Frutti della terra nel Salento: oggi, parliamo di lupini, carrube e fichi

di Rocco Boccadamo

Sono frutti, prodotti, derrate, cui, adesso, si annette rilievo scarso, se non, addirittura nullo; si è quasi arrivati a ignorarne l’esistenza, la cura e l’uso.

Sulla scena delle risorse agricole locali, resistono appena, con alti e bassi, le granaglie, le olive, l’uva, gli agrumi, gli ortaggi e/o verdure.

Lupini, carrube e fichi sono, insomma, divenuti figli minori e spuri della terra, le relative coltivazioni appaiono rarefatte e, di conseguenza, i raccolti trascurati o abbandonati.

Mentre, sino alla metà del ventesimo secolo ma anche a tutto il 1960/1970, rappresentavano beni indicativi per i bilanci delle famiglie di agricoltori e contadini ed elementi di non poco conto per le stesse, dirette occorrenze alimentari.

I primi, della sottofamiglia delle Faboidee, al presente richiamati solo sulla carta e nelle enciclopedie come utili ai fini della decantata “dieta mediterranea”, si trovavano diffusi su vasta scala, specialmente nelle piccole proprietà contadine attigue alla costiera, fatte più di roccia che di terra rossa, si seminavano automaticamente e immancabilmente senza bisogno di soverchia preparazione del terreno, né necessità di cure durante il germoglio e la crescita delle piante, dapprima in unità filiformi, poi robuste e ben radicate sino all’altezza di metri 1 – 1,50, recanti, alla sommità, rudi baccelli contenenti frutti a forma discoidale, compatti, di colore fra il giallo e il beige – biancastro.

Al momento giusto, le piante erano divelte a forza di braccia e sotto la stretta di mani callose e affastellate in grosse fascine o sarcine. A spalla, i produttori trasportavano quindi tale raccolto nel giardino o campicello, con o senza aia agricola annessa, più prossimo alla casa di abitazione nel paese, lasciandolo lì, sparso, a essiccare completamente sotto il sole.

Dopo di che, avevano luogo le operazioni di separazione dei frutti dai baccelli e dalle piante, sottoforma di sonore battiture per mezzo di aste e forconi di legno. Diviso opportunamente il tutto, con i già accennati discoidi, si riempivano sacchi e sacchetti.

Il prodotto, in piccola parte, era conservato per le occorrenze, diciamo così, domestiche: previa bollitura e aggiuntivo ammorbidimento e addolcimento con i sacchetti tenuti immersi nell’acqua di mare, i lupini diventavano una sorta di companatico o fonte di nutrimento di riserva e, in più, servivano ad accompagnare i “complimenti”, consistenti in panini, olive, sarde salate, peperoni e vino, riservati, in occasione dei ricevimenti nuziali, agli invitati maschi.

Invece, l’eccedenza, ossia la maggior parte del raccolto, era venduta a commercianti terzi.

°   °   °

Le carrube sono i favolosi e bellissimi pendagli, color verde all’inizio e marrone sul far della maturazione, donatici dagli omonimi maestosi alberi, taluni di dimensioni monumentali, tutti affascinanti.

Anche riguardo alle carrube, non si pongono attenzioni particolari, salvo periodiche potature delle piante, i frutti si raccolgono, al momento, purtroppo, da parte di pochi, attraverso tocchi con aste di legno, un’operazione denominata abbacchiatura, come per le noci.

Il prodotto, copioso e abbondante ad annate alterne e riposto in sacchi di juta, oggi è indirizzato esclusivamente alla vendita a terzi; al contrario, in tempi passati ma non lontanissimi, le carrube, dopo l’essiccazione al sole, erano in parte abbrustolite nei forni pubblici del paese e, conservate in grossi pitali in terracotta, insieme con le friselle e i fichi secchi, componevano le colazioni e, in genere, i frugali pasti in campagna dei contadini.

Piccola nota particolare, d’inverno, poteva anche capitare di grattugiare le carrube e, mediante la graniglia così ottenuta mescolata con manciate di neve fresca (beninteso, nelle rare occasioni in cui ne cadeva), si realizzava un originale e gustoso dessert naturale e sano.

°   °   °

I fichi, al momento, purtroppo, lasciati, in prevalenza, cadere impietosamente ai piedi degli alberi, erano, una volta, oggetto di una vera e propria campagna di raccolta, ripetuta a brevi intervalli in genere sempre nelle prime ore del mattino, con immediato successivo sezionamento (spaccatura) dei frutti e disposizione dei medesimi  su  grandi stuoie di canne , “cannizzi”, e paziente fase di essiccazione sotto il sole.

