Lucugnano. Visita a Palazzo Comi

di Marco Cavalera

 

Palazzo Comi
Palazzo Comi

Rina Durante, in occasione della sua prima visita a Casa Comi, rimase incantata dall’atmosfera che si respirava a Lucugnano nella prima metà del Novecento: Tra le pagghiare e le pietraie, si sentiva solo il frinire delle cicale, poi neppure più questo, come se il mondo cominciasse da quel punto a finire. Si entrava in un altro paesaggio in cui i segni umani ed economici scomparivano del tutto e la natura era un vuoto minerale, aspro e desolato […]. Gli interni erano ancora più rispondenti al paesaggio, di una semplicità disadorna: mobili di legno nudo, di stile francescano, cui la diuturna cura di generazioni di servi aveva conferito un’opaca lucentezza; volte a stella, grandi arazzi di fiocco leccese alle pareti e quadri rinascimentali, còtime di terracotta ovunque con la raffigurazione dell’ulivo, simbolo della casa editrice; pavimenti in mosaico che richiamavano quello di Otranto. Ogni cosa concorreva a un effetto di rustica raffinatezza e andava a sigillare per incanto il paesaggio che avevamo attraversato[1].

una delle sale di palazzo Comi
una delle sale di palazzo Comi

 

Palazzo Comi si affaccia sulla piazza principale del paese, oggi intitolata allo stesso poeta, che pare immortalata in una fotografia di inizio secolo scorso, se non ci fossero le automobili al posto delle carrozze e dei traini.

La casa del barone Girolamo Comi non è una semplice residenza nobiliare della metà dell’Ottocento: la sua facciata, dallo stile armonioso e lineare, cela un luogo ricco di storia, cultura e letteratura.

Un giardinetto con siepi, alberelli e un busto di Comi adorna l’entrata dellu Palazzu, nome con cui era chiamato l’edificio dagli abitanti del luogo. Varcato il portone, l’antico e verdeggiante cortile porta ad un’ampia scalinata, segnata dal trascorrere del tempo, che conduce al piano superiore.

Intorno all’atrio si aprono i locali di servizio, stalle, magazzini, un palmento e la casa del fattore che, restaurati, sono stati adibiti a sala conferenze, sala mostre e biblioteca dalla Provincia di Lecce, attuale proprietaria dell’immobile. Circondano la casa un agrumeto, un giardino con piante ornamentali e una terrazza panoramica.

la cappella privata all'interno del palazzo
la cappella privata all’interno del palazzo

L’appartamento al piano superiore rievoca ancora le stesse sensazioni di semplicità, eleganza e raffinatezza espresse da  Rina Durante. Nella stanza d’ingresso i busti severi di Comi,  Bodini e Pagano accolgono i visitatori, a memoria degli antichi fasti letterari della casa.

Le stanze si mostrano, ad un primo impatto, sobrie ed austere ma gli ambienti ampi, i grandi arazzi alle pareti, i tappeti, i salottini, i camini e le antiche librerie rendono l’atmosfera suggestiva ed accogliente, custodendo eternamente la figura  e  la  personalità del poeta.

Suscita emozione lo studio di Comi, con i suoi oggetti personali, la scrivania, la poltrona e la biblioteca, ricca di volumi preziosi e rari, a carattere essenzialmente umanistico, databili principalmente tra l’inizio del Novecento e l’anno di morte del poeta, il 1968. Soffermandosi sui suoi libri, per metà in lingua originale francese, non si può non pensare alla parentesi parigina, in età giovanile, negli anni della sua prima formazione culturale e umana. A questa seguì il periodo romano, l’apertura ai diversi fermenti culturali, letterari ed artistici nella capitale e la conversione al cattolicesimo negli anni Trenta. Infine nel 1946, in età matura, Comi ritornò stabilmente e definitivamente a Lucugnano.

cucine di palazzo Comi
cucine di palazzo Comi

Da quel momento in poi si aprì una stagione molto intensa sia da un punto di vista culturale, con la fondazione dell’Accademia Salentina e della casa editrice L’Albero, che imprenditoriale, con la creazione di un’impresa industriale: gli Oleifici Salentini. Purtroppo questi ultimi si rivelarono un investimento sbagliato e segnarono l’inizio del tracollo economico per Comi.

