato fortunosamente sul lido di Bevagna intorno al 44 d.C., incontrandovi Fellone, guarendolo dalla lebbra e convertendolo al cristianesimo. La tradizione ritiene che nell’area in cui sorge il santuario l’Apostolo abbia celebrato la messa, cristianizzando forse un antico luogo di culto pagano. Il Lopiccoli era certo che la parte più antica del santuario (il cosiddetto sacello) sorgesse su un’ area sepolcrale pagana, poi cristianizzata da San Pietro. Tale congettura non è del tutto priva di fondamento, come dimostrato dall’Errico, il quale, ai primi del ‘900, ebbe modo di osservare i resti di un’epigrafe funeraria inglobata sul fronte occidentale del sacello, recante le lettere D.M.VIX, cioè “Diis Manibus vixit[6].

L’epigrafe è oggi scomparsa. Essa comunque proverebbe la presenza di un sepolcro pagano nella zona in cui sorge attualmente il santuario petrino. Si tratta forse della sepoltura del servo conduttore del vicino fundus di Felline (o di un suo discendente) da ricollegare al passaggio dell’Apostolo?

L’ipotesi è suggestiva, e andrebbe verificata con saggi di scavo, estesi all’area adiacente alla chiesa-torre. A questo proposito, ricordiamo che non sono ancora stati pubblicati i risultati dei saggi effettuati nella stessa area, conclusi nel 2004. In ogni caso, la vicenda esposta non è del tutto isolata: presso Oria, in contrada Gallana, è stata recentemente rinvenuta un’epigrafe sepolcrale romana, inglobata nel muro di una chiesa campestre. L’epigrafe è pertinente alla gens Gerellana , proprietaria del fundus,che avrebbe dato il nome alla contrada e alla chiesa.

Conclusioni

Con queste brevi note terminano, per il momento, le nostre ricerche sulla leggenda petrina di Bevagna, durate un decennio e fondate sulla consultazione di pressochè tutte le fonti bibliografiche relative alla tradizione petrina regionale.

Le nostre congetture, che, come già detto, integrano il quadro storico con elementi di toponomastica, onomastica e archeologia, vanno naturalmente verificate in concreto. Il nostro auspicio è che nelle aree segnalate (Felline, Bevagna) si effettuino al più presto ulteriori saggi di scavo, che possano sostenere, o eventualmente confutare, la ricostruzione proposta.

 

[1] Cfr. D.Saracino o.p.,Brieve descrizione dell’Antica città di Manduria, oggi detta Casalnovo (1741).

[2] CfrR.Scionti-P.Tarentini, Emergenze archeologiche: Manduria-Taranto-Eraclea, (Manduria 1990), pp.286-289.

[3] Cfr. C.Marangio, Problemi storici di “Uria” Calabra in età romana, in “Archivio Storico Pugliese”, 42 (1989) pp. 113-134.

[4] Cfr. C.Santoro, Una nuova stele di Caracalla ed altre epigrafi latine inedite della Regio II Apulia et Calabria”, in “La Zagaglia”, a. XIII, n.49, p.20.

[5] Cfr. G.Susini, Fonti per la storia greca e romana del Salento (Bologna 1962), pp.19-21 e 60-61.

[6] Cfr. F.A.Errico, Cenni storici della città di Oria e del suo insigne vescovado (Napoli 1905), p. 140.

Allianum cittadella messapica, avamposto di Sava e Manduria

 

Il territorio di Sava nella ricerca e nelle ipotesi di Cesare Teofilato:

Allianum cittadella messapica, tempio di frontiera e avamposto della scomparsa cinta megalitica di Sava e delle mura di Manduria

 

di Gianfranco Mele

Cesare Teofilato (1881-1961), originario di Francavilla Fontana, fu uno storico, bibliotecario, giornalista e politico.

La figura di quest’uomo è particolarmente legata a Sava in quanto vi trascorre gran parte della sua vita, a partire dal 1910, anno in cui riceve in questo paese una cattedra di insegnamento nelle scuole elementari. Il legame con Sava è determinato sia dalla sua carriera di insegnante, che ivi svolge per oltre un ventennio, sia da un suo matrimonio con la savese Ermelinda Caraccio. In ambito storico-archeologico si occupò del territorio pugliese con una vasta produzione di reports, ricerche e saggi molti dei quali incentrati sullo studio di specchie e megalitismo.[1]

Ritratto di Cesare Teofilato
Ritratto di Cesare Teofilato

 

Nel 1935, con un articolo apparso sul Gazzettino – eco di Foggia[2], si occupa della storia antica di Agliano, contrada savese, da lui reputata una antica cittadella messapica, sulla scorta di studi sul campo effettuati sin dagli anni ’20.

Il contributo e l’analisi del Teofilato alla storia di Agliano sono importanti e poco noti, poiché prevalgono, nella ricostruzione e nelle citazioni effettuate nei moderni reports storici e archeologici, le osservazioni, le scoperte e le interpretazioni fornite dallo storico savese Gaetano Pichierri, entusiasta studioso di Agliano, il quale intravede in questo sito una facies magnogreca, dedotta da una serie di ritrovamenti e da una sua personale ipotesi circa l’espansione tardiva della Chora tarantina sino a parte del territorio di Sava.[3] Sulla stessa scia del Pichierri si muove un altro storico locale, Annoscia, pur contestandogli alcuni punti, in particolare, in merito all’interpretazione del culto di Agliano come dedicato a Demetra e Kore: in ogni caso, anche l’ Annoscia intravede Agliano come un luogo di culto magnogreco.[4] In questi autori e negli altri contemporanei che si sono occupati di Agliano, anche con semplici citazioni[5], non viene mai citato il lavoro del Teofilato.

Oggi è largamente accettata la tesi del Pichierri su Agliano come luogo di culto dedicato a Demetra e Kore[6], ma l’ identificazione del sito come Santuario di frontiera magnogreco è frutto, come si è detto, di una ipotesi del Pichierri presa per buona dai vari autori senza troppo scandagliare nel merito della “grecità” del luogo e della effettiva estensione dei confini magno-greci.

Agliano, frammenti-coroplastici, foto G. Pichierri
Agliano, frammenti-coroplastici, foto G. Pichierri

 

Di fatto, il complesso dei ritrovamenti presenti in Agliano presenta nella coroplastica sicuramente influssi di tipo tarantino, ma è anche del tutto simile alle tipologie presenti presso Monte Papalucio ad Oria[7], santuario demetriaco di origini messapiche.

Se si prendesse per buona l’analisi del Teofilato i parametri si invertirebbero: Agliano sarebbe stato sì un Santuario di Frontiera, ma messapico, situato all’interno di una vera e propria cittadella-avamposto, a sud della quale si estendevano, secondo lo storico francavillese: a) una cinta megalitica negli immediati paraggi della attuale Sava, della quale si è persa ogni traccia (in quanto“barbaramente distrutta o seppelllita”, asserisce il Teofilato)[8]; b) le mura manduriane.

In questa prospettiva, potremmo aggiungere, Agliano si inserirebbe coerentemente lungo l’asse di una linea strategico-difensiva all’interno della Messapia, che comprende tutto l’insieme dell’ambiente circostante Sava, ovvero le alture del monte Masciulo, già descritte per le sue caratteristiche di sito funzionale all’avvistamento[9], e quelle del monte Magalastro con analoghe funzioni[10].

Ai tempi del Teofilato esistevano ancora in Agliano tracce di costruzioni consistenti in “enormi massi squadrati come quelli delle mura di Manduria”, cosa che non hanno potuto notare i ricercatori successivi (in quanto asportati o divelti sin dall’epoca delle ricerche del Pichierri) .

Altro particolare fornito dal Teofilato: “In un sito, presso la Masseria, l’edificio si presentava a pianta circolare, sostenuto da colonne pure circolari di oltre un metro di diametro”. Questa osservazione coincide con parte delle descrizioni del Coco, il quale pure vi intravede i resti di costruzioni e di un antico tempio[11].

Lo storico francavillese intravede in Agliano un insediamento che doveva costituire notevole importanza e consistenza, poiché, come afferma, “nella Masseria Spagnolo resistettero a lungo le rovine della antica Allianum, consistenti in terme, in acquedotti, in templi, in sepolcri”. La descrizione è particolareggiata e più precisa e ricca di informazioni rtispetto a quella del Pichierri, che si ritroverà 40 anni dopo a scandagliare i resti di un sito ulteriormente violentato, distrutto e saccheggiato, tanto che il ricercatore savese, pur entusiasta delle sue scoperte, è molto cauto nelle affermazioni circa l’estensione, l’importanza e le caratteristiche del sito: lo definisce un santuario di frontiera, ma non intravedendovi costruzioni né rovine, rimanda ai risultati di auspicati lavori di scavo una descrizione circa le dimensioni dell’insediamento e dello stesso santuario.[12]

Oscillum
4.Agliano, corredo tombale, foto G. Pichierri
4.Agliano, corredo tombale, foto G. Pichierri

 

Il Teofilato ha anche occasione di presenziare a un saggio di scavo, sui risultati del quale fornisce precise descrizioni.

Un altro importante dato che ci fornisce il Teofilato riguarda il tratto del Paretone che passava per Agliano. Di questo, il Pichierri non dubitava l’esistenza ma non potè scorgerne resti in quel tratto specifico (li trovò in contrada Camarda, nei pressi di Pasano), mentre lo storico francavillese può constatare nei pressi della masseria di Agliano l’esistenza dei “massi poligonali uniti senza cemento”.

5.Agliano, un ritrovamento recente (2008) dagli scavi condotti dalla Coop. Museion
Agliano, un ritrovamento recente (2008) dagli scavi condotti dalla Coop. Museion

 

Agliano, frammento decorativo, foto G. Pichierri
Agliano, frammento decorativo, foto G. Pichierri

 

Il Teofilato ci offre anche una importante descrizione del Paretone come “in rapporto con un sistema di specchie ignote al De Giorgi fa cui si elevava la specchia interna savese denominata specchia Mariana”. Dell’esistenza di questa specchia e del suo rapporto con il Paretone abbiamo effettivamente notizia da vari documenti, a partire dal cosiddetto inventario orsiniano redatto tra il 1420 e il 1435. Allo stato attuale sfugge la localizzazione della suddetta specchia[13], poiché evidentemente il toponimo ha subito, nel tempo, dei cambiamenti[14].

Ai tempi del Teofilato deve essere ancora popolare la denominazione “Paretone del Diavolo” come   nome popolare del cosiddetto “Limitone dei Greci” in quanto egli stesso la utilizza: questo toponimo dialettale trova riscontro nel racconto fornito al sottoscritto da un anziano contadino savese che, in una intervista del 2015, ha memoria di una curiosa leggenda tramandata da generazioni nell’oralità contadina: “Lu paritoni lu fècira li tiauli ‘ntra ‘na notti” (il paretone fu costruito dai diavoli in una notte).

Oltre alla descrizione particolareggiata della Agliano messapica, il Teofilato offre indizi circa la presenza bizantina in loco, peraltro ripresa nel 1975 dal Lomartire con ulteriori osservazioni.[15] L’autore riferisce anche del periodo romano[16], deducendo che anche in quell’epoca Agliano doveva rivestire notevole importanza a giudicare da tracce che testimoniano la presenza di riti nuziali, di sacerdoti officianti culti (flamini), di pontefici e di famiglie della nobiltà romana.

Infine, il Teofilato scopre in Agliano un’iscrizione che segnala all’emerito studioso Prof. Francesco Ribezzo, e “ al dottor Ciro Drago del R. Museo di Taranto e all’ispettore onorario di Manduria dottor Michele Greco”. Il Ribezzo parlerà difatti di questa iscrizione nel Nuovo Corpus Inscriptionum Messapicorum, citando il Teofilato, ma senza aggiungere note di rilievo e interpretazioni in quanto non aveva visionato di persona l’opera[17].

una vecchia foto della masseria di Agliano tratta dal testo di Giovang. Carducci, I confini del territorio di Taranto
una vecchia foto della masseria di Agliano tratta dal testo di Giovang. Carducci, I confini del territorio di Taranto

 

 

APPENDICE

da Il Gazzettino – Eco di Foggia e della Provincia – Anno (24) 7- n. 38 , sabato, 21 settembre 1935 Anno XIII, pag. 2

 

Segnalazioni Archeologiche Pugliesi

ALLIANUM

Questa breve nota aspirerebbe ad aprire la via alla migliore e più larga conoscenza di una zona archeologica troppo trascurata.

I prossimi fascicoli della Rivista Indo-Greco Italica diretta dal prof. Francesco Ribezzo della R. Università di Palermo recheranno la puntata del Corpus Inscriptionum Messapicorum per tutto il Capo di Leuca e la relazione dell’iscrizione subpicena della statua del «Guerriero» presabelico scoperto a Capestrane (Pòpoli).

Le premure del Ribezzo, e le mie, non hanno potuto ottenere ancora il calco o la fotografia del frammento d’iscrizione messapica savese rinvenuta da me nel 1921, poi fatta osservare a mio cugino dottor Ettore Caraccio del Ministero dell’ Educazione Nazionale e infine segnalata allo stesso prof. Ribezzo, al dottor Ciro Drago del R. Museo di Taranto e all’ispettore onorario di Manduria dottor Michele Greco.

Dopo tre lustri, la segnalazione assume pubblica forma e si rivolge alla R. Sovrintendenza alle Antichità di Puglia. Credo inutile dire che detta iscrizione, a suo tempo, fu pure annunziata, ma solo verbalmente, al comm. Quintino Quagliati, già R. Sovrintendete in Taranto, ora defunto.

Per una più chiara informazione del luogo da cui essa proviene, e della sua importanza archeologica, estraggo qualche notizia dai miei appunti di trovamenti.

Quell’ antico braccio della Via Traiana che partendo da Taranto costeggiava il Sinus Tarantinus prende tuttora, nel tratto che attraversa gli agri di Sava e Manduria, il nome tradizionale di Via Consolare. Quivi, lungo il suo percorso, toccava tre stazioni di vita messapica: Allianum, la cinta megalitica di Sava, barbaramente distrutta o seppellita, e la più celebre muraglia di Mandurium.

La contrada o masseria di Aliano, a circa tre chilomertri da Sava, direzione W, su la Via Consolare, conserva la toponomastica dell’antico oppido e appartiene all’agro savese. Alla distanza indicata si trova, su la sinistra, una vecchia strada, che mena ai fondi interni.

Questa lascia a destra un vecchio caseggiato con arcate cieche, che è la masseria dei Fratelli Spagnolo e che è pure il centro delle rovine di Allianum. Sotto una delle arcate che rasentano la strada, trovasi inserita nel muro una iscrizione messapica che sembra retrograda e che letta da destra a sinistra offre i seguenti approssimativi elementi alfabetici disposti sopra un unico rigo:

  1. Asta verticale (lettera j ?);
  2. Lambda? (Angolo acuto con vertice in alto percorso da varie linee orizzontali);
  3. R latina;
  4. Asta verticale (lettera j ?);
  5. Segno simile a epsilon minuscolo retrogrado, cioè rivolto a sinistra, ma che sembra avere un occhio centrale dove le curve si toccano (lettera N ?);
  6. Segno simile al numerale 1;
  7. Asta verticale (lettera j ?); Non potetti mai controllare detta iscrizione, che è corrosa dagli agenti atmosferici, in favorevoli condizioni di luce. Non posso quindi garantire l’esattezza del testo.Questo megalite, nel medioevo, segnò col Paretone del Diavolo il confine del Principato di Taranto.Nella Masseria Spagnolo resistettero a lungo le rovine della antica Allianum, consistenti in terme, in acquedotti, in templi, in sepolcri.E’ un errore cronologico ritenere Allianum una villa del periodo romano, sorta nel III secolo av. Cr. con la deduzione delle colonie nell’agro tarantino. In Aliano la colonizzazione romana si sovrappose certamente ad un remoto centro di anteriore vita messapica.Vi notai la esistenza di molte ceneri, dei noti massi isodomi, di ossa umane, di frammenti di vasi grezzi o dipinti, grandissimi o piccolissimi. Il materiale appariva rimescolato da antiche e recenti violazioni e riportai l’impressione di un vasto incendio dovuto a saccheggio saraceno o a demolizioni e a distruzioni cristiane.Probabilmente, nell’epoca bizantina, il luogo ospitò una comunità di monaci greci, come deducesi da croci incise sui massi di carparo, in tutto simili a quelle osservate da me stesso su le pareti delle Cripte.Venivano poi i resti di pavimenti e d’intonachi, o stucchi, dipinti in rosso, gli usuali vasetti di periodo più tardo e alcuni assi sconservati dalla penultima riduzione al peso (A. 217 – 89 av. Cr.). Penso, per averne trovato alcuni esemplari, che quivi circolò un asse sestantario, o contorniato, commemorativo di Roma, senza segno del valore, con la solita testa di Giano Bifronte sul D), la prora sul R), e, su la prora, la Lupa che allatta i Gemelli. Sotto, ROMA.Per questo dovrebbe ammettersi in Aliano l’uso del matrimonio sacro tra famiglie nobili, e la presenza di Pontefici, di Flamini e di Patrizi.  8. la pagina del Gazzettino – Eco di Foggia con l’articolo del Teofilato
  8. 7. una vecchia foto della masseria di Agliano tratta dal testo di Giovang. Carducci “i confini del territorio di Taranto…”
  9.    Cesare Teofilato
  10. Notevole il rinvenimento di impronte fittili per focacce sacre e di coppe a pareti spesse con canaletti di scolo, adatte alla preparazione del panis farreus, che occorreva al rito nuziale della confarreatio.
  11. Il materiale documentario più antico che vi potetti raccogliere è costituito da amuleti cuoriformi di pietra con foro, da piramidette di terracotta di varie fogge e dimensioni, dalle piccole alle grandi; da collane fittili (fuseruoli) e da frammenti ceramici a figure rosse del IV secolo av. Cristo.
  12. Mia cognata signora Bice Caraccio-Spagnolo mi favorì una piccolissima lucerna a vernice nera e un medaglione funerario di terracotta, provenienti dalle solite tombe rettangolari a cassettone.
  13. Nell’ aprile 1922, per cortesia di mio cognato sig. Giovacchino Spagnolo, podestà di Sava e comproprietario della masseria omonima, presenziai ad un saggio di scavo, che raggiunse la profondità di circa due metri dal piano di campagna.
  14. Le costruzioni di cui resta qualche traccia sono enormi massi squadrati, come quelli delle mura di Manduria. In un sito, presso la Masseria, l’edificio si presentava a pianta circolare, sostenuto da colonne pure circolari di oltre un metro di diametro.
  15. Le specchie e il Paretone, come altrove, si riconnettono al costume dei primitivi limiti di territori, indicati nei documenti locali con l’appellativo improprio di Limitone dei Greci e ritenuti ingenuamente, dai vecchi scrittori, come opera di epoca longobarda.
  16. Da Aliano si diparte un interessante tratto del Paretone del Diavolo a massi poligonali uniti senza cemento, che si congiungeva con l’ oppido di Pasano, scendendo a sud, e poi risaliva a N.E., fin verso l’inizio della via per Torricella, presso Sava. Il Paretone era in rapporto con un sistema di specchie ignote al De Giorgi, fra cui si elevava la specchia interna savese denominata Mariana.
  17. Lettura probabile di tutta l’iscrizione: IRINI (?).
la pagina del Gazzettino – Eco di Foggia con l'articolo del Teofilato
la pagina del Gazzettino – Eco di Foggia con l’articolo del Teofilato

 

Note

[1]N.M. Ditonno Jurlaro, Cesare Teofilato (1881 – 1961), note biografiche e bibliografiche, Studi Salentini 1986-87, pp. 165-182

[2]C. Teofilato, Segnalazioni archeologiche pugliesi – ALLIANUM Il Gazzettino – Eco di Foggia e della Provincia – Anno (24) 7- n. 38 , sabato, 21 settembre 1935 Anno XIII

[3]G. Pichierri, Agliano nella storia della Magna Grecia, in: Sava nella storia a cura di G. Lomartire, Cressati, Taranto, 1975, pp. 98-11

[4]M. Annoscia, Indizi del culto di Dioniso e dei Dioscuri in un insediamento di sud-est della chora tarantina, in Sava – schede di bibliogrtafia ed immagini per una storia del territorio e della comunità, Del Grifo Ed., Lecce, 1993, pp. 97-112. L’ Annoscia presenta in questo testo foto di frammenti raffiguranti testine di cavallo e criniere, e da qui ipotizza l’esistenza di un culto dei Dioscuri. Inoltre, rinviene una testina in terracotta che identifica in una raffigurazione di Dioniso, ma molto più probabilmente si tratta della rappresentazione di Hades o di un defunto.

[5]Cfr.: M. Osanna, Chorai coloniali da Taranto a Locri: documentazione archeologica e ricostruzione storica – Istituto poligrafico e zecca dello Stato, Libreria dello Stato, 1992, pag. 33

(Agliano: pag. 33)

[6]Ibidem

[7]v. G. Mastronuzzi, Il luogo di culto di monte Papalucio ad Oria, Edipuglia, 2013

[8]Riferimenti ad una antica cinta muraria e ad un insediamento di origini messapiche precedente la Sava del XIV secolo si trovano nel manoscritto di A. D’Elia Sava e il suo feudo, storia paesana (1889) andato perduto ma ampiamente citato dal Coco nella sua opera “Cenni Storici di Sava” (note a pp. 58-60). Per approfondimenti: G. Mele, Sava-Castelli, la città sotterranea e la necropoli. Documenti, tracce e testimonianze di un antico centro abitato precedente la Sava del XV secolo, in “Terre del Mesochorum”, luglio 2015 https://terredelmesochorum.wordpress.com/2015/07/19/sava-castelli-la-citta-sotterranea-e-la-necropoli-documenti-tracce-e-testimonianze-di-un-antico-centro-abitato-precedente-la-sava-del-xv-secolo/ ; v. anche G. Mele, “Sava e il suo feudo” : il contributo di Achille D’Elia alla storia antica locale in “Academia.edu”, https://www.academia.edu/11884984/_Sava_e_il_suo_feudo_il_contributo_di_Achille_DElia_alla_storia_antica_locale_con_a_margine_cenni_sulla_produzione_letteraria_dellautore_

[9]C. Desantis, Sava – Monte Maciulo – torre classica e strutture medievali, in: G. Uggeri, Notiziario Topografico Pugliese I, Quaderni del Museo Archeologico Provinciale F. Ribezzo di Brindisi, 1978, pp. 148-151

[10]M. Annoscia, Sava, Monte Magalastro – resti preistorici e fortificazione classica in: G. Uggeri, Notiziario Topografico Pugliese I, Quaderni del Museo Archeologico Provinciale F. Ribezzo di Brindisi, 1978, pp. 151-152

[11]P.Coco, Cenni Storici di Sava, Lecce, Stab. Tip. Giurdignano, 1915, nota (1) a pag. 16. Questa la derscrizione del Coco: “Ad Agliano, poi, nel luogo ove sorgeva l’antico paese, oggi di proprietà del sig. Giovacchino Spagnolo, si osservano tuttora molti rottami di argilla, di vasi, di tegole, piccoli idoletti, amuleti, giocattoli per fanciulli, lucerne di creta di varie forme, monete, e altre cosette. Fino a poco tempo fa si osservavano anche avanzi di un antico edificio a ferro di cavallo dai grossi macigni, che divisi e suddivisi in 18 parti sono stati adibiti per nuove fabbriche. Pare, per ciò che riferisce l’attuale proprietario, che dovesse essere un antico tempio pagano. Altri avanzi di antichi edifici vi erano ai principi del secolo XVIII e furono abbattuti dal Feudatario Signor Giuseppe De Sinno, che, nella speranza di trovar tesori, intraprese degli scavi, che certo gli fruttarono qualche cosa.”

[12]G. Pichierri, op. cit., “note aggiuntive” pp. 109-11: l’autore si preoccupa (per difendersi dalle critiche degli scettici e dei suoi detrattori) di giustificare la mancanza, già ai suoi tempi, di tracce visibili di edifici, con la spiegazione che la presenza di un culto può anche essere resa possibile dall’ esistenza di una piccola ara. Tuttavia la consistenza del sito e la presenza di edifici adibiti a luoghi di culto sono rilevate già nel citato lavoro del Coco. Il Teofilato ne riprenderà la descrizione osservando altri particolari, e nel 2008 due saggi di scavo intrapresi dalla Coop. “Museion” riporteranno alla luce alcuni resti di edificazioni: frammenti decorativi e massi squadrati di grandi dimensioni (cfr. F. Carrino, Una campagna di scavi per scoprire le bellezze della nostra storia, in: Sportello Aperto – periodico di economia, cultura e sociale, BCC San Marzano di San Giuseppe, Luglio 2009, anno IV, n. 2).

[13]Cfr. Giovang. Carducci, I confini del territorio di Taranto tra basso medioevo ed età moderna, Società di Storia patria per la Puglia sez. di Taranto, Mandese Editore, pag. 66

[14]Coerentemente con la linea confinaria indicata nei vari documenti rintracciati dal Carducci, si potrebbe ipotizzare che la Specchia Mariana, altrimenti detta Muryanam, Muriana e Majorana, coincide con la zona in agro di Sava denominata “San Giovanni”, situata in prossimità delle contrade Agliano, La Zingara, Le Monache, Tima. Queste ultime sembrano avere una relazione sia con la antica Agliano che con il “Paretone”, mentre la località “San Giovanni” iniste in un punto strategico (su una altura dalla quale si domina una vasta parte del territorio circostante), ed è caratterizzata dall’emergere di numerosi frammenti di varie epoche a partire da quella neolitica, e dai resti di cumuli di pietrame proprio intorno all’area di maggior intensità di presenza dei suddetti frammenti.

[15]G. Lomartire, Sava nella storia, Cressati, Taranto, 1975, pag. 18: l’autore riferisce e mostra le foto di una scultura ritrovata in Agliano, una Madonna con Bambino a suo avviso di epoca bizantina. Dettagli su questo argomento e più in generale sulla presenza bizantina nel territorio savese sono rintracciabili nel seguente articolo: G. Mele, Presenze bizantine nel territorio savese: il mistero dell’antica chiesa di San Nicola, i resti della chiesa di S. Elia, e altre note in: Terre del Mesochorum, agosto 2016 https://terredelmesochorum.wordpress.com/2016/08/13/presenze-bizantine-nel-territorio-savese-il-mistero-dellantica-chiesa-di-san-nicola-i-resti-della-chiesa-di-s-elia-e-altre-note/comment-page-1/

[16]Del periodo della colonizzazione romana, nonché dello stesso toponimo di derivazione romana, parla diffusamente P. Coco nella citata opera “Cenni storici di Sava”, pp. 9-16.

[17] F. Ribezzo, Nuove Ricerche per il Corpus Inscriptionum Messapicarum, Roma, 1944, pag. 105

 

Le foto di questo articolo sono tratte dai seguenti testi:

  • Pichierri, Agliano nella storia della Magna Grecia, in “Sava nella storia” a cura di G. Lomartire, Tip. Cressati, Taranto, 1975;
    • Carrino, Una campagna di scavi per scoprire le bellezze della nostra storia, in: Sportello Aperto – periodico di economia, cultura e sociale, BCC San Marzano di San Giuseppe, Luglio 2009, anno IV, n. 2;
  • Carducci, I confini del territorio di Taranto tra basso medioevo ed età moderna, Società di Storia patria per la Puglia sez. di Taranto, Mandese Editore, 1993

Il ritratto del Teofilato e la pagina del Gazzettino-Eco di Foggia sono tratti rispettivamente da www.brindisireport.it e www.internetculturale.it

Antonio Bruni (1593-1635) da Manduria e il suo campione di vendite.

di Armando Polito

Probabilmente, se invece di campione di vendite avessi scritto best-seller, mi sarei assicurato maggiore interesse da parte del lettore medio felicemente ingolfato nel mare magnum degli anglicismi ma nello stesso tempo qualche rimprovero da chi, medio o no, è costretto da quando ha cominciato a leggere i miei contributi, a sorbirsi prediche contro l’asservimento linguistico (il guaio, poi, è che subentrano asservimenti di altro tipo, in primis quello economico …) alla perfida Albione.

Se il successo di un autore si misura dal numero di copie vendute, credo che l’autore salentino nominato nel titolo detenga un record difficilmente superabile, di fronte al quale impallidiscono i milioni di copie vendute nei nostri tempi, a mio parere millantati (tant’è che nemmeno la Guardia di finanza ci casca operando qualche controllo …).

Oltretutto è da tener presente che nel periodo in cui si svolse la vita, piuttosto breve, del nostro, il libro non godeva certo degli innumerevoli canali di lancio di cui gode oggi e restava, tutto sommato, un prodotto di nicchia destinato a pochi eletti, anche dal punto di vista economico.

Il taglio particolare di questo post, che privilegia l’aspetto editoriale, non mi esime dal ricordare in linea generale che quelli considerati ed etichettati come  minori spesso superano il loro maestro in un particolare settore produttivo (il nesso è brutto, ma è così consono ai nostri tempi …). Ciò vale anche per il nostro in rapporto al genere letterario dell’epistola eroica che nel periodo barocco tirò (anche nel senso che la tiratura fu notevole …) alla grande. Nulla di nuovo , perché molti secoli prima già Ovidio aveva scritto le sue Heroides (alla lettera Eroine), cioè ventuno  lettere immaginarie, sedici delle quali scritte da eroine ai loro uomini e sei articolate nella lettera dell’eroine e nella relativa risposta dell’innamorato).  Mi piace ricordare che, prima dell’avvento dei moderni strumenti di comunicazione anche scritta, fino alla metà del secolo scorso ebbero grande successo le varie edizioni di lettere d’amore preconfezionate note sotto il nome di Segretario galante. Tra i tanti vantaggi dell’informatica non è da sottacere il fatto che per chi è alfabetizzato in tal senso non è difficile, grazie ai motori di ricerca, controllare l’originalità o meno di certe espressioni (e non mi riferisco solo alle frasi d’amore … visto che qualcuno per un copia-incolla non dichiarato ha dovuto rinunciare alla carica di ministro; naturalmente non in Italia dove per un ruba e intesta a un prestanome o  trasferisci in un paradiso fiscale tutt’al più, male che ti vada, vieni trasferito ad altro incarico con retribuzione maggiore.

Tornando al Bruni, va detto che non è casuale e da sottovalutare il giudizio lusinghiero del maestro della letteratura barocca, Giovan Battista Marino. Allora il merito era riconosciuto senza difficoltà anche dalla concorrenza, anche da un “barone”, anche quando si trattava di appoggiare la raccomandazione non diretta, ma di suo fratello. In una lettera indirizzata dal Marino al cardinale D’Este, cui Antonio aveva chiesto un incarico per il fratello Francesco così si legge:  … Il Sig. Antonio Bruni tratta in Napoli d’impetrar dall’Eccellentissimo Sig. Duca d’Alba un governo per il Sig. Francesco suo fratello; e perché sa quanto vagliano appresso  Sua Eccellenza l’intercessioni di V. S. Illustr. perciò non potendo egli stesso venir da lei, per trovarsi gravemente ammalato, m’ha fatto richiedere, ch’io le porga le mie più affettuose suppliche, accioche si degni scrivere à quel Vice Rè una lettera altrettanto calda, per il suddetto interesse, quanta è viva la fede che s’ha nell’ufficio di V. S, Illustriss. Ella sa i meriti del sig. Bruni, quando non meritasse per altro il patrocinio d’un Principe suo pari, nel renderebbe meritevolissimo l’esser un de’ primi ingegni, che oggi compongano, e riverente con singolar ossequio della sua Serenissima Casa in ogni età protettrice degli spiriti elevati … 1

Il riconoscimento del merito letterario del Bruni appare evidente in un’altra lettera:  … Io sempre dissi dopo il mio ritorno da Parigi a Roma, che le Poesie di Vostra Signoria erano tutte spirito, e che quanto ella s’allontanava dalla strada battuta de’ Poeti  non meno critici, che stitici, tanto più rendeva glorioso il suo nome. Mi stimola a farne questa nuova testimonianza per lettera, l’occasione, che me n’ha presentata Vostra Signoria con l’inviarmi la Canzone in morte del Serenissimo Principe Filiberto, il quale viverà vita immortale nella fama delle sue opere magnanime, e nella eternità delle rime Heroiche di Vostra Signoria …2

Eppure in una lettera precedente il Marino non era riuscito a nascondere il suo disappunto per essere stato bruciato sul tempo. Anche lui, infatti, aveva in progetto la pubblicazione di epistole eroiche e tuttavia non stronca, come pure avrebbe potuto fare, l’epistola di Venere ad Adone che il Bruni gli aveva inviato in visione: Honora troppo Vostra Signoria il mio Adone3, mentre ne cava argomento per una delle sue lettere Heroiche, et io pago poco il mio debito, mentre ne la ringratio con due belle parole. Ma s’io per la stima singolare, che fò de’ parti nobilissii del suo ingegno, e per l’obbligo, che professo all’amor, ch’ella mi porta son già divenuto tutto suo, non sò che possa di me prometterle  altro. Lodo il capriccio, e la sua rissolutione d’introdur Venere, che scriva ad Adone, dopo che questi si trova in poter di Falsirena. E certo, che la lettera hà più concetti, che caratteri, et è così in ogni sua parte vezzosa, e leggiadra, come tutto vezzo, e leggiadria è l’istessa Venere. Veggo i luoghi imitati da’ Greci, e da latini, in particolare da Claudiano, ch’è il favorito di Vostra Signoria; e mi piacciono oltre modo quei brilli di poesia viva. I Poeti, che dettano rime senza vivezze fabricano cadaveri non poesie, e sono degni più tosto del titolo di Beccamorti di Parnaso, che di Cigni d’Ippocrene. Ma passiamo ad altro … 4

E, a proposito di concorrenti leali, riporto tre sonetti ed un madrigale che al Bruni dedicò Alfonso Confidati di Assisi, membro dell’Accademia degli Umoristi e dei Fantastici di Roma (di quest’ultima faceva parte pure il nostro manduriano) nelle sue Poesie, Tinassi, Roma, 1681, s. p.