Allo stesso modo delle carrube, in parte erano poi cotti nei forni e andavano a integrare le fonti dell’alimentazione famigliare, in parte erano somministrati agli animali domestici, in parte, infine, erano venduti.

Soprattutto, se non proprio, per i fichi, le famiglie avevano l’abitudine, in luglio e agosto, di spostarsi fisicamente dalle case di abitazione nel paese, nelle piccole caseddre di pietre situate nelle campagne, cosicché si risparmiavano le ore occorrenti per l’andata e il ritorno di ogni giorno a piedi e avevano, in pari tempo, agio di attendere direttamente e più comodamente a tutte le fasi della descritta raccolta.

Non c’è che dire, ieri, in un modello esistenziale più semplice, alla buona e intriso di spontanea connaturata operosità, si aveva interesse, e attenzione, anche per beni “poveri” ma, con ciò, non meno utili di altri; oggi, il concetto di valore si è in certo senso ripiegato su se stesso e finalizzato a obiettivi e orizzonti di tutt’altra stregua, fra cui miraggi a portata di mano.

Con la farina di lupino nel 1926 aumenta la produzione di olio d’oliva

di Antonio Bruno*

Nella campagna olearia 1925 – 26 la Cattedra di Agricoltura di Lecce diretta dal Dottore Agronomo Attilio Biasco presso l’oliveto denominato “Usciglio” in agro di Calimera (Lecce) che in quegli anni era di proprietà del signor Luigi Lefons si istituì una prova di concimazione che dal collega Attilio Biasco fu definita “vasta” che aveva lo scopo di determinare la convenienza alla somministrazione di dosi più elevate di fertilizzanti rispetto a quelle che allora venivano consigliate. Sempre in quelle prove si voleva stabilire l’efficacia dell’utilizzo come concime della farina ottenuta dal seme di lupino che in quegli anni veniva usata dagli agricoltori del Salento leccese per concimare il frumento che, a detta del collega Attilio Biasco, aveva dato ottimi risultati.
Il terreno del fondo era di medio impasto e poggiava su un sottosuolo costituito da roccia tufacea crepacciata per effettuare le prove di concimazione l’intera superficie venne divisa in cinque parcelle ognuna con 96 alberi della varietà “Cellina” le parcelle furono concimate nelle quantità per albero di olivo che seguono:
1° controllo – senza concimazione
2° perfosfato Kg 10
3° perfosfato Kg 10; solfato potassico Kg 3
4° perfosfato Kg 10; solfato potassico Kg 3; solfato amminico Kg 3
5° perfosfato Kg 10; farina di lupini Kg 5
I concimi sono stati sparsi nella prima decade di novembre e la prima di dicembre in corrispondenza della proiezione della chioma degli alberi. Dopo la concimazione per coprire i concimi venne praticata un’aratura e una seconda aratura fu praticata nel febbraio inoltrato seguita da due sarchiature energiche effettuate durante la primavera. Tutti questi lavori furono fatti sia alle quattro particelle concimate che alla particella di controllo.
La stagione primaverile e quella estiva del 1926 ebbero un andamento particolarmente siccitoso e durante il periodo della fioritura si verificarono solo alcuni giorni di nebbia.
Il collega Attilio Biasco osservò che la ripresa primaverile dell’attività vegetativa ebbe un leggero anticipo nella parcella 5°; la fioritura fu contemporanea ed uniformemente abbondante su tutti gli alberi. Nelle parcelle 1° e 2° i nuovi rametti erano meno vigorosi rispetto a quelli delle altre tre parcelle e con l’inoltrarsi della stagione calda subirono un arresto anticipato di sviluppo. Nelle parcelle 4° e 5° la ripresa autunnale della vegetazione fu più pronta e molto più vigorosa soprattutto se confrontata con quella degli alberi della parcella 1°.
La quantità di olive prodotte per albero fu stimata con il metodo locale di allora della stima ad “ad occhio” da un perito pratico ed è la seguente:

1° tomoli 80 di olive (i tomoli sono di 56 litri) (Controllo)
2° tomoli 92
3° tomoli 104
4° tomoli 108
5° tomoli 124

Le olive raccolte e molite separatamente dettero le seguenti rese in olio per tomolo di frutto dedotte dalla media di tre prove di molitura eseguite in due diversi frantoi:

1° Kg 6,5
2° Kg 7
3° Kg 8
4° Kg 8
5° Kg 8

In definitiva il prodotto di olio in ettaro fu il seguente:

1° Kg 520
2° Kg 644
3° Kg 728
4° Kg 864
5° Kg 992

Il collega Biasco tenne conto che l’olio nel 1926 veniva venduto a 850 lire per quintale, il perfosfato costava 40 lire per quintale, il solfato potassico costava 150 lire per quintale,il solfato ammonico costava 170 lire per quintale, i lupini sfarinati costavano 85 lire per quintale e considerando inoltre la spesa dello spargimento dei concimi e per la raccolta della maggiore quantità di olive calcolò l’utile della concimazione come è possibile vedere nella tabella che segue:
ParcelleValore olio Lire/ha Spese di concimazione e maggiore raccolta Valore del prodotto al netto delle spese precedenti Utile della concimazione
1° controllo 4420-4420
2°54742805194774
3°618858056081188
4°734489664482028
5°843261578173397

Si deduce che per l’oliveto le laute concimazioni danno un maggior utile economico anche in annate siccitose come quella del 1925 – 26, che con le concimazioni non solo aumenta la quantità di olive ma le stesse contribuiscono ad aumentare la resa unitaria di olio e che la farina di lupini costituisce un ottimo fertilizzante la cui azione secondoBiasco è da attribuirsi al principio attivo di cui è ricca.

Nel 1926 la coltivazione dell’olivo occupava circa un terzo della superficie agraria della Provincia di Lecce e rappresentava una delle più importanti fonti di ricchezza e lamentava una conduzione degli oliveti che non poteva considerarsi razionale forse per il convincimento che “annus fructificat non tellus” (è l’anno che produce, non la terra). Nel corso degli anni la produzione diviene favorevole se rispetto bene il campo.

Dei lupini si dice che divengono dolci “tenuti a rinvenire nell’acqua e tolto loro l’amaro” . Si usava dire in maniera offensiva agli altri di “non valere un lupino” che voleva dire che non si valeva nulla o pochissimo; ancora sul lupino si diceva “non stimare un lupino”, che significa che non si ha alcuna stima. Ma il lupino è anche il nome di una malattia degli occhi che quando si infiammano prendono l’apetto di un lupino ed è anche il nome che si da ai calli.

Ho cercato le quatazioni alla borsa merci della farina di lupino ma ho solo appreso la vendita in sacchetti da 10 chili a circa 2,9 euro al chilo. Nel mondo si coltivano un milione di ettari di lupino, la classificazione botanica Lupino (Lupinus spp.): Lupinus albus L.Lupino bianco, Lupinus luteus L.Lupino giallo, L. angustifolius L.Lupino azzurro. Il lupino bianco (Lupinus albus), il più diffuso in Italia: tollera il gelo e terreni moderatamente acidi anche limosi, il giallo (Lupinus luteus): sensibile al freddo (ciclo primaverile in Europa centronord) vuole terreni acidi e sabbiosi, l’azzurro (Lupinus angustifolius): sensibile al freddo, vuole terreni acidi.
Da granella, da foraggio o da sovescio. Semina (l.bianco): ottobre-novembre. Raccolta: giugno-luglio.

 

 

Bibliografia

L’Agricoltura salentina gennaio 1928
Pietro Fanfani Vocabolario dell’uso toscano
Dott. Raffaele Casa, Dipartimento di Produzione Vegetale, Università della Tuscia, Viterbo Colture erbacee:leguminose da granella
Prof. Guido Baldoni Generalità sulle Leguminose da granella

Frutti della terra nel Salento: oggi, parliamo di lupini, carrube e fichi

di Rocco Boccadamo

Sono frutti, prodotti, derrate, cui, adesso, si annette rilievo scarso, se non, addirittura nullo; si è quasi arrivati a ignorarne l’esistenza, la cura e l’uso.

Sulla scena delle risorse agricole locali, resistono appena, con alti e bassi, le granaglie, le olive, l’uva, gli agrumi, gli ortaggi e/o verdure.

Lupini, carrube e fichi sono, insomma, divenuti figli minori e spuri della terra, le relative coltivazioni appaiono rarefatte e, di conseguenza, i raccolti trascurati o abbandonati.