Con la nascita dell’Accademia, Lucugnano diventò non solo un luogo capace di aggregare le personalità letterarie locali ma si concesse, come luogo d’incontro, anche a poeti, scrittori e artisti di respiro nazionale.

Le sale del palazzo vennero così animate da numerose figure come Macrì, Bodini, Pagano, Corti, Merini, Pierri, Ciardo, Ferrazzi, Anceschi e Gatto, che dedicò a Comi e alla sua casa dei versi: “Nel silenzio […]. In questa casa anche le ombre sono amiche”[2].

l'atrio del palazzo
l’atrio del palazzo

Nell’epistolario comiano, conservato in biblioteca, sono infatti numerose le espressioni di ringraziamento che testimoniano la grande gentilezza e generosità nella sua ospitalità.

Continuando nella visita della casa sorprende piacevolmente la spaziosa  cucina economica, il grande tavolo di marmo ed  i mobili di un inconsueto colore azzurro, regno di Tina Lambrini, la sua governante. Qui venivano preparate le numerose portate dei memorabili pranzi, serviti nell’elegante sala.

Tina si prendeva cura delle faccende di casa e del soggiorno degli ospiti. Amata e benvoluta da tutti, rimase accanto al poeta per decenni, anche nel periodo di maggiore difficoltà economica. Comi la sposò pochi anni prima di morire, in segno di gratitudine.

Sono diventato migliore attraverso e grazie all’assistenza costante, del tutto eccezionale e disinteressata di Tina, scrisse lui stesso nel diario di casa, custodito da Donato Valli.

Nel palazzo è presente anche una cappella privata, con l’altare racchiuso in un armadio, che invita alla riflessione e al raccoglimento.

 

L’autore ringrazia Gloria Fuortes, responsabile della Biblioteca Provinciale “G. Comi”, per la revisione del testo.

 

Bibliografia:

Cavalera M., Lucugnano e il suo territorio, Tricase 2014.

Durante R., Gli amorosi sensi, Lecce 1996, pp. 21-22.

 

[1] Durante 1996, pp. 21-22.

[2] Frase riportata nella targa al lato della scala d’ingresso.

 

 

Il giardino del poeta. Ancora un piccolo omaggio a Girolamo Comi

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Il giardino di Palazzo Comi, ph Gloria Fuortes Biblioteca G. Comi Lucugnano Lecce

 

di Maria Grazia Presicce

C’era una volta… ma,  c’è ancora  c’è ancora! un giardino in cui sorge  un palazzo…un magnifico palazzo abitato tanto tempo fa da un poeta.  Palme, melagrani, oleandri, cipressi  proteggevano allora come guerrieri  i cespugli di rose che ne inghirlandavano  muri e   vialetti.

Tralci di rose s’ inerpicavano sulle facciate e parevano voler raggiungere la camera di chi tanto le amava per  fargli godere   dei  loro effluvi anche di notte quando percepivano il bagliore filtrare dai vetri delle imposte socchiuse  e incuriosite si spingevano su, sempre più su per spiare il suo tacito fare.

Si chiamava Girolamo il proprietario di questo giardino e lui riusciva   davvero  a captare nel silenzio notturno i fruscii di quei  boccioli se, spesso inatteso, scendeva tra loro e con loro si confondeva nella quiete e nell’oscurità ovattata e s’ inebriava  delle loro fragranze aggirandosi lento tra i vialetti scolorati dal tenue chiarore della luna che, smaltato, colava tra i rami degli alberi e lo avvolgeva. Lo stupore di tanta armonia penetrava  il poeta  nell’intimo e tacita dava  poi parole e senso ai suoi versi.