Torno ora alle Epistole Heroiche come fenomeno editoriale. Per lo più i moderni campioni d’incasso sono anche loro vittime della voracità con cui il pubblico accoglie certe novità e per imporsi sulla concorrenza anche i colpi bassi sono leciti. Non così per l’opera del Bruni che conobbe un’invidiabile longevità di mercato e sbaragliò la concorrenza, e non solo quella italiana, perché la moda delle epistole eroiche durò per lungo tempo in tutta Europa5, ma nessuno può vantare i suoi numeri.

Prima di addentrarmi in questo specifico  mi soffermo brevemente sui suoi due teorici antagonisti italiani più rappresentativi. Il primo è il veneziano Pietro Michiele (1603-1651) autore di Il dispaccio di Venere. Epistole heroiche, & amorose, Appresso li Gueriglii, Venezia, 1640, con venti incisioni, alcune firmate Io. Georgi (di seguito il frontespizio e l’antiporta). L’opera ebbe una ristampa presso lo stesso editore nel 1655.

Il secondo è il napoletano Lorenzo Crasso (1623-?), autore di Epistole eroiche, Baba, Venezia, 1655,  ristampato nel 1665. Edizioni successive uscirono per i tipi di Combi, & La Noù a Venezia nel 1667 e nel 1678 e per i tipi di Lovisa, sempre a Venezia, nel 1720. La prima edizione (di seguito l’antiporta) e solo alcune delle successive sono corredata di 15 tavole.

Prima s’è detto del giudizio lusinghiero del Marino nei confronti del Bruni. Com’è noto, il Marino morì nel 1625, quindi non ebbe il tempo di leggere le opere del Michiele e del Crasso e nemmeno le epistole del Bruni stampate , ma, se il destino glielo avesse concesso, molto probabilmente avrebbe esteso alle altre il giudizio positivo espresso, come abbiamo visto, per quella di Venere ad Adone e, quindi, tributato  al Bruni quella palma che unanimemente, rispetto a questo genere letterario,  la critica ha continuato ad attribuirgli.

Non sempre il successo di un’opera coincide col giudizio positivo della critica. Questo non vale per il poeta di Manduria . A testimoniarlo basta e avanza  l’elenco delle edizioni.

Facciotti, Roma, 1627

Malatesta, Milano, 1627 (ad istanza di Donato Fontana)(incisioni di Giovanni Paolo Bianchi)

Baba, Venezia, 1628 (le calcografie sono di  Paolo Guidotti detto il Cavalier  Borghese, Giuseppe Cesari d’Arpino, Cesare Baglioni, Giovanni Valesio, Domenichino, Guido Reni) (1 esemplare a Manduria nella Biblioteca comunale Marco Gatti)

Oddoni, Venezia, 1634

Mascardi, Roma, 1634 (ad istanza di Alessandro Lancia) (1 esemplare a Manduria nella Biblioteca comunale Marco Gatti)

Scaglia, Venezia, 1636

Turrini, Venezia, 1644

Turrini, Venezia, 1647 (ad istanza di Honofrio Rispoli libraro)

Mascardi, Roma, 1647 (a spese di Alessandro Lancia) (1 esemplare a Manduria nella Biblioteca comunale Marco Gatti)

Turrini, Venezia, 1663

Zenero, Bologna, 1663

Curti, Venezia, 1678

Milocho, Venezia, 1697 (1 esemplare a Manduria nella Biblioteca comunale Marco Gatti) (a Taranto una copia digitalizzata presso la Biblioteca civica Pietro Acclavio)

Palmiero, Venezia, 1720

Milocho, Venezia, 1720

 

Sarebbe troppo lungo riprodurre le tavole che corredano la maggior parte delle edizioni ma al lettore attento non saranno sfuggiti, credo, tra gli altri, i nomi di Domenichino (Domenico Zampieri) e di Guido Reni. Chi volesse prenderne visione può farlo sfruttando la rete, in cui sono digitalizzate integralmente quasi tutte le edizioni citate. Per dare un’idea, comunque, riporto il frontespizio, l’antiporta e la tavola a corredo dell’epistola di Amore a Psiche della prima edizione.


La tavola è  firmata da Il Coriolano F. (F. sta per Figlio). Si tratta di Bartolomeo Coriolano (1590 o 1599-1676), figlio di Cristoforo. Bartolomeo fu allievo di Guido Reni.

Chiudo con le uniche due immagini  del Bruni a me note. La prima è tratta da Le glorie degli incogniti o vero gli huomini illustri dell’Accademia de’ Signori Incogniti di Venetia, Valvasense, Venezia, 1647.

La didascalia è costituita da un distico elegiaco, che sfrutta un espediente caro al barocco: il gioco di parola, qui, per fortuna conservabile nella traduzione, che è: Non è giudicato abbastanza BRUNO per il nome che ha; infatti nessun altro risplende per un verso più luminoso. La maggior parte delle tavole a corredo del testo reca il nome dell’incisore e qualcuna perfino l’anno di esecuzione; purtroppo, nella nostra non vale tutto ciò.

La seconda immagine è un’incisione a corredo della biografia del nostro scritta da A. Mazzarella da Cerreto ed inserita nel tomo III di Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, Gervasi, Napoli, 1816.6

Vi si legge G. Morghen inc(idit). La famiglia Morghen annovera un numero incredibile di incisori, il più famoso dei quali è Raffaello (1758-1833). Credo che l’autore dell’incisione sia suo fratello Guglielmo. Non è dato sapere a quale modello si ispirò il Morghen; posso solo notare che rispetto al precedente ritratto, cronologicamente più vicino al Bruni e, quindi, presumibilmente più fedele, il volto appare più sfilato.7

______________

1 Lettere del Cavalier Giovan Battista Marino gravi, argute, e familiari, facete, e piacevoli, dedicatorie, Eredi di Francesco Baba, Venezia, 1627, p. 99.

2 Lettere del Cavalier Marino …, op. cit., pp. 140-141.

3 Poema che, com’è noto, è l’opera più famosa del Marino. Era uscito per i tipi di Oliviero di Varano a Parigi nel 1623.

4 Lettere del Cavalier Marino …, op. cit., pp. 142-143.

5 Qualche dato fondamentale per la produzione non italiana: Mark Alexander Boyd, Epistulae et hymni, s.n., Londra,  1592; Michael Drayton, England’s Heroical Epistle, Smethwick, Londra, 1596; Jakob Balde, Urania victrix, Scel, Monaco1663; François Tristan l’Hermite, Lettres éroiques in Lettres mêslées, Courbé, Parigi, 1642, pp. 308-359.

6 Biografie precedenti sono quella inserita in Le glorie degli incogniti …, opera  che citerò nel finale, uscita nel 1647 e quella di Francesco Maria dell’Antoglietta pubblicata per i tipi di Abri a Napoli nel 1711 col titolo di Vita d’Antonio Bruni da Manduria, indirizzata all’Accademia della Crusca.

7 Può darsi che proprio al primo ritratto (al secondo è impossibile per motivi cronologici) alluda Francesco Maria dell’Antoglietta  nell’opera citata nella nota precedente: Era di costumi integri, franco, liberal, e magnanimo, fedele e rispettoso co’ Principi, sincero con gli Amici. Fu di mediocre statura, anzi alta, che no, di corporatura pieno, di carnaggione bianca, di capigliaia bionda, d’occhi vivaci, alquanto pregni, di complessione robusta, e di fronte alta, e spaziosa, sì come si scorge nel suo ritratto.  

 

Donno: solo un cognome?

di Armando Polito

Forse qualche lettrice avrebbe gradito che il titolo del oost fosse quello di un inno alla femminilità, anziché l’evocazione, a modo mio, di una antica e stupida contrapposizione. Forse ho  esagerato pure adesso con quell’inno e parecchie lettrici resteranno deluse quando i  loro  leggiadri occhi arriveranno alla fine del post senza essersi imbattuti in uno straccio non dico di inno, ma di una qualsiasi poesia , magari di tono molto dimesso.

Tuttavia spero che la loro delusione, quando avranno terminato la lettura, sia compensata  da un momento di riflessione che tenga in adeguato conto che, laddove è mancata la poesia, è venuta in soccorso la filologia.

Sulla superiorità fisica e psichica dell’uomo  rispetto alla donna, e viceversa, sono stati consumati oceani d’inchiostro. io so che solo questo è indiscutibile: chi detiene il potere di consentire alla vita di svilupparsi è certamente più forte di chi questo potere non ha. E lo stesso utero in affitto, anche se può essere considerato come un capannino industriale locato per un tempo determinato, lo dimostra.

Anche sul piano filologico donna si mostra più forte di uomo, nonostante l’imperante maschilismo abbia elevato quest’ultimo a sinonimo di umanità (inteso, naturalmente, come complesso di esseri viventi di qualsiasi sesso, non come manifestazione sentimentale). Uomo, però, è solo uomo, nel senso che non esiste uoma e questo per una sorta di limitatezza congenita. Uomo, infatti, è dal latino homine(m), sostantivo di genere maschile.  E qui donna si riprende la sua rivincita perché accanto a donna esisteva e in in certo senso, come vedremo, esiste ancora donno.

Pensiamo prima al passato:

Questi pareva a me maestro e donno (Dante, Inferno, XXXIII, 28)

L’altr’anno fu a Barletta un prete, chiamato  donno  Gianni di Barolo (Boccaccio, Decameron, novella decima della nona giornata)

Però vorrei saper, maestro e  donno (Feo Belcari, Sonetto XXXIII, 9)

 … poi che donno è fatto de’ suoi sensi, e che non dorme  (Ludovico Ariosto, Orlando Furioso,XXXV, 69, 5-6)

Poiché ‘l dolor, che de’ suoi sensi è  donno (Giovan Battista Marino, Adone, IV, 83, 1)

No: di pochi campi ei  donno ,/cui per diletto coltivar godea/colle robuste libere sue mani,/vivea felice, del suo aver contento,/colla consorte e i figli. (Vittorio Alfieri, Merope, atto II, scena III)

… Giudice e  donno/In lor suo sguardo mise (Giosuè Carducci, Juvenilia, IV, 60, 89-90)

Li può bollare nella faccia il  donno ,/legar li può sul cavalletto al sole (Giovanni Pascoli, Le canzoni di re Enzio, V, 61-62)

Da Dante a Pascoli (almeno fino ad ora) donno è voce letteraria, sinonimo di signore, padrone.  Infatti è figlia della trafila dominu(m), voce del latino classico>domnum (per sincope di -i- nella precedente; ritornerò a breve su questa forma del latino medioevale)>donno (assimilazione  –mn->-nn-). Stessa trafila per donna: domina(m)>domna(m)>donna. Solo che la forma femminile dal significato originario di signora, padrona è passato a significante del sesso. Il maschile donno, come si vede,è rimasto al palo, anche se in alcuni settori il maschilismo è tornato a farsi sentire per motivi,per così dire, tecnici: mi riferisco al don che accompagna il nome dei sacerdoti. Voglio proprio vedere se le femministe,  quando il sacerdozio sarà esteso anche alle donne, accetteranno di assumere questo titolo  oppure proporranno donna
Ora comincia per me la parte più difficile, perché debbo inventarmi qualcosa che riporti quanto fin qui detto nell’alveo territoriale di riferimento di questo blog. Sarei un ipocrita (altro che invenzione estemporanea …) se non confessassi che tutta la pappardella fin qui servita mi è stata ispirata da tre ritratti di un letterato di Manduria (ecco, siamo in Salento e in tema), Ferdinando Donno ((1591-1649).

Quella che segue è una tavola a corredo di una delle opere di Ferdinando, cioè L’allegro giorno veneto, overo lo sponsalitio del mare, Sarzina, Venezia, s. d, (ma probabilmente intorno al 1627).

Nella cornice MANDURINI EFFIGIES FERDINANDI DOMNI (Ritratto di Ferdinando Donno di Manduria). In basso il distico elegiaco Corporis hic Domni strictè consistit imago/at decus alti animi Pindus Amicus habet (Qui rigorosamente si presenta l’immagine del corpo di Donno, ma il Pindo1 amico ha il decoro dell’alto animo).  In basso a destra Henrici Clerici (di Enrico Clerico) indica La paternità del diistico2.

In basso al centro lo stemma di famiglia e a sinistra il monogramma  DF dell’incisore senese Domenico Falcini (1570-dopo il 1628).

Da notare come nei due Domni (genitivo di Domnus) è stata  recuperata la forma del latino medioevale prima ricordata, cioè, in parole povere è stato tradotto il cognome Donno ipotizzando una sua derivazione da questa forma latina.

Domnus si legge ancora nel ritratto che segue custodito a  Münster nel Museum für Kunst und Kultur.

In basso al centro si legge Pecini fecit Venetiis (G. Pecini fece a Venezia). L’incisore Giacomo Pecini visse dal 1617 circa al 1669. Interessante in questo ritratto è il fatto che la tendenza a leggere da destra a sinistra DOMNUS FERDINANDUS finisce per creare un gioco ambiguo, quasi a recuperare il valore di DOMNUS inteso come titolo di rispetto più che come cognome, da quello, comunque, derivante.  

Lo stesso è in un ritratto successivo che è a corredo della biografia del Donno in Domenico De Angelis, Le vite de’ letterati salentini, parte II, Raillard, Napoli, 1713. Mentre nel testo della biografia che segue immediatamente all’immagine si legge sempre Donno, la didascalia in calce al ritratto è: Ferdinando Domno Mandurino/Dominicus de Angelis Lycien(sis) D(onat) D(edicat) D(icat), la cui traduzione è: A Ferdinando Donno di Manduria Domenico De Angelis di Lecce dona, destina, dedica. 3

Siccome non ho motivo per dubitare, in un caso e nell’altro, della bontà dell’etimo , ecco confermato, vista la notevole diffusione del cognome Donno in tutta Italia (circa 497 famiglie, di cui ben 384 in Puglia e 345 in provincia di Lecce; è il dato riportato in http://www.cognomix.it/mappe-dei-cognomi-italiani ) ancora una volta il maschilismo: non a caso il cognome Donna conta (dato riportato dalla stessa fonte) circa 196 famiglie in Italia, di cui solo una in Puglia e proprio in provincia di Lecce, più precisamente a Martano.

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1 Monte della Tessaglia sacro alle Muse, dunque simbolo dell’ispirazione poetica.

2 Il De Angelis a p. 178 dell’opera citata così scrive: Fu quest’Opera  [L’allegro giorno …] ricevuta, e letta con lode da i Letterati di quel tempo, nè vi mancò chi celebrolla con eruditi componimenti, come fra glia latri fece Enrico Clerico nella maniera, che siegue …

3 Un quarto ritratto (nell’immagine che segue) a firma di Carlo Biondi (nato a Napoli nel 1789), ma la cui derivazione da quello del testo del De Angelis  è evidentissima, è in  Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, tomo VI, Gervasi, Napoli, 1819.

 

La cripta della Madonna di Loreto nella chiesa matrice di Manduria

Madonna di Loreto (Chiesa Matrice)

di Nicola Morrone

 

Tra i luoghi di culto manduriani meno conosciuti vi è la cripta della Madonna di Loreto, collocata sotto il presbiterio della Chiesa Matrice.

La sua storia, antichissima, è di grande fascino. In origine, pare che la cripta costituisse una primitiva chiesa bizantina, verosimilmente realizzata intorno al sec. IX, d.C., al tempo di Gorgolano, luogotenente del condottiero Niceforo Foca[1].

Alla chiesetta “greca” sarebbe stata successivamente affiancata una cappella “latina”, edificata su impulso dei Normanni, che alla fine del sec.XI avevano sostituito i Bizantini nel governo del Mezzogiorno.

La chiesetta normanna fu in seguito abbattuta per realizzare l’attuale Matrice, di dimensioni più ampie e conclusa nel 1532. La nuova chiesa finì per inglobare anche la cripta bizantina, Questa cappella, le cui origini sono dunque antichissime, assunse nel corso del tempo un aspetto molto diverso da quello primitivo, raggiungendo infine l’attuale configurazione[2].

La cripta, cui si accede attraverso due ingressi, posti in corrispondenza della scalinata che conduce al presbiterio, si presenta come un vano rettangolare, lungo m.14 e largo m.10[3]. La cappella è descritta in dettaglio dal Tarentini, il quale afferma che essa , provvista in origine di tre altari e di un soffitto dipinto, alla fine del sec. XIX risultava corredata di un solo altare, qualificato da una statua della Madonna col Bambino[4], che è quella tuttora visibile.

Completavano il corredo della chiesetta una Natività rinascimentale in pietra leccese, anch’essa ancora fruibile, e un dipinto raffigurante la Madonna della Nuvola, purtroppo perduto[5]. Il Tarentini sostiene che nella cripta erano allogate alcune tombe gentilizie (famiglie Micelli, Barci, Goffredo), e due sepolcri della Congregazione della Madonna di Loreto[6]. La presenza dei sepolcri comuni si giustifica con l’intitolazione della cripta, a partire dal sec. XVII, alla Vergine SS. di Loreto, cui fu annessa una Congregazione laicale che mantenne vivo il culto per tre secoli.

Il Tarentini ricostruisce l’origine della Congregazione, oggi non più esistente, con dovizia di particolari. L’iniziativa di introdurre a Casalnuovo il culto della Madonna di Loreto si deve (come confermato dai referti documentari) al sacerdote gesuita Gabriele Mastrilli, il quale, giunto a Casalnuovo come predicatore, suggerì ai fedeli convenuti nella Chiesa Matrice di avviare la devozione lauretana. L’invito fu accolto, e con il sostegno dell’Arciprete Dilorenzo e del Capitolo, la Confraternita fu canonicamente eretta, con sede temporanea appunto nella cripta[7].

I confratelli, riunitisi sotto la regola dettata da Padre Mastrilli, cercarono in seguito di provvedere alla costruzione di una propria cappella. L’operazione non riuscì, per cui si stabilì che la cappella pertinente al sodalizio fosse costituita proprio dalla cripta.[8]

Dopo l’assegnazione definitiva della sede, i confratelli si preoccuparono di abbellire il luogo di culto: fecero decorare la volta con stucchi, e la corredarono anche di tre dipinti di soggetto mariano. Nel 1720 essi si provvidero di una statua della Madonna di Loreto, da utilizzare per le processioni, sostituita nel 1879 da un altro simulacro[9], che è quello attualmente visibile[10].

Come già segnalato, il sodalizio confraternale, ancora attivo alla fine del sec. XIX e impegnato nel solennizzare la Vergine SS. di Loreto nella relativa ricorrenza, si sciolse in un’epoca imprecisata.

A testimonianza dell’esistenza di questa istituzione restano i documenti, e le altre evidenze materiali: le opere d’arte e la stessa cripta che, attualmente occupata dai materiali di scavo, si spera sia presto restituita alla piena fruibilità.

 

[1] Cfr.A.Lopiccoli, Compendio storico della città di Manduria (manoscritto del 1884), p.205 e 269.; Cfr.inoltre P.Brunetti, Manduria tra storia e leggenda (Manduria 2007),pp.171-172.Niceforo Foca fu generale alle dipendenze dell’imperatore bizantino Basilio I (867-886 d.C).Recenti scavi all’interno della cripta della Chiesa Matrice hanno restituito, tra le altre cose ,anche una moneta di Basilio I.Dei materiali di scavo si attende la pubblicazione.

[2] Uno spoglio degli atti delle Visite Pastorali dei vescovi di Oria potrebbe fornire indicazioni relative all’aspetto della cripta nei secc.XVII-XIX.

[3] Cfr.L.Tarentini, Manduria Sacra (n. ed., Manduria 2000), p.98.

[4] Cfr.L.Tarentini, op.cit.,p.98. La statua, datata al sec.XVI, è stata ricondotta dagli studiosi all’ambito del Maestro della Madonna di San Benedetto, seguace di Stefano da Putignano.

[5] Cfr.L.Tarentini, op.cit.,p.98.

[6] Cfr.L.Tarentini, op.cit.,p.99. In seguito ai recenti scavi archeologici , è stato individuato il sepolcro confraternale, con le relative inumazioni ed alcuni oggetti di corredo.Anche di questi materiali si attende la pubblicazione.

[7] Al sodalizio confraternale, in origine composto esclusivamente da contadini (“foretani”), presero parte successivamente anche gli artigiani.

[8] Cfr.L.Tarentini, op.cit.p.99..

[9] Cfr.L.Tarentini, op.cit.,p.100.

[10] Cfr.S.P.Polito, La cartapesta sacra a Manduria.Sec.XVIII-XX (Manduria 2002),pp.48-49.

Presenza scolopica a Manduria (1688-1817)

sigillo degli Scolopi
sigillo degli Scolopi

 

di Nicola Morrone

 

LE FONTI

Le principali fasi dello sviluppo storico della comunità scolopica di Manduria devono ancora essere delineate con chiarezza. Ciò potrà avvenire solo attraverso la consultazione delle fonti archivistiche, ad integrazione dei dati provenienti dalla letteratura specifica, già ampiamente noti agli studiosi.

Le fonti d’archivio relative alla casa scolopica manduriana sono collocate fondamentalmente a Roma (A.G.O.S.) e ad Oria (A.V.O.). Ci è stato finora possibile procedere esclusivamente ad un sondaggio dei documenti conservati nell’Archivio Vescovile di Oria; ci ripromettiamo di integrare le nostre note, in un successivo contributo, con i dati provenienti dalle carte romane, peraltro già compulsate in buona parte da altri studiosi.

La documentazione dell’A.V.O. riguardante la casa scolopica di Manduria è collocata nella busta n.75, che contiene documenti dal 1681 al 1831. Essa copre , di fatto, tutto l’arco cronologico in cui è racchiusa la vicenda della fondazione manduriana. I documenti sono di varia natura: si tratta principalmente di permute, enfiteusi, vendite, censi, cause. Il faldone si compone in totale di 32 cartelle. Il materiale conservato nell’A.V.O., oltre ad offrire un ragguaglio sulla vicenda fondativa, ci permette soprattutto di fare luce su alcuni aspetti della gestione patrimoniale del convento manduriano.

Purtroppo, la documentazione non risulta nel complesso particolarmente utile a ricostruire fenomeni essenziali della vita della comunità , quali l’attività religiosa, educativa ed assistenziale. E’ auspicabile che , in tal senso, alcune importanti indicazioni possano venire da uno spoglio dei documenti romani.

scolopi1

LA VICENDA FONDATIVA

Sulla base dei più recenti studi (Tanturri, Gaudiuso) e con il conforto di alcuni inediti documenti d’archivio, siamo oggi in grado di stabilire con maggiore certezza l’epoca della fondazione del collegio scolopico di Manduria, e di precisare al contempo le reali motivazioni che portarono all’istituzione di questa periferica “casa” di Terra d’Otranto.

A Manduria gli Scolopi giungono nell’ultimo ventennio del sec. XVII: quali le ragioni e le modalità di tale scelta insediativa? I riferimenti principali per la ricostruzione della vicenda provengono dalla storiografia, locale ed accademica, non meno che dall’evidenza documentaria. A. Tanturri , in un monumentale saggio [ cfr.“Gli Scolopi nel Mezzogiorno d’Italia in età moderna”, in “Archivum Scholarum Piarum”, 50 (2001)] ha modo di soffermarsi nel dettaglio proprio sulle circostanze della fondazione della casa scolopica manduriana.

Lo studioso inquadra la vicenda nell’ambito delle logiche insediative generali dell’Ordine, evidenziando le resistenze del locale clero regolare rispetto a ciò che stava per configurarsi. Le linee generali della vicenda, confermate dai documenti e segnalate piuttosto rapidamente anche dagli storici municipali, si possono così riassumere:

  1. Il sacerdote manduriano Giacomo Antonio Carrozzo, dopo una serie di colloqui con il provinciale di Napoli Tommaso Simone, decide di donare tutti i sui beni all’Ordine degli Scolopi, con la condizione per quest’ultimo di aprire un collegio di istruzione. I beni donati dal Carrozzo ammontano, tra mobili e stabili, a 10000 ducati. Il sito scelto per l’abitazione dei Padri è “il meglio della terra”, e non manca di un ampio giardino”abondante di acque perfettissime”.
  2. La trattativa è agevole. Unico ostacolo all’istituzione della nuova casa scolopica è l’opposizione del clero regolare manduriano, costituito da Cappuccini, Serviti, Domenicani e Agostiniani. Gli ordini adducono a motivo della loro opposizione la forte concentrazione urbana dei conventi e la povertà del luogo, che dunque non sarebbe stato capace di ospitare una nuova presenza regolare.
  3. Il Vescovo di Oria Mons. Cuzzolino e la Marchesa Brigida Grimaldi Imperiale mostrano un atteggiamento favorevole nei confronti dell’operazione avviata dal Carrozzo. Anche grazie al sostegno di questi ultimi, l’opposizione dei regolari manduriani viene superata.
  4. Il 12 Novembre 1681, il notaio G. B. Nasuti roga in Manduria l’atto formale di donazione. Il Carrozzo dona all’Ordine degli Scolopi i sui averi, finalizzati all’apertura della nuova casa, della chiesa e del collegio, con la clausola che, qualora i Padri non fossero riusciti a concretizzare l’operazione, i beni sarebbero andati a beneficio del Capitolo manduriano.
  5. La predetta clausola dà avvio ad un contenzioso tra gli Scolopi e il Capitolo, che ritiene di essere titolare degli averi del Carrozzo. La causa dura 5 anni.La spuntano gli Scolopi,che finalmente, nel 1688, nominano il primo rettore (Dionisio Cesario) ed avviano l’attività scolastica.

L’evidenza documentaria fornisce altre interessanti notizie circa le motivazioni che inducono il sacerdote G. A. Carrozzo a fondare la nuova casa scolopica. L’atto di Notar Nasuti, da noi recentemente rintracciato, illustra la vicenda con esemplare chiarezza:

[…] come sono più anni che esso Don Giacomo Antonio [Carrozzo] have deliberato nella sua mente di veder fondato in questa terra di Casalnuovo un monastero di dette Scole Pie, riflettendo sempre, che dalla virtù depende la maggior cognizione di Dio,e che però, quando detto Monastero fusse in detta terra li cittadini haverebbero commodità d’imparar virtù a maggior honor di Dio benedetto e della sua Santissima Madre Maria, siendo l’Instituzione di detti Padri insegnar li figlioli prima nella vita cristiana, e secondariamente nell’humanità, dal che anche ne nasce l’utilità dell’anima, per tanto ha deliberato donare a detti Reverendissimi Padri irrevocabiliter inter vivos tutto il suo havere di stabili, casamenti, vigne, oliveti, e tutto il mobile, bestiame di qualsivoglia sorte che si trovarà dopo la sua morte, come anche tutti li crediti, che si trovaranno dopo la detta sua morte, attioni, raggioni e successioni , con l’infrascritti patti, conditioni e vincoli che si metteranno più a basso, quali s’intendono posti tanto nel principio, quanto nel mezzo, e fine della presente donatione , di modo tale che si habbino per sustanziali di essa […]

Don Giacomo Antonio Carrozzo, dunque, resta il motore di tutta l’operazione, che, come sottolineato da A. Tanturri, ha caratteri piuttosto insoliti: nella maggior parte dei casi, infatti, le fondazioni scolopiche prendevano avvio dall’iniziativa (e dal sostegno finanziario) di vari soggetti, solitamente membri della nobiltà, o, più raramente, dal vescovo e dall’Università. Ciò produceva alcuni inconvenienti: le trattative con molteplici soggetti, o con l’Università, si presentavano certamente più laboriose rispetto a quelle con un solo interlocutore. E, come si è visto, il caso di Manduria rientra in questa seconda tipologia. Qui, gli Scolopi avevano a che fare “con un prete solo, che non sa replicare a quel che vogliamo noi”.In definitiva, le maggiori difficoltà che i Piaristi incontrarono nell’istituire la nuova casa sono da ricondurre all’atteggiamento del locale Capitolo e all’iniziale opposizione dei regolari. La controversia con il Capitolo, generata dalle infondate pretese di quest’ultimo e durata un lustro, è documentata dagli atti collocati in un corposo fascicolo dell’A.V.O. D’altro canto, l’opposizione del clero regolare manduriano ad un’eventuale ingresso degli Scolopi in città, di cui rimane traccia documentaria,era palesemente “interessata”. L’atteggiamento dei regolari locali rappresentò sempre una delle incognite principali delle trattative per la nascita di una nuova casa piarista: l’episodio di Manduria lo documenta in modo esemplare. Fatta salva infatti l’esistenza delle condizioni basilari per la creazione di una nuova casa scolopica,indicate dal fondatore dell’Ordine, per concludere positivamente l’operazione-fondazione occorrevano il consenso dell’ordinario diocesano e quello dei superiori dei conventi di regolari eventualmente presenti. Ciò fino al 1731, quando una bolla di Clemente XII esentò i Piaristi da quest’ultimo vincolo. L’opposizione dei regolari ad una nuova fondazione scolopica si fondava soprattutto sul timore di perdere le elemosine, le donazioni e i contributi finanziari provenienti dai lasciti testamentari. Vi erano talora anche motivazioni che esulavano dall’ambito strettamente economico: i Domenicani e i Gesuiti, in particolare, temevano la concorrenza degli Scolopi sul versante dell’istruzione e della pratica educativa, da effettuare a vantaggio dei ceti sociali più poveri. Si prenda, a titolo di esempio, il caso di Lecce: gli Scolopi non poterono insediarvisi proprio a causa della tenace opposizione dei Gesuiti. Tornando alla fondazione manduriana, s’è detto che i regolari (Cappuccini, Serviti, Domenicani e Agostiniani), fatta eccezione per i Riformati, in origine si espressero negativamente rispetto alla nuova fondazione piarista. Ciò è testimoniato da un interessante documento del 1682, ratificato dell’università, che evidenzia come l’eventuale fondazione di un nuovo convento avrebbe ulteriormente appesantito la già eccessiva concentrazione urbana dei fabbricati monastici. Si trattava, evidentemente, di una osservazione pretestuosa: le preoccupazioni dei regolari , come sottolineato in precedenza, dovevano essere di ben altra natura.In seguito,comunque, le frizioni si smorzarono, anche per l’intervento dell’ordinario, come testimoniato dalla residua documentazione.

stemma dei Carrozzo
stemma dei Carrozzo

 

L’ATTIVITA’ EDUCATIVA

Il carisma fondamentale degli Scolopi fu, fin dalla istituzione dell’Ordine, quello dell’insegnamento. Per usare l’espressione di A. Tanturri, esso rappresentò il quarto ”voto” espresso dai Piaristi, oltre ai tre tradizionali (castità, povertà, obbedienza) comuni a tutti i religiosi. L’ordine calasanziano si inserì a pieno titolo nell’ambito dell’attività educativa, fino ad allora prerogativa dei Gesuiti, e, in misura minore, dei Barnabiti e dei Somaschi. Nel Mezzogiorno, in particolare, gli Scolopi si mostrarono in grado di fornire una risposta qualificata alle richieste di istruzione che la società nel suo complesso esprimeva da tempo, con le specificità ed i limiti tipici del contesto meridionale.I collegi meridionali strutturarono per tempo la loro offerta didattica, sulla base delle indicazioni fornite dal fondatore, San Giuseppe Calasanzio, nella sua Breve relatione del 1604-1605, anche se, come sottolineano gli studiosi,lo schema teorico dell’insegnamento fu qui applicato in maniera semplificata, fatta eccezione per l’importante collegio napoletano della Duchesca.Nel merito, la didattica scolopica si presentava, per l’epoca, con caratteri innovativi, per almeno tre ragioni:poiché estendeva la sua influenza educativa al di là dell’aula;perché aveva una chiara proiezione verso il futuro dell’educando, preoccupandosi delle sue possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro; perché, istruendo i figli delle classi più povere,provocava di fatto una trasformazione della realtà sociale, favorendo la crescita di una società più democratica. I doveri dei Padri Scolopi in fatto di didattica erano d’altronde stati fissati dal pontefice stesso, Papa Paolo V, che nella Bolla Ad ea per quae (1617) ratificò le indicazioni fornite in materia dallo stesso Calasanzio.Il fondatore aveva raccomandato di insegnare ai fanciulli “gratis, senza alcuno stipendio, mercede, salario o onorario,i primi rudimenti di Grammatica, Calcolo, e soprattutto i principi della Fede Cattolica , fondandoli nei buoni costumi ed educandoli cristianamente”. Questa pedagogia, evidentemente innovatrice, incontrò largo favore presso le popolazioni; l’assistenza scolastica liberava dall’ignoranza le classi povere, e il Collegio scolopico diveniva potente elemento di progresso all’interno del tessuto cittadino. Anche la casa scolopica manduriana dovette predisporre per tempo l’attività didattica.Sulla base della rarissima documentazione disponibile presso l’AVO, siamo in grado di affermare con certezza che anche a Manduria si insegnarono Grammatica e Retorica, e che, verosimilmente , risultarono attivi sempre due soli docenti.L’insegnamento della Retorica ebbe comunque una certa fortuna, cosicchè a Manduria si fondò uno studentato finalizzato all’apprendimento di questa particolare disciplina.Le fonti locali sono piuttosto avare di dati relativi al funzionamento della scuola manduriana.E’certo che al 1779, vale a dire nel periodo del massimo sviluppo, la comunità annoverava 16 membri (6 sacerdoti, 4 chierici professi, 5 laici professi, 1 terziario); i docenti, come detto , erano due.Nel collegio manduriano si formò, tra gli altri, una gloria dell’ordine scolopico, Serafino Gatti (1771-1834).

