Melissano e la statua di Sant’Antonio di Padova

La tela seicentesca che diede origine al culto di S.Antonio di Padova a Melissano

Per i trecento anni della statua di Sant’Antonio di Padova venerata nella chiesa parrocchiale di Melissano

 

di Fernando Scozzi

La statua di Sant’Antonio di Padova, venerata nella chiesa parrocchiale di Melissano, compie 300 anni. Non è una ricorrenza di secondaria importanza perchè nel difficile lavoro di ricostruzione delle vicende religiose e sociali della comunità melissanese anche l’immagine del Santo Patrono ha la sua rilevanza. Il simulacro, infatti, testimonia la generosità del vescovo di Nardò, Mons. Antonio Sanfelice e la devozione dei melissanesi per Sant’Antonio di Padova il cui patrocinio non trae origine da avvenimenti straordinari, ma da un dipinto del Santo che i De Franchis, feudatari di Melissano, donarono alla nuova chiesa parrocchiale nei primi anni del XVII secolo. (1)

Melissano, la facciata dell’antica chiesa parrocchiale di S. Antonio (sec. XVII) (foto Fernando Scozzi)

 

Fin da quel periodo, quindi, Sant’Antonio di Padova divenne il Santo di riferimento del piccolo paese, anche se il primo documento che ne attesta il patronato risale al secolo successivo. Dalla relazione della visita pastorale del 11 maggio 1719 apprendiamo, infatti, che il vescovo Sanfelice, accompagnato dal parroco, Don Ottavio Piamonte, visitò la chiesa parrocchiale intitolata a Sant’ Antonio di Padova, confessore e patrono principale di Melissano; visitò gli altari del Rosario e del Protettore, ma la non la statua del Santo, dal momento che la parrocchia era così povera da esserne sprovvista.

Mons. Antonio Sanfelice che commissionò la statua di Sant’Antonio di Padova per la chiesa parrocchiale di Melissano (da fondazioneterradotranto.it)

 

L’anno successivo, lo stesso presule visitò nuovamente la chiesa, la torre campanaria, il sepolcro dei defunti, le suppellettili sacre e la nuova statua di Sant’Antonio di Padova con sacra reliquia, circostanza riportata nella relazione della visita pastorale  ..… visitavit novam statuam Santi Antonii de Padua cum sacra reliquia. Nessun dubbio, quindi, riguardo alla datazione del simulacro che fu intagliato fra il 1719 ed il 1720. E’ molto probabile che fu lo stesso Sanfelice a commissionare la statua, dopo aver constatato, nel corso della prima visita pastorale, che la parrocchia ne era priva. Il vescovo si rivolse, quasi certamente, al “maestro di legname” Giovanni Antonio Colicci (attivo a Napoli negli anni fra il 1692 ed il 1740) che in quello stesso periodo scolpiva le statue dell’Assunta per la cattedrale di Nardò e del San Filippo Neri per il seminario della medesima città, mentre per la parrocchiale di Lequile firmava il mezzobusto ligneo del Santo dei miracoli (2).

Quest’ultimo è simile alla statua di Sant’Antonio venerata nella chiesa di Melissano (occhi grandi, viso ovale, panneggio della tunica che cade sul basamento) il che ne avvalora l’attribuzione all’artista napoletano. Il Santo è raffigurato insieme a Gesù Bambino che, con una mano benedice e con l’altra indica il volto di Sant’Antonio come ad esortare i fedeli ad imitarne le virtù. Completano l’immagine il giglio ed il libro simboli, rispettivamente, di purezza e di ispirazione alla Sacra Scrittura.

Melissano, anni Sessanta del secolo scorso – La statua di Sant’Antonio addobbata con gli ori offerti per grazia ricevuta

 

Nel 1788 si rese necessario l’ampliamento dell’antica chiesa parrocchiale al cui interno fu edificato un artistico altare del Protettore che, con le sue linee settecentesche, caratterizza il sacro edificio. Qui, sulla controfacciata, si nota un’effigie di Sant’Antonio di Padova che, a detta dei più anziani, fu impressa sulla parete dalla scarica di un fulmine durante l’infuriare di un temporale. Certo è che il dipinto risale ai primi anni del secolo scorso, ma non è escluso che sia stato eseguito su una preesistente immagine del Santo.

