Storia e storie della Grande Guerra, dalla Nazione alla Terra d’Otranto

di Alfredi di Napoli

È stato pubblicato, nel 2020, per i tipi della Argomenti Edizioni di Novoli, Storia e storie della Grande Guerra Istituzioni, società, immaginario dalla Nazione alla Terra d’Otranto, a cura di Mario Spedicato e Paolo Vincenti.

Il volume raccoglie solo alcuni dei contributi delle numerose iniziative culturali organizzate dalla Società di Storia Patria di Lecce sulla Grande Guerra, a partire da quella celebrata ad Oria nel dicembre del 2014, con due appendici seminariali svolte nella primavera del 2016 e nell’inverno 2018, in collaborazione con l’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano di Brindisi. A questi, si sono aggiunti alcuni saggi scritti appositamente per il libro, il cui primitivo progetto si è dunque necessariamente ridimensionato a causa dei ritardi nella pubblicazione degli Atti dei vari Convegni.

Ciò non ha fatto venire meno la solidità dell’impianto metodologico e il rigore scientifico dei saggi pubblicati. Essi sono divisi in alcune aree tematiche, e precisamente: La crisi del liberalismo prima e dopo la Grande Guerra, con saggi di Flavio Silvestrini e Maria Sofia Corciulo, I dinamismi della società, con saggi di Luigi Montonato, Fiorenza Taricone e Paolo Vincenti, Gli specchi della memoria. Pubblico e privato nella narrazione della Grande Guerra, con saggi di Paolo Vincenti, Anna Maria Andriani, Pasquale Guaragnella, Francesco Carone, Paolo Vincenti, Maria Antonietta Bondanese, Federico Carlino.

Il volume, voluto dalla SSPP, Sezione di Lecce, e dall’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano di Brindisi, reca una bellissima copertina, con la realizzazione grafica di Argomenti Edizioni, ed è realizzato grazie al contributo di Uniformazione e Nova Liberars.

Un libro vario, per impostazione e metodo, ma vertente sugli avvenimenti diretti o indiretti della Prima Guerra Mondiale con un focus sul territorio salentino.

Come scrive nella Prefazione Mario Spedicato, Presidente della SSPP-Lecce: «l’impostazione rappresenta la principale novità metodologica proposta da questo volume. Sono ormai maturi i tempi perché la più attrezzata ricerca sul territorio ripercorra la Grande Guerra non solo scavando negli strati più profondi del tessuto sociale – come la ricorrenza del Centenario ha dimostrato – ma anche dilatandone i confini temporali. Il progressivo esautoramento del significato e dei poteri del Parlamento, la ristrutturazione dei rapporti centro-periferie, la partecipazione popolare ai grandi eventi (sia pure in forme grezze e poco consapevoli), il protagonismo femminile (tanto delle donne intellettuali quanto delle illetterate), l’incredibile produzione memorialistica e simbolica, popolare e non, sono processi che la storiografia ha da tempo collocato in un quadro di medio-lunga durata che gli anni ’15-18 rendono più visibile».

Il primo saggio è di Flavio Silvestrini, Parlamento di guerra e antiparlamentarismo: l’autunno del giolittismo tra crisi istituzionale e controversie ideologiche (1914-1919). Il periodo che va sotto il nome di Giolittismo comprende molti aspetti del primo Novecento politico italiano. Lo strappo determinato dall’intervento in guerra dell’Italia è la prima tangibile manifestazione di chiusura del sistema giolittiano. Attorno alla figura dello statista piemontese si era radunato in Parlamento un gruppo neutralista, ma incapace di essere punto di forza dell’orientamento politico. Nei convulsi giorni di maggio, in cui l’Italia entrò in guerra si ebbe l’opportunità di verificare lo scambio tra due tendenze politiche. Il più attivo agitatore degli interventisti fu Gabriele D’Annunzio. Il 13 maggio, dopo che dei dimostranti avevano cercato di irrompere a Villa Malta, residenza del tedesco Bulow, il Vate arringava contro Giolitti incitando alla violenza contro i traditori della Patria. Uno spettacolo teatrale si trasformò in comizio, dove il poeta usò parole di fuoco contro lo statista accusandolo di essere in combutta con lo straniero. Qualche giorno dopo che Giolitti aveva abbandonato Roma e Montecitorio, D’Annunzio arringava il popolo romano. Con la riapertura della tornata parlamentare, il Presidente Salandra introduceva nuove misure volte a tutelare la salute pubblica e la difesa dello Stato. Il parlamento divenne una tribuna propagandistica impedendo, di fatto, all’opposizione di svolgere il proprio ruolo. È emblematica la discussione che seguì Caporetto, innescata dopo la pubblicazione degli Atti della Commissione d’inchiesta che aveva fornito uno strumento ai seguaci di Giolitti per individuare i responsabili della crisi italiana e addebitare tutti gli errori al Generale Cadorna. Ciò serviva per isolare la destra liberale e ravvivare il fronte socialista. Il gruppo socialista, infatti, diversamente dagli esponenti giolittiani, non ebbe molti miglioramenti e il gruppo in Parlamento era formato da una minoranza riformista. La sintesi verso l’intervento in guerra fu fornita dal discorso di Turati. Giolitti torna sulla scena politica nell’ottobre del 1919, rompendo il silenzio pubblico e un esilio volontario. Occorreva però una seria rilettura degli ultimi anni. Il paese era vittorioso ma stremato, il disastro economico evidenziava come l’interventismo non fosse stato disinteressato, ma avesse avuto il sostegno di potentati economici. Quattro anni di poteri eccezionali nelle mani del governo avevano compromesso la libertà parlamentare, ma esautorare il Parlamento significava favorire l’avvento del proletariato. Salandra fu colpito dal cambio di registro dell’avversario politico; Giolitti tornava con la lettura dei fatti chiedendo al governo responsabile del conflitto di dare il giudizio agli elettori. Escludere il popolo che aveva patito così tanto in termini di vite umane da decisioni importanti non era più pensabile. La critica di Giolitti però era quella di un politico arroccato nelle sue certezze e la conseguenza fu l’impossibilità di dare seguito ad ambiziosi programmi; ciò aprì un dramma istituzionale che si concretizzò con l’avvento del fascismo.

