Salento, tra diavoli, streghe e lupi mannari

Il Salento delle leggende.

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

I più grandi piaceri della vita sono certamente quelli più piccoli.

Un bicchiere di vino fresco con gli amici, ad esempio. Magari in una sciroccosa sera d’agosto, preferibilmente in campagna, con stelle e lune rosse sul capo, e baluginio di paesi lontani all’orizzonte.

O rivedere un vecchio film – comico, romantico, d’avventure –, di quelli legati ad un momento speciale della nostra adolescenza (stagione della vita in cui peraltro ogni momento è speciale), ritrovandosi a ridere, o perfino a piangere da soli.

O ancora di più quando, in una benefica sosta dalla frenesia moderna che tutto divora, ci accade di leggere i vecchi cunti della nostra tradizione più terrigna, popolati di magiche figure e luoghi fiabeschi e irraggiungibili: Papa Caiazzu, lu Nanni Orcu, lu Mamau, li Sciacuddhi, le case sperdute nei boschi (identificate da una “luciceddha ca se vide luntanu luntanu”), o le lande spaurenti e  misteriose dove “nu canta caddhu e nu luce luna”…

Se poi li cunti si ha la ventura d’ascoltarli direttamente dalla voce delle nostre antiche nonne (specie ormai assai rara ma che sempre riaffiora nelle incantate contrade salentine) allora si viaggia davvero sulle nuvole.

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Le nonne. Quante ne abbiamo avute, noi piccoli d’altri tempi? Ogni vicolo, corte, strada o viuzza del quartiere brulicavano di queste splendide fate vestite di nero e di rughe, coi candidi capelli raccolti ad arte sotto fazzoletti di primavera. Sferruzzavano per lo più sulla soglia di casa, quando non sistemavano pochi panni ad asciugare su una breve corda tenuta distante dal muro tramite una piccola canna, oppure  controllavano i pomodori distesi a seccare al sole sui marciapiedi, fra graticci di fichi e talaretti di foglie di tabacco.

Se le avvicinavi senza timore, allora tiravano fuori dalle tasche del grembiule inenarrabili meraviglie in regalo: rocchetti di filo colorato, foglie inebrianti di menta e di basilico, fichi tostati, pesciolini di liquirizia, frammenti di taralli o mostaccioli, mandorle bianche, qualche lupino. E il loro caldo sorriso.

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Non è appunto al sorriso e al buonumore che muovono molte delle leggende salentine, tanto fantastiche da sembrare vere?

Se Soleto  può in un certo senso vantarsi che la sua celebre “guglia di Raimondello” fu costruita in una sola notte dal mago Matteo Tafuri di concerto con diavoli e streghe, pochi forse sanno che anche a Tricase la cosiddetta Chiesa Nuova  fu opera del Maligno. Il quale, parimenti, la eresse nell’arco di un’unica nottata, dopo un patto con il cosiddetto “Principe vecchio”, che la tradizione popolare identifica in messer Jacopo Francesco Arborio Gattinara,  marchese di San Martino, personaggio realmente esistito.

Secondo la leggenda, i fatti si svolsero in questo modo. Intorno alla fine del XVII secolo, messer Jacopo decise di favorire i numerosi contadini che lavoravano e vivevano nelle campagne (e volevano scacciare le Malumbre ossia gli spiriti maligni), costruendo fuori Tricase, sulla via verso il mare, una nuova chiesa, storicamente ultimata nel 1685, a pianta ottagonale, e dedicata alla Madonna di Costantinopoli. A tale scopo – attraverso il fatato “Libro del Comando” – pensò bene di evocare il Diavolo in persona, peraltro con il segreto intento di prendersi beffe di lui, come vedremo.

La sfida proposta dal nobile di Tricase, che contemplava la costruzione dell’edificio sacro in una sola notte, fu accolta dal Diavolo, a condizione però che, nella stessa chiesa, a offesa e scherno di Dio, il Principe vecchio avesse poi offerto l’ostia consacrata ad un caprone, simbolo di Satana. Per tale impegno, in aggiunta, il Signore delle Tenebre avrebbe lasciato nella nuova chiesa un forziere pieno di monete d’oro.