Entrato nello studentato all’età di 15 anni, fu presto trasferito nel collegio di Campi Salentina, per effettuarvi il noviziato.Ventenne,fu inviato a completare gli studi nel collegio di Napoli, dove seguì i corsi di eloquenza, scienze filosofiche e matematiche.Dopo l’ordinazione sacerdotale, il Padre Gatti fu trasferito nel collegio beneventano, ad insegnarvi teologia, filosofia e matematica, e fu in seguito in Francavilla Fontana, città in cui lasciò un buon ricordo di sé.Seguì un’esperienza foggiana, e, poi, la definitiva consacrazione a rettore del collegio napoletano; qui, si distinse soprattutto per le innovazioni apportate alla didattica, e per le sue indiscutibili doti di oratore. Tra le sue molteplici pubblicazioni a stampa si ricordano saggi riguardanti la psicologia, la teologia, il calcolo, la geometria, oltre che i vari saggi di eloquenza redatti per le occasioni più varie.

 

LA SOPPRESSIONE

Dopo più di un secolo di attività,il collegio scolopico manduriano, al pari di tante altre realtà consimili, fu soppresso nel 1817 in seguito all’emanazione delle leggi murattiane, che abolivano tutti gli ordini religiosi possidenti.

Una petizione del Decurionato cittadino ottenne dal Re il ripristino della casa manduriana, che continuò ad essere attiva sul piano religioso, educativo ed assistenziale per buona parte dell’800. Ancora nel 1824, infatti, gli Scolopi gestivano due scuole, di Umanità e di Retorica, frequentate rispettivamente da 8 e 20 alunni. I calasanziani dovettero poi abbandonare definitivamente Manduria dopo l’Unità d’Italia, in conseguenza delle leggi soppressive emanate dallo stato sabaudo.

E’ opportuno che oggi si rinnovi il ricordo della loro presenza , che, caratterizzata soprattutto da un’ intensa attività didattica, ha costituito un indiscutibile momento di crescita per tutta la comunità.

 

[Si ringrazia Don Daniele Conte, Direttore dell’Archivio Vescovile Oritano, per aver concesso la consultazione e la riproduzione dei documenti]

Nuove ipotesi sul sacello di San Pietro in Bevagna

Statuetta San Pietro

di Nicola Morrone

Uno dei monumenti manduriani più carichi di fascino e di mistero è senza dubbio la chiesa di San Pietro in Bevagna, alla quale ormai da anni dedichiamo la nostra attenzione.

Se le varie fasi costruttive che interessano il santuario sono già state da tempo precisate, anche con l’ausilio dei documenti, resta una parte del complesso architettonico sulla cui datazione gli studiosi non sono ancora concordi. Si tratta della struttura più antica, cioè del cosiddetto “sacello”, dai manduriani identificato con il termine dialettale “nnicchju”, cioè “nicchia”.

Si tratta di una costruzione dalle dimensioni ridotte, orientata in senso liturgico (E-W) ,e che ha un notevole valore sacrale e devozionale, poiché vi sono allogati gli oggetti del culto petrino: il quadro, il fonte battesimale, la pietra d’altare.

Tra gli interrogativi che il sacello bevagnino pone c’è, come detto, quello di una sua corretta datazione, che risulta problematica anche data la vetustà della struttura. Un elemento che può agevolare gli studiosi è , tra le altre cose, la struttura del paramento murario, che riprende, anche se in maniera più rudimentale, la tecnica romana dell’ “opus Quadratum”.

I conci, squadrati e di varie dimensioni, non sono disposti a file regolari: tutta la nicchia absidale ha una tessitura irregolare, che ci fa ipotizzare l’intervento di maestranze “di tradizione”. Ulteriori interrogativi pone la natura del materiale utilizzato per la costruzione: ci pare si tratti di calcare sabbioso compatto (carparo), ben distinto dal tufo: per esplicita scelta dei committenti e dei costruttori, l’opera, destinata ad ospitare le reliquie del passaggio di San Pietro per la contrada, doveva durare nel tempo.

Tutto il paramento murario dell’abside e del vano corridoio antistante andrebbe comunque attentamente studiato, anche per chiarire se il materiale utilizzato per la costruzione sia stato cavato in loco. Di fatto, comunque, a proteggere l’absidiola, il vano ogivale antistante e la cappella del sec. X-XI, tutti ancora pienamente fruibili, è intervenuta la costruzione della torre di difesa anticorsara (sec.XVI), cui in seguito è stato addossato un avancorpo (sec.XX).

Per ciò che riguarda la committenza, gli studiosi (Jurlaro, Lepore) ipotizzano che l’iniziativa della costruzione dell’absidiola sia stata presa intorno al sec. IX dall’allora vescovo di Oria Teodosio, che volle sistemare in modo più dignitoso il luogo che ospitava le reliquie petrine. D’altro canto, pur essendo stato costruito in età bizantina, il nucleo primitivo del santuario ha sempre destato l’interesse della diocesi latina di Oria, come risulta dall’epigrafe collocata nella adiacente chiesa del sec. X-XI, che attribuisce la costruzione dell’edificio al vescovo di Oria Giovanni (996-1033).

Per ricavare ulteriori elementi di riflessione, proponiamo in questa sede di confrontare l’aspetto dell’abside di Bevagna con quello della chiesa superiore di San Pietro Mandurino.

La struttura absidale della chiesa superiore di San Pietro Mandurino (sec. XI-XII), anch’essa realizzata in “opus quadratum”, presenta un paramento murario più regolare rispetto all’absidiola di Bevagna: qui i conci sono disposti appunto su file regolari, quasi isodome (si contano 12 ricorsi) anche nelle campate. Questa differenza può essere attribuita a due fattori: la minore antichità della cappella di San Pietro Mandurino rispetto a quella di Bevagna , oppure la maggiore perizia dei costruttori.

Può anche darsi che la spiegazione possa attribuirsi ad entrambi i fattori, anche in considerazione del fatto che la cappella di Bevagna è verosimilmente più antica di due secoli rispetto a quella di San Pietro Mandurino, ed è probabile che, nel corso del tempo, il bagaglio tecnico dei costruttori possa essersi perfezionato.

Molti problemi , dunque, rimangono ancora aperti riguardo alla “nicchia” del santuario di San Pietro in Bevagna: per chiarire i punti oscuri occorreranno indagini archeologiche organiche, estese anche all’area immediatamente adiacente alla torre.

 

Manduria| Il Crocifisso ritrovato

crocifisso manduria

di Nicola Morrone

 

Tra i restauri più significativi di opere d’arte manduriane recentemente effettuati, si segnala senza dubbio quello relativo all’antico crocifisso ligneo di formato “terzino”, allocato nella chiesa dell’Immacolata. Si tratta di un’opera di dimensioni ridotte, ma di notevole interesse, per ragioni sia storiche che formali.

Non conosciamo il nome dell’intagliatore (probabilmente un maestro locale), ne’ possediamo documenti che ci permettano di datare il manufatto, ma, sulla base degli elementi stilistici, si può ipotizzare che l’opera sia stata realizzata nella seconda metà del sec. XVI, o al massimo, in considerazione di un probabile attardamento, nei primissimi anni del sec. XVII.

L’opera, di cultura rinascimentale e di sapore arcaico, potrebbe corrispondere al crocifisso menzionato nella Visita Pastorale di mons. Lucio Fornari (1603), di proprietà della Confraternita dell’Immacolata [cfr. M. Fistetto, Se Concetta ho Maria (Manduria 1997), p.45].

Il crocifisso, restaurato dalla maestra A. Falco con il contributo finanziario di un’anonima famiglia di confratelli, è stato restituito ad una piena leggibilità: in un’epoca imprecisata, infatti, il suo aspetto originale era stato modificato da ampie ridipinture, che ne avevano alterato le cromie. L’anonimo ridipintore aveva accentuato gli aspetti drammatici e patetici della scultura, connotando il corpo di Cristo morto con abbondanti fiotti di sangue, probabilmente sulla base di un’estetica controriformata, mirante a toccare le corde più intime dell’osservatore, anche al fine di indurre il fedele ad una riflessione più profonda sul mistero della passione di Cristo.

Oltre a quello della datazione, rimane aperto anche il problema attributivo: non abbiamo finora trovato termini di confronto pertinenti per questa scultura, la quale, comunque, prescinde dai modelli più in voga in ambito locale tra i sec. XVI e XVII, vale a dire quello “genuinesco” e quello “francescano”, di cui a Manduria sono presenti alcuni esempi.

Per il momento, l’unica opera che pare essere parzialmente accostabile alla nostra è forse il crocifisso ligneo della chiesa di San Francesco a Gallipoli, attribuito ad un ambito culturale di pieno Rinascimento [Cfr. F. B. Perrone, I Conventi della Serafica Riforma di San Nicolò in Puglia (Galatina 1981),vol.2, p.21].

L’anonimo maestro del crocifisso manduriano, come quello gallipolino, modella il legno in maniera sintetica, con pochi, sicuri colpi di sgorbia, ma riserva la giusta attenzione anche ai particolari (si noti, in questo senso, il trattamento del perizoma, del torace e delle braccia). Il pathos è decisamente contenuto: se non fosse per il compiacimento virtuosistico che caratterizza alcuni dettagli (per es. la capigliatura di Cristo), nonchè per l’assetto generale del corpo del Nazareno, di impressionante magrezza, ci troveremmo di fronte ad un artista che, per il senso di equilibrio che caratterizza la composizione e per la padronanza del dato psicologico, potrebbe dirsi “classico”.

 

Nicola Morrone

Il Salento in ventiquattro immagini di Abraham Louis Rodolphe Ducros (4/6): MANDURIA

di Armando Polito

Buitenkant van de buitenmuur van de antieke tempel in de oude stad Manduria (Vista dell’esterno di un muro di un antico tempio nella città antica di Manduria)

Profiel van de binnenmuren en buitenmuren van de oude stad Manduria (Profilo dell’interno di un muro esterno della vecchia città di Manduria)

Antieke tempel binnen de vestingmuren van de oude stad Manduria (Antico tempio dentro il muro di una fortezza della vecchia città di Manduria)

Twee stukken van een architraaf van de antieke tempel in de oude stad Manduria (Due pezzi di un architrave di un antico tempio nella vecchia città di Manduria)

Grot en fontein in de oude stad Manduria (Grotta e sorgente nella vecchia città di Manduria)

Di seguito il fonte pliniano1 in una  tavola tratta dal Voyage pittoresque ou description des Royaumes de Naples et de Sicilie, v. III, Parigi, 1783.

Alla tavola del Voyage si ispirò con assoluta evidenza Pietro Cavoti (1819-1890) con la seconda tavola a corredo del manoscritto del 1870 Relazioni autografe per i monumenti di Terra d’Otranto, custodito nel museo civico di Galatina a lui intitolato (n. d’inventario 3435) e pubblicato da Valentina Frisenda Edizioni Cisva, 2008, da cui ho tratto l’immagine).

Chiudo con una foto recente (tratta da http://digilander.libero.it/fermi1/informatica/quiete_dinoi/il_fonte_pliniano__manduria.htm) del fonte  ripreso più o meno dallo stesso punto di osservazione ma con un’escursione grandangolare dello zoom più vicina alla rappresentazione del Ducros,

 

Per la prima parte (BRINDISI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/30/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-16-brindisi/

Per la seconda parte (GALLIPOLI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/12/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-26-gallipoli/

Per la terza parte (LECCE): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/23/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-36-lecce/

Per la quinta parte (NARDÒ): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/11/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-56-nardo/

Per la sesta parte (TARANTO): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/24/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-66-taranto/

 

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1 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/07/17/il-caldo-lacqua-e-il-motore-di-ricerca-terza-ed-ultima-era-ora-parte/

 

 

 

 

Manduria. Il San Lorenzo conteso

Manduria. Statua San Lorenzo (sec.XVIII)
Manduria. Statua San Lorenzo (sec.XVIII)

di Nicola Morrone
Tra i primi e più importanti martiri della cristianità occidentale c’è senza dubbio San Lorenzo, nato a Huesca (Spagna) nel 225 e morto a Roma, il 10 agosto 258, nell’ambito della persecuzione dell’imperatore Valeriano.

Trasferitosi in gioventù dalla Spagna a Roma, una volta giunto nell’Urbe divenne arcidiacono, cioè responsabile delle attività caritative della Diocesi. In seguito ad un editto emanato dall’imperatore, all’età di 33 anni Lorenzo fu messo a morte perchè presbitero, cioè sacerdote. Molto probabilmente (anche se, in questo senso, mancano testimonianze storiche inequivocabili) venne bruciato vivo su una graticola ardente. La graticola, perciò, diventò in seguito il suo attributo iconografico.

Piuttosto tardivamente, il culto per il martire giunse anche a Manduria. La devozione locale non nacque per impulso della Diocesi, ma, come talora accade, su iniziativa privata. Intorno al 1547, con un lascito del notaio Giovanni De Basiliis, su un terreno di sua proprietà, fu edificata una cappella dedicata al santo, che risulta già crollata nel 167O [Cfr. L.Tarentini, Manduria Sacra (1899), p.17].

Nell’iconografia pittorica e plastica manduriana, San Lorenzo è presente, in maniera particolare, in due distinti luoghi di culto: la chiesa della Madonna del Carmelo (Scuole Pie) e la cappella della Natività di Maria Vergine (in Sant’Antonio).

Alle Scuole Pie, il santo è abbondantemente riprodotto: a lui è dedicato il secondo altare a sinistra della navata, qualificato da una grande tela centrale che raffigura il suo martirio e da quattro telette laterali con scene della sua vita (ambito dei pittori Bianchi, sec. XVIII). Nella chiesa è inoltre presente una statua in cartapesta che rappresenta il santo, opera di R. Caretta (sec. XX).

Nella cappella della Natività di Maria Vergine (in Sant’Antonio) si può invece ammirare un bel dipinto con il santo in atteggiamento estatico (sec. XVII, scuola pugliese) e una statua in cartapesta di artista locale (sec. XVIII). La statua, come tutto il corredo artistico della cappella, è stata realizzata su iniziativa dei Frati Cappuccini (uno dei tre ordini mendicanti della famiglia francescana, sorto nel 1520) che officiavano il culto nella chiesetta già dalla seconda metà del sec. XVII. Giunti a Manduria intorno al 1660, essi, anche con il sostegno dell’aristocrazia locale, avevano realizzato la cappella e il convento annesso, e tra gli altri, solennizzavano il culto per San Lorenzo Martire con una festicciola nei pressi della contrada [cfr. L.Tarentini, Manduria Sacra (1899), pp.56-65].

Ma la comunità cappuccina, dopo appena due secoli di presenza in città, dovette abbandonare Manduria in seguito alle soppressioni monastiche postunitarie (1866). All’allontanamento della comunità monastica seguì un periodo di abbandono della cappella e del convento, in cui si verificarono, tra le altre cose, anche spoliazioni del patrimonio artistico.

Nell’ambito di quel convulso frangente storico, che ha interessato molte fondazioni monastiche italiane, la statua manduriana di San Lorenzo è stata al centro di una vicenda molto particolare, che abbiamo recentemente ricostruito con l’ausilio di documenti rintracciati nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma, sulla scorta delle indicazioni fornite in un saggio scientifico [cfr. A.Gioli, ”Monumenti e oggetti d’arte nel Regno d’Italia. Il patrimonio artistico degli Enti religiosi soppressi tra riuso, tutela e dispersione” (Roma 1997)].

Presso L’ACS (fondo Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale delle Antichita’ e Belle Arti, Affari per Province, busta 16, fascicolo 41) esiste infatti un incartamento, della consistenza di cc. 8, riguardante i Cappuccini di Manduria, contenente documenti risalenti all’anno 1872. Sei anni prima, il Regio Decreto n.3036 del 7 Luglio 1866 aveva stabilito la soppressione degli Ordini religiosi possidenti. La legge non prevedeva forme particolari di tutela dei beni artistici presenti nelle chiese e nei fabbricati monastici. E mancando appunto un sostegno giuridico alla salvaguardia dell’immenso patrimonio artistico degli Ordini religiosi ebbe luogo, nell’immediato periodo postunitario, la grande dispersione delle opere d’arte di proprietà claustrale, la cui sorte, nella gran parte dei casi, non è più possibile ricostruire.

Dopo l’allontanamento dei Cappuccini dalla casa manduriana, lo stesso destino sarebbe toccato, tra gli altri, anche alla statua in cartapesta di San Lorenzo Martire, ma stavolta le cose, per una curiosa circostanza, andarono diversamente. Infatti, tra i documenti da noi ritrovati a Roma ce n’e’uno, datato 1872, da cui si evince che la Congrega del Carmine di Manduria (Scuole Pie) aveva fatto istanza ad un particolare ufficio del neonato Regno d’Italia (l’Amministrazione del Fondo per il culto) per ottenere la statua di San Lorenzo Martire, già appartenuta ai Cappuccini, al fine di istituire nella propria chiesa il culto del santo e solennizzarlo con una festa annuale (10 agosto).

Per permettere lo spostamento della statua dalla chiesa dei Cappuccini a quella delle Scuole Pie occorreva però, secondo le leggi del tempo, che essa fosse riconosciuta “di nessun valore artistico”. In caso contrario, essa sarebbe rimasta di proprietà dello Stato, come patrimonio acquisito in seguito alla soppressione della comunità cappuccina di Manduria. Gli ufficiali del Regno d’Italia incaricarono dunque la Regia commissione Conservatrice di Monumenti storici e delle Belle Arti di stimare il valore artistico della statua, e, anzichè mettere tutto nelle mani di tecnici forestieri, si affidarono al personale del Museo provinciale di Terra d’Otranto (Lecce), che avrebbe inquadrato l’opera nel giusto contesto storico ed artistico, e ne avrebbe poi fornito, in base a questi parametri, una stima anche economica. E così fu.

Nel fascicolo da noi consultato a Roma, c’è infatti una bellissima relazione, senza data, sottoscritta dal Direttore del Museo Provinciale di Lecce (il patriota Sigismondo Castromediano). Dalla sua lettura si evince che una commissione del Museo, composta da Luigi De Simone, Cosimo De Giorgi, Pietro De Simone e lo stesso Castromediano, si recò a Manduria la sera del 13 settembre 1872 e, dopo essersi accordata col sindaco, col ricevitore del demanio e con i RR. Carabinieri, il giorno successivo prese visione della statua.

Questa era già stata collocata nella chiesa del Carmine. Dopo essere stato riconosciuto sotto l’aspetto formale come opera di gusto barocco, il manufatto fu giudicato dalla commissione come opera di “artista poco perito”. Alla fine della meticolosa relazione si sottolinea che “se v’ha alcun pregio in questa statua non è certo estrinseco od estetico; la è una brutta copia, è una pessima caricatura di tante statue consimili di San Lorenzo che si trovano in diversi paesi della provincia, le quali potranno avere soltanto un valore archeologico tra un milione di anni, se la materia prima con la quale sono state modellate potrà resistere alla corruzione del tempo, del tarlo, e della tignola. Per tutti questi motivi la Commissione giudica la statua di nessun valore artistico, e crede che il prezzo dell’opera quale attualmente si trova sia di 80 a 100 lire italiane”.

Sulla base di questa valutazione, l’Amministrazione per il Fondo del Culto accordò alla Congregazione del Carmine di Manduria l’utilizzo della statua, anche se i confratelli, come detto, avevano già provveduto a spostare l’opera dalla sua sede originaria, con processione solenne.

La statua di San Lorenzo Martire, dunque, è rimasta a Manduria proprio per esser stata considerata “di nessun valore artistico”. Questa valutazione, effettuata nel 1872 dagli esperti leccesi, è stata dunque provvidenziale, poichè ha permesso all’opera, a differenza di tante altre disperse, di rimanere nella sua città. La valutazione della commissione, però, pur provvidenziale, non fu criticamente equilibrata. Il Tarentini afferma che, all’epoca, la statua “riscosse erroneamente fama di grande lavoro artistico”, senza però motivare questo suo giudizio negativo.

Lo studioso S. P. Polito, tra i massimi conoscitori della cartapesta salentina, si esprime invece sul San Lorenzo manduriano in termini decisamente positivi, descrivendolo come un manufatto “pregevole”, che “denota nei tratti e nel gesto una tenuta qualitativa non eccellente, ma, ad ogni modo, piuttosto alta [….] non troppo lontana dagli esiti raggiunti dal Manieri” [Cfr.S.P.Polito, La cartapesta Sacra a Manduria (Manduria 2002), pp. 20 e 136].

Nella fattispecie, si tratta, tra l’altro, di un vero e proprio incunabolo della cartapesta salentina, dal momento che i primi manufatti di plastica cartacea documentati nel Salento risalgono appunto al sec. XVIII. Il verdetto dei tecnici leccesi pare anche a noi eccessivamente severo: osservando direttamente la statua, che fu realizzata più di due secoli e mezzo fa, si nota uno sviluppo solido ed equilibrato della massa plastica, una sufficiente attenzione al dettaglio decorativo, e, non ultima, una buona capacità di caratterizzazione psicologica.

In ogni caso, a quella lontana valutazione “al ribasso” dobbiamo comunque, lo ribadiamo, il salvataggio dell’opera dalla sua sicura dispersione. La statua di San Lorenzo, dopo essere stata acquisita dai Confratelli del Carmine per le loro esigenze cultuali (tra l’altro legittimate da una devozione che, nata su impulso privato, era presente alle Scuole Pie già dal primo ‘700) ritornò poi, giustamente, nella sua sede originaria, cioè nella cappella della Natività di Maria (ora in Sant’Antonio).

Nelle Scuole Pie fu, al suo posto, collocata un’altra statua in cartapesta del Santo, quella realizzata ai primi del ‘900 dal leccese Raffaele Caretta.

In conclusione, da una superficiale valutazione tecnica dell’importanza di un’opera d’arte è venuto alla comunità manduriana un vantaggio, di cui i concittadini possono tuttora beneficiare. Purtroppo, di tante altre opere, di cui si fece a suo tempo “corretta” valutazione artistica, si è perso finanche il ricordo.

 

Nicola Morrone

 

Nuovi documenti sul rapporto tra Giovanni Bernardino Bonifacio e l’Università di Casalnuovo

IL MARCHESE E LA CITTA’

 Nuovi documenti sul rapporto tra Giovanni Bernardino Bonifacio e l’Università di Casalnuovo

di Nicola Morrone

Nello scorso mese di luglio ci siamo recati presso l’Archivio di Stato di Napoli, allo scopo di reperire nuove fonti documentarie relative alla storia di Manduria. Oltre ad una serie di sondaggi in alcuni fondi archivistici già noti agli studiosi di storia locale, abbiamo effettuato una ricognizione in alcuni faldoni che costituiscono il cosiddetto “Archivio imperiali”.

Preliminarmente al nostro sondaggio archivistico, necessariamente selettivo, abbiamo consultato i regesti dell’Archivio Imperiali, compilati dalla dott.ssa V. Minniti e cortesemente messi a nostra disposizione dal personale della Biblioteca civica di Francavilla Fontana. Lo spulcio dell’ingente materiale documentario, al di là delle carte più direttamente collegate alla famiglia genovese, non ha mancato di riservare alcune sorprese.

Nel fascio n. 98 del fondo “Giunta degli Allodiali, I serie” è infatti collocato un documento di estremo interesse, utilissimo a chi voglia ricostruire su basi più certe la storia della nostra comunità, e che trova tra l’altro termini di confronto in una serie di documenti consimili, redatti nello stesso periodo.

Il documento in questione è un fascicoletto cartaceo, manoscritto, costituito di 9 fogli numerati, compilati sul “recto” e sul “verso” (per un totale di 17 facciate di testo) e di varie altre carte bianche. In queste pagine sono contenuti i “capitoli”(o grazie, o privilegi) concessi negli anni 1538-1540 alla città di Casalnuovo dal Marchese d’Oria Giovanni Bernardino Bonifacio (1517-1597). Il documento da noi consultato non costituisce l’originale, ma una copia tarda, estratta in un’epoca imprecisata dal XXXII quinternione della Regia Camera della Sommaria e  autenticata dal notaio casalnovetano Giovanni Tommaso Pasanisi nel 1634. I capitoli originali, redatti su carta pergamena, muniti di sottoscrizione del feudatario e provvisti di sigillo pendente, sono probabilmente andati perduti.

morrone

Il documento, finora ignoto agli studiosi [cfr. M.Welti, Dall’Umanesimo alla Riforma.Giovanni Bernardino Bonifacio Marchese d’Oria (Brindisi 1986), p.27] è tanto più importante, in quanto getta una luce significativa sui rapporti intercorrenti, di diritto e di fatto, tra i principali attori politici del tempo: la Corona reale, il feudatario, il Comune (o “universitas”). Nel 1538 Giovanni Bernardino Bonifacio aveva concesso vantaggiosi capitoli alla città di Oria [cfr.M.Welti, ibidem, p.26], e nello stesso periodo anche Francavilla Fontana era stata beneficiata degli stessi provvedimenti [Cfr.P.Palumbo, Storia di Francavilla Fontana (Lecce 1870), pp.437-447].

Siamo ora in grado di dimostrare concretamente, dopo la nostra scoperta nell’Archivio di Stato di Napoli, che anche Casalnuovo ottenne importanti privilegi dal Marchese d’Oria, peraltro nello stesso torno di tempo (1538-40). I capitoli concessi alla nostra città furono redatti parte in latino e parte in volgare. Le parti in latino, se si eccettuano alcune importanti  indicazioni di carattere storico e cronologico, sono comunque piuttosto ripetitive, impostate sulle formule tipiche degli atti ufficiali redatti nel sec.XVI. Decisamente più interessanti sono le parti redatte in volgare, che costituiscono, nella sostanza, il corpo delle 20 “grazie” richieste (ed ottenute) dall’Università di Casalnuovo.

Come è ricordato nello stesso documento, la comunità di Casalnuovo, al pari di tante altre di Terra d’Otranto, godeva fin dal tempo di Re Ferdinando I d’Aragona di particolari privilegi, che il Re aveva concesso tra la fine del 1463 e i primi del 1464 [Cfr. G. Papuli, Documenti editi ed inediti sui rapporti tra le Università di Puglia e Ferdinando I….(Galatina 1971), pp.375 e segg.]. Dai tempi di Re Ferrante erano comunque passati molti anni e la comunità, more solito, decise di farsi confermare i privilegi fino ad allora posseduti, ed impetrò le grazie al feudatario, che, da parte sua, gliele concesse.

Alcuni studiosi hanno giudicato la concessione dei capitoli alle “universitates” di Oria, Francavilla e Casalnuovo un atto di debolezza politica del nuovo feudatario: non sempre, infatti, i capitoli erano concessi con facilità. In ogni caso, in quell’occasione le comunità la spuntarono e il documento che di seguito esamineremo ne costituisce la prova.

Come già detto, i privilegi concessi alla comunità casalnovetana, che allora contava 700 fuochi, cioè circa tremila abitanti [Cfr. G. Jacovelli, Manduria nel ‘500 (Galatina 1974), p. 22] sono 20 e sono scrupolosamente elencati ai ff. 2-6 del fascicolo, con un richiamo numerico sul margine sinistro del foglio, che ne favorisce l’identificazione. Si tratta di provvedimenti che riguardano vari aspetti della vita cittadina (amministrativi, economici, giuridici): ne forniamo brevemente l’elenco, con una sintesi del contenuto, lasciando ad altri il compito di esaminarli nello specifico, e di confrontarli con quelli concessi da Giovanni Bernardino Bonifacio alle città di Oria e Francavilla Fontana.

manduria

CAPITOLI CONCESSI DAL MARCHESE D’ORIA ALL’UNIVERSITA’ DI CASALNUOVO (1538-40)

Capitolo 1: Si chiede al feudatario che i cittadini di Casalnuovo vengano giudicati, sia per le cause civili che per quelle penali, esclusivamente entro la loro città, e da ufficiali in essa presenti.

Cap.2: Si chiede che i delinquenti di Casalnuovo e qualsiasi individuo ristretto nel carcere cittadino, non possa essere trasferito in altro carcere fuori dalla città.

Cap.3: Si chiede che il capitano (cioè il rappresentante del feudatario) sia sostituito ogni anno, come prevede la prammatica del Regno di Napoli.

Cap.4: Si chiede che il Marchese d’Oria provveda la comunità di persona idonea ed atta all’esercizio della amministrazione della giustizia, e che eserciti l’ufficio personalmente e non attraverso sostituti, e che, in caso la giustizia sia amministrata da un sostituto, la comunità non debba pagargli lo stipendio.

Cap.5: Si chiede che l’università resti, secondo l’antica consuetudine, nel possesso dei proventi delle pene pecuniarie rivenienti da tutte le condanne impartite dai tribunali cittadini, con la facoltà di deputare due o tre cittadini, che intervengano allo scopo di evitare che si commettano frodi sui proventi a danno dell’Università.

Cap.6: Si chiede che i cittadini di Casalnuovo non siano costretti ad alloggiare nelle loro case gli ufficiali del Marchese, ne’ a consegnare loro panni, letti e qualsivoglia altra masserizia, ne’ gratuitamente, ne’ a pagamento, ma che, all’opposto, i cittadini abbiano facoltà di decidere se ospitarli o meno.

Cap.7: Si chiede che l’erario cittadino debba dar conto al Marchese esclusivamente delle entrate feudali e baronali.

Cap.8: Si chiede che, come è antica consuetudine, la decima dello zafferano si debba pesare in frutto, e non in fiore, e che le stesse piante possano entrare nella città attraverso tutte le porte, e non solo dalla porta grande.

Cap.9: Si chiede che i cittadini di Casalnuovo possano vendere liberamente frutti, frumenti, vini, olii, legumi senza licenza del Marchese o del suo ufficiale, e che non siano obbligati ad attendere che prima vengano venduti i generi alimentari di proprietà della corte baronale, come anche a vendere nelle loro botteghe gli stessi, ne’ a pagare la decima delle cipolle.

Cap.10: Si chiede che il castellano di Casalnuovo, che alloggia nel castello con la sua famiglia e che, oltre ad affittare il castello a persone di sua conoscenza, pretende di essere esente dal pagamento dei dazi, debba all’opposto, come è vecchia consuetudine, pagare anch’egli dazi e gabelle, poichè è anch’egli un cittadino come tutti gli altri.

Cap.11: Si chiede che ogni cittadino di Casalnuovo porti il peso del pagamento da effettuare presso la Regia Corte, per impedire che i poveri sopportino il peso fiscale di coloro che, per essere esenti dal pagamento delle tasse, presentano al Marchese lettere di raccomandazione.

Cap.12: Si chiede che il Marchese non si intrometta nei fatti relativi al governo dell’Università, nè nelle cause che sono di competenza di quest’ultima.

Cap.13: Si chiede, come è antica consuetudine, di poter creare liberamente il sindaco, gli auditori, gli ordinati e i camerlenghi, e gli altri ufficiali del governo cittadino, sulla base del consenso popolare, evitando altre modalità di elezione, per impedire che vengano elette persone non idonee, o che uno stesso cittadino si ritrovi più volte eletto.

Cap.14: Si chiede che il Marchese permetta che il sindaco, e gli ufficiali di Casalnuovo possano conservare i libri e le scritture redatte in passato dagli ufficiali dell’università, come è antica consuetudine, e che nè il Marchese nè i suoi ufficiali possano sottrarle, e che, infine, le medesime restino depositate esclusivamente presso gli ufficiali cittadini.

Cap.15: Si chiede che, come è antica consuetudine, la decima del mosto si paghi davanti alla porta della città, quando il vino viene introdotto in essa, e non quando lo stesso si trova già nel palmento.

Cap.16: Si chiede che il Marchese non ordini a nessun cittadino, nè a pagamento, nè gratuitamente, di effettuare prestazioni di lavoro personale, nè attraverso il proprio bestiame, se non a coloro che di diritto possono essere comandati dal Marchese ad effettuarle.

Cap.17: Si chiede che i capitani, e gli ufficiali del Marchese, nell’ingresso del loro ufficio in Casalnuovo giurino di osservare i privilegi e le consuetudini della città.

Cap.18: Si chiede che il Marchese ratifichi tutti i privilegi, le grazie, le consuetudini, i costumi che sono stati concessi alla città da re Ferdinando I d’Aragona. Si chiede che lo stesso li confermi, e non li  impedisca, ne’ contraddica in alcun momento, ne’ direttamente, ne’ indirettamente.

Cap.19: Si chiede che, come è antica consuetudine, si possa proibire la vendita del vino al taverniere della corte baronale, prima che i cittadini di Casalnuovo non abbiano venduto tutto il loro.

Cap.20: Si chiede che, come è antica consuetudine, l’università possa eleggere ogni anno un cittadino con l’incarico di mastro d’atti.

Il Marchese d’Oria Giovanni Bernardino Bonifacio, dopo aver accordato il suo “placet” a tutte le richieste dei casalnovetani, promette solennemente, giurando con la mano posta sul Vangelo, di osservare, e di fare osservare dai propri eredi, e successori, e dai suoi ufficiali e ministri, tutto ciò che è contenuto nei capitoli, sottoscritti ad Oria, e che il Marchese spedisce poi a Napoli per ottenere il “regio assenso”, cioè la ratifica dei capitoli stessi da parte del Re. Infine, il Marchese stabilisce in mille ducati la pena pecuniaria da somministrare a quegli ufficiali che non osserveranno, ne’ faranno osservare i provvedimenti contenuti nei capitoli.