Il secondo saggio è di Maria Sofia Corciulo, Il Comitato Segreto della Camera dei Deputati (13-18 dicembre 1917). Il saggio passa in rassegna l’ampia diminutio dei poteri parlamentari negli anni 1914-1918, esamina il lungo e sofferto dibattito che si tenne in Parlamento in occasione dell’entrata in guerra dell’Italia e si concentra sulla nascita, all’indomani della disfatta di Caporetto, di un Comitato segreto, costituito il 13 dicembre 1917, per accelerare i lavori della Camera. Infatti, al fine di evitare dibattiti inconcludenti e disordinati, si stabilì che essi vertessero sulle recenti, tragiche vicende militari, strettamente connesse alla politica estera, e le discussioni furono così più spedite ed efficaci, fino al 18 dicembre. Tuttavia, ancora una volta, si notò che la mancanza di norme regolamentari sui Comitati Segreti doveva essere al più presto sanata (una proposta in tal senso sarà presentata l’anno seguente, il 13 febbraio 1918). Il saggio riporta i passaggi più rilevanti e significativi del lavoro del Comitato segreto. Grazie anche ai dibattiti, iniziati in Comitato Segreto e proseguiti in Assemblea, dopo Caporetto, la tattica militare venne in parte mutata; il vitto dei soldati, spesso insufficiente, fu migliorato ed estremamente rare furono le decimazioni dei militi considerati indisciplinati. Certamente anche per questi “ripensamenti” l’esercito italiano si riprese e si batté con coraggio sulle sponde del Piave riscattando i fatali errori dell’Ottobre 1917.

Il terzo contributo del libro è quello di Luigi Montonato, Spagnuola, l’epidemia del 1918 uccise più della Grande Guerra. Ricerca sulla stampa dell’epoca, che si occupa della epidemia detta all’inizio febbre primaverile, poi estiva, influenza da soldato, febbre dei mitraglieri e poi spagnuola, che colpì l’Italia e tutto il mondo, fra il 1918 e il 1919 e che fece più morti della stessa guerra mondiale. Oltre a descrivere gli aspetti sanitari, il saggio offre una ricerca sulla stampa dell’epoca, rivelando come i mezzi di informazione si occuparono della terribile pandemia. Se ne ricava che il Paese fu praticamente abbandonato a se stesso. Lo si riscontra leggendo le cronache dei giornali dell’epoca, che, pur contenute e prudenti, a volte censurate, danno l’idea della situazione reale in cui versavano le popolazioni da Nord a Sud, nei centri urbani e nelle periferie. Il governo, che pur si sforzava di far fronte alla gravissima emergenza, era oggettivamente in difficoltà e insisteva nelle raccomandazioni sul rispetto delle misure di igiene e sulla fiducia che l’epidemia sarebbe passata come altre precedenti, sostanzialmente perché altro non si poteva fare.

Il contributo di Fiorenza Taricone tratta di Teresa Labriola e l’interventismo italiano. Unica figlia femmina del filosofo Antonio Labriola, intellettualmente molto dotata, Teresa Labriola è stata una delle teoriche del femminismo italiano. Prima donna laureata in giurisprudenza, non fu ammessa all’esercizio dell’avvocatura perché l’accesso a tale professione era vietato alle donne dal Codice Pisanelli. Fu necessaria una guerra mondiale perché le donne potessero accedere a tutte le professioni, ma con vistose eccezioni. La Labriola fu tra le pochissime intellettuali a tentare una sintesi del pensiero femminista, scomponendolo fino a individuare il nucleo teorico e la matrice ideologica delle varie correnti, iniziate nel XVIII secolo sulla scia della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Infatti, considerava il movimento femminista “l’ultima ed estrema punta del moto più generale dell’intera società dell’Occidente europeo”. Per il femminismo rivendicò la dignità del pensiero; inoltre fu favorevole all’interventismo femminile italiano. Saggista e pubblicista prolifica, la sua produzione corre su un doppio binario: uno di carattere teorico-filosofico e l’altro emancipazionista-femminista. Dopo la morte del padre, iniziò un percorso politico e intellettuale diverso, convertendosi al nazionalismo, che diventò per lei un credo politico, e all’interventismo, convinta che le donne costituissero una mobilitazione civile indispensabile per la guerra stessa. Il suo insistente rivolgersi alle donne era motivato dalla convinzione che la nazione fosse stata da sempre retta e governata dagli uomini e questo inveterato sistema di potere impedisse alle donne di sviluppare pienamente sé stesse e di avere un ruolo fattivo nella società che stava nascendo. La Labriola lottava affinché le donne acquisissero una maggiore coscienza di classe, prendessero contezza dell’importanza della partecipazione civile e tenessero il costante contatto con le classi direttrici della produzione. Nonostante la sua conversione al fascismo, non ebbe grandi onori in vita, anche perché continuamente oscurata dalla fama del padre, la cui eredità si dimostrò troppo pesante per lei che, sempre più fragile psicologicamente, morì, quasi settantenne, in ristrettezze economiche nel febbraio del 1941.