Sancito il patto, ed eretta la chiesa, la mattina del giorno dopo il Diavolo ricordò la promessa al Principe vecchio, il quale negò di avergliela mai fatta. Sentendosi beffato, e non avendo più il potere di distruggere l’edificio sacro appena eretto, il Diavolo sfogò allora la sua collera aprendo nei pressi un canalone d’acqua (chiamato dai tricasini Canale del Rio) e gettandovi dentro le campane della chiesa, che ancora oggi, nei giorni di tempesta, sembra facciano sentire, risalenti da sottoterra, i loro cupi rintocchi.

E il forziere con le monete d’oro? Il Principe vecchio ebbe modo di trovarlo ed aprirlo, ma dentro – di beffa in beffa – pare che vi si trovassero delle insignificanti monete di metallo vile o (secondo altre versioni) addirittura dei sassi.

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“È natu nu stregone a la casa mia!”  pare che gridassero un tempo i padri di bimbi maschi nati nella notte fra il 24 e il 25 dicembre. In quella data fatidica – la santa Notte di Natale – non si ammetteva infatti che potessero venire al mondo altre creature all’infuori di Gesù Cristo. Sicché, quando succedeva, era credenza diffusa che gli “sventurati” maschietti ereditassero una doppia natura, quella umana e quella bestiale, e non c’era altra soluzione di esorcismo che salire sul tetto della casa, a mezzanotte in punto, e gridare al vento la notizia, in modo che il vento stesso la potesse disperdere.

La leggenda s’intreccia con altre leggende, che vogliono la Puglia e il Salento (soprattutto nelle zone tra Nardò e Avetrana, e più a sud-est, verso il litorale idruntino) sono state per secoli considerate terre di lupi mannari. Alcuni antropologi sostengono anzi che la licantropia abbia avuto le sue origini proprio nella nostra regione.

Secondo il mito, Licaone, re dell’Arcadia e padre di cinquanta figli, ne sacrificò uno a Zeus per ingraziarselo. Ma il Padre degli dei, inorridito dall’empietà del gesto, inseguì il re fino in Puglia, dov’era riparato, e qui lo trasformò in lupo, lasciandogli tuttavia assumere alternativamente tanto la natura umana (visibile quasi sempre di giorno) quanto  quella belluina (manifesta di notte, ed in particolare nelle notti di plenilunio).

La più antica storia di lupi mannari la troviamo addirittura nella Bibbia, e riguarda il famoso re Nabuccodonosor che, per la sua vanità, fu trasformato in lupo da Dio. Anche nella mitologia egizia, il dio Ap-uat che traghettava i morti nell’aldilà aveva sembianze di uomo-lupo. Fino ad arrivare al periodo fra il 1500 e il 1600, in cui in tutta Europa la “caccia ai licantropi” era addirittura diffusa quanto e più di quella alle streghe.

A tale proposito, sentiamo il dovere di fornire ai nostri lettori alcuni utili consigli, nel caso dovessero incontrare qualche lupo mannaro, e volessero metterlo in fuga. La prima e più sicura precauzione è posizionarsi al centro di un incrocio, perché questi esseri hanno terrore delle croci. Tuttavia, se nelle vicinanze con ci fosse un incrocio disponibile, basterà salire sopra un gradino e aspettare tranquilli che il lupo mannaro se ne vada: è noto infatti che i lupi mannari sono del tutto incapaci di salire le scale, e perfino un solo gradino.

Se per colmo di sventura non disponeste neanche di gradini, allora spargete per terra del sale grosso (tenetene sempre prudentemente una piccola scorta nelle tasche): il nostro avversario, in tal caso, si fermerà a raccogliere e contare ad uno ad uno i granelli di sale gettati per terra, lasciandovi tutto il tempo per svignarvela alla chetichella.