Con la sottoscrizione del Marchese, del suo segretario Antonio Vinciguerra e di un auditore si conclude il lungo documento, ricopiato da mano anonima in un’epoca imprecisata, e da noi recentemente riportato alla luce. Come già detto, esso costituisce uno dei pochi testi sulla base dei quali lo studioso può tentare di ricostruire alcuni aspetti del funzionamento dell’università (o comune) di Casalnuovo nel sec. XVI, e della sua modalità di relazionarsi con la Corona e il feudatario.

Si auspica che, in futuro, anche con l’apertura alla consultazione degli archivi privati, possano essere prodotte altre testimonianze documentarie sulla vita di questa importante istituzione, che, in fondo, ha rappresentato e rappresenta tutti noi.

A Manduria si presenta il libro su Pietro Marti

Marti frontespizio1

Presentazione del volume “Pietro Marti (1863-1933). Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto”

 

La Società di Storia Patria per la Puglia sezione di Oria e l’Archeoclub d’Italia, sede di Manduria, con il patrocinio del Comune di Manduria e la collaborazione dell’Unitre e della Fondazione “Pernix Apulia” di Eugenio Selvaggi, hanno promosso la presentazione di una importante monografia dedicata a Pietro Marti. Il volume dal titolo: “Pietro Marti (1863-1933). Cultura e giornalimo in Terra d’Otranto” sarà presentato il giorno 19 novembre p.v., alle ore 17.00, nel Salone consiliare del Municipio di Manduria.

Relatore il prof. Cosimo Pio Bentivoglio, noto studioso locale. Autore del libro, edito a cura del dott. Marcello Gaballo, è il prof. Ermanno Inguscio, collaboratore dell’Università del Salento, socio ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia. Parteciperà alla presentazione il prof. Pasquale Corsi, docente universitario, Presidente della Società di Storia Patria per la Puglia, oltre naturalmente all’autore ed ai rappresentanti delle istituzioni promotrici. Punto di riferimento la civica Biblioteca “Marco Gatti”.

Va ricordato che Pietro Marti è stata una delle figure più rappresentative della cultura di Terra d’Otranto tra Otto e Novecento e che il suo legame con Manduria deriva dal fatto che negli anni dal 1921 al 1924 è stato il Direttore della prima scuola secondaria (Scuola Tecnica) istituita appunto in Manduria nel 1921.

Due stelle musicali salentine a cavallo di due secoli: Benedetto Serafico di Nardò e Antonio De Metrio di Manduria

di Armando Polito

Se tre anni fa mi sono occupato (https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/09/20/quando-provare-ad-eliminare-significa-recuperare-ovvero-il-capitone-e-il-compositore/) di Benedetto Serafico di Nardò, città nella quale vivo da quando avevo pochi mesi, per la par condicio mi è parso opportuno non lasciarmi sfuggire l’occasione di parlare di Antonio De Metrio di Manduria, città nella quale sono nato. Al di là della faccenda personale, che da sola non avrebbe avuto nessuna importanza, altri particolari ben più sostanziali uniscono i due personaggi temporalmente separati da una generazione di differenza. Entrambi furono musici famosi del loro tempo e composero madrigali a cinque voci. E, come per il neretino è disponibile nel locale Centro di servizi culturali e bibliotecari la copia fotostatica della pubblicazione originale (custodita nella biblioteca estense di Modena; la versione digitale è reperibile all’indirizzo http://bibliotecaestense.beniculturali.it/info/img/mus/i-mo-beu-mus.g.147.html) uscita a Venezia nel 1575 per i tipi di Gugliemo, così per il compositore di Manduria presso la locale biblioteca è disponibile il microfilm dell’originale, che si conserva nella Biblioteca Nazionale di Francia, uscito in ristampa a Napoli per i tipi di Vitale nel 1618. Ecco il frontespizio tratto dal sito della citata biblioteca (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84260096/f6.image).

Ignoro la data in cui l’opera uscì la prima volta ma dovrebbe essere, comunque, anteriore al 1612, anno di morte di un personaggio, Davide Imperiali, ricordato nel testo come vivente e del quale avrò occasione di parlare più avanti.

Il madrigale come genere musicale ebbe notevolissima diffusione tra il XIV ed il XVII secolo e non ripeto qui quanto ebbi a suo tempo a dire parlando del musico di Nardò.

Sono passati tre anni e le mie conoscenze musicale oggi come allora si limitano al numero delle note ed al loro nome, ragion per cui rimane attuale e rinnovato l’invito rivolto a qualche competente che mi faccia capire se, ascoltando la loro esecuzione,  tali composizioni sono più vicine a quella cantilene soporifere che negli anni della mia infanzia dovetti sorbirmi trasmesse da Radio Tirana e tollerate solo per gli effetti luminosi (!) che l’occhio magico offriva nel processo (manuale, naturalmente) di sintonizzazione, oppure al ritmo ossessivamente monotono (artisticamente non mi pare che ci siano grosse differenze rispetto alle ricordate nenie albanesi …) di un rap dei nostri giorni. Spero che questa volta qualcuno dia soddisfazione alla mia curiosità. Nel frattempo faccio, nei limiti della mia competenza specifica, qualche osservazione di natura testuale.

Le pagine 3-4 contengono alcuni elogi di illustri contemporanei (nativi tutti di Manduria eccetto il primo che era di Melfi e con qualche dubbio per il secondo) espressi in versi nei riguardi dell’autore. Li riproduco integralmente con in calce le mie note. A chi dovessero sembrare troppo altisonanti faccio presente che, per quanto riguarda la sostanza, a quei tempi era una moda irrinunciabile e che, per quanto riguarda la forma, non sono questi gli esempi più ampollosi, nonostante anche questo fenomeno fosse, sempre all’epoca, normalissimo.  E poi, pensando a tante recensioni, prefazioni e postfazioni recenti, sarà coerente infierire su certe abitudini del passato? Almeno nel XVII secolo si tentava di stupire con giochi di parole (non sempre riusciti, come vedremo …) ed ardite metafore; oggi lo si fa con parole roboanti, citazioni più o meno oscure e termini tanto ambigui che possono contemporaneamente significare un concetto e il suo esatto contrario, tutto e niente.

Del musicista di Manduria riproduco di seguito, a mo’ di assaggio, due testi, uno più convenzionale, l’altro un po’ più spinto (?).

Il lettore avrà notato i nomi di donna evocanti la mitologia e le ripetizioni quasi ossessive nella miscela di endecasillabi e settenari; sono dettagli che oggi assicurerebbero l’insuccesso a chi volesse conquistare una donna, fosse anche la più romantica del pianeta …

Probabilmente avrà pure pensato che componimenti simili sarebbe in grado di comporne mille in una sola ora. Anche io sarei capace, ma solo per la parte testuale che nel Serafico, fra l’altro, era costituita da versi di Petrarca, Sannazzaro ed altri (non per questo l’originalità del De Metrio rappresenta una nota di merito …).  Per quella musicale, che, dunque, in questo genere riveste un ruolo dominante rispetto alla testuale, rinvio il mio giudizio (beninteso, da uomo del mio tempo) a quando la mia trepida attesa di lumi sarà stata soddisfatta …

Per ora dico solo che un ipotetico festival del madrigale a cinque voci con la partecipazione allargata anche ad altri concorrenti non avrebbe previsto, come avviene (non sempre opportunamente …) oggi, l’attribuzione del premio per il miglior testo e che l’eventuale vittoria del De Metrio, anche se motivata con i versi in latino (quattro distici elegiaci, oggi cinque parole su quattro sarebbero inglesi …) del primo elogio, sarebbe stata accolta con una bordata di fischi. E non lo dico per campanilismo: lo stesso sarebbe successo se avesse vinto Benedetto Serafico, ma almeno gli spettatori si sarebbero risparmiato la motivazione, visto che la pubblicazione del neretino non contiene elogi di sorta ma solo un’umile e dimessa autopresentazione.

Copertino: se non ci aiuta San Giuseppe …

di Armando Polito

stampa tratta da Le cento città d’Italia, numero del 26 giugno 1892, Sonzogno. Milano
stampa tratta da Le cento città d’Italia, numero del 26 giugno 1892, Sonzogno. Milano
stampa tratta da Gustavo Strafforello, La patria, geografia dell’Italia, Unione tipografico-editrice, Torino, 1899, p. 216
stampa tratta da Gustavo Strafforello, La patria, geografia dell’Italia, Unione tipografico-editrice, Torino, 1899, p. 216
stampa tratta da Enciclopedia popolare illustrata a cura di Palmiro Premoli, Sonzogno, Milano, 1896-1899
stampa tratta da Enciclopedia popolare illustrata a cura di Palmiro Premoli, Sonzogno, Milano, 1896-1899

Il titolo non allude ad un improbabile scontro campanilistico tra macinnulari e nnardiati1, con l’auspicio da parte di questi ultimi dell’intervento pacificatore del santo dei voli; nemmeno presso gli antichi mi risulta che qualcuno, forse perché deluso dal proprio,  tentava di corrompere con preghiere e offerte il dio dei nemici …

Il problema è infinitamente meno grave, cioè di natura filologica, e riguarda l’etimo del nome della cittadina distante da Nardò non più di dieci km. Ecco a tal proposito cosa scriveva Girolamo Marciano (1571-1628) nell’opera postuma (Stamperia dell’Iride, Napoli, 1855)  Descrizione, origine e successi della Provincia d’Otranto, p. 476: “Fu detto Cupertino secondo alcuni da Cuperio suo primo edificatore, e secondo altri a Cooperio voce latina, ovvero da Aperio Apertino, e dopo per la figura protesi Copertino, o Coopertino dalla sua quasi chiusa ed aperta campagna, simile a quella del Poeta: Vix e conspectu exierat campumque tenebat,/cum pater Eneus saltus ingressus apertos. Altri dicono Convertino dal verbo Converto, ed altri Conventino da Convenio, per essere stati i popoli de’ suddetti casali dopo la loro distruzione conversi e convenuti ad abitare in questo luogo. Onde Servio sopra quei versi di Virgilio: Tunc manus Ausoniae et gentes venere Sicanae;/saepius et nomen posuit Saturnia tellus dice che tutti gli abitanti della terra o sono ivi geniti, o forastieri, o vennero da un solo luogo, ovvero da luoghi diversi, come si dice essere stati questi che da’ suddetti diversi casali convenuti edificarono questa terra, e la chiamarono Convertinio. Il che si pruova chiaramente dalle sue insegne, le quali sono un pino carico di frutta con queste lettere C. P. significando i frutti e la raccolta natura del pino, i cui frutti sono l’immagine della natura, l’unità e ferma conversione di quei diversi popoli congregati in uno dinotati con quelle due lettere, le quali dicono Conventio et Custodia populorum, che convenuti si doveano con naturale ordine custodire e conservare unitamente in un sol popolo a guisa del frutto del pino, il quale si unisce, e con naturale ordine conserva in un sol corpo i suoi molli semi, come ben disse il beato Ambrogio e nota Pierio nei suoi Geroglifici, così dicendo: Naturae immaginem esse pinum Divus Ambrosius dixit, quippe quae semina ab illo primo divino celestique privilegio accepta custodiat, partusque suos quadam veluti annorum vice et ordine referat, neque nisi vi coloris admota excludat. Atque eadem ipsa nux flammae speciem imitatur, lacinatis, in turbinem toris reticulato opere circumductis”.

Cerchiamo di dare dei connotati più precisi ad alcuni nomi, anche comuni, messi in campo dall’umanista di Leverano senza indicazione della fonte (per uno come me, che in questo campo non dà fiducia a nessuno, me stesso in primis, è dura …). 1) Cuperio,  secondo alcuni non meglio identificati sarebbe stato il fondatore di Copertino. Un Cuperius Hostilianus è attestato in un’epigrafe (CIL, XI, 3614) rinvenuta a Cerveteri: Vesbinus Aug(usti) l(ibertus) phetrium Augustalibus / municipi(i) Caeritum loco accepto a re p(ublica) / sua i<m=N>pensa omni exornatum donum dedit / descriptum et recognitum factum in pronao aedis Martis / ex commentario quem iussit proferri Cuperius Hostilianus per T(itum) Rustium Lysiponum / ……  Un Caius Cuperius compare col titolo di quinquennalis1 insieme con innumerevoli altri in un’epigrafe (CIL, XIX, 244) lunghissima (per questo non ne riporto il testo) rinvenuta ad Ostia antica. Un terzo Cuperius, infine, compare in un’iscrizione funeraria (AE, 1987, 388)  , riprodotta nella foto che segue, rinvenuta nei pressi di Saturnia (in provincia di Grosseto):  D(is) M(anibus) / Cuperiu[s] Cleme[ns(?)] / Cu[peri

immagine tratta da http://db.edcs.eu/epigr/bilder.php?bild=$ILSaturnia_00013.jpg
immagine tratta da http://db.edcs.eu/epigr/bilder.php?bild=$ILSaturnia_00013.jpg

Ora, se Copertino è di origine prediale, Cuperius avrebbe dovuto dare Cuperianus (ager)=territorio di Cuperio  e, quindi non Copertino ma Coperiano. Ignorando chi sono gli alcuni padri della proposta, non posso chiedere loro ragione della scomparsa di una  –i– e dell’aggiunta di una –t-; e poi, anche se conoscessi il loro nome, la mia domanda resterebbe inevasa, essendo defunti da una manciata di secoli , a meno che qualcuno non voglia organizzare una bella seduta spiritica … 2) a Cooperio: sicuramente errore di stampa per “da cooperio” (cooperio è la prima persona singolare del presente indicativo attivo del verbo cooperìre=coprire); per capire anche quello che vien subito dopo, qui debbo precisare che secondo altri (pure questi non identificati) Copertino deriverebbe da *coopertinus, forma aggettivale di coopertus, participio passato di cooperìre. 3)da Aperio Apertino”. Anche qui per il non addetto ai lavori va chiarito: aperio è la prima persona singolare del presente indicativo attivo di aperìre=aprire e Apertino sarebbe forma aggettivale da apertus, participio passato di aperìre; “e  dopo per la figura protesi Copertino, o Coopertino dalla sua quasi chiusa ed aperta campagna, simile a quella …”: a parte il fatto che con la protesi di c– da Apertino si ha Capertino e non Copertino, è inverosimile l’ammucchiata concettuale successiva in cui, ricordandosi di quanto detto al n. 2, si mette in campo contemporaneamente una chiusura ed un’apertura senza la minima copertura … alla quale maldestramente si cerca di ricorrere scomodando, addirittura, un poeta. 4) “Altri dicono Convertino dal verbo Converto, ed altri Conventino da Convenio; qui gli effetti della sbornia precedente sembrano svaniti perché, anche se le fonti non sono citate, almeno Convertino è la forma con cui il toponimo appare, come vedremo di seguito, nelle mappe più datate.   5) Convertinio: sicuramente errore di stampa per Convertino. 6) Conventio et Custodia populorum (unificazione e protezione di popoli). Così il Marciano scioglie le lettere C e P dello stemma, attribuendo, dunque, a C quasi una doppia valenza abbreviativa ed introducendo il concetto nuovo della protezione, semanticamente in linea con cooperìre; a questo punto, però, poteva farla completa e mettere in mezzo pure conversio (rivoluzione) …

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Copertino#mediaviewer/File:Copertino-Stemma.png
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Copertino#mediaviewer/File:Copertino-Stemma.png

Ecco ora le mappe promesse:  Il Regno di Napoli in una tavola di Pirro Ligorio (1513-1583) inserita nel Theatrum orbis terrarum di Abraham Ortelius pubblicato ad Anversa da Gilles Coppens de Diest nel 1570:

Puglia piana terra di Bari, terra di Otranto, Calabria et Basilicata, 1589, di Gerardo Mercatore: A

puliae, quae olim Iapygia, nova corographia, 1595, di Giacomo Gastaldi: Da notare come in quest’ultima mappa in Convertino è saltata la –v– e come il toponimo latino Neritum (Nardò) risulta tradotto nello strano Naroi. Siccome il Marciano mostra che già al suo tempo il toponimo era Copertino Cupertino2, sorge  il sospetto che il Convertino delle mappe, più o meno coeve, sia stato indotto proprio dalla maggiore considerazione riservata  all’ultima delle elucubrazioni etimologiche già viste.

Insomma, per tornare al titolo: sull’etimo sarebbe opportuno un illuminante intervento del santo; ma dovrebbe essere diretto, concreto, pubblico, inequivocabilmente autentico, per evitare che qualche cialtrone, magari, sfrutti a modo suo qualche sogno dovuto ad una cena troppo abbondante, credendo di poter volare, sia pure metaforicamente, anche lui. Forse sto chiedendo troppo, anche ad un santo, per giunta protettore degli studenti?

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1 Macinnulàri è da macènnula=arcolaio (da un latino *machìnula, diminutivo del classico màchina, che è, a sua volta, dal greco dorico μαχανά (leggi machanà), in attico μηχανή (leggi mechanè), da cui  son derivati Meccano (il nome commerciale del gioco in passato più diffuso prima che Lego e successivamente le diavolerie elettroniche ne prendessero il posto), meccanica, meccanico, meccanismo e meccanizzare;  la voce primitiva è μῆχος (leggi mechos)=mezzo, espediente. Se il nomignolo si riferisse all’arte della filatura, di regola riservata alle donne, sarebbe sinonimo di effeminati. Le cose, però, stanno diversamente. Si racconta che un contadino per sapere da che punto esatto spirasse il vento collocò una macennula sul campanile di una chiesa e, siccome essa girava un po’ da una parte e un po’ in senso contrario, concluse che in quel giorno il vento spirava da tutte le direzioni. Siccome, poi, le disgrazie non vengono mai sole gli abitanti di Copertino hanno anche il nomignolo di Mangiaciùcci, ricordo del fatto che in occasione della festa patronale il piatto speciale era la carne ti ciùcciu a ppignàtu (carne di ciuco cotta nella pignatta). ‘Nnardiàti è di formazione piuttosto recente; Nardò, infatti, è uno dei pochi centri del Salento i cui abitanti non hanno un nomignolo tradizionale. Debbo fare i miei complimenti a chi ha inventato questo participio passato da un inusitato *innardiàre (da in+*nardiàre) in cui, poi, l’aferesi di i- ha finito per sottolineare anche foneticamente la valenza dispregiativa. Il lettore avrà capito che nutro una particolare simpatia per questi nomignoli e, quindi, non mi piace il fatto che i neretini non abbiano un nomignolo tutto loro, più caratterizzante di quello di cui ho già detto. Mi conforto pensando che, pur risiedendo da sempre a Nardò, sono nato a Manduria, i cui abitanti possono esibire la bellezza di tre nomignoli: mangiacàni, ccitipidùcchie (uccidipidocchi) e sonacampani (campanari). Se i primi due contengono un’allusione a condizioni di vita non certo ottimali, il terzo potrebbe far riferimento al numero notevole di chiese della città ma, più probabilmente, contenere una punta d’invidia nei confronti di una popolazione che più volte nella storia seppe resistere, reagire nella sconfitta, ricostruire.

2 Quinquennalis era un magistrato che nelle colonie e nei municipi ricopriva una carica quinquennale con funzioni analoghe a quelle dei censori in Roma. 3 In numerosissimi atti del XVI secolo ricorre, in riferimento al luogo di origine di persone nominate, de Cupertino che suppone un latino Cupertinum, da cui l’italiano Cupertino, forma utilizzata dal cartografo dell’esploratore spagnolo Juan Bautista de Anza (1736-1788) per dare, in onore al santo di origini salentine, il nome San José de Cupertino (oggi Stevens Creek) ad un ruscello e nel XX secolo il solo Cupertino divenne il nome della città californiana cuore della Silicon Valley. Insomma, un po’ di benemerenze informatiche, anche se non richieste, ce l’ha pure il santo copertinese, ma sarebbe veramente azzardato mescolare il sacro col profano sostenendo che con Copertino abbia a che fare Coppertone, il noto marchio di abbronzanti. I meno giovani tra i lettori ricorderanno senz’altro la simpaticissima immagine pubblicitaria che segue: A stroncare sul nascere l’azzardo di indebita mescolanza prima nominato va detto che in Coppertone il primo componente è copper=rame e il secondo tone=tonalità. W l’America, dunque? Ma neppure per scherzo! Copper è dal latino cuprum=rame rosso [dal greco Κύπρος (leggi Chiùpros)=Cipro (il rame abbonda nell’isola)] e tone dal latino tonos=tono, a sua volta dal greco τόνος (leggi tonos) con lo stesso significato. E in Cera di Cupra, la crema per il viso creata dal mitico dottor Ciccarelli insieme con il dentifricio Pasta del capitano, Cupra potrebbe avere la stessa origine ma far riferimento a Venere che, secondo Esiodo, dal mare di Cipro sarebbe nata.  È chiaro ora perché mi vien da ridere il doppio quando sento qualche nostro esponente politico esprimersi isolatamente o in forma distesa (direi un po’ troppo …) in inglese (?)?

Manduria e Cheronea, un gemellaggio imperfetto …

di Armando Polito

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Manduria-Mura_messapiche_08.JPG
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Manduria-Mura_messapiche_08.JPG

 

Ecco la definizione che di gemellaggio dà il Vocabolario De Mauro: legame simbolico stabilito tra due città di nazioni diverse, atto a stabilire o sviluppare più strette relazioni economiche, politiche e culturali; la cerimonia che lo sancisce.

Condivido pienamente, anche se con amarezza, il primo posto assegnato, tra tutte le relazioni, a quelle economiche. Nell’era della concretezza e del profitto sarebbe da idioti negare una realtà che più di fatto non può essere. Un’amarezza ancor più grande mi assale, però, quando sono costretto ancora una volta a notare che, per un malinteso senso del prestigio e della nobiltà culturale, si mistifica la storia ricorrendo a presunte coincidenze temporali che non stanno né in cielo né in terra. E poco conta la paternità della mistificazione perché chiunque utilizzi qualsiasi informazione ha l’obbligo, prima di spacciarla come sua, di controllare la validità della fonte o, se non è in grado, di non fare ulteriori danni contribuendo, per quanto in buona fede, alla propalazione di una stupidaggine. È il caso, questa volta, di quanto affermato in http://www.parcoarcheologico-manduria.it/cennistorici/cennistorici.php,  dove leggo: E Diodoro Siculo (Biblioteca Storica, libro XVI, cap.62) narra che si avverò una circostanza singolarissima, perché nello stesso giorno e nella stessa ora in cui si combatté a Cheronea (3 agosto 338 a.C), un’altra battaglia avvenne in Italia, fra i Tarantini e i Lucani, battaglia nella quale morì Archidamo, re di Sparta, che si era recato a portare aiuto ai Tarantini.

Chiedo scusa al lettore se ora mi attarderò a riportare in ordine cronologico tutte le fonti a me note su Archidamo. Per rendere più snello il lavoro procederò direttamente con la mia traduzione ma in nota brano per brano riporterò il testo originale e l’edizione da cui l’ho tratto, in modo da mettere a suo agio chiunque volesse operare un controllo e dire la sua.

Teopompo (IV secolo a. C.): Nel 52° libro [Teopompo] dice che lo spartano Archidamo dopo essersi allontanato dal modo di vivere patrio assunse abitudini straniere ed effeminate; per questo non era capace di vivere in patria ma si dava da fare sempre a soddisfare all’estero la sua dissolutezza. Ed avendo i Tarantini mandato ambasciatori per un’alleanza si affrettò ad andare da loro come soccorritore e stando lì e ucciso in guerra non fu degnato neppure di sepoltura anche se i Tarantini avevano promesso ai nemici grandi ricchezza per la restituzione del suo corpo.1

Diodoro Siculo (I secolo a. C.): Intorno a questi tempi, mentre i Tarantini combattevano contro i Lucani e avevano inviato agli Spartani che erano loro antenati ambasciatori per chiedere aiuto, gli Spartiati, che in virtù della comune origine erano ben disposti ad allearsi con loro, subito raccolsero una grande forza terrestre e navale e nominarono comandante di questa il re Archidamo; mente erano sul punto di salpare per l’Italia, gli abitanti di Licto ritennero opportuno che prima fossero aiutati da loro; gli Spartani convinti e dopo aver navigato verso Creta vinsero i mercenarie salvarono la patria agli abitanti di Licto. Dopo di ciò Archidamo avendo navigato verso l’Italia ed avendo lottato a fianco dei Tarantini morì eroicamente in un combattimento, uomo lodato per l’abilità di comandante e per altri aspetti della sua vita, criticato solo per la sua alleanza con i Focesi soprattutto per essere stato causa della caduta di Delfi. Archidamo regnò sugli Spartani 23 anni, il figlio Agide dopo aver assunto il potere ne regnò 15. Inoltre i mercenari di Archidamo furono uccisi dai Lucani poiché avevano preso parte al saccheggio dell’oracolo.2

Da notare, prima di passare al secondo brano, il ribaltamento completo dell’impietoso giudizio morale espresso quattro secoli prima da Teopompo.

Avvenne che ci fosse qualcosa di particolare nel corso di questi tempi. Durante il tempo in cui ci fu la battaglia di Cheronea un altro scontro ci fu in Italia nello stesso giorno e stagione, mentre i Tarantini combattevano contro i Lucani  ed era alleato dei Tarantini Archidamo re di Sparta, quando avvenne pure che lo stesso Archidamo fosse ucciso. Questi dunque fu re degli Spartani per 23 anni e il figlio Augide, dopo aver assunto il regno, per nove.3

Pompeo Trogo (I secolo a. C-I secolo d. C.): Nel dodicesimo libro sono contenute le guerre battriane e indiane di Alessandro Magno fino alla sua morte con l’aggiunta delle gesta condotte in Grecia del suo prefetto Antipatro e da Archidamo, re degli Spartani e da Alessandro il Molosso in Italia, dove furono annientati entrambi insieme con il loro esercito.4

Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.): Furono straordinariamente potenti un tempo i Tarantini democraticamente governati; e infatti avevano la più grande forza navale tra quelle del tempo e scchieravano trentamila fanti, tremila cavalieri e mille capitani di cavalleria. Accolsero la filosofia pitagorica, soprattutto Archita che resse la città per molto tempo. Poi prevalse la mollezza a causa del benessere sicché ogni anno da loro si celebravalo le feste pubbliche più numerose degli (altri giorni); per questo vennero pure governati peggio. Un segno della spregevole condotta politica fu il servirsi di comandanti stranieri; e infatti contro i Messapi e i Lucani inviarono Alessandro il Molosso e ancora prima Archidamo figlio di Agesilao e successivamente Cleonino e Agatocle, poi Pirro quando si allearono contro i Romani.5

Plutarco (I-II secolo d. C.): Era figlio di Agesilao Archidamo, che morì per mano dei Messapi nei pressi di Manduria d’Italia.6

Al contrario Metagitnione, che i Beoti chiamano Pànemo, non fu benigno per i Greci. Infatti nel settimo giorno di questo mese sconfitti in battaglia a Cranone furono annientati completamente da Antipatro e prima combattendo  a Cheronea contro Filippo non ebbero miglior fortuna. In questo stesso giorno a Metagitnione nel corso dello stesso anno quelli che con Archidamo erano passati in Italia furono annientati dai barbari che vi abitavano.7                                                                                                                                                         

Metagitnione  era il secondo mese del calendario attico. Più avanti riprenderò, sviluppandola, questa scarna informazione.

Pausania (II secolo d. C.): [Archidamo] in seguito passò pure in Italia per portare insieme con i Tarantini la guerra contro i barbari loro confinanti; e morì lì per mano dei barbari e che il morto restasse privo di sepoltura fu la conseguenza del risentimento nutrito da Apollo.8

Riporto ora, in formato immagine per fare più presto, la traduzione del secondo brano di Diodoro Siculo presente in Biblioteca storica di Diodoro Siculo volgarizzata dal Cav. Compagnoni, Sonzogno, Milano, tomo V, pag. 261.

Per comodità del lettore riproduco ora, affiancati, il testo originale, la mia traduzione, quella del cav. Compagnoni e il testo che si legge al link segnalato all’inizio.

Ho sottolineato ed evidenziato con colori diversi le parole-chiave, che ora passerò ad analizzare singolarmente, per dimostrare, oltretutto, quanto sia importante la loro analisi isolata prima ancora di passare a quella contestuale:

ἴδιον è un aggettivo, qui attributo di τι, di grado positivo e non superlativo, per cui la traduzione singolarissima appare infedele.

καιρὸν può significare misura giusta, opportunità, occasione, tempo fissato, circostanza, periodo di tempo. Da notare come quello da me reso con periodo di tempo è stato saltato nelle altre traduzioni.

ὤρᾳ è dativo di ὤρα che ha il significato generico di stagione. Le stagioni all’origine erano tre (ἔαρ=primavera, θέρος=estate, χειμὠν=inverno; poi quattro con l’aggiunta dell’autunno e poi sette (con l’aggiunta di tre stagioni intermedie). Fra poco, probabilmente, saremo costretti al processo inverso e ridurremo ufficialmente le stagioni a due: estate e inverno. Ritorno intanto al passato ricordando che i Greci avevano divinizzato le tre stagioni in quelle figure mitiche, chiamate appunto Ore, figlie di Zeus e Temi e sorelle, non a caso, delle Moire.  Le  Ὧραι erano Εὐνομία=Legalità, Δίκη=Giustizia, Εἰρήνη=Pace e, se i Greci le avevano divinizzate, non mi si venga a dire che noi non teniamo in alcun conto i valori da esse rappresentati …

La nostra voce assumerà il significato di ora come oggi lo intendiamo (ma il ricordo di quello vecchio è rimasto in espressioni del tipo è ora di cambiare ma anche nel greco moderno ώρα) solo successivamente e negli autori greci è presente a partire dal I secolo d. C., con la voce accompagnata da un aggettivo numerale ordinale.

Ne consegue che sarebbe stato molto strano che Diodoro Siculo avesse anticipato di un secolo tale uso, per cui l’ora del cav. Compagnoni non è proponibile, anche se l’autore dell’ultimo testo mostra di averla accolta enfatizzandola col superlativo singolarissima. Giacché ci sono:  la data del 3 agosto, aggiunta in parentesi tonde insieme con l’anno, e che in rete viene disinvoltamente palleggiata (insieme con quella del 2 dello stesso mese),  ha la sua paternità in Manuale di scienze ed arti ossia repertorio metodico di storia universale, usi e costumi, mitologia, archeologia, numismatica, blasone, geografia, storia naturale, fisica, geometria, chimica, geometria, delle arti etc. etc. adatto alla comune intelligenza. Per cura di una società, volume unico, A spese di una società editrice, Firenze, 1846, p. 349. Chiedo scusa al lettore ma sono stato costretto a riportare gli estremi bibliografici che, secondo me, da soli la dicono lunga sull’attendibilità dei dati contenuti nel volume. La cosa più esilarante, però, è che tale data verrà ripresa da: F. C. Marmocchi in Corso di geografia storica antica, del medio-evo e moderna, Società Editrice Italiana, Torino, 1856, v. I, parte II, p. 738; daTommaso Sanesi (in Storia dell’antica Grecia, Le Monnier, Firenze, 1859, p. 450); da Cesare Cantù (Storia della letteratura greca, Le Monnier, Firenze, 1863, p. 310); superfluo dire che tutti gli autori appena nominati si guardano bene dal citare al riguardo qualsiasi fonte, come era già avvenuto nel precedente manuale tuttofare …

In realtà l’unica fonte è costituita dal secondo brano di Plutraco già citato: Al contrario Metagitnione, che i Beoti chiamano Pànemo, non fu benigno per i Greci. Infatti nel settimo giorno di questo mese sconfitti in battaglia a Cranone furono annientati completamente da Antipatro e prima combattendo  a Cheronea contro Filippo non ebbero miglior fortuna. In questo stesso giorno a Metagitnione nel corso dello stesso anno quelli che con Archidamo erano passati in Italia furono annientati dai barbari che vi abitavano.

Avendo già anticipato che Metatgitnione era il nome del secondo mese del calendario attico, debbo ora aggiungere che la struttura di quest’ultimo non è affatto chiara. perché secondo alcuni certi mesi erano legati alla  luna, certi altri al sole.   Le conclusioni non concordi tratte dagli eruditi rinascimentali sono riportate da Edoardo Corsini nella seconda dissertazione (pp. 53-111) di Fasti Attici, Giovannelli, Firenze, 1744 (per chi volesse rendersi conto personalmente di quanto sia difficoltosa la soluzione:  http://books.google.it/books?id=bJ5BAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=corsini+fasti+attici&hl=it&sa=X&ei=prd5U5eQHs6k0AW44IDADg&ved=0CEIQ6AEwAQ#v=onepage&q=corsini%20fasti%20attici&f=false).

Qui basterà dire che risale a quegli studi l’opinione più diffusa, la quale vuole che in raffronto al nostro calendario, Metagitnione vada pressappoco dalla metà di luglio alla metà di agosto. Nell’Enciclopedia Treccani on line leggo che questo mese va dalla seconda metà d’agosto alla prima metà di settembre. A questo punto, sfruttando le indicazioni di Plutarco, il settimo giorno di Metagitnione dovrebbe corrisponderebbe nel primo caso,  più o meno, al 22 luglio, nel secondo, più o meno, al 22 agosto. Non capisco, perciò, come sia venuta fuori la data del 3 o 2 agosto.