Si passa al saggio di Paolo Vincenti, Luci ed ombre nella partecipazione delle donne salentine alla Prima Guerra Mondiale. La partecipazione delle donne alla Guerra ha dimostrato come il loro impegno sia stato ampio e variegato, determinando un concreto passo verso l’emancipazione femminile. È emerso un universo femminile prismatico che, oltre ai settori più tradizionali, come quello dell’assistenza e del maternage, ha riversato il proprio impegno in molti altri campi che fino ad allora erano di esclusiva pertinenza maschile. Certamente, la presenza femminile era più numerosa nell’assistenzialismo sia cattolico che laico. Le donne appartenenti all’aristocrazia e all’alta borghesia fondarono e parteciparono a diverse associazioni di beneficenza nel Salento come in tutta Italia. Molte infermiere partirono per le zone di guerra, con l’autorizzazione del padre, mentre la figura delle “madrine di guerra” nasce con lo scopo di tenere alto il morale delle truppe e di far sentire meno soli i soldati al fronte; spesso le madrine di guerra adottavano questi soldati come figliocci per la durata del conflitto. Quelle più giovani intraprendevano una corrispondenza epistolare che non di rado portava all’innamoramento e quindi al fidanzamento o al matrimonio. Molte furono le crocerossine anche nel Salento, così come le “Dame di Carità”, promotrici di iniziative benefiche a favore dei soldati feriti o mutilati o degli orfani e delle vedove di guerra. Molte donne furono impegnate nel campo intellettuale come insegnanti, scrittrici, giornaliste. In assenza degli uomini, si sostituirono a loro nel lavoro nei campi; nelle città le donne entrarono nell’industria metallurgica, meccanica, costituendo un’alta percentuale di presenze alla fine della guerra. Molte si impegnarono direttamente al fronte, come le Portatrici Carniche, che operarono lungo il fronte della Carnia, si arrampicavano sulla montagna trasportando con le loro gerle rifornimenti e munizioni fino alle prime linee italiane ed esponendo a rischio la propria vita. Questa emancipazione si rivelò un’arma a doppio taglio; infatti, quasi sempre la partecipazione attiva delle donne al mondo del lavoro era sinonimo di sfruttamento, considerato che il salario si manteneva più basso rispetto alle ore lavorative. Al di là del grado sociale e culturale, le donne si trovarono coinvolte in un evento che ridisegnò ruoli e percorsi sia in campo politico, che sociale ed economico. Il conflitto fu molto lungo ed esse furono capaci di inscenare plateali manifestazioni di ribellione, a favore della pace, manifestando in tutto il Paese, violando atavici tabù. Ma queste agitazioni furono fortemente contrastate dal potere costituito e ci fu una ferma volontà, sia da parte della stampa che del governo, di farle passare sotto silenzio, pur di non dar voce alle protagoniste. Nonostante ciò, le donne riuscirono ad appropriarsi di un ruolo attivo che non avevano mai avuto.

È sempre a firma di Paolo Vincenti, il saggio Il soldato ruffanese Rocco Gnoni, vittima delle fucilazioni sommarie nella Prima Guerra Mondiale. Nella storia della Prima Guerra Mondiale è annotata una pagina tra le più inquietanti, quella delle fucilazioni sommarie, che vide molti soldati morti per repressione interna, uccisi dall’esercito italiano per insubordinazione, resistenza agli ordini, diserzione e altro. In guerra non si moriva solo di fame, freddo, stenti, ma anche in seguito a processi sommari nei quali i soldati venivano mandati alla sbarra per futili motivi e con estrema facilità condannati, assolvendo alla funzione di capro espiatorio. Quel che è peggio è che questi severi provvedimenti venivano lasciati al libero arbitrio degli ufficiali sul campo, costretti a decidere per non essere oggetto a loro volta di provvedimenti disciplinari. La dura repressione partì da una circolare del generale Cadorna che prevedeva per l’esercito una ferrea disciplina e una dura risposta agli atti di insubordinazione. Gli ufficiali erano costretti a essere inflessibili con i sottoposti, ma anche i giudici dei 117 tribunali militari erano spesso richiamati a una maggiore severità. Fra le tante vittime della giustizia sommaria, anche un soldato salentino: Rocco Gnoni. L’ordine di fucilazione fu impartito dal Comando della seconda armata il 3 novembre 1917, proprio quando i reparti si apprestavano ad abbandonare Pordenone. Sconosciuta la motivazione della sentenza, mentre l’Albo d’oro dei caduti della Grande Guerra dice di lui che fu disperso in battaglia il 30 ottobre, nel ripiegamento al Piave. Anche il foglio matricolare annota “disperso” e rilascia dichiarazione di irreperibilità. Ed è così che viene ricordato nella targa del monumento ai caduti del suo paese, Torrepaduli, frazione di Ruffano. L’autore ricostruisce minuziosamente la parabola del soldato Gnoni attraverso la compulsazione di fonti anche minime, per ristabilire la verità dei fatti. Nel 2016 è stato organizzato un incontro presso l’Istituto Comprensivo di Ruffano per ricordare tutti coloro che sono stati fucilati da mano amica e il relatore e i docenti hanno cercato di far luce sulla vicenda di Rocco Gnoni. La sua vedova raccontava ciò che un reduce le aveva riferito: mentre il marito era a rifocillarsi in una osteria dopo le dure battaglie, fu redarguito da un ufficiale a cui, forse, rispose in modo irrispettoso. Nel 2015, gli onorevoli Zanin e Scanu hanno proposto una legge sulla riabilitazione di questi caduti della Prima Guerra Mondiale, eroi minori di una beffarda tragicommedia.