Mentre, sino alla metà del ventesimo secolo ma anche a tutto il 1960/1970, rappresentavano beni indicativi per i bilanci delle famiglie di agricoltori e contadini ed elementi di non poco conto per le stesse, dirette occorrenze alimentari.

I primi, della sottofamiglia delle Faboidee, al presente richiamati solo sulla carta e nelle enciclopedie come utili ai fini della decantata “dieta mediterranea”, si trovavano diffusi su vasta scala, specialmente nelle piccole proprietà contadine attigue alla costiera, fatte più di roccia che di terra rossa, si seminavano automaticamente e immancabilmente senza bisogno di soverchia preparazione del terreno, né necessità di cure durante il germoglio e la crescita delle piante, dapprima in unità filiformi, poi robuste e ben radicate sino all’altezza di metri 1 – 1,50, recanti, alla sommità, rudi baccelli contenenti frutti a forma discoidale, compatti, di colore fra il giallo e il beige – biancastro.

Al momento giusto, le piante erano divelte a forza di braccia e sotto la stretta di mani callose e affastellate in grosse fascine o sarcine. A spalla, i produttori trasportavano quindi tale raccolto nel giardino o campicello, con o senza aia agricola annessa, più prossimo alla casa di abitazione nel paese, lasciandolo lì, sparso, a essiccare completamente sotto il sole.

Dopo di che, avevano luogo le operazioni di separazione dei frutti dai baccelli e dalle piante, sottoforma di sonore battiture per mezzo di aste e forconi di legno. Diviso opportunamente il tutto, con i già accennati discoidi, si riempivano sacchi e sacchetti.

Il prodotto, in piccola parte, era conservato per le occorrenze, diciamo così, domestiche: previa bollitura e aggiuntivo ammorbidimento e addolcimento con i sacchetti tenuti immersi nell’acqua di mare, i lupini diventavano una sorta di companatico o fonte di nutrimento di riserva e, in più, servivano ad accompagnare i “complimenti”, consistenti in panini, olive, sarde salate, peperoni e vino, riservati, in occasione dei ricevimenti nuziali, agli invitati maschi.

Invece, l’eccedenza, ossia la maggior parte del raccolto, era venduta a commercianti terzi.

°   °   °

Le carrube sono i favolosi e bellissimi pendagli, color verde all’inizio e marrone sul far della maturazione, donatici dagli omonimi maestosi alberi, taluni di dimensioni monumentali, tutti affascinanti.

Anche riguardo alle carrube, non si pongono attenzioni particolari, salvo periodiche potature delle piante, i frutti si raccolgono, al momento, purtroppo, da parte di pochi, attraverso tocchi con aste di legno, un’operazione denominata abbacchiatura, come per le noci.

Il prodotto, copioso e abbondante ad annate alterne e riposto in sacchi di juta, oggi è indirizzato esclusivamente alla vendita a terzi; al contrario, in tempi passati ma non lontanissimi, le carrube, dopo l’essiccazione al sole, erano in parte abbrustolite nei forni pubblici del paese e, conservate in grossi pitali in terracotta, insieme con le friselle e i fichi secchi, componevano le colazioni e, in genere, i frugali pasti in campagna dei contadini.

Piccola nota particolare, d’inverno, poteva anche capitare di grattugiare le carrube e, mediante la graniglia così ottenuta mescolata con manciate di neve fresca (beninteso, nelle rare occasioni in cui ne cadeva), si realizzava un originale e gustoso dessert naturale e sano.

°   °   °

I fichi, al momento, purtroppo, lasciati, in prevalenza, cadere impietosamente ai piedi degli alberi, erano, una volta, oggetto di una vera e propria campagna di raccolta, ripetuta a brevi intervalli in genere sempre nelle prime ore del mattino, con immediato successivo sezionamento (spaccatura) dei frutti e disposizione dei medesimi  su  grandi stuoie di canne , “cannizzi”, e paziente fase di essiccazione sotto il sole.

Allo stesso modo delle carrube, in parte erano poi cotti nei forni e andavano a integrare le fonti dell’alimentazione famigliare, in parte erano somministrati agli animali domestici, in parte, infine, erano venduti.

Soprattutto, se non proprio, per i fichi, le famiglie avevano l’abitudine, in luglio e agosto, di spostarsi fisicamente dalle case di abitazione nel paese, nelle piccole caseddre di pietre situate nelle campagne, cosicché si risparmiavano le ore occorrenti per l’andata e il ritorno di ogni giorno a piedi e avevano, in pari tempo, agio di attendere direttamente e più comodamente a tutte le fasi della descritta raccolta.