Inoltre, per quanto s’è detto dell’evoluzione storica del significato di ὤρα, la presenza nel secondo brano di Diodoro Siculo di αὐτῇ (=stessa) non può essere considerata sostitutiva di un aggettivo numerale ordinale e, quindi, sottintendere il riferimento da parte di Diodoro Siculo ad una fonte a lui precedente o contemporanea (oltretutto nella parte iniziale del capitolo, che costituisce la fonte più estesa che abbiamo sulla battaglia di Cheronea, Diodoro non fornisce alcun dato cronologico) in cui l’ordinale compariva.

E poi: già il fatto che due avvenimenti importanti avvenissero nel corso dello stesso giorno della stessa stagione dello stesso anno non costituiva di per sé qualcosa di particolare?

Il rischio è che prima o poi la notizia dell’ora (magari con un’indicazione meno vaga di stessa e con l’aggiunta pure dei secondi …)   si intrufoli, quando già quella del giorno e del mese sembra quanto meno discutibile, in qualche appendice di qualche moderno manuale di storia dal titolo: mentre a Cheronea succedevano queste cose a Manduria …, ridicolizzando, così la visione sincronica della storia che di per sé  è ineccepibile.

Intanto beccatevi questo gemellaggio: sono nato, a Manduria,  il 17 marzo 1945, anche se anagraficamente risulto nato il 18; e il 18/3/1945 risulta nato Bobby Solo. Comunicazione di servizio per i più giovani: Bobby Solo non è il soprannome di un cane abbandonato ma il nome d’arte di uno dei cantanti di maggior successo dei mitici anni ’60 …

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1 Si tratta di un frammento tramandatoci da Ateneo di Naucrati (II secolo d. C.) ne I deipnosofisti (XII, 51): Ἐν δὲ τῇ νβ᾽ φησὶν ὡς Ἀρχίδαμος ὁ Λάκων ἀποστὰς τῆς πατρίου διαίτης συνηθίσθη ξενικῶς καὶ μαλακῶς· διόπερ οὐκ ἠδύνατο τὸν οἴκοι βίον ὑπομένειν, ἀλλ᾽ ἐσπούδαζεν αἰεὶ δι᾽ἀκρασίαν ἔξω διατρίβειν. Καὶ Ταραντίνων πρεσβευσαμένων περὶ συμμαχίας ἔσπευσε συνεξελθεῖν αὐτοῖς βοηθός κἀκεῖ γενόμενος καὶ ἐν τῷ πολέμῳ ἀποθανὼν οὐδὲ ταφῆς κατηξιώθη, καίτοι Ταραντίνων πολλὰ χρήματα ὑποσχομένων τοῖς πολεμίοις ὑπὲρ τοῦ ἀνελέσθαι αὐτοῦ τὸ σῶμα. (da Athenaeus, The Deipnosophists,  Cambridge, MA. Harvard University Press. London. William Heinemann Ltd. 1927, p. 423)

2 Bibliotheca historica, XVI, 62-63: Περὶ γὰρ τοὺς αὐτοὺς χρόνους Ταραντίνων διαπολεμούντων πρὸς Λευκανοὺς, καὶ πρὸς Λακεδαιμονίους, ὄντας προγὁνους ἑαυτῶν, πεμψάντων πρέσβεις περὶ βοηθείας, οἱ μὲν Σπαρτιάται διὰ τὴν συγγένειαν προθύμως ἔχοντες συμμαχῆσαι, ταχέως δύναμιν ἤθροιζον πεζικἡν τε καὶ ναυτικὴν, καὶ ταύτης στρατηγὸν ἀπἑδειξαν Ἀρχίδαμον τὸν βασιλέα· μελλόντων δ’ἀπαίρειν εἰς τὴν Ἰταλίαν, ἠξίωσαν οἱ Λύκτοι πρῶτον αὐτοῖς βοηθῆσαι· οἱ δὲ Λακεδαιμονίοι πεισθέντες, καὶ πλεύσαντες εἰς τὴν Κρήτην, τοὺς μισθοφόρους ἐνἰκησαν, τοῖς δὲ Λυκτίοις ἀνέσωσαν τὴν πατρίδα. Μετὰ δὲ ταῦτα ὁ μὲν Ἀρχίδαμος πλεύσας εἰς τὴν Ἰταλίαν, καὶ συμμαχήσας τοῖς Ταραντίνοις, ἔν τινι μάχῃ διαγωνισάμενος λαμπρῶς ἐτελεύτησεν, ἀνὴρ κατὰ μὲν τὴν στρατηγίαν καὶ τὸν ἄλλον βἱον ἐπαινούμενος, κατὰ δὲ τὴν πρὸς Φωκεῖς συμμαχίαν μόνην βλασφημούμενος, ὡς μάλιστα αἴτιος γεγονὼς τῆς τῶν Δελφῶν καταλήψεως. Ἀρχίδαμος μὲν οὖν ἐβαυσίλησε τῶν Λακεδαιμονίων ἔτη τρία πρὸς τοῖς εἳκοσι· τὴν δ’ἀρχὴν διαδεξάμενος Ἂγις ὁ υἱὸς ἐβαυσἱλησεν ἔτη πεντεκαίδεκα. Ἔπειτα οἱ μὲν Ἀρχιδάμου μισθόφοροι, μετεσχήκοτες τῆς  τοῦ μαντείου συλήσεως, ὑπὸ τῶν Λευκανῶν κατηκοντίσθησαν. (da Bibliothecae historicae quae supersunt, a cura di O. Holtze, Metzger & Wittig, Lipsia, 1872, tomo III, p. 228)

3 Op. cit., XVI, 88: Ἴδιον δέ τι συνέβη γενέσθαι κατὰ τοὺς ὑποκειμένους χρόνους. Καθ’ὅν γὰρ καιρὸν ἠ περὶ τὴν Χαιρώνειαν ἐγένετο μάχη, ἑτέρα παράταξις συνέστη κατὰ τὴν Ἰταλίαν τῇ αὐτῇ ἡμέρᾳ καὶ ὤρᾳ, διαπολεμούντων μὲν Ταραντίνων πρὸς Λευκανούς, συναγονιζομένου δὲ τοῖς Ταραντίνοις Ἀρχιδάμου τοῦ Λακεδαιμονίων βασιλέως, ὅτε συνέβη καὶ αὐτὸν ἀναιρεθῆναι τὸν Ἀρχίδαμον. Οὗτος μὲν οὖν ἦρξε τῶν Λακεδαιμονίων ἔτη τρία καὶ εἳκοσι, τὴν δὲ βασιλείαν διαδεξάμενος ὁ υἰὸς Ἂγις ἦρξεν ἕτη ἐννέα. (da Bibliothecae historicae …, op. cit., p. 262) 

4 Historiae Phiippicae, Prologi, XII (dell’opera ci restano il compendio e i sommari dei vari libri (prologi) fatti da Marco Giuniano Giustino nel II-III secolo d. C.): Duodecimo volumine continentur Alexandri Magni bella Bactriana et Indica usque ad interitum eius, dictaeque in excessu res a praefecto eius Antipatro in Graecia gestae, et ab Archidamo, rege Lacedaemoniorum, Molossoque Alexandro in Italia, quorum ibi est uterque cum exercitu deletus. (dall’edizione a cura di I. Ieep, Teubner, Lipsia, 1859, p. 224)

5 Geographia, VI, 3, 4: Ἴσχυσαν δέ ποτε οἱ Ταραντῖνοι καθ᾽ ὑπερβολὴν πολιτευόμενοι δημοκρατικῶς· καὶ γὰρ ναυτικὸν ἐκέκτηντο μέγιστον τῶν ταύτῃ καὶ πεζοὺς ἔστελλον τρισμυρίους, ἱππέας δὲ τρισχιλίους, ἱππάρχους δὲ χιλίους. Ἀπεδέξαντο δὲ καὶ τὴν Πυθαγόρειον φιλοσοφίαν, διαφερόντως δ᾽ Ἀρχύτας, ὃς καὶ προέστη τῆς πόλεως πολὺν χρόνον. Ἐξίσχυσε δ᾽ ἡ ὕστερον τρυφὴ διὰ τὴν εὐδαιμονίαν, ὥστε τὰς πανδήμους ἑορτὰς πλείους ἄγεσθαι κατ᾽ ἔτος παρ᾽ αὐτοῖς ἢ τὰς ἡμέρας· ἐκ δὲ τούτου καὶ χεῖρον ἐπολιτεύοντο. Ἓν δὲ τῶν φαύλων πολιτευμάτων τεκμήριόν ἐστι τὸ ξενικοῖς στρατηγοῖς χρῆσθαι· καὶ γὰρ τὸν Μολοττὸν Ἀλέξανδρον μετεπέμψαντο ἐπὶ Μεσσαπίους καὶ Λευκανούς, καὶ ἔτι πρότερον Ἀρχίδαμον τὸν Ἀγησιλάου καὶ ὕστερον Κλεώνυμον καὶ Ἀγαθοκλέα, εἶτα Πύρρον, ἡνίκα συνέστησαν πρὸς Ῥωμαίους. (dall’edizione a cura di A. Meineke, , Teubner, Leipzig, 1877, v. I, p. 385).

6 Vite parallele. Vita di Agide e Cleomene, III, 2: Ἦν  γὰρ Ἀγεσιλάου μὲν Ἀρχίδαμος ὁ περὶ Μανδόνιον τῆς Ἰταλίας ὑπὸ Μεσσαπίων ἀποθανὡν. (dall’edizione a cura di T. Doehener, Didot, Parigi, 1862, v. II, pag. 949)

7 Vite parallele. Vita di Camillo, XIX, 5: Ἀνάπαλιν δ᾽ ὁ Μεταγειτνιών, ὃν Βοιωτοὶ Πάνεμον καλοῦσιν, τοῖς Ἕλλησιν οὐκ εὐμενὴς γέγονε. Τούτου γὰρ τοῦ μηνὸς ἑβδόμῃ καὶ τήν ἐν Κρανῶνι μάχην ἡττηθέντες ὑπ᾽ Ἀντιπάτρου τελέως ἀπώλοντο, καὶ πρότερον ἐν Χαιρωνείᾳ μαχόμενοι πρὸς Φίλιππον ἠτύχησαν. Τῆς δ᾽ αὐτῆς ἡμέρας ταύτης ἐν τῷ Μεταγειτνιῶνι κατὰ τὸν αὐτὸν ἐνιαυτὸν οἱ μετ᾽ Ἀρχιδάμου διαβάντες εἰς Ἰταλίαν ὑπὸ τῶν ἐκεῖ βαρβάρων διεφθάρησαν. (dall’edizione a cura di C. Sintenis, Teubner, Lipsia, 1852, p. 271).   

8 Graeciae descriptio, III, 10, 5: Διέβη δὲ καὶ ἐς Ἰταλίαν ὕστερον Ταραντίνοις βαρβάρων πόλεμον συνδιοίσων σφίσιν ὁμόρων· καὶ ἀπέθανέ τε αὐτόθι ὑπὸ τῶν βαρβάρων καὶ αὐτοῦ τὸν νεκρὸν ἁμαρτεῖν τάφου τὸ μήνιμα ἐγένετο ἐμποδὼν τὸ ἐκ τοῦ Ἀπόλλωνος. (dall’edizione a cura di G. Siebelis, Reimer, Lipsia, 1823, v. II, p. 50)

Il restauro del campanile di Manduria additato come modello pure in Francia

di Armando Polito

immagine tratta ed adattata da Google Maps
immagine tratta ed adattata da Google Maps

Nel 1932 appariva sul periodico francese Mouseion (anno VI, v. XX, n. 4) a firma di Gino Chierici1 l’articolo Particularités dans la restauration de quelques monuments napolitains. Da esso (integralmente leggibile in http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k61590011/f112.image.r=manduria.langEN) è tratto il brano (pagg. 88-89) che ho riprodotto di seguito corredandolo della mia traduzione. 

Il restauro era stato operato nel 1928. L’intervento, a quanto pare, fu risolutivo e sarebbe interessante controllare il suo stato a poco meno di un secolo di distanza. Non mi meraviglierei di un verdetto felice, come non mi meraviglio di certi interventi di oggi, magari costosissimi ed ipertecnologici, i cui effetti benefici, esaltati dai media, durano solo qualche lustro, per colpe che si chiamano incompetenza e/o disonestà ma per i cui responsabili rimane, per lo più, l’anonimato …

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1 (1877-1961). Archeologo, Sovrintendente ai Monumenti della Campania, direttore di parecchi pregevolissimi restauri in cui il metodo filologico non fu mai fine a se stesso ma al servizio dell’interpretazione estetica, anticipando i principi del restauro critico. Innumerevoli le sue pubblicazioni. Per citarne, diluite nel tempo, solo tre: Le chiese angioine di Napoli, Tipografia Ospedale Psichiatrico L. Bianchi, Napoli, 1933; Leonardo architetto, Colombo, Roma, 1939; Il palazzo italiano dal secolo XI al secolo XIX, Vallardi, Milano, 1954.

 

 

MANDURIA RESTITUTA o RESTITUITA? Il mistero s’infittisce o, al contrario, forse si dirada

di Armando Polito

immagini tratte ed adattate da Google Maps
immagini tratte ed adattate da Google Maps

In riferimento al recentissimo post di Nicola Morrone Porta S. Angelo a Manduria: il mistero di un’iscrizione (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/19/porta-santangelo-a-manduria-il-mistero-di-uniscrizione/), non avendo potendo condensare le mie note nello spazio riservato ai commenti (che, fra l’altro, per motivi tecnici, non possono essere corredati di immagini) col rischio che esse sfuggissero magari proprio al diretto interessato, osservo qui quanto segue.

A meno che i restauri passati e recenti non siano stati barbaramente sovvertitori, è evidente che posto per un’altra I  non poteva esserci, tenendo conto anche della spaziatura notevole che, nonostante la loro fisiologica “magrezza”, accompagna le altre due lettere simili. La conferma potrebbe venire da una foto anteriore al restauro. Tuttavia credo che risolutivo sia quanto si legge in  Il Mercurio Olivetano, overo la Guida per le strade dell’Italia, per le quali sogliono passare i Monaci Olivetani. Dando contezza delle distanze d’un luogo dall’altro, et accennando alcune cose più notabili delle Città, Castella, Ville, de’ Fiumi, e d’altri luoghi che si trovano. Inviato da D. Secondo Lancellotti  da Perugia Abbate Olivetano, Accademico Insensato et Affidato, Angelo Bartoli Stampatore Episcopale, Perugia, 16281.

pag. 58 (dettaglio)

 

In base a questa testimonianza il 1628 costituisce il terminus ante quem, cioè la costruzione della porta e l’ iscrizione sono entrambe certamente anteriori al 1628, il che spiegherebbe, fra l’altro, gli agganci permanenti con lo stile rinascimentale, ridimensionando, se non annullando, il giudizio di mancato aggiornamento stilistico ai canoni barocchi, anche se l’indeterminatezza di non hà gran tempo (=non molto tempo fa) non consente di fare con sufficiente certezza (uno, due, cinque anni, un decennio?) ulteriori operazioni sottrattive rispetto al 1628. Cade pure l’allusione all’evento del 1789 e RESTITUTA potrebbe significare, molto più semplicemente, ricostruita (insomma, un riferimento alla Manduria moderna), come se l’arco fosse il tappo e l’epigrafe l’etichetta di un ideale contenitore parzialmente riconoscibile in quel che restava delle antiche mura (Porta grande … fatta per ornamento) . Il fatto, poi, che l’arco avesse una funzione celebrativa degli antichi fasti (col ricordo del primitivo nome, mentre quello in uso all’epoca era Casalnuovo) lo si deduce inequivocabilmente dall’iniziale  Da qui a Casal nuovo Terra. La presenza delle statue, poi, coeve o meno all’arco, avrebbe contemperato l’istanza civile e quella religiosa, anche se nel tempo l’aspetto devozionale potrebbe aver preso il sopravvento mettendo in campo la storia del fulmini.

Non è finita: sulla parte media della faccia interna dei piedritti ci sono, perfettamente contrapposte, due altre epigrafi. Potendo disporre solo delle immagini sottostanti che ho tratto da Google Maps e che non offrono, specialmente per la prima che già di suo manifesta tutti gli acciacchi dell’età, un’adeguata definizione, posso solo far notare come la seconda potrebbe aver propiziato una ricostruzione non fedele del significato di quel RESTITUTA e fatto datare  l’iscrizione come posteriore (e non di poco …) all’arco.

 

 

Rimarrebbe da fare un ulteriore controllo sul titolo del testo del Tarentini perché nelle schede dell’OPAC si legge: Leonardo Tarentini, Cenni storici di Manduria Antica Casalnuovo Manduria restituita, Tanfani-Latronico, Taranto, 1901 (ristampe: Tipografia La veloce, Cosenza, 1931; Marzo, Manduria, 1984 e, col titolo Cenni storici di Manduria, Alesa, Bologna, s. d.); quando, però, questo testo viene citato da altri studiosi nel titolo compare ora restituita, ora restituta. Credo che la prima forma sia quella adottata, perché sarebbe strano che nel titolo restituta fosse l’unica parola latina; ma,  per quanto ho detto, la sua traduzione con restituita (e non ricostruita, secondo il significato esclusivo che, oltretutto, il verbo latino restituere assume nelle iscrizioni) è stata probabilmente indotta dall’epigrafe del 1895 con il suo ricordo dell’evento del 1789.

Ecco l’elenco delle biblioteche più vicine nelle quali il testo è reperibile, nella speranza che quella stessa rete che ha reso possibile il mio quasi istantaneo contatto con la testimonianza secentesca riportata, favorisca anche l’incontro, complice sempre la rete, tra uomo e uomo, grazie alla buona volontà di qualche gentile lettore che si renda disponibile a tale controllo:

(1901)

Biblioteca arcivescovile Giuseppe Capecelatro – Taranto – TA

(1931)

Biblioteca comunale Isidoro Chirulli – Martina Franca – TA

Biblioteca S. Francesco – Sava – TA

Biblioteca arcivescovile Giuseppe Capecelatro – Taranto – TA

(1984)

Biblioteca comunale Marco Gatti – Manduria – TA

Il testo del Palumbo citato dall’autore del post cui si riferisce questo mio  è disponibile presso la Biblioteca Carlo Gatti di Manduria. M‘intrigherebbe l’idea di una foto della citata  pag. 71 …

Se, poi, si potesse avere pure una foto in alta definizione dell’iscrizione che ho definito malridotta (son riuscito a leggere solo MANDURIA alla fine della prima linea e TARANTO alla fine della quarta) la mia gratitudine sarebbe completa;  e ancora più completa se potessi decifrarla integralmente, perché sono convinto che potrebbe contenere qualche elemento utile a dissipare definitivamente quelle tenebre addensatesi nel tempo e che il nostro monaco2, probabilmente più per metodo di lavoro che per un caso fortuito, ha, secondo me, abbondantemente diradato non dimenticandosi, quel giorno, di volgersi adietro e di leggere l’epigrafe esattamente come la leggiamo noi oggi.

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1 Il volume, da cui ho tratto le foto, è consultabile e scaricabile all’indirizzo http://books.google.it/books?id=CklYAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=IL+MERCURIO+OLIVETANO&hl=it&sa=X&ei=VPEBU-CjIOi_ygPAyYKgAw&ved=0CDYQ6AEwAQ#v=onepage&q=IL%20MERCURIO%20OLIVETANO&f=false

La guida è stata ripubblicata in Viaggi di Monaci e pellegrini, a cura di Pietro De Leo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002.

2 E Secondo Lancellotti (Perugia, 1583-Parigi, 1643) non fu un monaco qualsiasi. Lo attesta il numero sterminato di pubblicazioni e di scritti rimasti inediti, questi ultimi conservati nell’Archivio di Monte Oliveto Maggiore, nella Biblioteca comunale Augusta di Perugia e nella Biblioteca Nazionale di Roma.

Porta Sant’Angelo a Manduria: il mistero di un’iscrizione

Arco di Sant'Angelo

di  Nicola Morrone  

Le recenti osservazioni di alcuni amici, comunicateci sul notissimo social network “ Facebook”, ci hanno spinto, più o meno casualmente,  a riconsiderare un aspetto , probabilmente secondario , ma certamente  curioso, della nostra storia cittadina.

Si tratta, in sostanza, della corretta lettura  e interpretazione, nonche’ contestualizzazione storica, dell’iscrizione  collocata su uno dei monumenti piu’ significativi della nostra città, cioè il cosiddetto “Arco di Sant’Angelo”.

L’Arco e’  un  monumento realizzato nella seconda metà del sec. XVII, tra i più notevoli dell’ambito urbano, eretto  secondo canoni strutturali e decorativi tipicamente rinascimentali. L’opera, secondo recenti ed attendibili studi (cfr. G.Contessa , “Osservazioni sull’Arco di Sant’Angelo”, in “Quaderni Archeo”,1 (1996), p.109-121) fu eretta intorno al 1664-65  su iniziativa dei cittadini  di Manduria, e con il concorso (cioè con il contributo economico) di Don Andrea Imperiale, all’epoca Marchese d’Oria e Signore di Casalnuovo.

L’Arco di Sant’Angelo fu eretto per motivazioni essenzialmente devozionali, cioè per impetrare la protezione dell’Immacolata , di San Gregorio Magno e di San Carlo Borromeo sulla città, allo scopo di  liberarla dal flagello dei fulmini e dei temporali,  le cui conseguenze sull’economia del tempo , che era sostanzialmente agricola,sono facilmente immaginabili.

Sul prospetto ovest del monumento sono raffigurati, procedendo da sinistra a destra,  i riferimenti religiosi e devozionali del tempo: San Gregorio Magno, l’Immacolata, e San Carlo Borromeo. Al di sotto del simulacro della Vergine, è posto lo stemma civico.

La statua dell’Immacolata, posta al centro del fastigio,  è collocata  sensibilmente più in alto rispetto alle altre, perchè la devozione verso la Vergine era allora (come probabilmente anche oggi) in assoluto  la più sentita tra i manduriani.

Le tre statue, dunque, rimangono ancora oggi segno tangibile, oltre che  del sentimento  religioso della comunità manduriana, anche del bisogno di protezione di quest’ultima dalle avversità, naturali e non. Inoltre, i tre simulacri hanno da sempre la funzione ulteriore di “accogliere” idealmente il visitatore, il quale, una volta varcato il monumentale Arco e introdottosi in città, può godere anch’egli della relativa protezione dei suddetti riferimenti religiosi.

Da un punto di vista strettamente artistico, invece, le tre statue, in pietra tufacea, sono un buon esempio di scultura litica della seconda metà del sec. XVII , opera di un ignoto artefice, probabilmente salentino.

Tutto il monumento, nel suo complesso, sia sul piano strutturale che su quello decorativo risulta piuttosto “attardato”, presentandosi come il  prodotto di un clima artistico tenacemente ancorato ad una cultura ”conservativa” (cioè di stampo ancora rinascimentale) anche se, di fatto, concepito  e realizzato in un momento storico (1664-65) in cui nei grandi centri dell’arte  (Roma, Napoli) si erano  già da tempo affermate  le novità dell’arte barocca.

Anche i semicapitelli, che segnano il passaggio dal registro inferiore al registro superiore del fronte ovest dell’Arco, risultano essere di  gusto pienamente rinascimentale, come le rosette che li fiancheggiano, e riprendono i  medesimi motivi che ornano alcune finestre del centro storico di Manduria, risalenti appunto al sec. XVI.

Uno degli elementi che caratterizzano il prospetto ovest dell’opera, su cui proponiamo un approfondimento, è l’iscrizione, ancor oggi leggibile, che corre in corrispondenza dell’architrave, immediatamente sopra il fornice dell’arco. Essa è stata incisa, come vedremo, in età posteriore alla costruzione del monumento (circa 120 anni dopo) ed è stata  situata in posizione “strategica”, perchè fosse visibile a tutti, in special modo a chi  arrivasse a Manduria provenendo da Taranto, o addirittura da Napoli.

Arco di Sant'Angelo_1

L’iscrizione, a lettere incise sulla pietra tufacea, è stata finora letta (tanto dai cittadini che transitano casualmente  sotto l’arco, quanto dagli storici locali che ne hanno fatto oggetto di studio) nel seguente modo: “MANDURIA RESTITUTA”.

In realtà, le osservazioni di alcuni storici locali ci portano a non escludere che  detta iscrizione, recentemente sottoposta a restauro (anno 2013) insieme all’intero monumento , sia stata originariamente realizzata in altra forma , e cioè:  “MANDURIA RESTITUITA”.

L’iscrizione dunque, da tutti letta e citata come latina, potrebbe essere stata in origine concepita, dettata e realizzata in italiano. Quale è il significato del testo? Esso  fa riferimento ad un evento di grande importanza per la nostra città: la restituzione, con Decreto del Re di Napoli  del 14 Novembre 1789, su formale richiesta degli abitanti, dell’antico nome  messapico di “Manduria” al nostro nucleo urbano, che a partire dal 1090, cioè per ben sette lunghi secoli, era stato denominato “Casalnuovo”.

Il dubbio che l’iscrizione in oggetto non sia  stata dettata in lettere latine, ma in lettere italiane, e’ generato :

 

  1. Dalle osservazioni, accompagnate da un meticoloso  rilievo grafico (basato probabilmente, a sua volta, su un rilievo fotografico, oltre che naturalmente sull’osservazione diretta) che  fece, a suo tempo,  il compianto cultore di storia locale Nino Palumbo, in una sua  pregevole opera non piu’ ristampata (Cfr.N.Palumbo, Epigrafi Manduriane, Manduria 1993, p.71).
  2. Dalle parole dello storico locale L. Tarentini, il quale, sulla base probabilmente di alcuni documenti consultati,  così si esprime: ”L’epoca di questa data memoranda [Il 1789, data della restituzione dell’antico nome messapico] fu festeggiata dall’Università, che fece incidere sulla Porta di Napoli [cioè l’Arco di Sant’Angelo] la seguente scritta, sormontata dallo stemma civico messo a nuovo: “MANDURIA RESTITUITA”. Dal clero, con solenni funzioni, e “Te Deum”, e  dal popolo, con segni di pubblica rimostranza.” (Cfr.L.Tarentini, “Cenni storici di Manduria Antica , Casalnuovo, Manduria Restituita” (Cosenza 1901), p.192.

Precisiamo che il significato dell’iscrizione, e il suo valore di testimonianza storica, non mutano nella sostanza, sia che il testo si  legga in latino, sia che esso si legga in italiano.

Il punto, allora, ci pare essere il seguente: qual è il testo autentico  dell’iscrizione?

Si consideri che le lettere sono state verosimilmente  incise alla fine del sec. XVIII, cioè più di due secoli fa. Su di esse hanno esercitato un’implacabile azione di degrado gli agenti atmosferici. All’azione di questi ultimi, si devono aggiungere gli esiti della recente operazione di restauro, risalente appunto  al 2013.

Perchè ci  pare necessario ricostruire il testo originario dell’iscrizione? Non certo  per mero vezzo  di erudizione , quanto perchè esso possa essere correttamente letto, e dunque citato, non solo negli studi locali, ma anche, per es. nelle  visite guidate, ecc.

In fondo, si tratta di fare corretta memoria del fondamentale momento in cui Manduria  riprese l’antico nome messapico, ben sette secoli dopo la sua rifondazione con il nome di “Casalnuovo” (1090).

Invitiamo allora  il Comune di Manduria, unitamente magari  ai tecnici che si sono occupati del restauro,  a fare una verifica  diretta sul testo dell’iscrizione, per appurarne finalmente,  con un attento studio, la veste  originaria, ed eliminare ogni dubbio.

Ci sia consentita, infine, una piccola osservazione di carattere storico. Il  testo  autentico dell’iscrizione  collocata  sull’Arco di Sant’Angelo,  che a partire dall’ultimo restauro si legge,  a tutti gli effetti,  “MANDURIA RESTITUTA” (alla latina),  e che  come tale è riportato anche dagli storici locali più recenti (cfr. P.Brunetti, “Manduria tra storia e leggenda”, Manduria 2007, p.356) potrebbe, in teoria,  essere verificato con l’aiuto dei documenti. A partire, cioè, dal  testo  dalla relativa Delibera Decurionale (prodotta chiaramente dopo il decreto reale del 14 Novembre 1789),  attraverso la quale certamente  si stabilì il testo esatto, l’artefice  e il costo dell’iscrizione da riprodurre sull’Arco.

Tale delibera, come molte altre relative all’attivita’ del nostro Decurionato, è però con ogni probabilità andata perduta. A meno di ritrovarla nell’Archivio di Stato di  Napoli, che conserva comunque ben poche carte prodotte  dal nostro Comune nel sec. XVIII,  essa non è certamente reperibile  nell’Archivio di Stato di Taranto,  poichè le  Delibere del Decurionato di Manduria ivi depositate  iniziano con l’anno 1799. Nell’Archivio Storico del Comune di Manduria , infine,  si conservano documenti risalenti nella quasi totalità al periodo postunitario.

Un utile ausilio all’ indagine  potrebbe provenire, a questo punto, solo dallo  studio delle carte custodite negli archivi privati. Della  consistenza di questo patrimonio documentario, però, nessuno studioso, nè locale , nè accademico, ha purtroppo  la minima cognizione, poichè i documenti stessi, finora, non sono stati resi consultabili. Non è escluso che alcune di queste fonti, se messe  a disposizione degli studiosi,  chiaramente nel rispetto delle prerogative  dei loro legittimi proprietari, possano  sostenere concretamente le ipotesi di ricerca, nonchè, forse, dare una  risposta risolutiva  ai non pochi interrogativi  che la nostra storia cittadina ancor oggi pone.

                                                                                                                                                                                                                                       

La toponomastica della provincia di Taranto in una carta del 1589

di Armando Polito

 

Dopo le province di Lecce e di Brindisi1 è la volta di quella di Taranto ad essere analizzata toponomasticamente in base ai dati forniti dalla stessa carta utilizzata per le indagini precedenti. I tre contributi resteranno visibili per un mese, passato il quale saranno incorporati in uno solo che accoglierà le integrazioni e correzioni che ho già messo da parte, nonché quelle che nel frattempo il benevolo lettore avrà voluto comunicare.

 

Il lettore perdoni la mia debolezza, ma, essendo io nato a Manduria, mi piace dedicarle un po’ più di tempo. Nella mappa si legge un Casalnovo che nella prima stesura di questo ho erroneamente considerato corrispondente a Casalnuovo, nome che Manduria assunse quando venne rifondata nell’XI secolo dopo la distruzione da parte dei Saraceni. Così continuò a chiamarsi fino al 1789, quando per volere di Ferdinando I di Borbone riassunse l’antico nome, del quale riporterò le fonti dopo aver ringraziato Mimmo Ariano, il cui commento inserito nel lavoro relativo alla provincia di Brindisi è stato, sotto questo punto di vista, prezioso perché mi ha fatto notare che, quanto a coordinate geografiche, Casal è più compatibile con Manduria di Casalnovo, che probabilmente è da identificarsi con Torre S. Susanna, in provincia di Brindisi).

Ed ecco le memorie antiche del toponimo:

Tito Livio (I secolo a. C.- I secolo d. C.), Ab urbe condita, XXVII, 15, 4: Q. Fabius consul oppidum in Sallentinis Manduriam vi cepit; ibi ad tria milia hominum capta et ceterae praedae aliquantum. Inde Tarentum profectus in ipsis faucibus portus posuit castra (Il console Quinto Fabio prese con la forza la città di Manduria nei [popoli] salentini; ivi furono catturati circa tremila uomini e fatta altrettanta altra preda. Poi,  partito per Taranto pose l’accampamento proprio all’imboccatura del porto).

Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, II, 103: In Sallentino iuxta oppidum Manduriam lacum ad margines plenus neque exhaustis aquis minuitur neque infusis augetur (Nel [territorio] salentino presso la città di Manduria [dicono che c’è] un lago pieno fino all’orlo e non si abbassa quando le acque vengono attinte né s’innalza quando vengono versate). Sul Fonte pliniano: https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/07/17/il-caldo-lacqua-e-il-motore-di-ricerca-terza-ed-ultima-era-ora-parte/

Tabula Peutingeriana (IV secolo d. C.),VII,2: Manduris.

 

Stefano Bizantino (V-VI secolo d. C.), Ἐθνικά (leggi Ethnikà, lemma Μανδύριον (leggi Mandiùrion): Μανδύριον πόλις Ἰαπυγίας. Ὁ πολίτης Μανδυρῖνος ὡς Λεοντῖνος (Manduria città della Iapigia. Il cittadino [è detto] mandurino come leontino [da Leontini].

Anonimo Ravennate (VII secolo d. C.), Cosmographia, V, 1: Et si amat lector vel auditor et volunt subtilius scire totas civitates circa litora totius maris magni positas … minutius designemus… Ignatiae, Speluncas, Brindice, Baletium, Lupias, Idrontum, Minervium, Veretum, Baletium, Neretum, Manduris, Tarentum … (E se chi legge o ascolta vuole anche conoscere più precisamente tutte le città poste intorno alle coste di tutto il grande mare … le indicheremo più dettagliatamente … Egnazia, Spelunca, Brindisi, Valesio, Lecce, Otranto, Castro (?), Vereto, Alezio, Nardò, Manduria, Taranto …)

Guidone (XII secolo d. C.), Geographia, 72: Valentium, Lubias ubi nunc est Calipolis, Amandrinum, Saturum, Mesochorus, Tarentum, Metapontus … (Alezio, Lubias dove oggi è Gallipoli, Manduria, Saturo, Mesocoro, Taranto, Metaponto …

L’esistenza di saline a Taranto è attestata in Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, XXXI, 27: Siccatur in lacu Tarentino aestivis solibus, totumque stagnum in salem abit, modicum alioqui, altitudine genua non excedens, item in Sicilia in lacu qui Cocanicus vocatur et alio iuxta Gelam. Horum extremitates tantum inarescunt sicut in Phrygia, Cappadocia, Aspendi, ubi largius coquitur et usque ad medium. Aliud etiam in eo mirabile quod tantundem nocte subvenit quantum die auferas ([Il sale] viene seccato nel lago tarantino dal sole d’estate e tutto lo stagno si trasforma in sale, peraltro in modica quantità non superando in altezza le ginocchia; parimenti in Sicilia nel lago che è chiamato Cocanico ed in un altro nei pressi di Gela. Le loro superfici seccano come in Frigia, Cappadocia, Aspendo, dove il calore del sole è notevole e penetra nel mezzo. Altra cosa portentosa in questo sale è che di notte se ne riforma tanto quanto ne hai tolto durante il giorno).

