LUTGARDA TURCO, LA PIETRA E IL PESCATORE
Da quel giorno la nostra vita cambiò radicalmente. Eravamo abituati ad abitare nella nostra comoda casa, e d’estate trascorrere i mesi in una casetta giù al porto di Tricase, quasi stessimo in villeggiatura. Ora invece eravamo isolati da tutti, in aperta campagna, in compagnia di serpi e di vipere. La delusione dei miei genitori fu grande: l’abitazione era piccola, un tugurio, e non era adatta per una famiglia di nove persone. Ma ormai ci dovevamo rassegnare: c’era un contratto firmato e si doveva rispettare. I miei genitori, al contrario di altre famiglie salentine, non erano pratici del tabacco, e così dovettero imparare in fretta le varie fasi della lavorazione, cosa che richiedeva non solo fatica, ma anche un corredo di saperi: era un’arte quella del tabacco. Così si buttarono a capofitto su quella nuova impresa e ben presto divennero bravi come gli altri. Però mio padre, in cuor suo, giurò che il suo mestiere sarebbe rimasto sempre quello del pescatore, una volta tornato a Tricase. Con molta pazienza e voglia di fare (sempre per migliorarci), papà e mamma trasformarono quel posto in un’oasi del deserto, facendo piazza pulita di sassi e di sterpi in modo che le serpi non trovassero nascondigli. Un pezzo di terra lo destinarono a piantare un orticello e al mercato comprarono delle gallinelle e un bel gallo. Al mattino era il gallo a svegliare noi piccoli e il coccodè delle galline sembrava un invito a correre per ritirare le uova fresche. Mi ricordo che quando stavamo a Tricase, tra noi piccoli si pensava che a Roma[1] fosse tutto facile, che lì si trovava di tutto, perfino le uova sotto terra: bastava scavare. Così, io e mia sorella, mentre