Segue il contributo di Anna Maria Andriani, Li cunti te lu focaliri. Fra i percorsi della memoria collettiva. L’indagine storiografica contemporanea ha aperto un dibattito sulle nuove fonti relative ad aspetti inediti della Grande Guerra: ad esempio, quali strategie dovette adottare l’Italia, dapprima neutrale, per coagulare una coscienza patriottica e nazionale in grado di sostenere un conflitto dai costi umani e finanziari imprevedibili. Aspetti messi in luce grazie al ricorso a materiali e documenti non “canonici” o all’indagine sui “dimenticati” della storia, i dispersi, i prigionieri. Con specifico riferimento alla riflessione di Pierre Nora su “i luoghi della memoria”, alla Convenzione Unesco (2003) sulla tutela del patrimonio immateriale culturale, alle metodiche della Oral History, l’autrice ha impostato il proprio progetto di ricerca finalizzato alla raccolta di “storie di vita” vissuta. I racconti dei “ricordi” dei Reduci della Grande Guerra narrati dai figli o dai nipoti costituiscono la fonte orale utilizzata. Sono racconti di gente comune, illetterata per lo più, che colpiscono per la modestia dei mezzi espressivi e l’efficacia delle loro narrazioni. L’autrice apre pure una interessante digressione sui temi del racconto/ricordo/memoria/narrazione. Nella memoria collettiva, la Grande Guerra entra dunque in scena anche con i racconti dei ricordi dei reduci, ambientati in alcuni luoghi del conflitto. Tale tipologia testuale può arricchire la documentazione storica sulla Prima Guerra Mondiale e incentivare la ricerca di fonti, ora finalmente riconosciute dalla storiografia ufficiale. Si tratta dell’esperienza di uomini comuni ricostruita attraverso il racconto di chi ha raccolto i loro ricordi di guerra. Da qui l’indicazione di “racconti accanto al fuoco” (li cunti ti lu fucaliri), raccolti cioè dalla voce dei “vecchi”, che usavano narrare la vicenda bellica vissuta nelle sere d’inverno, quando la famiglia si stringeva accanto al caminetto. Per ragioni anagrafiche, i racconti proposti non sono riferiti dai protagonisti (nel testo chiamati “Attanti”), ma da coloro che li hanno ascoltati, indicati perciò come “Narratori”. Il ricordo appartiene a chi ha vissuto l’evento, la memoria è però anche di chi lo ha sentito raccontare. E la Storia è studio e interpretazione del passato, di cui fanno parte tanto la memoria quanto il ricordo legati in un rapporto a spirale. Il racconto del ricordo segna la rivincita della storia; nel tempo l’uomo segnato -protagonista-narratore – diventa “attante” e l’ascoltatore si fa, a sua volta, narratore. È significativo che tra le nuove fonti della storia, il racconto, in cui si intrecciano verità partecipata soggettiva e accadimento storico oggettivo, sia stato annoverato con tutti i crismi. Infine, l’autrice deplora l’assenza dei “racconti” e dell’affabulazione nella società odierna, in cui la famiglia è stata travolta dalla rivoluzione tecnologica e mediatica e anche le piazze e i centri storici sono stati svuotati delle funzioni aggregative loro proprie.