Infine, se nessuno degli antidoti di cui sopra fosse a vostra disposizione, recitate con fiducia una preghiera, e sperate ardentemente che il lupo mannaro di fronte a voi abbia già fatto per suo conto un’abbondante colazione…

 

A proposito di streghe,lo sapete che nel nostro Salento ce ne sono ancora tantissime? No, non ci riferiamo alle varie megere di più o meno diretta conoscenza, tipo suocere e affini: parliamo veramente di striare e macare, le streghe originali di Terra d’Otranto, che zòmpano, ballano e cavalcano scope volanti.

Uno dei luoghi deputati per i famosi (o famigerati) sabba stregoneschi è il cosiddetto “noce del mulino a vento” in agro di Uggiano La Chiesa. Quest’albero magico pare sia ubicato nei pressi di un antico frantoio ipogeo d’epoca seicentesca (recentemente restaurato), ma nessuno ne conosce esattamente il sito, o lo tiene prudentemente segreto, per evitare malocchio e sfortuna.

I paesani comunque sostengono che ancora oggi, in alcune notti di luna piena e fino all’alba, in un’ampia zona della campagna tra Uggiano e il vicino borgo di Casamassella si diffondono nell’aria suoni indistinti e spaventevoli, inframmezzati da alte grida, canti e risate oscene, che terrorizzano perfino gli animali domestici e la selvaggina.

Se, vostro malgrado, vi dovesse capitare di trovarvi coinvolti in un sabba, e volete evitare di essere risucchiati in aria, rischiando poi di ballare freneticamente per una notte intera e di morire stremati, imparate e recitate all’occorrenza, per tre volte consecutive, questa filastrocca scaccia-guai: “Zzumpa e balla, pisara, zzumpa e balla forte, se scappi de stu chiacculu non essi cchiui de notte… Sutta l’acqua e sutta lu jentu sutta lu noce de lu mulinu a jentu”.

Buona fortuna.

 

Spauracchi di ieri e di oggi

di Armando Polito

Se pensiamo al successo, soprattutto economico, di maghi, indovini, fattucchiere e simili non deve far meraviglia che in tempi meno tecnologici e razionali dei nostri ci fossero anche nel Salento entità occulte ad uso degli adulti e dei bambini.
Inizio dal mondo degli adulti sui i quali il discorso è più breve, nel senso che, a parte le entità da loro consapevolmente inventate per i bambini, c’era il solo munacèddhu, spirito folletto delle credenze popolari, molto dispettoso, che sovente assumeva le sembianze di un piccolo monaco, ad alimentare, turbandole, le loro fantasie. Era un’entità, in fondo, benigna che si divertiva a fare piccoli dispetti, come nascondere gli oggetti o sedere sulla pancia del dormiente; con una facile ironia, che non mi sento di condividere completamente perché avulsa dalle pur necessarie considerazioni storico-ambientali (basti pensare che l’omologo napoletano munaciello assurse a dignità giuridica in un decreto emesso il 24 dicembre 1587 dal Conte di Miranda, all’epoca vicerè, per cui si stabiliva quanto segue: “Se avvenga che nella casa locata l’inquilino spinto da panico timore creda essere assalito de’ maligni spiriti che in Napoli chiamansi Monacelli, anche gli si permettesse di lasciarla senza essere tenuto a pagamento di mercede”1), qualcuno potrebbe parlare di folletto-arteriosclerosi nel primo caso, di folletto-digestione difficile nel secondo.
Passo ora ai bambini per i quali l’assortimento di spauracchi era più ampio. Comincio con il meno spaventoso, perché, almeno nell’ambiente salentino, realmente esistente: il mmammòne. Il termine, infatti, designa un parassita delle fave secche, nelle quali scava gallerie; esso corrisponde all’italiano mammone (dall’arabo maymun=scimmia, anche in funzione appositiva nella locuzione gatto mammone, mostro immaginario presente in certe fiabe in lingua) ed è figlio diretto della cultura contadina.