Non c’è che dire, ieri, in un modello esistenziale più semplice, alla buona e intriso di spontanea connaturata operosità, si aveva interesse, e attenzione, anche per beni “poveri” ma, con ciò, non meno utili di altri; oggi, il concetto di valore si è in certo senso ripiegato su se stesso e finalizzato a obiettivi e orizzonti di tutt’altra stregua, fra cui miraggi a portata di mano.

Il lupino in alcuni autori greci e latini

di Armando Polito

Le testimonianze greche e latine sul lupino (in dialetto locale la vera marina1, metafora presente anche, per esempio, in lu passatièmpu, nome dei semi di zucca un tempo corredo indispensabile insieme con la vera marina di ogni ingresso al cinema, con evidente disappunto degli addetti alle pulizie…) sono numerosissime, perciò mi limiterò a segnalare le più curiose ed interessanti, tutte non appartenenti, una volta tanto, all’ambito dei naturalisti (facendo, come si vedrà, una sola eccezione per Plinio), dei quali, magari, parlerò in altra occasione.

Preliminarmente, però, va detto che al latino lupìnus (di genere maschile) o lupìnum (di genere neutro) non corrisponde in greco voce foneticamente assimilabile. I Greci, infatti chiamavano la nostra leguminosa thermos. Sul piano etimologico lupìnus/lupìnum e thermos vivono una sorta di curioso (sarà solo casualità?) gemellaggio, nel senso che per la voce latina è stato ipotizzato un rapporto, che rimane indecifrato sul piano semantico, con l’aggettivo lupìnus/a/um=relativo al lupo;  la voce greca, invece, potrebbe avere un rapporto, al momento anch’esso oscuro, con l’aggettivo thermòs/è/òn=caldo.

Per il mondo greco citerò Ateneo di Naucrati, un autore vissuto probabilmente nell’ètà di Commodo (II-III secolo), autore de I deipnosofisti (I saggi a banchetto), opera preziosa perché vi sono citati molti brani di autori di cui nulla o poco ci è rimasto. L’intero capitolo 45 del II libro è dedicato ai lupini e mi è parso opportuno riportarlo integralmente.

Alessi2 : -Vada in malora chi qui ha mangiato lupini (thermoys, accusativo plurale di thermos) e ha lasciato le bucce nell’ingresso e non è rimasto soffocato nel mangiarli! So di certo una sola cosa, che non li ha mangiati Cleaineto: so che è un poeta tragico; infatti Cleaineto mai ha buttato via la buccia di qualche legume, così lui è un uomo che non crea difficoltà-.

Licofrone3 di Calcide in una rappresentazione satirica scritta per deridere il filosofo Menedemo, dal quale ebbe nome la setta degli Eretriaci, prendendo in giro i pranzi dei filosofi dice: -E plebeo saltò il lupino (thermos) abbondante e commensale dei poveri triclini-.

Difilo4: – Non c’è mestiere più pericoloso di quello del magnaccia. Girando per le vie preferirei vendere rose, ravanelli, lupini (thermokyàmous, parola composta da thermos=lupino+kýamos=fava), sansa, qualsiasi altra cosa che nutrire queste-.

– E fai attenzione- disse (Ateneo) – a thermokyàmus, poiché anche ora si usa questo nome. Polemone dice che gli Spartani chiamano i lupini (thermoys) lusilaidi (lysilàidas, accusativo plurale che suppone un nominativo singolare lysilàis). Teofrasto nell’opera Storia delle piante scrive che il lupino (thermos), la cicerchia e il cece sono i soli a non essere infestati da animali per il loro sapore aspro e amaro. Il cece, dice, diventa nero quando subisce un danno e nel quarto libro della stessa opera dice che nei ceci nascono i bruchi (kampas, accusativo plurale, di kampe, da cui il dialettale càmpia). Difilo di Sifne dice che i lupini (thermoys) sono purgativi e molto nutrienti soprattutto quelli addolciti a lungo. Per questo anche Zenone di Cizico, che era severo e molto irascibile con i suoi allievi, dopo aver sorbito a lungo il vino diventava dolce e affabile. A chi gli chiedeva il motivo di quel cambiamento rispondeva che gli capitava la stessa cosa dei lupini : infatti questi prima di essere bagnati sono amarissimi, dipo che sono stati a bagno dolci e gradevolissimi-.  