Il saggio di Pasquale Guaragnella, Paesaggi di guerra e visioni di sofferenza e di morte. Su alcune novelle dell’ultimo De Roberto, analizza l’opera Novelle dello scrittore siciliano Federico De Roberto. Pur non avendo partecipato alla Grande Guerra, De Roberto si dimostra un ottimo conoscitore di cose militari, per esempio nella novella Lo scrittore, in cui appare magistrale la descrizione del paesaggio invernale montano. Un paesaggio di incredibile suggestione, per chi era vissuto in collina o in pianura. Un incredibile contrasto era quello che si veniva a creare nella mente dei soldati fra il senso di orrore e la scoperta della frontiera e di quegli incantevoli paesaggi. I soldati si chiedevano come mai si poteva morire in luoghi simili, e nelle lettere che spedivano ai parenti si evidenziava una duplicità: essi cioè indossavano una doppia divisa per il freddo, ma anche una duplice personalità, quella del combattente e quella dello scalatore, quella del sottoposto e quella del superiore. La montagna stabiliva dei ruoli: l’esperienza del montanaro e il sapere delle gerarchie militari. Infatti basta leggere l’altra novella, Il Trofeo, in cui vi è un confronto tra due ordini di esperienze e di saperi, per cogliere la rappresentazione di un duplice paesaggio, quello del fronte di guerra e quello familiare di casa. Ne La posta, la novella più intensa di De Roberto, si incontra la partecipazione umana del soldato Valastro che nonostante l’imperversare delle granate si illude di essere al suo paese con i suoi cari, proprio nel momento in cui incombe su di lui la mala sorte. Una granata lo uccide e la scena che descrive il corpo del soldato senza vita ha un non so che di religioso, ed è qui che si riconosce la duplicità dell’arte narrativa di De Roberto; la rappresentazione della morte del soldato, a guerra ormai conclusa, risente della rielaborazione del lutto e della memoria. Il recupero del corpo del giovane fante offre a De Roberto l’occasione per mettere in scena ciò che potrebbe essere una deposizione. Il corpo del soldato è ridotto in brandelli; è la violenza della guerra tecnologica che rende irriconoscibili i corpi, creando una specie di separazione corpo-nome, che poi nel primo dopoguerra dà l’avvio alla monumentalizzazione del “milite ignoto”. Non sarà ignoto il protagonista della novella di guerra più nota dello scrittore siciliano: La paura, racconto che costituisce una notevole eccezione rispetto allo spirito bellicistico così dominante in quegli anni nella nostra cultura, per la sua dura denuncia degli orrori della guerra. Anche questa novella non è molto diversa dalle altre. Si apre con una interessante descrizione del paesaggio a cui seguirà quella dei soldati che carponi devono raggiungere la postazione di vedetta e che vengono colpiti da un invisibile cecchino nemico. Il soldato Morana, famoso per i suoi atti di coraggio, è colto dalla paura e rifiuta di ubbidire al tenente Alfani, dopo che ha visto morire cinque suoi compagni. Nonostante questo rifiuto comporti di morire di fronte a un plotone di esecuzione, egli sceglie una terza via: quella del suicidio. L’uomo è solo e abbandonato, senza patria, senza familiari, senza regole. Questa novella, che De Roberto invia alla redazione de “La Lettura”, viene rispedita al mittente con molto dispiacere dal direttore Renato Simoni perché avrebbe certamente, una volta pubblicata, trovato nei lettori molte opposizioni per un argomento così scabroso. Ma non c’è dubbio che La paura sia una perfetta opera d’arte.

La Grande Guerra fu tale anche per il coinvolgimento delle comunità civili, comprese quelle più distanti dal fronte. Grandi e piccoli dovevano sentirsi partecipi della difesa della Patria, attraverso i mezzi di persuasione propri della propaganda dell’epoca, tra i quali, per i ragazzi, le copertine dei quaderni di scuola. La grafica aveva una straordinaria carica comunicativa. Su questo argomento verte il contributo di Francesco Carone, La Grande Guerra raccontata da quaderni scolastici e dalla stampa popolare. Attraverso la scuola erano veicolati i modelli educativi funzionali al potere politico: particolare attenzione era data alle letture al fine di suscitare emulazione e ammirazione per i soldati al fronte. Le immagini di Achille Beltrame per la «Domenica del Corriere» venivano utilizzate per illustrare il conflitto sui quaderni scolastici, quaderni che oggi possiamo considerare “luoghi della memoria”. Ovvio che la realtà della guerra era ben diversa da quella “eroica” raffigurata sulle loro copertine. L’autore offre quindi una disamina di alcune fra le immagini (desunte dall’archivio privato Monaco-Filotico di Oria) più ricorrenti sui quaderni di scuola, per instillare nei discenti spirito patriottico, ardimento militare, devozione alla Casa Savoia, circonfusa di un’aura sacrale in quanto artefice dell’unità d’Italia. È riportata una immagine di copertina con Vittorio Emanuele III, il “re soldato”, che consuma una colazione con semplici militari: atteggiamenti che lo resero molto popolare tra i fanti contadini, oppressi dalla vita di trincea e dagli attacchi suicidi contro il fronte nemico. Le figure del re o della regina madre, Margherita, contribuivano a coagulare il consenso alla guerra e a rafforzare quella identità nazionale che si veniva costruendo sui campi di battaglia, dove milioni di uomini, di ogni parte d’Italia, si sentivano uniti nel medesimo compito per la difesa della Patria. «La patria diventa la realtà delle masse in combattimento e la Grande Guerra trasforma un esercito di contadini in un esercito di italiani che, attraverso i quaderni scolastici, consente alla scuola di sviluppare un nuovo senso di appartenenza, educando i giovani ad una nuova cittadinanza attiva e responsabile». Oltre che esaltare le azioni belliche di alpini e bersaglieri, le illustrazioni educavano gli alunni anche al senso del sacrificio e del risparmio, finalizzati al prestito nazionale. I piccoli potevano concorrere offrendo i propri salvadanai, come mostravano le vignette di giornali e quaderni. «Anche le materie scientifiche come la matematica vedevano la guerra come assoluta protagonista: i bambini facevano i conti sugli effettivi dell’esercito italiano in rapporto a quelli dei nemici oppure sul costo quotidiano di un soldato; l’insegnamento delle scienze, poi, si fondava sullo studio delle armi da guerra e, in particolare, del carro armato e dei gas chimici». Caratteristica delle illustrazioni per i ragazzi era, per così dire, l’anonimato e la stereotipia dei luoghi riprodotti, senza riferimento a località familiari, in quanto le immagini dei quaderni dovevano rispondere unicamente all’esigenza promozionale di una guerra necessaria per il bene della Patria e per infondere i valori dell’eroismo e del dovere alle giovani generazioni.