Le creature più spaventose, però, erano quelle immaginarie che, a differenza del mmammòne, erano in grado di divorare interamente un individuo, preferibilmente un bambino (l’ironico di prima parlerebbe di un naturale, maggior gradimento della carne tenera). Ecco, allora, il mau (secondo il Rohlfs deformazione di mago, ma secondo me non è da escludere che sia una voce infantile di origine onomatopeica; ancora oggi, infatti, nei giochi tra bambini la pronuncia cupa e prolungata della m dovrebbe servire, almeno nelle intenzioni, ad incutere terrore): era un mostro gigantesco, dalla voce cavernosa, antropofago.
Siccome probabilmente con qualche bambino particolarmente sveglio il mau non funzionava, venne inventato, per raddoppiamento, il mamàu, che, credo sulla parola, anzi sul suono, qualche effetto doveva farlo anche sui più ribelli. Ma anche in questo campo non mancava la concorrenza e alla pari col mamàu era quotato il nanniuèrcu, composto da nanni, variante di nonnu=nonno (usata solo, con suffisso dispregiativo, nella voce nannàscinu=antenato/uomo molto vecchio e nel nesso alli tièmpi ti lu nanni=ai tempi del nonno) e uèrcu che può derivare dal latino Orcus, dio dell’oltretomba, ma anche da orca, il cetaceo che già presso i Romani godeva fama di voracità ed antropofagia. Bastava (!?) l’espressione mo’ chiàmu lu nanniuèrcu ca ti màngia (=adesso chiamo il nonno orco che ti mangia) per far sì che i bambini ubbidissero o se ne stessero buoni.

E come dimenticare la manu longa (che inevitabilmente avrebbe ghermito il bambino che imprudentemente si fosse affacciato all’orlo di un pozzo e simili) che proprio per questa sua identità mutilata era, forse, la più misteriosa ed inquietante?
Tali sistemi educativi oggi fanno rabbrividire i moderni pedagoghi e psicologi (sarebbe, forse, più opportuno che ogni tanto aleggiasse sul loro volto, almeno su quello dei più attempati, un sorriso non di sprezzante ironia, ma di nostalgico affetto), però vale la pena ricordare che essi (i vecchi sistemi educativi) non hanno traumatizzato nessuno e che sono certo più dannosi quelli odierni basati su una forma di ricatto peggiore, cioè non più sull’assunto antico se non fai il buono perdi qualcosa che già hai (addirittura la vita, per colpa del nanniuèrcu), ma su quello moderno e consumistico se non ti comporti bene, non avrai quella cosa che tanto desideri (il motorino, la playstation, il telefonino nuovo, l’i pod).
Come si fa a spiegare ad un adolescente di oggi quanto fosse più poetica, intrigante, addirittura, forse, misteriosamente più educativa e formativa la figura dell’incombente nanniuèrcu di fronte a quella, tanto per citarne solo una, del freddo e metallico motorino, incombente pure lui in ogni pagina o spot pubblicitario e in ammiccante attesa in questa o in quella concessionaria? La considerazione più amara nasce dal fatto che oggi, paradossalmente, il mau, il mamàu e il nanniuèrcu non sono morti, anzi sono più vivi che mai, solo che hanno assunto sembianze insospettabilmente umane, entrando così in una dimensione più crudele ed innaturale, insomma sono diventati il campione della peggiore umanità, quella dei sadici, degli incestuosi, dei pedofili, peggio ancora se padri o addirittura nonni; e alla manu longa che in passato esercitava il suo ipotetico potere sui bambini imprudenti è subentrata, nelle forme più disparate e impensabili (tv e pubblicità per citarne solo due) , la longa manus che subdolamente manipola le nostre esistenze.
La realtà, purtroppo, ha superato ancora una volta, e in peggio, la fantasia. Quanto al mmammòne che, come ho detto era il meno cattivo o pericoloso, ha fatto la solita fine dei buoni, cioè è scomparso da tempo non solo come spauracchio ma ha i giorni contati pure come parassita, di fronte a veleni sempre più potenti ed ai miracoli (?) della transgenetica. Proprio il contrario di quello che succedeva nelle care, vecchie fiabe!

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1 Gregorio Grimaldi, Istoria delle leggi e magistrati del Regno di Napoli, De Simone, Napoli, 1771, tomo IX  pag. 4.

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