Maggiore spazio dedicherò agli autori latini. Da un passo di Plauto4 (III-II secolo a. C.) traiamo l’informazione che gli attori comici sulla scena utilizzavano come monete i lupini (forma e colore si prestavano perfettamente):

AGORASTOCLE  – Qui ha trecento nummi contati -.

TESTIMONI – Agorastocle, bisogna che noi controlliamo quest’oro per sapere cosa dire a testimonianza.

COLLIBISCO – Fate pure, controllate! -.

TESTIMONI – O spettatori, questo è veramente oro comico: con quest’oro messo a bagno in Italia s’ingrassano i buoi -.5  

 

La notizia plautina trova conferma più di un secolo dopo in Orazio6 (I secolo a. C.): L’uomo onesto e saggio si dice preparato a comportamenti dignitosi, ma non ignora quanto le monete siano lontane dai lupini.7 Sorprende che con lo stesso significato traslato nel dialetto corrente non sia usato lupini ma pisièddhi (piselli); è probabile, però, che i piselli all’inizio evocassero, più che le monete, le gemme e simili e che quindi il vocabolo abbia subito un doppio slittamento metaforico.

Un’altra testimonianza8 di Orazio fa persino tenerezza se si guarda alle spese pazze (mi limito a pensare solo a quelle che, per quanto pazze, hanno una qualche pezza giustificativa…) che oggi sostengono alcuni (?) candidati per dare l’avvio o per confermare il sogno o la ragione  di una vita: diventare consumatori abituali della droga peggiore, cioè del potere non inteso come servizio:

Inoltre, perché non vi solletichi l’ambizione, vi obbligo ambedue ad un giuramento: chi di voi due diventerà edile o pretore sia messo al bando. Tu consumaresti i tuoi beni in ceci, fave e lupini per la soddisfazione di avanzare tronfio nel circo e mostrarti impettito in un busto di bronzo, dopo esserti privato, pazzo che sei,  dei campi e del denaro di tuo padre?9

E che in passato la funzione delle attuali fiches fosse assolta proprio dai lupini lo dimostra un passo del Codex Iustinianeum10 (535 d. C.):  Se qualcuno al gioco dei dadi sia stato battuto utilizzando come denaro simbolico lupini o qualsiasi altro materiale, cesserà anche contro di lui ogni diritto di riscuotere la somma corrispondente.11

Dopo aver scomodato poeti e giuristi chiudo col naturalista Plinio (I secolo d. C.) che sul pittore Protogene ci ha lasciato, tra l’altro, quanto segue: La sua opera più famosa è il ritratto di Ialiso che si trova a Roma nel tempio della Pace. Si tramanda che mentre lo realizzava si nutrì di lupini umidi, perché nello stesso tempo soddisfacevano la fame e la sete, affinché la sensibilità non venisse offuscata troppo dalla dolcezza.12

______

1 Vedi il recente post Il lupino. La vera marinaaa…di Massimo Vaglio in questo sito-

2 Commediografo vissuto fra il IV e il III secolo a. C.

3 Poeta tragico del IV secolo a. C.

4 Poenulus, vv. 585-589.

5

AGORASTOCLES  – Hic trecentos nummos numeratos habet -.

ADVOCATI – Ergo nos inspicere oportet istuc aurum, Agarastocles -.

COLLIBISCUS – Agite, inspicite -.

ADVOCATI – Aurum est profecto hoc, spectatores, comicum: macerato hoc pingues fiunt auro in barbaria boves – .

6 Epistulae I, 7, 22-23.

7 Vir bonus et sapiens dignis ait esse paratus/nec tamen ignorat quid distent aera lupinis.

8 Satyrae, II, 3, 179-184.

9 Praeterea ne vos titillet gloria, iure/iurando obstringam ambo: uter aedilis fueritve/vestrum praetor, is intestabilis et sacer esto./In cicere atque faba bona tu perdasque lupinis,/latus ut in circo spatiere et aeneus ut stes,/nudus agris, nudus nummis, insane, paternis?.

10 III, 43.

11 Si quis sub specie alearum victus est lupinis vel alia quavis materia, cesset etiam adversus eum omnis exactio.

12 Palmam habet tabularum eius Ialysus, qui est Romae, dicatus in templo Pacis, quem quum pingeret, traditur madidis lupinis vixisse, quoniam simul famem sustinerent et sitim, ne sensus nimis dulcedine obstrueret.

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