Dagli atti del Comune di Taviano (cui Melissano fu aggregata agli inizi del XIX secolo) risulta che nel 1812 il Municipio stanziava otto ducati per solennizzare la festa patronale che, fin da quel periodo, prevedeva due appuntamenti annuali: il 13 giugno (festa liturgica) e la prima domenica di settembre (festa solenne). In questa occasione, fin dal 1877, fu istituita una fiera a supporto di un’economia agricola in forte espansione che aveva fatto della viticoltura il punto di svolta per lo sviluppo socio-economico della comunità melissanese. E proprio negli ultimi decenni del XIX secolo, con le risorse finanziarie provenienti dalla commercio del vino, si edificava la nuova chiesa parrocchiale che, in continuazione ideale con l’antica matrice, fu aperta al culto nel 1902 e dedicata al Protettore e alla Madonna del Rosario, titolare della parrocchia.

La statua di Sant’Antonio, quindi, passò dall’antico al nuovo tempio e continuò ad essere accompagnata nelle tre processioni annuali, parte integrante dei festeggiamenti svolti secondo un programma che, per molti aspetti, è stato seguito fino allo scorso anno: concerti di bande musicali, illuminazione delle principali vie del paese, messa solenne con panegirico e conclusione della festa con lo spettacolo di fuochi pirotecnici. (3)

Nel 1910 il simulacro fu impreziosito (per devozione di Fortunato Caputo) da un medaglione d’argento, mentre Francesca Panico donò la corona lignea dorata sotto la quale viene esposta ancora oggi la statua del Santo. Successivamente, il parroco Don Salvatore Tundo, pubblicò un libro in versi sulla vita di Sant’Antonio (4) mentre i coniugi Giuseppe e Antonia Musio fecero dipingere il maestoso altare del Protettore dove campeggia un’immagine del Santo (risalente al 1902) pregevole opera del pittore leccese Luigi Scorrano. Nel 1931, fu realizzato un ciclo di dipinti che raffigura gli episodi più significativi della vita del Santo dei miracoli (il transito, la gloria, la distribuzione del pane ai poveri) mentre la devozione popolare si manifestava con i numerosi monili offerti al Protettore per grazia ricevuta (esposti sull’immagine in occasione delle processioni) con la capillare diffusione del nome del Santo fra i melissanesi, le edicole sacre, le immagini fra le mura domestiche.

L’ultimo restauro della statua, il tredicesimo, risale al 2008. I lavori, affidati ad un’impresa specializzata, sotto la sorveglianza della Soprintendenza dei Beni Culturali di Lecce, ne hanno confermato la datazione, visto che la reliquia del Santo, posta nell’incavo centrale dell’immagine è autenticata dal sigillo di Mons. Antonio Sanfelice. E’emerso, inoltre, che il simulacro, di pregevole fattura, “è costituito dall’assemblaggio di tre pezzi di legno tenero tenuti insieme da un sistema di chiodi passanti che ne assicura la tenuta”. (5)

La statua, secondo gli addetti ai lavori, è stata riportata al suo stato originario; ma, nonostante gli interrogativi suscitati da un intervento così radicale, rimane un elemento di identificazione della Comunità melissanese affidatasi nel corso dei secoli a Sant’Antonio di Padova, uno dei Santi più amati dalla cristianità.

Melissano, chiesa parrocchiale – La statua del Santo dopo il restauro del 2008 (foto R. Lanza)

 