Il filone della monumentalistica bellica nasce all’indomani della Prima Guerra Mondiale, per l’esigenza di elaborare il lutto e commemorare i tanti eroi caduti per la Patria. Di questo si occupa Paolo Vincenti nel suo “L’ombra sua torna ch’era dipartita”. Il culto dei caduti in Terra d’Otranto nelle opere di Antonio Bortone. Nell’Italia del Nord, oltre ai monumenti, sorsero Ossari e Sacrari, dato l’altissimo numero di vittime non identificate. A tutte queste vittime senza nome venne dedicato il grande monumento del Milite Ignoto a Roma, presso l’Altare della Patria. Nel resto d’Italia, sorsero viali e Parchi della Rimembranza e moltissimi monumenti dedicati ai caduti. Con il monumento, si creava una unione di intenti fra Stato e cittadini. Oggi sono più di 12.000 i monumenti, commissionati dalle amministrazioni locali e collocati nelle piazze dei vari paesi d’Italia; dal monumento equestre, tipico prodotto dell’arte risorgimentale, si passò alla stele o Vittoria Alata. Ma furono svariate le tipologie di soggetti scelti per i monumenti: cippi, lapidi, obelischi, aquile, soldati, non sulla base di una lettura stilistica, ma la scelta fu operata dai comuni in base alla disponibilità economica. Il culto di onorare i caduti nacque con l’avvento del Fascismo che con una mirata ed efficace polarizzazione del consenso, indirizzò la propria propaganda all’istituzione del ricordo. Nel 2017 l’ICCD ha terminato la catalogazione dei monumenti, definendo attribuzioni, datazioni e tipologie. Anche la Terra d’Otranto diede un notevole contributo alla causa. Fra i vari artisti, alcuni persino sconosciuti, lo scultore ruffanese, ma fiorentino d’adozione, Antonio Bortone fu tra coloro che realizzarono il maggior numero di opere sul tema, fra Parabita, Ruffano, Tuglie, Calimera, oltre a busti e targhe sparsi in tutta la provincia di Lecce. L’autore passa in rassegna le opere bortoniane soffermandosi sul particolare valore simbolico delle loro iconografie. All’indomani della caduta del Fascismo, poi, un moto generale di riprovazione coinvolse anche i monumenti ai caduti, che furono identificati con la propaganda del regime e per questo coinvolti nel totale rigetto di simboli, immagini, rituali e di tutto ciò che si identificava col fascismo.

Maria Antonietta Bondanese offre il saggio Religiosità e devozione di militi supersanesi nella Grande Guerra. Nel contesto della sconvolgente esperienza collettiva del Primo conflitto mondiale, è ricordato il toccante gesto di undici soldati di Supersano: la raccolta di una somma di denaro inviata al Parroco del paese per “funzioni sacre” in onore di San Michele Arcangelo, patrono del piccolo centro salentino. La lettera dei militi, recante sul retro, in minuta, la risposta del sacerdote, rimase per anni custodita nel cuore d’argento pendente dall’impugnatura della spada dell’arcangelo. Attestazione dell’umile religiosità di uomini che, travolti dalla bufera della storia, cercarono scampo nella fede.

L’ultimo intervento del libro è quello di Federico Carlino, Un eroe leccese della Grande Guerra, in cui si ripercorre la storia di Umberto Colamussi, eroe nella Prima Guerra Mondiale, che l’autore definisce “uno di questi tanti, innumerevoli Eroi, che hanno sacrificato la loro giovane vita per la Patria”. Si ricostruisce la biografia di Colamussi e le sue gesta, utilizzando come fonte principale il volume Fabrizio Colamussi intellettuale europeo, a cura di Lorenzo Carlino e Alessandro Laporta, edito nel 2009 dalla SSPP, Sezione di Lecce. Colamussi è stato inserito nella lista dei militari salentini riportata sul Monumento ai Caduti del Maccagnani in Piazza d’Italia, a Lecce, inaugurato il 28 ottobre 1928. Un’altra lapide dove Umberto Colamussi è ricordato si trova sotto il porticato del Liceo Palmieri in Piazzetta Carducci.

 

STORIA E STORIE DELLA GRANDE GUERRA ISTITUZIONI, SOCIETÀ, IMMAGINARIO DALLA NAZIONE ALLA TERRA D’OTRANTO

A CURA DI MARIO SPEDICATO E PAOLO VINCENTI

SOCIETÀ STORIA PATRIA PUGLIA SEZIONE DI LECCE, NOVOLI, ARGOMENTI EDIZIONI, 2020, PP. 240.

Rocco De Vitis a vent’anni dalla scomparsa

Rocco De Vitis a vent’anni dalla scomparsa

Il medico, l’uomo del popolo, l’umanista

SAMSUNG CSC

 

di Luigi Montonato

Ci sono date che restano memorabili nella memoria collettiva di un paese, sì da segnare nelle conversazioni future un riferimento comune, che fanno appartenenza e identità.

La sera di sabato, 21 ottobre 2017, a Supersano, è una di queste date. Il teatro dell’oratorio “Mons. Antonio De Vitis” era piccolo per contenere tanta gente. Persone di tutte le età. Si era lì convenuti per celebrare un uomo di cui ancora gran parte dei supersanesi ha memoria: il medico Rocco De Vitis, scomparso nel 1997, a 86 anni.