XXXI, 29: Marinorum maxume laudatur Cyprius a Salamine, at e stagnis Tarentinus ac Phrygius, qui tattaeus vocatur. Hi duo oculis utiles …Salsissimus sal qui siccissimus, suavissimus omnium Tarentinus atque candidissimus, sed de cetero fragilis qui maxime candidus …  ad medicinae usus antiqui Tarentinum maxime laudabant … (Tra i sali marini viene apprezzato massimamente il ciprio da Salamina ma dai bacini stagnanti il tarantino e il frigio, che si chiama tetteo. Questi due sono utili per gli occhi … È salatissimo il sale che è il più secco, gradevolissimo fra tutti e bianchissimo il tarantino, ma del resto friabile quello che è bianchissimo … gli antichi raccomandavano per uso medicinale soprattutto il tarantino …).

E oggi? Altro che sale medicamentoso! Per saperne di più: http://www.siderlandia.it/?p=2213

Immutati: GROTTAGLIE, SAN VITO (frazione di Taranto), TARANTO.

Non identificati: BAVANIA, LEORTAIA, LEPURANO (per posizione, non può essere LEPORANO; probabilmente, al pari del successivo PURZANO, si tratta di un errore), MORVIGGIO, ORTAIA, PURZANO (per posizione non può essere PULSANO), RUDIA, USANO (SAVA?), P. S. ANDREA (in altre carte S. ANDREA è il nome della più piccola di due isole antistanti il porto; l’altra è indicata con il nome di S. PELAGIA).

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/24/la-toponomastica-della-provincia-di-lecce-in-una-mappa-del-1589-grazie-francia/#comment-7092

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/03/la-toponomastica-della-provincia-di-brindisi-in-una-mappa-del-1589/

“Post fata resurgat”. La travagliata storia del monumento ai Caduti di Manduria

Il maestro De Bellis nel suo laboratorio
Il maestro De Bellis nel suo laboratorio

 

 di Nicola Morrone

 

Collocato in pieno centro cittadino, precisamente sull’estremo  margine occidentale della Villa Comunale, vi è uno  tra  i monumenti di  pubblica committenza  più significativi della Manduria contemporanea: il Monumento ai Caduti.

Delle complesse vicende relative a quest’opera, progettata sin dal 1949 e inaugurata solo diciassette anni dopo,  nel 1966, cercheremo di tracciare un profilo, segnalando le più significative tappe che portarono, attraverso un percorso lungo e  quanto mai travagliato, alla sua erezione. Intendiamo con queste  nostre note  (suscettibili chiaramente di ulteriori approfondimenti) contribuire ad una migliore e più diffusa conoscenza di un monumento la cui vicenda costruttiva, pur essendosi svolta appena mezzo secolo fa, rimane certamente ai più sconosciuta.

Il Lavoratore del pensiero
Il Lavoratore del pensiero

LE FONTI DOCUMENTARIE

Ci siamo avvalsi essenzialmente, per queste note, dei documenti conservati nell’Archivio di Deposito (Carteggio) del Comune di Manduria, ubicato attualmente al piano superiore dell’Ex Monastero delle Servite. Archivio inventariato  e gestito, insieme a tutto il patrimonio documentario  comunale, dal consorzio General Services di Noci (BA), a partire dall’anno 2000. L’accesso alla documentazione è avvenuto in conformità a quanto previsto dall’art. 122 del Decreto Legislativo 22/1/2004 (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio), che disciplina le modalità di consultazione e riproduzione dei documenti conservati negli archivi pubblici. La documentazione superstite  che illustra la storia  del Monumento ai Caduti è interamente collocata  nell’Archivio di Deposito del Comune di Manduria, Categoria VIII (Leva e Truppa), Busta 1, fascicoli 4-9.

I fascicoli contengono documentazione compresa tra gli estremi cronologici 1949-1970 (si segnala la presenza, all’interno del fascicolo 9, di 28 foto in bianco  e nero del Monumento, eseguite dalla ditta fotografica Corcelli di Bari). Ed effettivamente la storia del Monumento ai Caduti di Manduria si svolge tutta tra queste due date: 1949 -1970. Al 24/6/1949 risale infatti la Delibera del Consiglio Comunale in cui si stabiliscono l’ubicazione e il finanziamento del monumento. Al 1970 risale invece l’ultima richiesta fatta dal Comune di Manduria allo scultore Vitantonio de Bellis, relativa ad un’ultima revisione globale  dell’opera.

Il Lavoratore del braccio
Il Lavoratore del braccio

LA VICENDA STORICA

Queste, in estrema sintesi, le tappe della vicenda, come risultano da un pro-memoria  allegato ai documenti contabili.

Il 24 Giugno 1949 lo scultore  Vito Antonio De Bellis di Bari spiega al Consiglio Comunale il concetto idatore del progetto del Monumento ai Caduti, che deve sorgere in Manduria ad iniziativa della locale sezione dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, e ne illustra il bozzetto che si trova nella sala [I Combattenti, costituendo un comitato per il Monumento ai Caduti, avevano indetto un concorso nazionale per il progetto dell’opera, di cui purtroppo non abbiamo reperito alcun altro bozzetto  partecipante]. Il Consiglio Comunale (Sindaco Florenzo Di Noi) ad unanimità di voti, delibera che il Monumento deve essere ubicato nella Villa Comunale  e che la costruzione deve essere realizzata in pietra di Trani.

Il 16 Febbraio 1954 il Consiglio delibera di dare parere favorevole alla concessione del suolo occorrente per la edificazione del Monumento al centro del giardino pubblico, previa sistemazione definitiva di quest’ultimo, mediante pavimentazione.

Il 12 Novembre 1960 il Consiglio delibera di assumere l’impegno di completare il Monumento ai Caduti e di disporre i lavori di cui alla relativa perizia dell’ufficio tecnico del Comune. L’Associazione dei Combattenti, infatti,  non potendo piu’ sostenere l’onere dell’impresa, aveva chiesto al Comune, con lettera  di Aurelio Pasanisi, di subentrare nell’iniziativa.

Il 5 Novembre  1961 la Giunta Municipale delibera  di commettere allo scultore Vitantonio De Bellis di Bari  la fornitura di due statue di bronzo monumentale, da servire a completamento del monumento progettato dallo stesso, e di demolire i plinti provvisori esistenti e di costruire i nuovi con massi ciclopici, modificandoli poi in basamenti da ricavarsi con roccia marina e opportunamente sagomata, e infine sostituendoli con plinti in muratura e rivestimento con lastre di travertino.

Il 22 Maggio 1964 la Giunta Municipale delibera di commettere a trattativa privata, ad una ditta locale, i lavori di completamento del Monumento, da effettuarsi in ordine alla relativa perizia dell’ufficio tecnico comunale.

Il 4 Novembre 1966 , sindaco l’Ing. Ferdinando Fiorenza , alla presenza delle autorità civili, militari e religiose si inaugura nella Villa Comunale il Monumento ai Caduti.

 

Il Caduto
Il Caduto

IL PROGETTISTA

Vitantonio De Bellis nacque in Rutigliano il 24 Novembre 1887 da Giuseppe, costruttore edile, e Maria Carmela Pappalepore. Sin da bambino mostrò una spiccata attitudine per il disegno e la scultura. I genitori assecondarono questa sua inclinazione, iscrivendolo al prestigioso Istituto di Belle Arti di Napoli, dove maturò il suo estro sotto la guida dei principali artisti dell’epoca. Terminati gli studi, all’età di 20 anni tornò a Rutigliano per iniziare la sua lunga e feconda carriera artistica. Sono numerose e tutte di notevole pregio le opere da lui realizzate, come i celebri Monumenti ai Caduti eretti in molte città di Puglia e Basilicata: oltre a quello di Rutigliano, che domina piazza XX Settembre, vanno citati, tra gli altri, quelli di Conversano, Carbonara, Casamassima, Modugno, Cassano, Torre Santa Susanna, Erchie, Genzano e Brindisi.
Della sua vasta produzione vanno ricordati anche i busti di molti personaggi di rilievo, tra cui quelli del venerabile mons. Giuseppe Di Donna (nella villa comunale di Rutigliano), di mons. Domenico Morea (collocato nella piazza principale di Alberobello) e dell’on. Giuseppe Di Vagno. Fu anche progettista in Bari della chiesa del Redentore e della chiesa dei Padri Cappuccini, nonché autore della celebre fontana monumentale dell’Acquedotto Pugliese, ubicata nella Fiera del Levante.
Sposò nel 1943  Anna Maria Sebastiani, consigliere del Sindacato Internazionale d’Arte di Roma, conosciuta a Pisa dove De Bellis soggiornò per lavoro per un breve periodo.
Morì in Bari (città in cui aveva aperto il suo laboratorio artistico) nel 1977.
La sua città natale, Rutigliano, gli ha dedicato una via solo di recente, mentre Bari già da molti anni aveva intitolato una strada del centro allo scultore Vitantonio De Bellis.

 

Il bozzetto vincente
Il bozzetto vincente

LE MAESTRANZE 

Per la realizzazione della cripta sottostante il  Monumento ai Caduti, il Comune stipulò un contratto con la locale ditta Camillo Bagorda. Non siamo riusciti a precisare se la stessa  ditta fu  incaricata  di realizzare la restante parte dell’imponente architettura. Sappiamo invece con certezza che lo scultore De Bellis, dopo aver realizzato nel suo atelier i bozzetti  in creta , inviò i modelli in gesso delle statue a grandezza naturale, per la definitiva  fusione  in bronzo, alla Fonderia Artistica Ferdinando De Luca di Napoli, che disbrigò il lavoro a regola d’arte.

 

IL SIGNIFICATO DELL’OPERA

Un documento di estremo interesse è costituito dai  due fogli  senza data , redatti su carta intestata dallo  scultore Vitantonio De Bellis, dal titolo “Relazione sul Monumento ai Caduti di Manduria”. In essi l’artista spiega dettagliatamente il significato del monumento. Lo riportiamo integralmente, certi di contribuire a svelare un arcano iconografico. Quanti concittadini, infatti,e quante volte, si saranno  chiesti  cosa rappresenta  realmente la complessa struttura architettonico-scultorea che domina prepotentemente lo scenario della Villa Comunale?

Lasciamo la parola allo scultore De Bellis:

“La concezione alla quale si ispira il Monumento ai Caduti di Manduria può riassumersi nel seguente pensiero: il grande arco che inquadra le figure simboleggia la vita che continua, l’altro semicerchio, che dovrebbe raffigurasi sottoterra, rappresenta la morte. Morte da cui nasce la Vita, e Vita da cui nasce la Morte, nella perpetuità di un ritmo che infonde fede e coraggio, speranza e bontà. Le due fiaccole poste alle basi esterne dell’arco [poi non piu’ realizzate] rette da mani, simboleggiano lo spirito eternamente vivo di chi è morto per un supremo ideale, sembrano dire : “la nostra morte corporea è e deve essere la vita che torna. Noi siamo morti, affinchè dal nostro sacrificio potesse nascere migliorato questo eterno ritmo della vita che torna incessantemente! Siamo morti per far vivere ed agire i vivi in un mondo più completo e più libero”. La vita deve essere riedificata su nuove basi ed a questa riedificazione tutti gli uomini debbono partecipare. La nuova società, quindi, deve nascere dagli sforzi del Lavoratore del pensiero, che dallo studio deduce le leggi eterne dell’armonia, e della giustizia, e dal sudore del Lavoratore del braccio, che dalle viscere della terra trae l’alimento necessario alle esigenze della vita quotidiana. L’arco nelle sue linee armoniche e nella sua solidità sta, quindi, a significare che soltanto l’equilibrata comprensione di queste due forze può gettare le basi della nuova società; società in cui tutti i suoi componenti, consci dei diritti e dei doveri, trovino la giustizia e l’amore, uniche fonti di pace e di prosperità. Sull’area centrale, staccata dal grande arco, sta il Caduto, esempio di chi ha sofferto per la libertà e l’unità della Patria; esso è e sarà sempre un raggiante lume sul cammino degli Italiani. E’ il fiore della nostra stirpe che versa il suo sangue per santificare l’avvenire della nostra Patria. Il Fante! E’ la figura luminosa del popolo italiano, uscito da una trincea e ritorna nel solco, ora armato di spada, ora di martello. La sua storia è un’epopea che continua! Per tale motivo e per questa continuità che si tramanda nei secoli, desidero che l’arco sia costruito con quei massi ciclopici disseminati per chilometri e chilometri intorno a Manduria, massi che costituivano le mura erette in difesa della città messapica. Così, nei millenni passati, come oggi si perpetua la lotta per la libertà, e come quei massi costituirono le mura della difesa, così oggi nella continuità storica essi costituiranno l’arco glorioso eretto alla memoria dei Caduti morti nei millenni per la difesa dell’eterna civilta’. In quelle pietre corrose dai millenni, vivrà ancora l’anima dei gloriosi soldati che si immolarono per la patria, come oggi vibrerà l’ardente spirito dei Caduti, perchè è retaggio di glorie passate e presenti che si onoreranno nella sublimazione del Monumento. Per l’erezione di quest’arco occorreranno all’incirca una settantina di massi, da recuperare tra quelli disseminati, appunto, lungo le campagne, non già da togliersi dalle mura. Dietro l’ara è stato progettato un altare dove saranno celebrate le messe per i Caduti, mentre sul davanti dell’ara stessa verranno sottoscritte le seguenti parole: “POST FATA RESURGAT” – Manduria ai suoi Caduti”,

Al di la’ di qualche considerazione forse un po’ troppo retorica, il concetto dell’erigendo monumento risulta abbastanza chiaro.

 

CONCLUSIONI

Faremmo torto alla  verità se non segnalassimo, in conclusione,  che  il Monumento ai Caduti di  Manduria, così come oggi possiamo ammirarlo, non rispetta pienamente  la volontà dello scultore e progettista  De Bellis.  E questo, sia in relazione alla  concezione originaria (si confronti il bozzetto vincitore del concorso con il risultato finale: mancano addirittura  alcuni elementi scultorei e inoltre nel bozzetto l’opera  risultava di dimensioni piu’ contenute); sia in relazione al  materiale impiegato (l’arco non  fu realizzato con i massi ciclopici provenienti dalle mura messapiche, e la qual cosa, se si  fosse concretizzata, avrebbe rivestito un fortissimo carattere simbolico, come era nell’idea di De Bellis); sia, infine, in relazione al contenuto dell’epigrafe dedicatoria. Su quest’ultima ci fu, prima dell’inaugurazione dell’opera,  una serrata discussione tra i rappresentanti delle forze politiche (ottobre 1966), che convennero poi, adducendo varie motivazioni (alcune  francamente  curiose )sull’attuale testo, che nulla ha a che vedere  con le parole in origine scelte da De Bellis. E non era, quella dell’epigrafe, una questione secondaria: nelle sue parole  si condensava il significato autentico  dell’intero monumento, che doveva essere pressappoco il seguente “La società risorga dopo i destini avversi” (Post fata resurgat), del tutto cancellato  in favore dell’attuale  “Manduria civile ai suoi caduti per la liberta’ nella pace “.

 

 

[ Dobbiamo qui  ringraziare quanti hanno agevolato il nostro lavoro di ricerca: il Dott. Vincenzo Dinoi, per aver concesso l’autorizzazione alla consultazione dei documenti; la Dott.ssa Carmelina Greco, per averne  facilitato la riproduzione fotografica (eseguita in gran parte dall’amico Ivan Pinto); il Dott. Gregorio Dinoi e il Maresciallo Leonardo Stano per l’aiuto fornito nel reperimento del fascicolo; il Maresciallo Girolamo Libardi per averci consentito di effettuare un sondaggio nell’Archivio della locale sezione dei Combattenti e Reduci.]

I capricci della storia (in margine ad una ricerca d’archivio sulla Salina dei Monaci)

Salina dei Monaci

di Nicola Morrone

Giovedi’ 18 Luglio scorso si è svolta, presso i cortili del Torrione di Avetrana , la  presentazione al pubblico  dell’interessante  volume di P. Scarciglia e L. Schiavoni, intitolato “Cronologia commentata intorno alla questione di Torre Columena”.

Il libro è edito per conto dell’Associazione “Terra della Vetrana”, che ha curato l’evento in tutti i suoi aspetti (compreso il gradito aperitivo finale). In una fresca serata di Luglio, dunque, nella cornice particolarmente suggestiva del fortilizio medievale, Scarciglia e Schiavoni hanno proposto al folto pubblico intervenuto i risultati della loro indagine d’archivio sulla “vexata quaestio” del possesso legittimo delle terre site attualmente nella marina di Manduria, tra Specchiarica e Torre Colimena. Siamo stati invitati a prendere parte all’incontro proprio dagli amici dell’Associazione “Terra della Vetrana “, Pietro Scarciglia, Luigi Schiavoni e Paola Addabbo. Invito accolto con grande piacere, dal momento che la stessa benemerita Associazione  ci aveva invitati , lo scorso 21 Aprile, a tenere una conferenza su “Culto e Iconografia di San Biagio di Sebaste” nell’altrettanto significativo  contesto  della  Chiesa Matrice di Avetrana , ospiti del padrone di casa, il gentilissimo Don Giovanni Di Mauro, parroco della stessa chiesa.

Orbene, questa  meticolosa ricerca d’archivio , si inserisce a pieno titolo nell’ambito della piu’ classica pubblicistica di storia locale salentina. Lo scopo delle  87 pagine del volumetto (distribuito tra l’altro a un prezzo estrememente conveniente, che dovrebbe facilitarne una  più capillare diffusione, almeno presso la popolazione avetranese) è quello di portare il maggior numero di prove documentarie a sostegno della tesi secondo la quale le terre inglobanti la Salina dei Monaci e la Torre Colimena, attualmente ricadenti in territorio di Manduria, sono appartenute in passato, all’opposto, al “tenimento” di Avetrana, rientrando a tutti gli effetti nella sua giurisdizione, se non da sempre, almeno per buona parte della loro storia documentata.

La ricerca si inserisce  in un filone di lavori consimili prodotti dai ricercatori di Avetrana nel  tempo (si ricorda qui soltanto il volume di M.Spinosa-B.Pezzarossa-P.Scarciglia dal titolo “Relazione per la rideterminazione del territorio di Avetrana, Taranto 1995) e si avvale, in particolare, di un ricco apparato documentario, in gran parte inedito, oltre che della riproduzione fotografica (sempre utile ) di molti dei documenti citati.

Come è noto, la “vis polemica” degli amici avetranesi in relazione al problema  è stata rinfocolata dall’affermazione di uno  storico locale manduriano, il quale ha sostenuto anni orsono, in un articolo giornalistico, che il territorio oggetto di indagine, era  “da sempre” appartenuto alle pertinenze di Casalnuovo- Manduria .L’affermazione non è veritiera, dal momento che la fascia territoriale che va da Specchiarica alla Columena non ha storicamente avuto un proprietario fisso. Il territorio in questione, invece, è rientrato, nelle varie epoche per le quali è possibile documentarne la storia (cioe’ dalla fine del sec. XI alla fine del sec.XIX), nelle pertinenze di vari proprietari.

Per la Torre anticorsara della Columena,  è stata dimostrata , con questo volume, l’appartenenza al” tenimento”  di Avetrana nel sec. XVI, dal momento che un  documento (riportato anche in copia fotografica) prova che il comune di Avetrana pagava il personale in servizio alla torre .La  Salina dei Monaci, invece, che di quella disputata fascia territoriale rappresenta un po’ il fulcro (per essere stata  fonte di ricchezza, nel corso dei secoli, oltre che per Manduria e Avetrana,  anche per comunità  vicine, come Gallipoli) dopo essere stata donata alla fine del sec. XI dai Re normanni ai monaci benedettini del Monastero di San Lorenzo d’Aversa (CE) è stata verosimilmente  proprietà  del comune di Casalnuovo (Manduria), per poi passare al demanio regio al tempo degli Aragonesi (sec. XV) e poi di Carlo V, e quindi rientrare fino all’800 , come hanno ampiamente dimostrato con la loro ricerca Scarciglia e Schiavoni, nel “tenimento” di Avetrana.

Come gli amici avetranesi si sono preoccupati di portare le prove a sostegno dell’appartenenza storica ad Avetrana, così noi, in questa sede, vogliamo riassumere i documenti certi che, integrati a quelli citati nel volume ,  riconducono in qualche modo la Salina al territorio di  Manduria –Casalnuovo, ripromettendoci di produrre in futuro più ampi riferimenti documentari relativi alla questione.

Siamo costretti purtroppo, in questo caso, a partire da un documento “fantasma”, cioè un documento citato con estrema precisione da storici locali manduriani del passato, che pur dovette esistere, ma che nessuno si è mai preoccupato di produrre concretamente, e che costituisce, a nostro avviso, l’elemento che per eccellenza proverebbe il possesso della Salina da parte di Casalnuovo-Manduria, almeno alla metà del sec. XV. Si tratta di un diploma, datato in Lecce 8 Dicembre 1463, in cui sono elencate le modalità di cessione delle saline di Casalnuovo al demanio regio, cioè alla Corona Aragonese, probabilmente, come suppone lo Jacovelli, per facilitare l’approvazione da parte del sovrano dei capitoli dell’Universita’, cioe’ dei diritti e delle consuetudini comunali.

Tale documento, citato dagli storici locali Saracino, Ferrari e Da Lama, al punto tale da precisarne con esattezza la data cronica e quella  topica,  a nostro avviso dovette pur esistere, anche se non si è purtroppo conservato nel  Libro Rosso della città di Lecce, che a quella data registra uno sconfortante vuoto . Si spera che, in futuro, prima o poi il documento possa saltare fuori, per dare definitivamente forza di prova alle citazioni degli anzidetti storici locali.

Allo stato attuale, comunque, si può con certezza affermare che a cavallo tra i secc. XV e XVI , e precisamente tra il 1498 e il 1526, le Saline furono di proprietà regia, prima aragonese e poi  vicereale (al tempo di Carlo V). Cio’ si può sostenere sulla base di  quattro documenti, ben noti agli studiosi, e cioè tre facenti parte del Libro Rosso di Gallipoli, e uno pertinente al Libro Rosso di Lecce, entrambi liberamente consultabili rispettivamente nella Biblioteca Comunale di Gallipoli e nell’Archivio Storico del Comune di Lecce.

Il documento del Libro Rosso di Lecce  è datato  Napoli , 27 Gennaio 1498; quelli confluiti nel Libro Rosso di Gallipoli datano invece da Castiglione,  4 e 6 Settembre 1503, e da Granada, 23 Giugno 1526.Quest’ultimo diploma, emesso da Carlo V, è stato  riportato  anche da Bartolomeo  Ravenna nel suo volume “Memorie Istoriche della Citta’ di Gallipoli”, Napoli 1836, alla pag.282. Tutti e quattro i documenti sono citati dalla studiosa Michela Pastore , che nel suo contributo ”Fonti per la storia di Puglia : regesti dei Libri Rossi e delle pergamene di Gallipoli, Taranto, Lecce, Castellaneta e Laterza” , uscito in “Studi Chiarelli”, II, pp.153-295, ne ha fornito appunto i regesti, cioe’ la sintesi del contenuto.Ci ripromettiamo di riprodurne in copia i passi relativi alla  Salina, in  essi  denominata  appunto sempre “di Casalnuovo”. Ma perchè i documenti citati denotano con  l’espressione ”di  Casalnuovo”, una struttura che ricadeva già da tempo nel demanio regio? Riteniamo che ciò sia accaduto proprio perchè, pur possesso ormai del Re , le Saline ricadevano topograficamente, anche se non più  giuridicamente, appunto nel “tenimento” di Casalnuovo-Manduria.

In conclusione, il lavoro di Scarciglia- Schiavoni è sicuramente ben condotto, ma in realtà una completa seriazione cronologica delle vicende che hanno interessato la zona compresa tra Specchiarica e Torre Columena deve ancora essere prodotta. Molti punti restano oscuri. Quando, e perchè le Saline passarono dai Monaci Benedettini d’Aversa all’Università di Casalnuovo? E quando, e perchè, le Saline, dopo essere state  possesso del Re, entrarono nella disponibilità dell’Università di Avetrana? E soprattutto, quando, e con che modalità, la zona in questione passò definitivamente a Manduria?

E’a  quest’ultimo interrogativo che, soprattutto, preme dare una risposta  agli amici avetranesi, e a loro facciamo i nostri migliori auguri per una sua  definitiva risoluzione.

Nell’incontro, infine, si è tornato a parlare anche, e in termini piuttosto decisi, della proposta di rideterminazione dei confini del territorio di Avetrana, legittimata, secondo i ricercatori, proprio dai dati documentari .Come abbiamo affermato quella sera, ribadiamo in questa sede che, a nostro avviso, non ci pare corretto , ne’ utile, utilizzare una ricostruzione storica pur documentata come quella realizzata dagli amici avetranesi allo scopo di far tornare il Comune di Avetrana in possesso  della zona rivierasca. I problemi attuali di quella fascia territoriale , causati senza dubbio (lo diciamo da manduriani) dalla storica indifferenza  del nostro Comune in materia di politiche turistiche, da avviare immediatamente sui 18 Km di costa relativa, vanno risolti con spirito di collaborazione, piuttosto che di contrapposizione, quand’anche essa si fondi su dati storicamente inoppugnabili.

 

Horror vacui. Il libero sfogo della fantasia di uno sconosciuto pittore moderno

Affresco (part.)

di Nicola Morrone

La festa di Sant’Antonio (13 Giugno) ci ha permesso di riscoprire un antico luogo di culto, verosimilmente  misconosciuto dalla gran parte dei concittadini manduriani.

Si tratta della cappella della Natività di Maria, che si apre sul lato est della imponente chiesa neogotica dedicata al santo francescano di Padova.

La cappella, la cui dedicazione risale al 1703, sotto il pontificato di Clemente XI (come recita l’iscrizione posta sul lato sud del vano) presenta più di un elemento di interesse. Ad iniziare certamente dal dipinto collocato sulla parete d’altare, che rappresenta la Madonna del Suffragio, i SS.Antonio e Francesco d’Assisi, il committente e storie mariane della vita della Vergine.

Non si tratta di uno dei tanti dipinti, di qualità talora dozzinale, che è possibile osservare nelle non poche chiese di Manduria: quello in questione è invece uno dei pochi dipinti manduriani  (se ne contano in tutto non piu’ di una decina) di qualità assoluta. L’autore ne e’ il napoletano Fabrizio Santafede, che lo dipinse nel 1580, quasi certamente su committenza del nobile casalnovetano Francesco Antonio Barberio, effigiato nel dipinto.

Nello spazio ristretto di questo piccolo luogo di culto è possibile inoltre apprezzare le opere di vari artisti legnaioli francescani (tutti anonimi, fino a quando i ricercatori non  faranno parlare  le carte  d’archivio). Essi realizzarono, nel sec. XVII, i tre altaroli laterali della cappella della Natività di Maria, intagliando e intarsiando legni di svariata tipologia, e creando opere che, a nostro avviso, possono essere ben considerate  esempi di alto artigianato. Gli altaroli sono caratterizzati dalla presenza di vistosi paliotti con motivi floreali ad intarsio (un vero incanto per gli occhi del visitatore) nella parte bassa; la zona centrale è valorizzata dalle cromie dei dipinti o delle statue in cartapesta; le macchine d’altare  terminano, nella parte alta, con un timpano spezzato in mezzo al quale si inserisce un ulteriore motivo decorativo floreale o lo stemma dell’ordine.

Tutta la cappella, insomma, è un delizioso contenitore d’arte e artigianato, in cui la perizia tecnica e ideativa degli esecutori , e in taluni casi  la loro “audacia” figurativa , a  un certo punto, ci sorprendono ancora di più.

Sulla parete sinistra dal vano,  in corrispondenza del presbiterio, è infatti  collocato un affresco di autore ignoto, per più versi straordinario. Tutto il disegno, che ha una impaginazione orizzontale, e che ricorda tanto una sorta  di finto paliotto d’altare, colpisce subito, ancor prima che per la modalità esecutiva,  per la concezione, improntata chiaramente  alla classica idea  di “horror vacui”, tipica della mentalità barocca, segnatamente salentina. L’anonimo maestro, che  potrebbe anche essere locale, è probabilmente anche in questo caso  da ricercare tra le maestranze francescane (come è noto, l’ordine francescano disponeva di pittori, architetti e scultori reclutati tra gli stessi consacrati, in maniera tale da essere completamente autarchico sul piano della produzione artistica. Produzione che, se pur non raggiunse quasi mai livelli di eccellenza, si attestò non di rado su livelli qualitativi  più che dignitosi…).

L’affresco è da considerarsi un inedito, dal momento che non è stato censito nella catalogazione effettuata da Massimo Guastella (Iconografia Sacra a Manduria, Manduria 2002).

L’opera, una sorta di celebrazione apoteotica e fastosa della natura, è di soggetto interamente profano. La circostanza curiosa è che siffatto affresco è effettivamente  collocato in un luogo di culto. E’ come se l’anonimo artista si fosse concesso per un attimo, libero dai vincoli della committenza religiosa , uno sfogo della propria  fantasia, che, nei soggetti rappresentati (puttini, uccelli, fiori, frutti) non può non ricordare gli analoghi, consueti temi degli altari barocchi dei maestri leccesi, i quali, pur nella evidente esuberanza delle forme plastiche, non possono tuttavia esibire,  se non in rarissimi casi , l’incanto del colore.

 

Architettura del Rinascimento a Manduria

ARCHITETTURA DEL RINASCIMENTO A MANDURIA: TRE ESEMPI DI STILE CATALANO-DURAZZESCO

 

di Nicola Morrone

 

Nell’ambito della millenaria vicenda storica di Manduria, caratterizzata da momenti luminosi ma anche da lunghi, oscuri periodi di decadenza, si segnala per la sua singolarità  l’epoca rinascimentale.                                                            Chi volesse averne un quadro documentato, anche se non esaustivo, puo’ rileggere il sempre valido saggio di G. Jacovelli (Manduria nel ‘500, Galatina 1974). Anche alla luce delle preziose indicazioni fornite dall’autore, e data l’ampiezza delle testimonianze superstiti, sarebbe auspicabile la realizzazione di un archivio fotografico del ‘500 mandurino, risultante da  un censimento della totalità delle testimonianze rinascimentali nel nostro paese.

Si tratterebbe di un validissimo strumento, utile, oltre che  sul piano scientifico, anche su quello didattico. E tra i monumenti superstiti  del sec. XVI a Manduria spiccano soprattutto i palazzi nobiliari: essi superano, per numero, tutte le altre testimonianze architettoniche coeve.

Manduria, portale del ghetto
Manduria, portale del ghetto

Il palazzo nobiliare si presenta oggi  ai nostri occhi sotto un duplice aspetto. Esso è l’ immagine concreta  del potere di una classe sociale, l’aristocrazia, detentrice per lunghi secoli, insieme al clero, della quasi totalità delle risorse economiche del territorio, titolare  di privilegi scandalosi e in buona parte responsabile, con la sua inerzia, del ritardo di  sviluppo economico dell’intero Mezzogiorno.

Ma il palazzo patrizio  è anche, indiscutibilmente, un’opera d’arte, frutto dell’ingegno umano,  e in questa prospettiva soprattutto vogliamo considerarlo nelle nostre brevi note.

Ci occuperemo, nello specifico, di tre episodi architettonici rinascimentali, che qualificano il nostro centro storico. Si tratta di Palazzo Bonifacio, della cosiddetta Sinagoga, e di  Palazzo Pasanisi, e ne approfondiremo la tipologia dei portali, tutti e tre riconducibili al cosiddetto stile “catalano-durazzesco”.           E’ questo uno stile che caratterizza i portali di molti  edifici patrizi , in tutto il Sud Italia, dalla Campania al Molise, alla Puglia , alla Sicilia, e perfino alla Sardegna. Secondo lo studioso R. Pane, il prototipo di questa tipologia, e al tempo stesso il primo esempio documentato, è il napoletano Palazzo Penne, risalente al 1406. Esso era la residenza di Antonio Penne, segretario del re di Napoli Ladislao di Durazzo.                                                                                                                                   Gli studiosi hanno per molto tempo pensato che l’ elemento che caratterizza questa  particolare tipologia architettonica,  cioè l’arco a sesto ribassato inquadrato in una cornice rettangolare, fosse di provenienza spagnola , segnatamente catalana. Ostano però a questa ipotesi due elementi: 1) il fatto che i catalano-aragonesi giunsero a Napoli solo nel 1442, mentre Palazzo Penne è del primissimo ‘400 e 2) il fatto che nè  in Catalogna, nè altrove in Spagna, ne è stato rintracciato alcun esempio

Le ricerche piu’ recenti inducono  invece a pensare che questa tipologia, tipica del solo Sud Italia e debitrice di originari modelli tardogotici, rappresenti una fusione, verosimilmente maturata in ambito napoletano, di elementi conservativi (tardomedievali) e innovativi (quattrocenteschi), variamente attinti anche da  un repertorio straniero.