Note

  1. I De Franchis, marchesi di Taviano ed utili signori di Melissano, erano così devoti a Sant’Antonio di Padova da far costruire e dedicare nel 1643 al Santo dei miracoli il convento dei francescani riformati di Taviano.
  2. Maura Sorrone https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/26/giovanni-antonio-colicci maestro-di-legname/
  3. “La Gazzetta del Mezzogiorno” riporta il programma della festa del 1951: “Hanno avuto inizio i festeggiamenti in onore del Patrono S. Antonio di Padova. Il Comitato ha preparato il seguente vasto ed interessante programma. Nelle ore pomeridiane di sabato 1 settembre e in quelle antimeridiane di domenica, la statua del Santo sarà portata processionalmente per le vie del paese. Una solenne messa in musica sarà celebrata nella parrocchia a termine della processione di domenica 2 settembre, messa che sarà eseguita dall’orchestra lirico-sinfonica “Città di Taranto”. Terrà il panegirico il Prof. Padre Gerardo Miccioli dei Frati Minori. Per l’occasione sono stati ingaggiati l’orchestra lirico-sinfonica “Città di Taranto” e il concerto musicale di Corigliano d’Otranto rispettivamente diretti dal Maestro Dino Milella e dal Maestro Marcianò. L’addobbo sarà curato dalla locale ditta Fratelli Parisi e vi saranno batterie di fuochi artificiali. Come per tradizione la fiera del bestiame e merci avrà luogo domenica 2 settembre”. Dalla fine degli anni Settanta, al tradizionale programma è stato aggiunto uno spettacolo di musica leggera con l’ingaggio di cantanti anche di fama nazionale. Invece, la processione che si svolgeva nel giorno della festa solenne è stata soppressa con il conseguente impoverimento dei festeggiamenti religiosi, ora limitati alla sera della vigilia. Ma, in generale, sono cambiate le motivazioni alla base delle feste patronali. Per quanto riguarda Melissano in particolare, la festa solenne che fino a pochi anni fa segnava l’inizio della vendemmia e quindi il rientro in paese dei melissanesi residenti nella abitazioni estive, è diventata (per l’abbandono dell’attività agricola e per il cambiamento climatico) un appuntamento da passare al mare ed a cui partecipare, tutt’al più, nelle ore serali.
  4. Arc. Salvatore Tundo, S. Antonio, Carra, 1936. Così esordiva Don Salvatore nella sua pubblicazione: “Fortunata sei tu Melissano/d’aver scelto a celeste Patrono/ chi di gemme ha cosparso il suo trono/ed è ricco i tutti i tesor. I tuoi padri da Fede guidati/quando assursero a libera vita/ al Rosario cercarono aita/ad Antonio fidarono i cuor”.
  5. Don Giuliano Santantonio , “Sant’Antonio … ritrovato”, in “Il Carrubo”, a. 1, n. 3, giugno 2008.

L’episodio otrantino del 1480: scritture sui margini

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Otranto

Luigi Scorrano, L’episodio otrantino del 1480: scritture sui margini

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 119-130.

 

ITALIANO

Dal 1480 ad oggi, la conquista di Otranto ed il martirio dei suoi cittadini sono stati oggetto di numerose opere letterarie che, più o meno efficacemente e puntualmente, ne hanno narrato le vicende. In questo saggio, l’autore analizza alcuni scritti, da lui definiti, “ai margini”, dove cioè la presa turca “è un pretesto per parlare d’altro o per alimentare un mito esaltante”.

 

ENGLISH

Since 1480 until the present day the conquest of Otranto and the martyrdom of its population have been under the attention of many literary works which related these events quite effectively and consistently. The author analyses in this essay some works that he defines “on the edge”, that means where the Turkish domination is nothing but “an excuse to talk about something else or to enhance an exciting myth”.

 

Keyword

Luigi Scorrano, Otranto, 1480

Luigi Scorrano. L’uomo che guarda le stelle e altre storie

stelle

di Elio Ria

L’opera si compone di 13 racconti scritti un anno dopo l’altro per una circostanza particolare: la “fera te santa Lucia” (13 dicembre). La festa di santa Lucia è la ricorrenza durante la quale tutti gli artigiani (e i dilettanti) di figurine del presepio (in cartapesta o in gesso) espongono e vendono. Una tradizione leccese.

Accogliendo questi dati di tradizione, l’Autore ha fatto protagonisti dei suoi racconti uomini e pupi che ricordano i Natali del passato, riflettono sul senso di una giornata particolare, fanno i conti con il proprio passato o con la propria funzione in quella che è la tradizione del presepio. Rimpianti e delusioni, piccole gioie ritrovate, scettico sguardo su una tradizione che sempre più ha perduto i suoi connotati originali, malinconica presa d’atto di tante promesse mancate della vita.