Era, questi, uno di quei personaggi come nei nostri paesi se ne vedevano in passato; un medico taumaturgico, un uomo autorevole e carismatico, in cui la gente riponeva fiducia in tutto e per tutto; benestante quanto bastava per non aver bisogno di nulla; generoso e altruista, tanto da poter dare del suo ai singoli e al paese. Il suo nome, don Rocco, non aveva bisogno d’altro per sapere chi fosse.

Chi lo conobbe, tutto questo lo sa. Per chi non lo conobbe, valgono le sue opere e i ricordi-testimonianza degli altri.

La sua figura di medico, di uomo e di letterato è stata rievocata quest’anno nella ricorrenza del ventennale della sua morte, con due volumi collettanei e due manifestazioni pubbliche; promosse dai famigliari sotto l’egida della Sezione leccese della Società di Storia Patria per la Puglia, di cui è presidente il prof. Mario Spedicato, curatore anche dei due volumi insieme coi professori Franco De Paola e Maria Antonietta Bondanese e conduttore delle due manifestazioni.

La serata di sabato, per presentare il secondo dei due volumi, Rocco De Vitis medico umanista di Supersano, a cura di Maria Antonietta Bondanese e Mario Spedicato (Giorgiani, 2017), non avrebbe potuto iniziare in modo migliore per far passare il messaggio immediatamente comprensivo della ragione celebrativa. I bambini della Classe IV B della Scuola Primaria, uno accanto all’altro sul palco, si passavano il microfono per declamare in maniera stentorea frasi semplici e significare lo scorrere del tempo, il rapporto fra generazioni, l’importanza della memoria: io i nonni ce l’ho…io non ce l’ho…io ho perfino i bisnonni. I nonni, dunque, come veicoli di memoria collettiva. I nipoti come loro continuatori. La manifestazione come tappa memoriale, a segnare un approdo e, augurabilmente, una ripartenza.

Due volumi, due cerimonie; due, perché Rocco De Vitis non è stato solo un medico rispettato e amato dalla sua gente, ma anche un letterato, un uomo di cultura, forse non sufficientemente considerato in vita per i suoi meriti, che furono notevoli, a detta degli studiosi che della sua opera si sono occupati per la circostanza e non solo.

Fra le altre opere ha lasciato un diario di guerra, testimonianza della sua esperienza bellica come ufficiale medico sul fronte albanese nel corso della seconda guerra mondiale, di cui ha parlato sia nel primo che nel secondo volume Remigio Morelli, professore di Storia e Filosofia. Ma il suo impegno letterario maggiore, che ne fa un personaggio di ampiezza assai più grande di quanto non si possa scorgere da un campanile, è la traduzione delle opere di Virgilio: l’Eneide, le Bucoliche e le Georgiche, di cui hanno parlato autorevoli latinisti, fra cui la prof.ssa Maria Elvira Consoli di Unisalento. Un autentico monumento salentino al grande poeta mantovano. Un’opera imponente che sancisce la sua vocazione poetica, il suo grande amore per la classicità, la solida tenuta linguistica e letteraria.

Già prima dell’estate, all’Università, c’era stata la presentazione del primo dei due volumi, Quando Ippocrate corteggia la Musa. A Rocco De Vitis medico e umanista, a cura di Francesco De Paola e Maria Antonietta Bondanese (Grifo, 2017).

I due volumi non si sovrappongono, uno è complemento dell’altro; ma variamente destinati e perciò anche variamente impostati; fanno parte di un unico progetto. Più orientato sui contenuti letterari, pur nel contesto biografico e ambientale, il primo volume raccoglie interventi sull’opera letteraria di De Vitis, scritti da uomini di scuola e di studio, per proporre il personaggio al mondo della scuola e delle lettere, secondo la regola aurea della comunicazione di adeguare temi e linguaggio al destinatario, in questo caso di settore.

Così il secondo volume, Rocco De Vitis medico umanista di Supersano, raccoglie altri contributi, che insistono sulle stesse tematiche ma più brevi e occasionali rispetto a quelli del precedente, e comprendono anche testimonianze famigliari e paesane, dei nipoti e degli alunni della scuola locale, che conferiscono carattere più massmediale. Il volume si salda tematicamente al primo anche perché riprende i testi dei relatori della sua presentazione, come spiegato in apertura da Mario Spedicato.

Più decisamente popolare è stata la manifestazione supersanese perché, rispetto a quella leccese, rivolta ad un pubblico per certi aspetti più virtuale e lontano, ha coinvolto tutto l’universo del De Vitis, usando temi appropriati e toccando corde sentimentali per raggiungere il pubblico reale, vivo e partecipe. Non solo la drammatizzazione iniziale dei ragazzini della scuola elementare, ma anche la testimonianza del Sen. Luigi Pepe, presidente dell’Ordine dei Medici di Lecce; l’intervento del Sindaco di Supersano, dr. Bruno Corrado, medico anche lui; della rappresentante del Comitato salentino della Dante prof.ssa Francesca Giordano e soprattutto di Maria Rosaria De Vitis, figlia del Nostro, che con piglio accattivante ha ricreato atmosfere paesane e famigliari in gustosa affabulazione. Il mondo di Rocco De Vitis era tutto lì, riproposto nel video “Rocco De Vitis medico e umanista di Supersano”, proiettato nella circostanza. C’erano don Oronzo Cosi e Gino De Vitis, il direttore de “Il nostro Giornale”; i ragazzi del laboratorio teatrale “Colpo di scena” di Supersano, diretto da Giuliana De Iaco, e gli alunni dell’Istituto Comprensivo.