Questo tipo di portale, poi, si diffuse dalla capitale del Regno alle province, in cui fu riproposto anche nel secolo XVI. Per quanto riguarda il Salento, portali di tipo catalano-durazzesco sono presenti  a Brindisi, nel Palazzo Granafei-Nervegna (1565) e nel  Palazzo  Ripa (1588), mentre a Lecce si ricordano almeno una decina di esempi, tra cui i Palazzi Guarini, Giustiniani, Palmieri, Giaconia, de Raho, e le ville Ammirato e Della Monica.

Esaminiamo ora partitamente i portali catalano-durazzeschi presenti a Manduria, iniziando dalla periferia occidentale di quella che un tempo era l’antica “terra murata” di Casalnuovo.

All’imbocco di  via Carceri Vecchie, in un’area  fortemente degradata, ci si para innanzi Palazzo Bonifacio. In esso alloggiava appunto, durante i periodici spostamenti a Manduria, la potente famiglia dei Bonifacio, feudatari che avevano la loro residenza abituale in Napoli , e che, dopo aver acquistato il feudo di Oria nel 1500, acquistarono  intorno al  1522 anche i feudi di Francavilla e Casalnuovo. Una tradizione  vuole che in questo Palazzo sia morto intorno al 1527 (e non nel 1554, come erroneamente  riferisce  il Tarentini) il giovane poeta Dragonetto Bonifacio, forse deceduto in seguito ad una caduta da cavallo. Un’altra versione  vuole invece che il giovane sia  morto  per “violento fumo di veleno”, mentre distillava un filtro amoroso (questa versione pare pero’ sorta in epoca piuttosto tarda).

Il palazzo Bonifacio di Manduria conserva il portale d’ingresso originario, anche se piuttosto malconcio: sulla ghiera esterna,  in pietra scelta, sono visibili  ancora le tracce della primitiva decorazione a rosette, che lo apparenta strettamente  agli altri due esempi manduriani, cioe’ il portale della presunta Sinagoga e quello di palazzo Pasanisi.

In effetti, anche nel portale d’ingresso di quella che da tutti  viene considerata la Sinagoga in cui si radunava la piccola comunità ebraica residente a Manduria, ritroviamo gli stessi elementi del portale di Palazzo Bonifacio, cioe’ la tipologia catalano-durazzesca, qui caratterizzata dalla prepotente presenza delle rinascimentali rosette decorative.

A proposito di questo edificio, siamo propensi a ritenere che esso, più che il luogo in cui si riuniva una comunità a scopo di preghiera, sia piuttosto il vestibolo di un palazzo patrizio del ‘500, che forse si apriva su un cortile. L’ambiente è molto piccolo, caratterizzato dalla presenza di una volta a sesto ribassato sostenuta da peducci del tipo “ad unghia” . Non ci è stato finora possibile esplorare l’ intero edificio che incorpora quest’ambiente, ma  teniamo a precisare che all’esterno (l’interno e’ stato stravolto) esso non presenta tracce di un uso cultuale. Il problema dell’effettiva destinazione d’uso di questo piccolo  ambiente potrà essere risolto solo con un attenta analisi delle strutture complessive dell’edificio che lo ingloba; il fatto che la tradizione vi identifichi la Sinagoga ebraica puo’ far pensare che essa  effettivamente sorgesse nell’area in cui poi fu costruito il palazzo.

Chiude la breve  rassegna dei portali catalano-durazzeschi manduriani l’esempio di Palazzo Pasanisi, sito in via Omodei. Esso presenta l’arco inquadrato dalla cornice rettangolare, e le rosette, questo inconfondibile motivo  decorativo rinascimentale  che tra l’altro ritroviamo in uno degli esemplari forse piu’ compiuti di portale cinquecentesco manduriano, cioe’ quello di Casa Ferrara, sito nella via  che prende il nome dal famoso cardinale. Il palazzo Pasanisi, mirabile esempio di architettura del ‘500 conservatosi pressochè intatto , è ulteriormente valorizzato in facciata  dalla presenza di un loggiato e di due finestre con cornici originali. In una zona piu’ nascosta del fronte si intravedono addirittura i resti di un’edicola affrescata con soggetto religioso, sicuramente d’epoca.

Concludiamo  qui questa breve disamina di alcuni fra i tanti episodi architettonici del rinascimento manduriano, segnalando in conclusione  che, nell’economia estetica del palazzo baronale , il portale svolge sempre  un ruolo-chiave: esso, al tempo stesso  reale e simbolico elemento di mediazione tra l’interno e l’esterno del palazzo nobiliare , rappresenta , come afferma G. Labrot, ” il gran pezzo di architettura”.

 

Manduria. Venerdì santo: istantanee per una processione

ph Nicola Morrone
ph Nicola Morrone

di Nicola Morrone

In altri paesi del Salento (Taranto, Francavilla, Gallipoli), a quanto pare,i giorni che precedono Pasqua si vivono all’insegna del raccoglimento e, per quanto ciascuno ne è capace, della preghiera. Nella nostra città, invece, questo Giovedì Santo è stata l’immagine della contraddizione spinta all’estremo, dell’incapacità dei manduriani di riappropriarsi della loro dimensione più intima. La serata dei cosiddetti “Sepolcri” si è svolta infatti in un contesto caotico, rumoroso e disordinato, del tutto privo del minimo barlume di buon senso e razionalità. Davanti ai nostri occhi, intorno alle 21.00, la contraddizione è esplosa. Un gruppo di confratelli, pregando e camminando con ordine dietro la Croce, percorreva la zona di Piazza Commestibili. Gli faceva eco l’assordante rumore (chiamarla musica e’ un eufemismo….) di un impianto HI-FI predisposto per l’inaugurazione di un locale, spento per un attimo solo al momento del passaggio del gruppo, per poi essere riacceso. Ci è venuta in mente , come per una folgorazione, l’urlo sacrosanto di un vecchio pescatore  di San Pietro in Bevagna, che costrinse i tecnici delle prove di un concerto estivo a spegnere l’audio, perchè di li a poco si sarebbe dovuta svolgere la Santa Messa… E che dire dei confratelli (e consorelle) delle varie congreghe, che percorrevano le strade del paese dietro la Croce di Cristo, sopraffatti dalla violenza del traffico automobilistico? L’isola pedonale, quella sera,sarebbe dovuta durare molto di più.Davanti ai nostri occhi esterrefatti (siamo infatti  degli ingenui…) si è riprodotto il feroce contrasto tra “tradizione” e modernità, una ferita che è davvero difficile possa prima o poi rimarginarsi .Del tutto differente , invece, è stato ciò che abbiamo visto la sera successiva. La  processione del Venerdì Santo (è proprio il caso di dirlo: grazie a Dio) si è svolta  in un clima di silenzio e preghiera, presentandosi  come un percorso strutturato, condiviso e soprattutto atteso. Che ci ha restituito, naturalmente , il piacere intimo che solo le processioni del Sud Italia  riescono ancora a dare.

Queste brevi note non sono nient’altro che la sintesi di ciò che i nostri occhi sono stati capaci di cogliere quella sera. I nostri occhi, cioè  la perfetta “macchina da presa”, capaci   soprattutto di non disturbare,  con la loro discreta  presenza, questo evento religioso, che l’uso diffuso di fotocamere e altre diavolerie rischia costantemente  di ridurre a spettacolo popolare.  Abbiamo preso parte  alla processione, come sempre, dall’interno del corteo, soprattutto per evitare di sentirci semplici spettatori di un momento di fede. A Manduria, come è noto,  la Processione dei Misteri è sostanzialmente   diversa  rispetto a quella di altre note località del Salento. Da noi, niente confratelli  incappucciati, niente penitenti con pesanti croci sulle spalle, nessuna concessione di troppo all’esteriorità. Non diamo giudizi di valore, non facciamo confronti: la nostra processione , da che vi partecipiamo, ha sempre avuto questo aspetto. Ciò che ci colpisce , anno dopo anno, è invece la  grande partecipazione della gente, all’interno e all’esterno del corteo: la processione del Venerdì Santo, a Manduria, è forse l’unico momento dell’anno, insieme  alla Festa di San Gregorio e a quella dei Santi Medici, in cui è possibile avere un’idea della consistenza numerica dei manduriani. Che sono tanti , davvero tanti, e vederli tutti insieme fa un certo effetto. Ci sono passate davanti, quasi come in una carrellata cinematografica, le loro facce , mentre procedevamo dietro la statua di Cristo Crocifisso. Facce sfuggenti, la cui sostanza umana è chiaramente inafferrabile. Facce dietro cui , singolarmente , si nascondono certamente  slanci e chiusure inimmaginabili. Una sola  certezza, però, su gran parte di questa  gente  (la nostra  gente) ce l’abbiamo, e la verifichiamo quotidianamente. Ed è la seguente. La maggior parte di quelle facce chiude i momenti principali della sua quotidianità nella  confortevole dimensione del proprio privato domestico, senza dedicare tempo alla comunità. La maggior parte dei Manduriani, diciamola tutta,  non ha la minima percezione della comunità. Vizio antico del Meridione, forse, con conseguenze pesantissime sulla realtà concreta della nostra città, che vive un momento di declino a cui , qualche anno fa, non immaginavamo neanche lontanamente si potesse arrivare. Confidavamo ad un amico, in processione, un nostro personale convincimento. Lassù , una domanda ci verrà sicuramente fatta. Colui che giudica, dopo essersi puntualmente informato su come ci siamo comportati nell’ambito familiare (e i nostri concittadini, feroci difensori del  vessillo del privato, avranno naturalmente la risposta pronta) , vorrà probabilmente sapere quanto del nostro tempo abbiamo dedicato alla comunità cittadina. Immaginiamo fin da ora molte facce sorprese, molti trasalimenti, molte risposte smozzicate…

 

 

L’arte contemporanea a Manduria: quello che c’era e quello che (non) c’è

 

Galleria Pliniana

di Nicola Morrone

 

Rovistando tra i materiali non catalogati della Biblioteca Comunale “M.Gatti, cortesemente messi a disposizione dalla Direttrice Dott.ssa Carmelina Greco, ci è recentemente occorso di trovare alcune interessanti testimonianze dell’attivita’ culturale cittadina dei tempi passati. E ci siamo non poco sorpresi nello scoprire che quarant’anni fa, sicuramente tra il 1973 e il 1978, fu attiva a Manduria addirittura una galleria d’arte contemporanea.

Non abbiamo ricordi personali di quel periodo storico, ma, in astratto, eravamo portati a pensare che il fermento culturale cittadino di quarant’anni fa fosse piu’ limitato rispetto a quello attuale, che di per se stesso già non è particolarmente significativo. Questa nostra impressione si basava su assunti di tipo sociologico: minor livello generale di scolarizzazione, piu’ bassa quantita’ di stimoli culturali offerti dai media, ecc.

Chi ha vissuto personalmente quella temperie sociale e culturale, invece, concordemente afferma che Manduria, quarant’anni fa, era senz’altro più vivace di oggi , anche dal punto di vista del fermento artistico. Ci siamo allora messi sulle tracce di quella piccola ma singolarissima esperienza rappresentata dal Centro artistico culturale “Galleria d’arte Pliniana”, cercando di riassumerne la storia, breve ma intensa, raccogliendo informazioni , per quanto possibile, da coloro che da vicino condivisero quell’avventura.

Un’avventura che, non lo nascondiamo, vorremmo si ripetesse ancora una volta, come per magia, animando con il suo soffio il desolante panorama culturale cittadino.

D'Aloisio

La “Galleria d’arte Pliniana”, come riferisce la Sig.Rita Stranieri, fu fondata nei primissimi anni ’70 da due privati cittadini, cioe’ la Prof.ssa Marisa D’Aloisio (ideatrice) e il Sig. Giuseppe Stranieri (principale collaboratore). Fu una iniziativa eminentemente privata, legata all’attivita’ di pittrice della Prof.ssa D’Aloisio, e non ebbe alcun contributo dal Comune di Manduria, se si eccettua il sostegno finanziario per l’allestimento della mostra collettiva “Incontro di pittori salentini”, che si tenne nei locali della Galleria dal 24 Marzo al 2 Aprile 1973.La Galleria , inizialmente ubicata in via Cesare Cantu’, si sposto’ poi sulla via per Maruggio.L’esperienza espositiva manduriana si concluse dopo circa un quinquennio (1973-1978), perchè i Sig.ri D’Aloisio e Stranieri decisero di aprire a Taranto la galleria d’arte “Diesse”.

Sulla base delle testimonianze raccolte, non siamo in grado di accertare quanto la Galleria Pliniana abbia stimolato il mercato dell’arte, che a Manduria è stato sempre oltremodo asfittico, ma pare sicuro che quello spazio espositivo rappresentasse un punto di riferimento per la locale borghesia colta.

La galleria promosse nomi famosi della pittura dell’epoca , come Armando Pizzinato, ma anche iniziative rivolte ai giovani artisti, come documentano i vari cataloghi delle mostre, stampati in un formato e con una grafica moderni. Erano, a quanto pare, anni fortunati:a Taranto e a Lecce esistevano due attivi Licei Artistici, e vari giovani manduriani li frequentavano, creando automaticamente un’osmosi tra quegli ambienti e la situazione cittadina.

La Sig.ra Patrizia Tatullo, nipote della Prof.ssa D’Aloisio, ricorda chiaramente il fermento di quegli anni lontani, e in particolare evidenzia che nella casa tarantina della Prof.ssa D’Aloisio (che rimase sempre il vero motore dell’iniziativa) si riunivano i pittori che , prima di esporre in Galleria, discutevano appassionatamente dei principali problemi artistici contemporanei.

Il Prof. Enzo De Cillis, da sempre inserito nell’ambiente artistico cittadino, ricorda l’atmosfera degli anni della “Pliniana”,alla cui esperienza partecipo’ direttamente, e ci tiene a sottolineare con chiarezza che , rispetto ad oggi, c’era in generale piu’ interesse intorno all’arte contemporanea. E aggiunge che , in ogni caso, l’esperienza della Galleria Pliniana, per la professionalità dei gestori e il livello degli espositori, non si può paragonare a cio’ che e’ venuto dopo, cioè ai piccoli tentativi di aprire spazi espositivi (privati) tutti destinati ad esaurirsi subito.

Da quello che emerge, insomma , l’esperienza della Galleria Pliniana, anche se breve , è stata significativa. Appartiene però, ormai, al passato.

La situazione attuale, invece,almeno in relazione alla quantità e qualità degli spazi espositivi per i giovani ( e meno giovani) artisti contemporanei è francamente desolante. Una città delle dimensioni di Manduria non offre, allo stato attuale, alcuno spazio pubblico per l’esposizione e la fuizione di opere d’arte contemporanea.

La nostra realtà, quando ne è in grado, esibisce (giustamente) le glorie artistiche di un passato più o meno lontano (a volte lontanissimo) ma è totalmente sorda al riconoscimento dei valori artistici contemporanei. Il prof. Pietro Guida (artista che non ha certo bisogno di presentazioni) ribadisce senza mezzi termini che il contesto manduriano è ” totalmente inerte” di fronte alle sollecitazioni dell’arte contemporanea.

E il prof. Aldo Pezzarossa, anch’egli da tempo impegnato, con significativi risultati, sulla scena artistica contemporanea , sottolinea i limiti che da sempre caratterizzano il contesto locale, in special modo rimarcando , oltre che il ridotto coinvolgimento dell’Ente Pubblico rispetto al passato,la totale, storica assenza di sostegno dell’imprenditoria privata nei confronti degli artisti.Quali sono, in questa situazione, le prospettive per il futuro?

Difficile dirlo.

A nosto avviso, se i creativi locali , vecchi e nuovi (alcuni dei quali, purtroppo, patologicamente centrati solo su se stessi) volessero iniziare un’avventura comune, si potrebbe ripartire dagli spazi pubblici.

In particolare, dal Monastero delle Servite, che dopo la felice esperienza della mostra “Numero Zero” non ha più ospitato eventi artistici di rilievo. Ma occorre una progettualita’ chiara e collettiva, oltre che il coinvolgimento dell’Ente Pubblico. Per Manduria,comunque, uno spazio espositivo dedicato al’arte contemporanea non esaurirebbe la sua funzione solo come contenitore d’arte, ma costituirebbe soprattutto un centro d’aggregazione permanente.

E Dio solo sa quanto si ha bisogno di questi spazi, alle nostre latitudini…

Santa Maria di Costantinopoli: una devozione dimenticata

Statua

 

di Nicola Morrone

 

Appena distinguibile nella penombra, collocata in una nicchia nella parete di fondo di una delle piu’ belle chiese barocche di Manduria, c’è la statua della Madonna di Costantinopoli.

E’ una delle poche opere di scultura litica policroma che il patrimonio artistico cittadino puo’ annoverare, ma soprattutto è l’unica testimonianza superstite, insieme a non piu’ di un paio di dipinti,  di una devozione dimenticata, alimentata in passato dall’esistenza di  una  specifica  confraternita.

La devozione per la Madonna di Costantinopoli nelle terre del Sud Italia ha origine da un fatto drammatico per la cristianità: nel 1453  i Turchi, di religione musulmana, assediarono e conquistarono Costantinopoli,  cioè il principale punto di riferimento religioso per i cristiani d’Oriente, oltre che la  capitale di un vasto impero (l’impero bizantino) la cui parabola storica era durata quasi un millennio. Gli abitanti di Costantinopoli si rivolsero, in quella triste circostanza, alla protezione della Madonna Odegitria, che  sottrasse  la popolazione a  conseguenze ancora piu’ disastrose.

Il culto per la Vergine, già fortemente radicato in Oriente, si rafforzò dunque  ulteriormente dopo il dramma della conquista musulmana. I Turchi, nell’ambito del loro progetto  espansionistico, arrivarono però ad insidiare anche l’Occidente: presero Otranto nel 1480, e da allora il pericolo  di un assoggettamento  non  solo delle terre meridionali, ma dell’intera penisola, e di tutta l’Europa, si fece terribilmente concreto. Così, la gente meridionale decise  di mettersi sotto la protezione particolare  della Vergine di Costantinopoli, e il clero decise di sostenere questa esigenza collettiva con  l’edificazione di cappelle ed edicole votive dedicate alla nuova patrona.

Questo  si verificò  anche a Manduria. Stando a quanto sostiene  il Tarentini nella sua “Manduria Sacra” (Manduria 1899), ai primi del sec.XVI, cioè  ad appena mezzo secolo dalla caduta della capitale dell’impero bizantino in mano turca, si sviluppò nella cittadina messapica  una devozione specifica per la Vergine  di Costantinopoli. In verità, per il momento non disponiamo di  un riferimento cronologico preciso relativo alla nascita  di questa devozione in ambito locale . Lo stesso  Tarentini, però,  riferisce, su base documentaria,  che nel 1587 esisteva sicuramente un confraternita sotto il titolo di Santa Maria di Costantinopoli, che faceva riferimento ad una cappella, situata  nel sec. XVI nel luogo in cui  attualmente sorge la chiesa di San Leonardo Abate.

Non siamo in grado di sapere, per mancanza di documenti, se oggetto concreto  della venerazione dei confratelli fosse un dipinto (un’opera tardo bizantina?) o una statua: della suppellettile della distrutta cappella non rimane la minima traccia, nè artistica nè documentaria.

La cappella fu distrutta nel 1702  per far posto all’erigenda chiesa di San Leonardo, attualmente visibile, ma il culto verso la Madonna, evidentemente radicato in modo significativo nella popolazione, non si estinse con la distruzione della  vecchia chiesa.

Dopo circa due secoli di permanenza nel luogo di culto originario, infatti,  la devozione “migrò” in un nuovo edificio, già in costruzione, che sarebbe stato intitolato proprio alla Madonna invocata contro il pericolo turco.

Oggi, le uniche  testimonianze visive della devozione per Santa Maria di Costantinopoli  a Manduria sono  costituite da due dipinti e da una statua litica. Nella  Chiesa Matrice si trova  una tela raffigurante  la Madonna di Costantinopoli, San Nicola e il committente (un ecclesiastico non identificato). In Santa Maria , invece, le testimonianze del culto sono due, un dipinto e una statua, rispettivamente realizzate la prima  su impulso privato (nobiliare), e la seconda  su iniziativa  ecclesiastica (ordine degli Agostiniani).

Sono entrambe accomunate  dalla presenza di  un  attributo iconografico particolare, l’unico che di fatto ci permette di ricondurre entrambi i manufatti  ad una devozione per la Vergine  di Costantinopoli. Sia nel dipinto che nel basamento della statua sono raffigurati infatti alcuni soldati  turchi che scappano da un edificio in fiamme, evidente riferimento all’assedio musulmano di Costantinopoli del 1453 e alle probabili profanazioni di luoghi sacri, le cui conseguenze furono mitigate, ma non del tutto impedite, dall’intervento della Vergine .Il dipinto, di intonazione marcatamente devozionale , è probabilmente opera dell’astigiano Secondo La Veglia, che lo realizzò nella seconda metà del sec. XVIII.

La statua in pietra policroma, graziosa, anche se invero collocata in posizione piuttosto appartata, è opera di autore ignoto, forse locale, ed è fatta risalire, col conforto documentario, al 1725, anno della consacrazione della chiesa.

Si tratta di una scultura di intonazione devota: la Madonna,dalle fattezze spiccatamente popolari e dallo sguardo fermo, regge in braccio il Bambino, che si rivolge all’osservatore con gesto benedicente. Ella indossa velo bianco, tunica rossa e mantello azzurro, questi ultimi caratterizzati dalla presenza di una decorazione floreale dorata, che pare  imitare,  in modo semplificato, il ricco “estofado ” delle  coeve sculture lignee barocche, di cui nelle chiese manduriane è apprezzabile più di un esempio.

Dipinto

 

Iconografia nicolaiana a Manduria (o il santo in trasferta)

1)Morte di San Nicola
Morte di San Nicola

di Nicola Morrone

San Nicola di Bari, si sa, è il patrono di Uggiano Montefusco. Nella frazione di Manduria esiste infatti la cappella del sec. XVIII dedicata al Santo, corredata della statua di cartapesta dipinta del sec. XIX e del relativo reliquiario.E sarebbe interessante che i ricercatori locali precisassero, nei limiti consentiti dalla documentazione disponibile, quando è stato introdotto a Uggiano il culto del Santo. Ma esistono tracce di una devozione per San Nicola anche nella vicina Manduria. Le abbiamo recentemente rintracciate e ricostruite, anche sulla scorta di un interessante documento manoscritto a firma di don Salvatore Greco (1842-1922), arciprete di Manduria dal 1898 alla morte. Tale documento si trova nel Fondo Manoscritti della Biblioteca Comunale di Manduria, recentemente riordinato dallo studioso Elio Dimitri e cortesemente messo a disposizione dei ricercatori di patrie memorie dalla Dott.ssa Carmelina Greco.

Il foglio manoscritto, collocato MS-A-XVII-13, può ben rappresentare, per le notizie in esso contenute, un ragguaglio storico sull’iconografia nicolaiana a Manduria. Lo abbiamo verificato ed approfondito, per avere un’idea complessiva delle tracce superstiti del culto del vescovo di Myra nella città messapica. Di cosa si tratta? Di una lettera, che don Salvatore Greco inviò il 25 Settembre 1898, su richiesta dal vescovo di Oria, fornendo alcune indicazioni storiche sul culto di San Nicola nella nostra città, poco prima che Leonardo Tarentini pubblicasse la sua “Manduria Sacra”, uscita per i tipi della D’Errico nel 1899.

Siamo portati ad immaginare che il Greco si sia consultato con il Tarentini per le notizie storiche da fornire al vescovo: il Tarentini era infatti a quell’epoca il miglior conoscitore delle vicende storiche della chiesa mandurina, nelle sue varie articolazioni.

2)Morte di San Nicola

L’arciprete della chiesa matrice afferma di essersi comunque documentato soprattutto nell’Archivio della Collegiata, che all’epoca del Tarentini rappresentava una vera miniera di notizie, prima delle dispersioni di documenti che ebbero luogo nel sec. XX.Orbene, nella sua notizia il Greco afferma testualmente che “nell’anno 1300 esisteva in questa Collegiata un altare dedicato a San Nicola, di cui si ignora l’origine. Nel 1555 lo stesso altare fu demolito e rifatto immediatamente . Nel 1755 fu assolutamente distrutto per le modifiche avvenute nella chiesa, ma il Capitolo per conservare la memoria del Santo fece scolpire una statua in pietra di Lecce, dorata, che tuttora esiste in una nicchia nell’abside dell’altare maggiore. Nel 1640 esisteva fuori dalle mura di questa città una chiesolina dedicata al Santo, e propriamente sita alla metà di quel viottolo che comincia poco più in là del convento dei Padri Passionisti, e avea detta chiesa un altare ed un affresco rappresentante il Santo Vescovo fra un coro di angeli.[….] Nel 1737 la detta cappella era quasi cadente, tanto che il Capitolo medesimo ne ordino’ la demolizione, e fino a questi ultimi tempi si vedevano gli ultimi avanzi. Nel 1720 la famiglia Arno’-Quattrocchi, devotissima di questo Santo, fece costruire a proprie spese un altare di marmo nella chiesa dei PP. delle Scuole Pie in Manduria, ed ora la Congrega del Carmine, con un quadro di tela rappresentante la preziosa morte del Santo Vescovo. Il bozzetto di detto quadro trovasi nella Chiesa degli ex Cappuccini di Manduria, ora i frati minori di San Francesco, regalato dal sig. Felice Sala. Nella Chiesa dell’Immacolata anche in Manduria nel 1737 esisteva un altare, dedicato al detto Santo fin dal 1667, con un affresco rappresentante il Santo in atto di pregare“.

Fin qui, la notizia di don Salvatore Greco.Ma in effetti cosa resta, allo stato attuale, delle testimonianze materiali del culto di San Nicola elencate scrupolosamente dal Greco nella sua lettera al Vescovo? Esaminiamole partitamente. Chiaramente, non vi è traccia , neanche documentaria, del presunto altare del XIV sec. collocato nella chiesa matrice dell’allora Casalnuovo, spazzato via dalla totale ricostruzione della chiesa effettuata nel sec. XVI.

3) Arc.Salvatore Greco

Sparito anche l’altare rifatto nel 1555, la cui esistenza si potra’ verificare, eventualmente, solo con uno spoglio delle visite pastorali nell’Archivio Vescovile di Oria. Tale altare rinascimentale, verosimilmente “sacrificato” nell’ambito delle varie modifiche che nel corso dei secoli hanno caratterizzato l’assetto della chiesa matrice, non compare comunque nel “Campione “ del 1738, che invece documenta l’esistenza di una reliquia di San Nicola.

In sostanza, oggi l’unica testimonianza visibile della presenza di San Nicola nella Collegiata mandurina ò la statua in pietra leccese dorata, citata dal Greco e collocata ancora al suo posto, cioè nell’abside della chiesa matrice. Essa è stata realizzata, come è noto, dallo scultore Placido Buffelli di Alessano nel sec. XVII. E’ invece del tutto scomparsa la cappella campestre di San Nicolo’, un tempo collocata nei pressi del convento dei PP.Passionisti, e di cui il Tarentini , sul finire del sec. XIX, poteva ancora osservare i ruderi. Del resto, completamente alterato è l’aspetto della cappella di San Nicola che esisteva nella chiesa dell’Immacolata. Essa era caratterizzata dalla presenza di un affresco parietale e del corrispettivo altare, la cui esistenza era ancora verificabile al tempo della Santa Visita di Monsignor Francia (1698). Al posto dell’originaria iconografia nicolaiana, nella chiesa dell’Immacolata c’è ora una tela con la Presentazione di Maria al Tempio.

In conclusione, l’unico elemento superstite di una vera e propria devozione per il Santo Vescovo di Myra a Manduria èattualmente la cappella collocata nella chiesa dei SS. Apostoli (comunemente detta delle Scuole Pie), sul lato destro dell’unica navata. Si tratta di una notevole testimonianza d’arte, di marca schiettamente barocca, costituita da un insieme organico e ben strutturato di elementi architettonici, plastici e pittorici. Essa documenta la presenza di una devozione di segno aristocratico (di cui non possiamo valutare l’attecchimento nella popolazione, per mancanza di testimonianze): l’iniziativa della costruzione della cappella si deve infatti alla famiglia patrizia degli Arno’-Quattrocchi, che nel 1710 (secondo il Tarentini) o nel 1720 (secondo Don Salvatore Greco) vollero finanziare la realizzazione dell’opera, come documentano, tra l’altro, gli stemmi nobiliari posti nei cantonali della macchina d’altare. La cappella è caratterizzata dalla presenza di un sobrio altare, un commesso marmoreo ad intarsio (verosimilmente opera di artefici napoletani), e da una cona poco aggettante , che occupa l’intera parete della cappella, e che è qualificata dalla tela centrale, un dipinto di ambito pugliese raffigurante la Morte del Santo, risalente, secondo la recente catalogazione effettuata da M. Guastella (2002) alla meta’ del ‘700. Ai lati della tela, due interessanti inserti plastici: due putti alati su mensole, che reggono gli attributi iconografici di San Nicola, denotanti la sua dignità episcopale, cioè la mitra e il pastorale (quest’ultimo perduto).

San Nicola  alle Scuole Pie 001

Due maschere antropomorfe, a mo’ di capitelli, chiudono la cona, valorizzata, come tutto l’insieme, anche dalla presenza dei marmi policromi. Arricchiscono la cappella sul piano decorativo anche quattro telette laterali, rappresentanti Miracoli di San Nicola e attribuiti dubitativamente da M. Guastella alla scuola manduriana dei Bianchi. Si è inoltre salvata anche la tela con la Morte di San Nicola, verosimilmente di ambito pugliese della metà del ‘700, custodita presso il convento di Sant’Antonio e riportata fedelmente nella lettera di don Salvatore Greco.

Ci piace infine ricordare che esiste una ulteriore, piccola testimonianza figurativa della presenza di San Nicola a Manduria, rappresentata dal frammento di affresco bizantino collocato sulla scala che conduce alla Biblioteca Comunale. Esso, che raffigura il Santo Vescovo di Myra insieme a San Giacomo Maggiore, riconoscibili dai rispettivi attributi iconografici, faceva parte di una perduta scena di “Dormitio Virginis”, collocata probabilmente in una cappella medievale dedicata alla Madonna. L’affresco e’ databile al sec. XIV.

 

Novità archivistiche sul santuario di San Pietro in Bevagna

Santuario di San Pietro in Bevagna

 

di Nicola Morrone

Come è noto ai più, gran parte delle fonti storiche utili ad una ricostruzione delle vicende che hanno interessato le istituzioni religiose secolari e regolari della nostra diocesi è conservata nell’Archivio vescovile di Oria , sito appunto nella graziosa cittadina messapica, nei pressi della Cattedrale. Soprattutto dopo il recente riordino, a partire da questo ricco patrimonio documentario, costituito da migliaia di carte, lo storico locale e quello accademico possono studiare con profitto anche la storia della chiesa mandurina, nelle sue varie articolazioni.

Con il cortese consenso di Don Daniele Conte, direttore dell’Archivio, e con l’aiuto delle sue collaboratrici, ci siamo piu’ volte accostati ai fondi manoscritti, nella speranza di trarre notizie utili, in particolare, ad una ricostruzione della storia artistica mandurina dei secoli moderni. Soprattutto per le epoche più antiche, non sempre i risultati sono stati proporzionati alle aspettative (i fondi contengono documentazione in particolar modo a partire dal sec. XVI) ma da uno studio accurato dei documenti sono comunque emersi dati interessanti, e in alcuni casi, vere e proprie novità archivistiche.

Ci siamo negli ultimi tempi dedicati allo studio delle comunita’ religiose maschili, delle cappelle rurali, e in particolar modo abbiamo scandagliato il faldone (gia’ noto da tempo agli studiosi, a partire da Primaldo Coco) riguardante l’abbazia di San Pietro in Bevagna.

Abbiamo avuto il primo approccio con quest’ultimo fondo manoscritto al tempo della stesura della nostra tesi di laurea sul Santuario costiero manduriano, tra il 2004 e il 2005, traendone utili e, in taluni casi, inedite informazioni, chiaramente sostenute, per una loro migliore comprensione, dalla preliminare lettura di tutto la bibliografia prodotta sull’argomento, riassunta da E.Dimitri in un saggio del 1993.

A quella prima ricognizione ne seguirono altre, tutte finalizzate a trarre il maggior numero di indicazioni utili ad una ricostruzione dell’aspetto materiale della cappella di San Pietro in Bevagna nel corso dei secoli, e possibilmente, anche dell’abbazia benedettina che ancora resiste, allo stato di rudere, ad un centinaio di metri di distanza dal santuario, in direzione Nord.

Allo stato attuale, le notizie piu’ preziose per la nostra ricerca sono state fornite dai documenti del sec. XIX. Questi ultimi, tra l’altro, si sono rivelati nella gran parte dei casi anche di piu’ facile lettura rispetto alle carte dei secoli precedenti (XVII e XVIII),che pure riveleranno in futuro, a chi avra’ la pazienza di compulsarle, molti altri preziosi dati.