Varietà di toni e di registri sono armonizzati da una scrittura piana e attraente; l’invenzione va da una memoria dell’infanzia che si cerca di recuperare per interrogarne i remoti trasalimenti (A Natale i treni) allo sguardo disincantato e alla memoria pungente di L’uomo che guarda le stelle; dall’ilare invenzione di Ma che cos’è questastoria della Befana? e di Uno strano caso al vario atteggiarsi dell’animo dei protagonisti del presepio (da I Magi a Baldassare per la strada a L’albero cantava).

Non si tratta, come si potrebbe pensare, di racconti per ragazzi o di piccole storie consolatrici. Sullo sfondo c’è il nostro tempo, con le sue angosce e i suoi affanni quotidiani.

Ciascun racconto è corredato da una illustrazione realizzata da Gabriella Torsello.

La parrocchiale di Melissano a 110 anni dalla dedicazione

F. Campasena, 1885. Disegno della chiesa di Melissano

di Fernando Scozzi

Una chiesa, una comunità: la parrocchiale di Melissano a 110 anni dalla dedicazione

D.O.M.

Precum effusio

Datori bonorum omnium

et indefessa populi

largitio

ad exitum opus duxerunt

die 8 februarii 1902

In questa scritta, che leggiamo all’ingresso della chiesa parrocchiale di Melissano, è riassunta la storia del sacro edificio, di cui, alcuni giorni fa, abbiamo ricordato il 110° anniversario della dedicazione. La Fede, le preghiere e l’instancabile generosità dei nostri Padri edificarono questa chiesa i cui lavori iniziarono nel 1885, quando Melissano contava appena 1500 abitanti: un agglomerato di casupole affacciate sulla campagna, pochi vicoli ricalcanti gli antichi sentieri campestri e due chiese, fra le quali l’antica parrocchiale, dedicata al Protettore S. Antonio e non più adeguata al culto.

Fin dal 1877, infatti,  il parroco, don Vito Corvaglia, scriveva al Papa Pio IX facendosi ardito a presentare a Sua Beatissima la preghiera come appresso: lo stesso trovasi parroco di una meschinissima chiesa, indegna al culto di Dio e neppure idonea a contenere una popolazione crescente di giorno in giorno:

Tuglie. Allo scoperto

Gli “Amici della Biblioteca” di Tuglie inaugureranno con Luigi Scorrano, studioso, dantista e critico, l’iniziativa

ALLO SCOPERTO

domenica 12 febbraio ore 18,30,

 

Luigi Scorrano, tugliese, sarà invitato a raccontarsi, anzi a scoprirsi, pungolato dalle domande di Elio Ria.

Gli interessi letterari di Luigi Scorrano sono centrati principalmente sul dantismo. È peraltro il più assiduo frequentatore dei testi novecenteschi alla ricerca delle presenze e tracce dantesche nella poesia e letteratura italiana e non solo,

Libri/ Carmelo Arnisi, un maestro-poeta dell’800

di PaoloVincenti

Nel 2003, è stato pubblicato da Congedo, per la Collana “Biblioteca di Cultura Pugliese, il volume  “Carmelo Arnisi, un maestro-poeta dell’800”, sulla figura di questo intellettuale ruffanese, vissuto a cavallo fra i due secoli Ottocento e Novecento, che, fino ad allora, era poco conosciuto.

Questo libro, a cura di Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, è stato pubblicato con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale di Ruffano e su impulso della Pro Loco e dell’allora suo Presidente, prof.Cosimo Conallo che, nell’Introduzione, sottolineava come fosse giustamente ormai tempo di riscoprire la figura di questo poeta ruffanese, a cui a Ruffano è stata

Cartoline da Tuglie. Un luogo ideale

di Luigi Scorrano

C’è un’aria fina di primavera e vi si sveglia dentro il desiderio di una bella passeggiata? Il paese non offre molto sotto questo punto di vista. Qualunque passo pone il problema dell’incolumità personale: il pedone è sempre a rischio.