Libro e serata leccesi avevano aperto un percorso celebrativo, completato a Supersano, con due formidabili guide: il prof. Mario Spedicato e la prof.ssa Maria Antonietta Bondanese, col concorso della Banca Popolare Pugliese, della federazione leccese dell’Ordine dei Medici, del Dipartimento dei Beni Culturali di Unisalento, della Società di Storia Patria di Lecce, dell’Associazione “Salute Donna” e del Comitato salentino della “Dante Alighieri”.

 

manifesto libri M
manifesto libri M

 

Giulio Cesare Vanini e Francesco Paolo Raimondi, filosofi taurisanesi (seconda parte)

oma, Ettore Ferrari, Giulio Cesare Vanini (1889), Foto Giovanni Dall’Orto

di Maurizio Nocera

… Ma lasciatemi prendere qui un po’ di spazio per riportare le parole con le quali Francesco Paolo Raimondi descrive, nella sua “Cronologia della vita e delle opere” (pp. 295-313), i tragici ultimi momenti di vita dell’Ateo Salentino: «1619 […] Sabato 9 febbraio: il procuratore generale [di Tolosa], François Saint-Félix d’Aussargues, convoca di primo mattino in seduta plenaria la “Grand’ Chambre” e la “Tournelle”, sotto la presidenza di Gilles Le Masuyer. Il processo è ormai giunto allo snodo finale. Guillaume de Catel, avvocato e noto storico tolosano, pronuncia l’arringa contro Vanini. Se è, in qualche misura, credibile la versione consegnataci da Gramond, la sua linea accusatoria sembrerebbe tradire la conoscenza del “De admirandis”. […] Votata a maggioranza, nel suo scarno dispositivo, essa stabilisce il taglio della lingua dell’imputato, il suo strangolamento, il successivo rogo e lo spargimento delle ceneri al vento./ Pronunciato l’ “Arrest de mort”, per la sua esecuzione i poteri ritornano nelle mani del “Capitole” che, prima del crepuscolo della sera, fece innalzare in tutta fretta il patibolo. […] Prelevato dalla “conciergerie” [portineria], Vanini è condotto davanti alla “Grande Port” della basilica di Saint-Etienne. Egli è fiero e nello stesso tempo ribelle, votato come in altre circostanze al martirio, consapevole che l’iniqua sentenza lo aveva d’un tratto elevato alla dignità del filosofo. Forse per un istante passò per la sua mente il ricordo delle altre vittime della filosofia, scrupolosamente citate nei suoi scritti e, al commissario, che lo prelevò dalla prigione, rispose con fermezza in lingua italiana: “Andiamo, andiamo allegramente a morire da filosofo”. La scena si svolse come da copione. Egli fu tradotto in camicia su un carro su cui era sintetizzata la sentenza: “Atheiste et blasphemateur du nom de Dieu” [Ateo e bestemmiatore del nome di Dio]. […] Imponendogli di stare in ginocchio e di tenere in mano una torcia accesa, il commissario del Parlamento gli ingiunse di fare “amente honorable” [onorabile ammenda] a Dio, alla giustizia e al Re. Ma Vanini gli oppose un orgoglioso rifiuto. L’ufficiale gli rinnovò l’invito e […] il Salentino, dichiarando scopertamente il suo ateismo, gridò: “Non esiste né Dio né il diavolo, perché se ci fosse un Dio gli chiederei di lanciare un fulmine sull’ingiusto ed iniquo Parlamento; se ci fosse un diavolo gli chiederei di inghiottirlo sotto terra; ma, poiché non esiste né l’uno né l’altro non ne farò nulla”. Il macabro rito riprese secondo una prassi consolidata: il corteo percorse le vie Saint-Etienne, Croix-Baragnon, Place Roueaix, rue de la Trinité e giunse, attraverso la Grand’rue, alla Place du Salin./ La fermezza e la fierezza del Vanini sorpresero e sconvolsero i testimoni. Giunto sul patibolo, gli fu fissata la testa al palo. Per una sorta di istinto naturale si rifiutò di porgere spontaneamente la lingua al boia, che si vide costretto a strappargliela con la forza delle tenaglie. Ancora grondante sangue, il corpo fu appeso alla forca e poi gettato sul rogo. Quando le sue spoglie mortali furono consumate dalle fiamme, le ceneri furono sparse al vento, affinché non restasse di lui alcuna traccia.

Tutte le fonti, anche quelle più invelenite contro l’ateo pertinace, non poterono fare a meno di rilevare la grandezza del suo carattere e la sua incrollabile tenacia. Agli spettatori sbigottiti egli offrì un mirabile esempio di quella risoluta fermezza che si credeva poter essere dettata solo dalla fede profonda dei martiri cristiani» (v. pp. 310-312)

Ho riportato questa lunga citazione della ricostruzione storica della crudele fine di Vanini, scritta dal curatore del libro, perché in essa è vivamente percepibile l’intimo pathos dello scrivente. Sorprendentemente, mi sembra di trovarmi davanti ad una sorta di nemesi storica: qui, in questa stessa città nella quale, tra la notte del sabato 19 e la domenica 20 gennaio 1585, nacque il grande Taurisanese, ritroviamo oggi un altro filosofo (Francesco Paolo Raimondi) che, dedicando l’intera vita agli studi, ha saputo ridare onore e

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