Particolarmente proficua per la ricerca storico-artistica e’ stata la consultazione degli “Inventari dei beni” del santuario, che periodicamente venivano redatti dai Rettori, al fine di avere (e trasmettere ai superiori) una conoscenza precisa della suppellettile in dotazione alla cappella petrina.

Il primo documento utile alla nostra ricerca è risultato essere un inventario redatto da Don Giuseppe Ferrara, rettore del Santuario, risalente al 1836 (pubblicato dal Coco in appendice alla sua monografia su San Pietro in Bevagna, data alle stampe nel 1915). Dalla sua lettura abbiamo appreso che nella cappella petrina esisteva ancora, alla meta’ dell’800, una dignitosa suppellettile liturgica e un buon numero di paramenti sacri, di cui però non è precisata la datazione.

Barca d'argento (1889)

 

 

Nella chiesetta, per esempio,vi erano ancora “una pisside con la coppa d’argento e piede d’ottone, un calice con la sua patena tutto d’argento, una reliquia di San Pietro con l’ostensorio [leggasi:reliquiario] fogliato d’argento” , e ancora “quattro candelieri con la croce all’altare di marmo e quattro piu’ piccoli con la croce all’altare di pietra detto Spirito Santo tutti otto di ottone; quattro frasche di foglie di ottone,(….) il quadro di San Pietro con la sua cornice e lastra, ecc.”.

Sia detto per inciso: tutti questi oggetti, ancora in uso nel Santuario fino a due secoli fa, sono stati purtroppo accomunati da un unico destino, cioe’ la dispersione, e a nessuno e’ certamente dato recuperarli.

Come scrive Michele Paone in relazione alla vastissima quadreria degli Imperiale di Francavilla, questi oggetti sono ”cose di un tempo perduto, cose ormai lontane, disperse, forse distrutte, sono lacrimae rerum”, sottolineando pero’ che, grazie ai descrittivi inventari cartacei ancora superstiti, essi “riacquistano spessore e consistenza, umore, forme e colori, in una parola, la loro antica realtà”.

Il secondo documento rappresenta una vera e propria scoperta archivistica, relativa ad un oggetto tuttora conservato nel Santuario, miracolosamente scampato alla dispersione dell’intera suppellettile ottocentesca.Questo oggetto e’ la “barca d’argento”(visibile nell’elaborazione fotografica dell’amico Mino Morrone) applicata per molto tempo alla base del quadro processionale di San Pietro, e proprio in virtù di tale pratica esigenza, ancora esistente, ed attualmente collocata in una vetrinetta nel sacello petrino, insieme a due altri significativi ex-voto di privati cittadini. Il documento ad esso pertinente e’ collocato nella cartella 40 del fondo “San Pietro in Bevagna”, con l’indicazione “Dono del popolo di Manduria al Santuario” e la data 1889. Questo il testo del documento: ”L’anno 1889, il giorno 25 del mese di Giugno si e’ presentato in questa Curia Vescovile il Sacerdote D. Saverio Polverino da Manduria, ed ha presentato un oggetto di argento del peso di once undici e tre quarti, fatto lavorare da una Deputazione di Manduriani, de’ quali ci ha presentato ancora i nomi, per rimetterlo alla chiesa di San Pietro in Bevagna, come offerta fatta dal popolo a San Pietro. L’oggetto rappresenta una Barca sormontata da un triregno, con lavori e pietre, filettato d’oro, con sopra un globo dorato, e al di sopra di questo una croce, colle infule anche lavorate con ornati d’oro, con un’ancora che lo sostiene; piu’ una Croce a destra e un Pastorale Pontificio a sinistra. Tutti questi accessori che trovansi al di sopra della Barca son tutti d’argento. Noi dichiariamo di aver ricevuto l’oggetto sopradescritto, per rimetterlo al Cappellano del detto Santuario di San Pietro in Bevagna. Oria, dalla Curia Vescovile, 8 Agosto 1889. (Firmato) Tommaso vescovo di Oria [trattasi di Monsignor Tommaso Montefusco, vescovo di Oria dal 1888 al 1895].

Il manufatto, di cui non si conosce l’autore (verosimilmente un argentiere locale) e’ importante proprio perche’ e’ un ex-voto offerto da tutta la comunita’ manduriana al Santuario. Infine, in dotazione da almeno tre secoli alla chiesa di San Pietro in Bevagna c’è pure un’altra, in questo caso monumentale, reliquia del passato, cioe’ il meraviglioso altare maggiore, che campeggia al centro del presbiterio. Si tratta di un commesso marmoreo policromo barocco, verosimilmente di scuola napoletana, su cui non abbiamo rintracciato finora documentazione d’archivio (quest’ultima potrebbe dare una risposta a molteplici interrogativi:in quale anno esso fu realizzato,chi ne fu l’artefice,quanto costo’, ecc.). L’altare, comunque, fu con ogni probabilità commissionato dal potente ordine monastico dei Benedettini d’Aversa, nel cui possesso ricaddero il Santuario e l’abbazia dalla fine del sec. XI all’inizio del sec. XIX. Vale la pena descriverlo brevemente.

E’caratterizzato da un paliotto a motivi rettilinei, che diventano volutiformi nel medaglione centrale, ed ha ampia mensa retta da mensoloni a volute su snelli pilastrini. Il postergale, a due ordini, è concluso alle estremità da putti capialtare. Il tabernacolo, figurato, non conserva la portella d’argento originaria. Nei cantonali non compare lo stemma del committente, mentre nella parte posteriore, purtroppo, non c’e’ l’epigrafe con l’anno di consacrazione.

 

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Nelle chiese manduriane, tra l’altro, sono ancora presenti una decina di commessi marmorei barocchi napoletani, di cui solo la ricerca d’archivio potrà precisare datazione, artefici, committenti e costi. Si tratta di opere che, ingiustamente definite seriali, rappresentano invece (come del resto le molteplici statue lignee policrome che spesso le sormontano) veri e propri capolavori dell’arte napoletana dei secoli d’oro, meritevoli, per la loro importanza, di uno studio di carattere monografico.

In conclusione, le informazioni rintracciate sulla suppellettile del Santuario di San Pietro in Bevagna (in passato ricca e preziosa), in uno con le opere ancora superstiti, ci obbligano a riconsiderare l’importanza storica di quella che, a motivo del presunto passaggio petrino e di una radicatissima devozione popolare, fu sempre, per il popolo, molto piu’ che una piccola e periferica cappella campestre.

 

 

 

 

Iconografia sacra a Manduria: spunti di riflessione

di Nicola Morrone

Nel 2002 fu pubblicato un volume di importanza fondamentale per la conoscenza del patrimonio artistico locale, vale a dire “Iconografia Sacra a Manduria”, curato da M.Guastella. Da questo imponente lavoro ormai non si potra’ prescindere , ogni qualvolta si vorranno ricostruire le vicende della produzione pittorica manduriana , magari apportando precisazioni e integrazioni alle informazioni ivi contenute. Con la pubblicazione del predetto volume, in ogni caso, la gran parte del patrimonio iconografico sacro “culto” del territorio di Manduria puo’ dirsi catalogato.Esiste pero’ un’altra produzione pittorica, che si è sviluppata parallelamente rispetto a quella “culta”, di qualità più o meno sostenuta, di collocazione prevalentemente urbana. Essa è precisamente la produzione definita”popolare”, di qualità nel complesso inferiore, e di collocazione prevalentemente rurale. Siamo dell’idea che anche questa produzione, pure quantitativamente minore rispetto a quella della città, meriti di essere catalogata con criteri scientifici. Ci riferiamo a tutta quella serie di dipinti (a fresco, a secco, a tempera su rame) collocati nelle edicole e nelle cappelle votive, la gran parte rurali, ma qualcuna anche urbana, alcune delle quali , pur nell’ambito di una compagine artistica comunemente definita”popolare”, sorprendono per il grado di elaborazione mostrato. E’ venuto quindi il tempo, dopo la pubblicazione della ” Iconografia sacra”, di rendere nota anche la “Iconografia sacra popolare” relativa al nostro territorio. Non si tratterà di un lavoro impegnativo quanto quell’altro, data, lo ripetiamo, la esiguità numerica delle testimonianze pittoriche “popolari” sparse tra la città e il contado, e comunque la ricerca si potra’ avvalere di alcuni strumenti preparatori, quali i volumi di B. Perretti (“Testimonianze cristiane nel territorio rurale di Manduria”, Manduria 2000) e di R.G.Coco (“Manduria tra Taranto e Capo d’Otranto. Etimo, mito e storia del territorio“, Manduria 2009). Alle indicazioni fornite in queste due opere , utili anche a meglio precisare l’ubicazione dei monumenti, per lo più votivi, che ospitano i manufatti pittorici (collocati spesso nei pressi delle vie di comunicazione principali della campagna) si dovrà aggiungere solo il lavoro di catalogazione vero e proprio, che preciserà soggetto, datazione, tecnica d’esecuzione e misure delle pitture e del monumento che le ospita.

Per quanto riguarda la datazione, sappiamo che la gran parte delle edicole superstiti e relativi dipinti risalgono a non prima del sec. XIX, epoca a partire dalla quale vi fu una vera e propria proliferazione di queste piccole ma significative testimonianze d’arte e, soprattutto, di fede. Gli autori sono, naturalmente, anonimi, nè è dato in qualche modo ricostruire la loro identità attraverso testimonianze scritte o orali. Ci si potrebbe però chiedere quale sia la necessità di realizzare un lavoro di catalogazione scientifica di questo patrimonio pittorico. Rispondiamo che si tratta non solo di una necessità meramente conoscitiva; non si tratta, cioè, solo di avere un’idea piu’ precisa della portata, qualità e quantità di questo patrimonio ritenuto comunemente “minore” o addirittura “minimo” rispetto alla contemporanea produzione pittorica “culta”, qualitativamente sostenuta, che rappresenta giustamente il vanto dell’arte locale. Le ragioni di un simile, auspicabile, anzi doveroso lavoro si giustificano con l’importanza intrinseca di questo piccolo patrimonio di cultura figurativa, per più motivi alternativo rispetto a quello dell’area urbana.

L’importanza della pittura manduriana definita “popolare” è essenzialmente di ordine storico, estetico e antropologico. Importanza storica, perchè le immagini sacre di fattura popolare sono un documento di una cultura figurativa che per lunghi secoli si è evoluta parallelamnete rispetto a quella colta e ufficiale. Lungi dall’essere frutto di “spontanea”ispirazione, anche la tradizione figurativa popolare ha avuto una sua tradizione tecnica e di contenuti, chiaramente non più ricostruibile per l’assoluta mancanza di testimonianze documentarie che nessuno, verosimilmente, si è mai preoccupato di produrre, proprio per la perifericità di questa cultura pittorica. Importanza estetica, perchè le immagini sacre popolari rappresentano un universo che si è evoluto con caratteri iconografici e formali propri, sempre facilmente distinguibili, e non certo riducibili (come di solito ritengono gli storici dell’arte) a copie più o meno fedeli di prodotti “colti”.

Il fascino che esercitano queste immagini apparentemente “senza tempo” è indubbio, proprio data la loro permanente carica di “primitivismo”. Questo patrimonio artistico, inoltre, si pone spesso in aspra opposizione, sul piano estetico, rispetto a quello “colto”, elaborato, formalmente più “evoluto”. Importanza antropologica, perchè le immagini popolari sono specchio non solo di un diverso modo di realizzare visivamente un dato tema iconografico, ma sottendono anche (come ha puntualmente sottolineato l’antropologo A. M. Cirese) una vera e propria concezione del mondo, se non addirittura un’ideologia, degne di essere studiate al pari di quelle espressione delle classi dominanti .Tutta la produzione pittorica popolare, quindi anche quella a soggetto sacro, oltre che avere un valore prevalentemente collettivo, si caratterizza sul piano formale per alcune costanti, in particolare per lo schematismo rappresentativo, per la stilizzazione che semplifica forme e tratti, per l’espressività caratterizzata da atteggiamenti fissi, per l’assenza di profondità spaziale e la mancanza di dettagli anatomici precisi, per l’assenza di valori chiaroscurali. Sul piano sociale, essa si sviluppa in un ambito di artigianato domestico e si tramanda nelle zone più periferiche e subalterne. Inoltre (riprendendo ancora una fondamentale osservazione di un noto studioso) una caratteristica costante che identifica il prodotto figurativo popolare è la riproposizione dei motivi. Cioè, ciò che caratterizza in prima istanza un manufatto pittorico popolare (come anche un prodotto poetico-letterario popolare) è ”la ripetizione, talora variata, di un modello, e il cui ideale non sta tanto nella novità del messaggio, quanto invece nella capacità, talora vertiginosa, di restare saldi all’interno di un sistema e di operare variazioni interne che sfruttano tutte le possibilità logiche del sistema stesso” (A. M. Cirese).

In seno a questo ampio patrimonio figurativo, che, come già detto, dobbiamo doverosamente riscoprire e scientificamente catalogare, saremo comunque sempre in grado di distinguere il singolo prodotto, la singola mano del pittore- contadino che, pur avendo maturato la sua esperienza nell’ambito della vasta koinè artistica che definiamo “popolare”, lascia il segno della sua individualità, ma sempre in ossequioso rispetto del modello.

 

Un documento ritrovato: il “Campione” del convento del SS. Rosario di Manduria (1697)

di Nicola Morrone

Durante le nostre peregrinazioni nei luoghi istituzionali della cultura (musei, archivi, biblioteche) ci e’ capitato nei giorni scorsi , auspice un  fortunato riferimento bibliografico, di rinvenire  un antico  codice, ritenuto dagli studiosi  ormai definitivamente perduto, al pari di tanti altri importanti documenti relativi alla storia  di Manduria. Si tratta di un codice manoscritto, conservato nell’Archivio di Stato di Lecce, precisamente nel Fondo “Intendenza di finanza, Platee dei Monasteri soppressi”. E’ un volume cartaceo, di cm. 25,5 X 37 , composto di 115 carte numerate, alcune delle quali bianche, in discreto stato di conservazione, intitolato ”Campione, Codice et Inventario maggiore di tutti stabili, et annui censi, che possiede il Venerabile Convento del SS. Rosario, seu della Pace dell’Illustrissima Religione di Santo Domenico, della Terra di Casalnovo”. In concreto, il volume manoscritto  è una “platea” (o inventario, o stellone, o cabreo, nelle diverse denominazioni), cioe’ lo strumento fondamentale di cui si  dotarono nei secoli  i monasteri allo scopo di ricostruire con precisione il patrimonio posseduto, e di poter garantire un corretta ed efficace amministrazione di beni di diversa provenienza, che soprattutto nei secoli XVII e XVIIII iniziarono ad arricchire i monasteri stessi, e soprattutto per prevenire eventuali usurpazioni a danno dei beni posseduti, che , spesso distribuiti su ampie superfici territoriali, erano difficili da controllare.

Il documento in oggetto, come  ogni “platea” monastica, descrive con estrema precisione (naturalmente per un arco di tempo limitato, cioè grosso modo il sec. XVIII) i diversi beni immobili posseduti, costituiti per lo più da fabbricati (abitazioni e masserie)  e beni fondiari (orti, vigneti e uliveti). Ancora vengono descritte nel codice le donazioni fatte a vario titolo, i pesi delle messe annue per legati pro-anima effettuati in favore del monastero, con l’annotazione puntigliosa della notizia dei relativi istrumenti notarili.

Il  ritrovato “Campione” del Convento dei Padri Domenicani di Manduria (che allora si chiamava ancora Casalnuovo), visionato verosimilmente, prima della nostra scoperta, dal solo Tarentini (che lo utilizzo’ per la redazione del relativo capitolo della sua Manduria Sacra uscita nel 1899) è un documento estremamente interessante, non solo perchè permette di ricostruire, al pari di tutte le Platee conventuali , la storia economica di un’importante istituzione monastica in un preciso  ambito territoriale  (nel nostro caso  quella domenicana, fondata in Casalnuovo alla fine del sec. XVI e soppressa agli inizi del sec. XIX), ma anche perchè fornisce, non di rado,  oltre a un preciso ragguaglio storico-giuridico sulla  fondazione dell’istituzione stessa, utili notizie relative  alla fabbrica del Monastero e della Chiesa ad esso pertinente.

E proprio con il desiderio di “spigolare” qualche  notizia relativa alla storia architettonica ed artistica della Chiesa del Rosario ci siamo in verita’ accostati a questo ponderoso documento, che non ha mancato di fornirci poche, ma  utilissime indicazioni in tal senso.

Il compilatore del Codice manoscritto, l’anno di conclusione del lavoro (parziale, poiche’ il codice e’ stato puntualmente aggiornato nel corso dei decenni del sec. XVIII) ed alcune curiosita’ sono precisati  nella carta 1 v, in questi termini: ”Nell’anno 1697 questo libro fu scritto e finito dal Dottor Ottavio Marrazza di questa terra [Casalnuovo], con grandissima fatiga. Il medesimo ha difeso d’Advocato questo Convento per anni trenta gratis, percio’ supplica li R.di Padri e fratri a questo Convento assignati, e venturi, che si degnino pregare Dio per la salute dell’anima sua, di sua moglie e dei suoi discendenti. Amen”.

Nella pagina successiva è riportato, in transunto  (cioè in copia), un documento di fondamentale importanza, cioe’ la Bolla episcopale di fondazione del Convento. Traducendola (e’ scritta interamente in latino), si apprende che in data 11 Novembre 1572, sotto il pontificato di Papa Gregorio XIII,  il vescovo di Oria Mons. Bernardino de Figueroa, arcivescovo di Oria-Brindisi (la separazione tra le due diocesi avverra’ piu’ tardi, precisamente nel 1591) concesse ai frati dell’Ordine Domenicano il consenso di costruire un convento nei pressi della chiesa di San Giorgio, fuori dalle mura di Casalnuovo, dalla parte della tramontana (cioè a nord). Rientra nella logica dell’ordine domenicano il fatto di costruire fuori le mura della città: francescani e domenicani, in quanto ordini mendicanti e “borghesi”, si insediano storicamente appunto nel borgo, cioè fuori  dalla citta’ murata.

Oltre alla preziosa Bolla di fondazione (che, come gia’ detto, il Tarentini utilizzo’ nella compilazione della sua ancor oggi  fondamentale  opera  sulla storia religiosa di Manduria) nel codice manoscritto da noi ritrovato c’e’ anche una sintetica descrizione della Chiesa del Rosario e del Convento, cosi’ come era possibile verificare alla data di compilazione del documento, cioe’ nel 1697.

La Chiesa risulta suddivisa in una decina di cappelle, pressappoco corrispondenti a quelle attuali, ciascuna caratterizzata dalla dedicazione a un santo, e identificata dal relativo altare. E ad ogni cappella corrispondevano  uno o piu’ legati pii , cioe’ obblighi di celebrare un certo numero di messe a vantaggio dell’anima di un defunto, solitamente un membro del patriziato cittadino, che lego’ cosi’ per sempre il suo nome alla chiesa dei Domenicani. E proprio sulla base dei patronati delle singole cappelle, puntigliosamente indicati nella platea,  attraverso un confronto con gli stemmi nobiliari ancora oggi  collocati sul fastigio dei singoli  altari, si puo’ verificare la rispondenza dei dati d’archivio alle informazioni che  la configurazione attuale degli altari medesimi suggerisce, e tentare cosi’  una ricostruzione storica dei patronati nobiliari rispetto  ad una delle piu’ importanti chiese della  Manduria  moderna.

Rispetto alla problematica  storico –artistica, il codice manoscritto e’ comunque , in generale,  piuttosto laconico (a  differenza, per esempio, del Campione della chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, o di quello della Chiesa Matrice, che descrivono minuziosamente altari ed arredi),  tranne che per la  Cappella di San Vincenzo Ferrer, di cui e’ indicata in dettaglio la vicenda artistica ed architettonica. E’ quest’ultimo, evidentemente, il dato storico –artistico piu’ interessante che emerge dalla lettura dell’intero manoscritto, che ci permette di stabilire un vero e proprio  punto fermo riguardo la costruzione di un altare , ancora oggi  esistente, e del suo corredo pittorico.Alla carta 14 v del codice si legge infatti , circa la cappella di San Vincenzo Ferrer, che fu “eretta nell’anno 1702 dall’Eminentissimo Cardinal  Ferrari di Casalnuovo, con un capo altare di pietra di Lecce lavorata, con un quadro di San Vincenzo, e sopra, un altro della Vergine.” Questa indicazione cronologica sincrona  fornita dall’anonimo compilatore ci permette di stabilire con certezza, cioe’ su base documentaria, che uno dei due meravigliosi altari di pietra leccese della chiesa del Rosario  fu realizzato nel 1702, e nel medesimo anno furono realizzati i due dipinti che lo corredano, che  tra l’altro sono  tra i piu’ belli ( e qualitativamente sostenuti) di tutto il patrimonio pittorico mandurino. La data delle’esecuzione del dipinto della Predica di San Vincenzo Ferreri , opera del noto pittore Francesco Trevisani da Capodistria (1656-1746), fatta risalire da studi recenti al 1705 circa , va quindi anticipata di tre anni.

Risulta al tempo stesso definitivamente precisata al 1702 la data di esecuzione del dipinto della Madonna col Bambino, di ambito romano marattesco, che occupa il fastigio del medesimo, pregevolissimo altare barocco. Il documento, purtroppo, non precisa chi furono gli artefici del suddetto altare barocco in pietra leccese; a questo proposito, a meno di  ulteriori, fortunati ritrovamenti documentari, per il momento solo un serrato confronto stilistico-tipologico potra’ permettere di attribuire, in via ipotetica, quest’imponente opera ad una precisa maestranza  di scalpellini leccesi operante comunque  tra i secoli XVII e XVIII.

In ultimo, il “Campione” non manca  di precisare, alla carta 2v, il numero dei consacrati presenti nel Convento domenicano alla meta’ del ‘700: nel 1760 erano  in servizio al Rosario di Manduria tredici frati e cinque laici.

Alla fine della nostra breve disamina, occorre comunque spiegare perche’ un documento come quello da noi esaminato,  approntato per le esigenze di  un ente ecclesiatico, si trovi collocato in un fondo archivistico “estraneo” quale quello della Intendenza di Finanza di Terra d’Otranto, poi confluito, con altri documenti di natura amministrativa e contabile, nell’Archivio di Stato di Lecce. Invero, dopo essere stato detenuto dal Monastero dei Domenicani, il codice manoscritto, in seguito alla soppressione dell’Ordine Domenicano stabilita dalla legge murattiana del 7 Agosto 1809, n. 448 (che faceva seguito al decreto del 13 Febbraio 1807, ordinante  la soppressione degli ordini religiosi benedettini possidenti con le loro affiliazioni) e’ stato incamerato , con gli altri beni del convento, nel Demanio dello Stato. Gli uffici finanziari statali  che si sono  occupati dell’amministrazione dei beni dei conventi e monasteri, interessati dalle soppressioni murattiane e risorgimentali, hanno  rilevato  il codice manoscritto, che e’ stato poi, dopo  successivi  passaggi, traferito all’intendenza di Finanza di Terra d’Otranto. Da questa e’ stato poi versato all’Archivio di Stato di Lecce, in cui attualmente si trova ed e’ liberamente consultabile, insieme alle platee di altri monasteri  salentini soppressi.

La rifondazione normanna di Manduria nel 1090: realtà o mito?

 di Nicola Morrone

Come è noto ai più, non è ancora possibile ricostruire con sufficiente chiarezza le vicende che hanno interessato il territorio di Manduria in epoca medievale. In relazione al periodo altomedievale (secc. V-X) i dati documentari a nostra disposizione sono per il momento davvero esigui, per non dire quasi inesistenti, e poche sono anche le evidenze monumentali a partire dalle quali si possa tentare di delineare un quadro degli accadimenti.

In questo senso, un contributo significativo rispetto alla conoscenza di tanti fatti ancora avvolti dall’oscurità potrà venire solo dalla ricerca archeologica, di cui auspichiamo una decisa ripresa.

Per ciò che riguarda invece il periodo basso medievale (secc. XI-XV), nella ricostruzione delle vicende che hanno interessato il nostro territorio, tutti gli storici (locali e accademici) partono solitamente da un dato tradizionale, cioè la rifondazione di Manduria con il nome di Casalnuovo ad opera di Ruggero il normanno nell’anno 1090.

Roberto il Guiscardo e Ruggero il Normanno

Ora, sulla fondatezza storica di questo dato tradizionale vorremmo fare alcune considerazioni, tentando altresì di ricostruire, con i pochi elementi a nostra disposizione, una verosimile sequenza di ciò che realmente può essere accaduto in quello scorcio dell’XI secolo nel nostro territorio. A questo proposito, il necessario punto di partenza del nostro discorso è la testimonianza dell’anonimo compilatore del Chronicon Breve Northmannicum (Rerum Italicarum Scriptores, tomo V) il quale ci fa sapere che, alla data del 1061, “mense Ianuario Rogerius comes intravit Mandurium”. Cioè, letteralmente, “nel mese di Gennaio (del 1061) il conte Ruggero entrò in Manduria”. È questo l’unico dato storiografico che, indipendentemente dalla sua veridicità, possediamo sulle vicende manduriane dell’XI secolo, dal momento che, come già detto, il 1090 è un dato tradizionale, che non è per il momento possibile verificare nè in relazione alle cronache coeve, nè tantomeno in relazione a un’evidenza documentaria.

Nell’ultima, pregevolissima  ricostruzione globale della storia di Manduria dalle origini ai giorni nostri, quella cioè di Pietro Brunetti (Manduria tra storia e leggenda, Manduria 2007), alla pagina 159 si afferma che “Roberto il Guiscardo e il figlio Ruggero Borsa sono impegnati nella conquista della Puglia” negli anni 1061-1063. In realtà, in considerazione della cronologia dei singoli personaggi storici, il dato andrebbe lievemente corretto: ad essere impegnati nella conquista della Puglia in quegli anni sono precisamente Roberto il Guiscardo e suo fratello Ruggero I d’Altavilla. Cioè il Ruggero che verosimilmente nel 1061 entrò in Manduria è appunto il fratello minore del Guiscardo, colui che nel 1062 diventò il “Gran Conte”.

Ruggero I a cavallo (da numismaticavaresi.binside.com)

Fin qui arrivano i dati verificabili nella storiografia ufficiale. Parallelamente alla storiografia “ufficiale” si è però sviluppato un altro filone, quello portato avanti dagli storici locali, che hanno tenacemente tramandato sino ai giorni nostri la “famosa” presunta data della rifondazione di Manduria con il nome di Casalnuovo, cioè il  1090. Se qualcosa è veramente successo in quella data, cioè a ben trent’anni di distanza dall’effettivo ingresso dei Normanni nell’area dell’antica Manduria messapica, avrà però riguardato un altro Ruggero il normanno, cioè Ruggero Borsa, figlio di secondo letto di Roberto il Guiscardo. Ruggero I, infatti, zio di Ruggero Borsa, non poteva trovarsi a Manduria, essendo impegnato verosimilmente su scenari di guerra siciliani (al 1090 data infatti l’assedio e la conquista normanna di Butera ad opera del Gran Conte). Anche in relazione a questo dato, le osservazioni fatte a pagina 159 dell’ultima sintesi della storia di Manduria vanno lievemente corrette.

La domanda, molto concreta, che ci si pone allora a questo punto è: tenendo presente la cronologia, si può arrivare a stabilire con relativa certezza quando è stata rifondata Manduria con il nome di Casalnuovo?

La famiglia Altavilla. Da sinistra verso destra: Tancredi e Fressennda, i figli in ordine di età: Serlone, Guglielmo, Drogone, Umfredo, Goffredo, Roberto, Malgero, Guglielmo, Alveredo, Tancredi, Umberto e Ruggero

Il dato da tenere presente è sempre il 1061. Se davvero in quell’anno Ruggero I occupò Manduria con le sue truppe, qualcosa sarà pure successo nei trent’anni che passano dal 1061 al 1090. C’era tutto il tempo, in questi trent’anni, di fondare un nuovo nucleo abitato (casale), ripopolandolo con le genti accorse dalla campagna, dopo aver fatto costruire la civica chiesa, com’era strategia consolidata dei conquistatori normanni.

In conclusione, alla data tradizionale del 1090 a Casalnuovo erano verosimilmente già successe molte cose, purtroppo ancora non sufficientemente documentate. È probabile quindi che la stessa fondazione della cappella normanna del casale (di cui non rimane traccia) debba essere anticipata di qualche decennio. La data del 1090 come quella della rifondazione della comunità mandurina fu poi pubblicamente “consacrata” e resa visibile ai cittadini nel 1895 con la collocazione di una lapide posta sul retro dell’Arco di Sant’Angelo. Non sappiamo a quale fonte abbia fatto riferimento l’estensore dell’epigrafe, ma è evidente che in quel momento il 1090 come anno topico per la rifondazione di Manduria era ormai un dato tradizionalmente acquisito.

Resta da chiarire come questa data ha fatto il suo ingresso nella storiografia della città. Abbiamo riscontrato la presenza della data del 1090 solo nell’opera di uno storico locale, comunemente definito Anonimo Oritano, autore di un manoscritto intitolato Narrazione Storica delle Antichità Oritane. Egli appunto afferma che nel 1090 Casinovi (Casalnuovo) fu edificata in un angolo dell’antica Manduria per ordine di Ruggero. Come era però consuetudine dei raccoglitori di patrie memorie di quell’epoca, l’autore non fa riferimento ad alcuna fonte documentaria per supportare la veridicità delle sue affermazioni; di conseguenza, fino a quando non sarà possibile verificarlo documentalmente, il 1090 resta un dato puramente tradizionale. Dall’Anonimo Oritano, poi, il 1090, già per altre vie entrato nella storiografia mandurina, passa verosimilmente al Pacelli e, quindi, agli storici locali successivi, per essere finalmente consacrato con la lapide del 1895.

Ma, al di là della tradizione locale, cosa afferma la storiografia accademica in relazione alla fondazione normanna di Casalnuovo? Il prof. Cosimo Damiano Poso, massimo conoscitore della storia del Salento in età normanna, addirittura esclude che il toponimo “Casalenovum” con cui fu chiamata la Manduria rifondata possa attribuirsi ad epoca normanna. L’illustre accademico leccese giunge a questa conclusione, però, solo sulla base dei pochissimi documenti dei secoli XI-XII a noi pervenuti, in cui effettivamente (a differenza, per esempio, di san Pietro in Bevagna, Felline e Mandurino) Casalnuovo non compare. Il prof. Poso, come ogni accademico che si rispetti, ragiona cioè in linea di assoluta scientificità, ma in considerazione della ricostruzione da noi proposta in precedenza, e soprattutto tenendo conto della mole di documenti di età normanna andati perduti, riteniamo che la rifondazione normanna di Casalnuovo si debba ammettere, almeno come ipotesi. E l’ipotesi con cui ci sentiamo di concordare è, più o meno, quella avanzata dallo storico locale Pietro Brunetti, proposta a pagina 159 del suo volume sulla storia di Manduria.

In conclusione, poichè gli eventi del passato non sono ricostruibili in laboratorio, una comprensione piena di ciò che effettivamente accadde in quella convulsa seconda metà dell’XI secolo nel territorio di Manduria ci è per ora in parte negata, almeno fino a quando nuove ed auspicabili scoperte documentarie ci consentiranno di fare maggior luce sugli accadimenti. Tuttavia, pur con le grosse difficoltà che un razionale approccio al problema pone, mettendo insieme le scarne testimonianze documentarie e dando ai dati tradizionali il credito che meritano, siamo portati a ritenere che in ogni caso veramente, nella seconda metà dell’XI secolo, in un angolo della gloriosa Manduria messapica si dovette fondare un piccolo centro abitato da cui, dopo i difficili e lunghi secoli del Medioevo, si originò la Manduria moderna.

 


Manduria/ Stucchi barocchi nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli

Altare in stucco (Sec.XVIII)(ph Agostino Quaranta. Tutti i diritti riservati)

di Nicola Morrone

Tra le chiese barocche di Manduria merita senz’altro un approfondimento quella dedicata a Santa Maria di Costantinopoli, fatta erigere nel 1718 dai padri Agostiniani (insieme all’annesso convento) e collocata nei pressi dell’attuale via XX Settembre. All’esterno la chiesa si presenta con un alto prospetto a due piani scanditi da paraste, e termina con un fastigio mistilineo. Degna di nota anche la bella cupola con mattonelle policrome, decorata secondo un motivo tipico di varie chiese dell’area salentina e, più in generale, meridionale.

(ph Agostino Quaranta. Tutti i diritti riservati)

L’interno ha pianta  a croce latina , con ampio transetto e spazioso presbiterio quadrato, ed è notevole soprattutto per la decorazione barocca a stucco, pressochè integra e resa più fruibile dai recenti restauri. Spiccano anche, tra le altre cose, il meraviglioso altare maggiore commesso di marmi policromi risalente al 1725, opera di valenti scultori napoletani, e l’organo ligneo a canne, anch’esso settecentesco.

Numerose sono le tele, tra cui si segnala un trittico dedicato a Sant’Agostino e due dipinti raffiguranti la Madonna della Cintura, che rimandano all’esistenza di una confraternita sotto lo stesso titolo, attiva certamente nel secolo XVII  e poi scomparsa. Vogliano soffermarci in questa sede proprio sulla decorazione barocca a stucco, che è senza dubbio uno dei punti che più qualificano la chiesa a livello artistico. Fatta eccezione  infatti per il marmoreo altare maggiore, tutti i restanti altari, che si distribuiscono lungo le pareti laterali ed il transetto della chiesa, sono stati realizzati tra il 1752 e il 1754 dallo stuccatore tarantino Francesco Saverio Amodei, su commissione dei

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