Lasciate pure le solite strade del centro e cercate un luogo appartato ma non proprio nascosto. C’è! Vi svettano alberi superbi, comodi viali vi permettono di camminare senza rischi, una gran quantità di piante fiorite e ben curate rallegra la vista: insomma, c’è quanto si può desiderare per andarsene a braccetto dei propri pensieri. Il luogo spira calma e serenità. Camminandovi, anche se siete da soli, vi sembrerà di essere in buona e numerosa compagnia. Non correrete il rischio che qualche seccatore vi capiti tra i piedi. Coloro che vedete hanno tutti un sorriso benevolo, vi guardano con simpatia e si rallegrano di vedervi. Forse soffrono un poco di solitudine e non gli par vero che nelle loro case silenziose di tanto in tanto risuoni il rumore d’un passo diverso dal loro, ch’è felpato e quasi inaudibile.

Si respira, qui. E vi si gode un panorama stupendo, tanto che quasi quasi nasce un po’ d’invidia per coloro che son venuti ad abitare qui dal momento che godono d’una visione che altri luoghi del paese non potrebbero offrirvi

Cartoline da Tuglie. La chiesa matrice

Una facciata, quasi un volto

 di Luigi Scorrano

In molti la ricordano ancora, col suo aspetto biancastro o ingrigito, con le tracce della stanchezza che il tempo lascia sui monumenti oltre che sulle facce delle persone. Appena restaurata, la facciata della Chiesa Matrice provocava un effetto choc, con il suo colore che poteva risultare troppo acceso, con la quasi sfacciata evidenza della sua mole subito tornata ad imporsi nello spazio della piazza. Ora, però, anche quel colore così vivo sì è un poco velato, o forse l’occhio vi si è abituato e l ’effetto è quello di collocare la facciata della chiesa tra le immagini familiari; non più staccata dagli edifici circostanti ma con essi in colloquio pacato e cordiale come s’addice allo spazio urbano d’una piazza cordiale anch’essa, con un aspetto quotidiano che non incute soggezione.

Una facciata è come un volto: vi si stratifica la memoria degli anni e degli avvenimenti. La si può assumere come testimone di eventi che sono ormai lontani dal nostro tempo; si può facilmente immaginare che resterà, anche dopo la stagione della nostra vita, a vegliare sulla vita del paese.

Una facciata, quella della nostra Chiesa Matrice, senza pretese, aperta, fraterna alla dimensione della quotidianità nella quale siamo immersi. L’orizzontalità dei suoi piani è bilanciata dalla verticalità di rilevanti elementi architettonici; il sagrato-terrazza, con la sua balaustra di confine, piccolo balcone dove sostare in piacevoli incontri, costituisce un sorridente

Cartoline da Tuglie

Largo Fiera, per memoria

di Luigi  Scorrano

Del Largo Fiera solo chi c’è nato e vi ha trascorso un bel pezzo della sua vita può coltivare la nostalgia da paradiso perduto che il luogo insinua nella memoria. È come dire che chi vi è nato ha aperto gli occhi sulla luce di quel quadrato di cielo sopra le case che il profilo degli edifici non riesce a contenere. E la luce sfugge allegra per le vie circostanti, a raggiera, come in una paesana e dolcemente improbabile Place de L’Étoile di casa nostra.

Per chi lo vede oggi, e non l’ha mai visto com’era quando in effetti vi si svolgeva la fiera dell’Annunziata, ch’è l’occasione che gli dette il nome, Largo Fiera è segnato da uno dei tanti pettinati assetti urbani che il tempo e nuove esigenze di vita comportano. Sicché pare che ricordarlo com’era, fra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, sia una sorta di privilegio. Certo è un segreto appuntamento con la malinconia delle cose perdute o di quella perduta parte di noi stessi che riaggalla a tratti nella mente e rende più pungente il senso del passato.

Un largo, come dice il nome: non una piazza. Un largo senza muretti di confine a segnare con decisione le strade. Uno spiazzo dove i bambini delle famiglie che vi abitavano intorno trovavano il luogo ideale dei loro giochi ed erano sotto l’occhio amorosamente vegliante delle madri. L’ingombrante Casa del Fascio, rimasta incompiuta ed in seguito utilizzata  in vario modo (scuola, municipio), tolse respiro al luogo; ma nello spazio dell’attuale “villetta” gli alberi del pepe (li chiamavamo così) scuotevano languidamente i loro molli rami, quasi travestendosi da salici al margine di uno specchio d’acqua inesistente.

Il toponimo, prima degli anni Ottanta divenuto Piazza Municipio, gli è stato provvidamente restituito, perché della funzione di quel luogo non si cancellasse la memoria. Il giorno della festa patronale, la Madonna dell’Annunziata, protettrice del paese, vi sostava un bel po’, ferma di fronte al luogo dove in suo onore venivano “sparate” fragorose “batterie”. Era in compagnia d’una teoria di santi, che le assicuravano scorta e facevano un bel vedere, nella luce fresca di marzo, con i loro gesti imperiosi o dolci, con le loro divise multicolori.

Largo Fiera era un luogo della gioia. A Natale vi si accendeva il più bel falò del paese, quello che durava per più giorni. Il calore di quel fuoco riscalda la mente, a ripensarlo. E le faville che ne scaturivano si sono attaccate alla volta celeste e sono le stelle che brillano nella notte di Natale.

Tuglie. Un paese, un racconto

di Luigi Scorrano

Ogni paese ha una storia. Ma questa storia è fatta non solo degli avvenimenti, grandi o piccoli, dei quali un paese è teatro; è fatta anche dalla fisionomia del paese, dai suoi luoghi, dalle generazioni che vi impressero un segno distintivo e lo passano ai posteri. Si può fare storia di un paese anche così, osservando quanto ci circonda nel luogo in cui viviamo, ripensando alla nostra collocazione nella piccola società che esso ospita… Il racconto ‘storico’ di un paese può attingere anche in un percorso inconsueto la sua visibilità, il suo carattere.

Il paese di cui qui parliamo è Tuglie. Per ‘cartoline’.

Ritrattino di Tuglie

Con le sue case, con la sua piazza al centro di un abitato più lungo che largo, con la sua collina di Montegrappa che fa da belvedere su un ampio tratto di territorio, Tuglie, nella sua raccolta fisionomia, non manca di attrattive. Sembra quasi d’obbligo, quando si vogliano vantare origini illustri, rifarsi ai Romani (in Italia, almeno!) o anche più lontano: anche Tuglie non sfugge a questa specie di regola. Qualche traccia, per quanto incerta, una parentela potrebbe stabilirla. Ma è dal Medioevo che abbiamo qualche notizia più sicura; ed è soprattutto tra il Sei ed il Settecento che Tuglie comincia ad acquistare un preciso profilo di paese, di comunità urbana.

Gli studiosi locali hanno illustrato aspetti generali o parziali di questo luogo; ci hanno raccontato, anche, la storia dei suoi abitanti, umili o eminenti che fossero. Un paese è fatto di tutti coloro che ci vivono e in

Tuglie. Una cartolina da Largo Fiera

Largo Fiera, per memoria

di Luigi Scorrano

Del Largo Fiera solo chi c’è nato e vi ha trascorso un bel pezzo della sua vita può coltivare la nostalgia da paradiso perduto che il luogo insinua nella memoria. È come dire che chi vi è nato ha aperto gli occhi sulla luce di quel quadrato di cielo sopra le case che il profilo degli edifici non riesce a contenere. E la luce sfugge allegra per le vie circostanti, a raggiera, come in una paesana e dolcemente improbabile Place de L’Étoile di casa nostra.

Per chi lo vede oggi, e non l’ha mai visto com’era quando in effetti vi si svolgeva la fiera dell’Annunziata, ch’è l’occasione che gli dette il nome, Largo Fiera è segnato da uno dei tanti pettinati assetti urbani che il tempo e nuove esigenze di vita comportano. Sicché pare che ricordarlo com’era, fra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, sia una sorta di privilegio. Certo è un segreto appuntamento con la malinconia delle cose perdute o di quella perduta parte di noi stessi che riaggalla a tratti nella mente e rende più pungente il senso del passato.

Un largo, come dice il nome: non una piazza. Un largo senza muretti di confine a segnare con decisione le strade. Uno spiazzo dove i bambini delle famiglie che vi abitavano intorno trovavano il luogo ideale dei loro giochi ed

Tuglie. Una cartolina dalla Stazione

di Luigi Scorrano

“Stazione” vuol dire, letteralmente, “luogo di sosta”. Ogni stazione lo è. Meglio si potrebbe dire “luogo d’attesa”. Ci si fermi in procinto di partire o, al momento del ritorno, il tanto che basta a passare dal predellino d’una locomotiva al marciapiede, il sentimento che si prova è quello non di uno “stare”, come la parola vorrebbe, ma d’un tendere verso qualcosa. Tendere a un luogo perché vi sospingono particolari circostanze della vita; tornare al luogo natale, alle note pareti di casa, alle vie percorse tante volte con disattenzione e che ora sembrano muovere incontro a chi torna mostrando un volto festevole.

La stazione, anche “questa stazione”, è un luogo in cui s’incrociano destini, in cui storie dolorose o liete si appoggiano per un attimo come valige piene di doni inattesi o di misere cianfrusaglie. Non c’è bisogno di grande movimento per evocare tutto questo: basta oggi osservare gli scarsi viaggiatori in attesa che un lenta littorina scivoli in frenata sui binari o riprenda il suo calmo cammino attraverso irti blocchi di case o dolci tratti di campagne. Basta questo, però, a rievocare la “nostra” stazione com’era  – per esempio – alla metà degli anni Cinquanta, o poco più oltre?

La memoria talvolta arricchisce un’impressione… Di certo c’era il vocio allegro degli studenti, il professionale incedere del personale, il tentativo di recupero d’un po’ di sonno da parte dei passeggeri le cui facce s’intravedevano dietro i finestrini. In alcuni anni la stazione si è presentata un po’ troppo povera nell’aspetto, un po’ trascurata; in altri, lavori e risistemazioni le hanno conferito la fisionomia dignitosa, non senza un’ombra di civetteria, che oggi ha.

La riguardiamo, qualche volta, con un pizzico di nostalgia. I treni si fermano ancora: partono, arrivano… I viaggiatori sempre più radi. Non per questo la stazione perde di fascino. Rimane un luogo simbolico: un luogo dell’incontro o del distacco, ma pur sempre un luogo stampato nella nostra mente con il film di tante vicende, di tante storie personali.

L’emigrazione ne affollò il marciapiede, ora così agevole e allora un po’ sconnesso. Case crebbero sui due lati della ferrovia; la campagna cedette a qualche insediamento industriale. E in anni remoti una coppia di barbagianni costruì nella stazione il proprio nido famigliare. Ma il canto notturno di quei volatili spaventò creduli e superstiziosi. Per i due sposi alati la stazione divenne il luogo dal quale fuggire in cerca d’un nido più accogliente.

Non sempre le stazioni sono felici luoghi di sosta!

(pubblicato da Felice Campa su  www.tuglie.com)

  

Tuglie. Un paese, un racconto

di Luigi Scorrano

Ogni paese ha una storia. Ma questa storia è fatta non solo degli avvenimenti, grandi o piccoli, dei quali un paese è teatro; è fatta anche dalla fisionomia del paese, dai suoi luoghi, dalle generazioni che vi impressero un segno distintivo e lo passano ai posteri. Si può fare storia di un paese anche così, osservando quanto ci circonda nel luogo in cui viviamo, ripensando alla nostra collocazione nella piccola società che esso ospita… Il racconto ‘storico’ di un paese può attingere anche in un percorso inconsueto la sua visibilità, il suo carattere.

Il paese di cui qui parliamo è Tuglie. Per ‘cartoline’.

Ritrattino di Tuglie

Con le sue case, con la sua piazza al centro di un abitato più lungo che largo, con la sua collina di Montegrappa che fa da belvedere su un ampio tratto di territorio, Tuglie, nella sua raccolta fisionomia, non manca di attrattive. Sembra quasi d’obbligo, quando si vogliano vantare origini illustri, rifarsi ai Romani (in Italia, almeno!) o anche più lontano: anche Tuglie non sfugge a questa specie di regola. Qualche traccia, per quanto incerta, una parentela potrebbe stabilirla. Ma è dal Medioevo che abbiamo qualche notizia più

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