Girolamo adorava quel mondo balsamico e armonico pregno di assoluta purezza. Qui trovava ristoro e confidava alle piante  alla luna e alle stelle i suoi più cupi pensieri, le sue angosce e da loro sollecitava preghiera e consiglio sfiorandone gli umidi petali, roridi, colorati di luna la notte e dai bagliori di sole al mattino. Non avvertiva la solitudine  tra quei boccioli che s’inchinavano placidi al suo passo e lo invitavano a   sostare e ritemprarsi tra loro e con loro.

– Ti racconto una storia  se resti – sussurrò una sera una rosa rossa impigliandosi  con una spina alla sua giacca.

–  Fermati, non andare ! –  bisbigliò ancora – non vuole graffiarti la  spina! –

Girolamo si bloccò.

rose-rosse,

” Una rosa che parla? Forse sogno” si disse, guardandosi intorno stranito.

– Son qui, son qui – sussurrò ancora la rosa, trattenendolo e quasi lacerandogli la maglia.

Si volse  Girolamo poi, lentamente, districò la maglia dalla spina. Dondolò la rosa e s’inchinò. Girolamo la sfiorò, si piegò  e ne  aspirò il  suo intenso profumo. S’intenerì   la rosa e continuò: “ Resta! Ti racconterò la storia del tuo giardino. Ti piacerebbe conoscerla vero?

S’arrestò il poeta, trattenne il fiato, continuò a sfiorare la rosa che dolcemente cominciò a narrare “ In questo luogo, che ora ti appartiene, tanti, ma tanti anni fa  c’era  un grande bosco incantato dove, rigogliose, crescevano piante spontanee di ogni genere:  alberi di carrube, cespugli  di mortelle, di lentisco, di corbezzoli, di timo, di cisti, di olivastri e roselline selvatiche.

– E… tu come lo sai? –   Intervenne incuriosito Girolamo.

“Non interrompermi per favore, altrimenti perdo il filo – riprese la rosa. – Ebbene, tra queste selvatiche e odorose piante, gironzolavano indisturbate bestiole di ogni genere e taglia: lupi, cinghiali, volpi, lepri, ricci di macchia, talpe, bisce e svolazzavano,  riempiendo l’aria di trilli, uccelli  di tutte le specie che in primavera, coi loro nidi, adornavano rami e cespugli.

– Meraviglia! Davvero qui c’era un bosco con tutte queste magnifiche creature? –   Girolamo  s’accomodò   al suo basamento per meglio ascoltare.

La rosa rossa proseguì – Già, è proprio così. A quel tempo, noi, aristocratiche piante di rose non facevamo parte di questo paradiso, non ne immaginavamo nemmeno l’esistenza, né saremmo potute  attecchire  su quell’arido suolo.

– Ecco che ho ragione. – intercalò attento il poeta – Se neppure esistevi, come puoi conoscere la storia di questo posto ? –

– Hai ragione, hai ragione. Devi sapere, però, che sono stata una rosa fortunata perché,  quando sono  giunta in questo giardino, ho conosciuto  un’antica pianta di mortella che aveva fatto parte di  quel bosco incantato e, per puro caso, si era salvata. Cresceva proprio lì, dove ora tu poggi i piedi. –

Girolamo si scostò repentino e  guardò  ai  suoi piedi senza nulla vedere se non  terra battuta – Che storia è questa? Non c’è traccia di piante sotto i miei piedi . Dove sarebbe andata a finire la tua amica mortella? –   Continuò a osservare,  scostandosi  per evitare, semmai, di calpestarla nel buio.

– Tranquillo, tranquillo! –  Tremò mesta la rosa – non puoi pestarla. Ormai non c’è più, manca da tanto: è stata divelta un mattino di tanti anni fa  e, purtroppo, la colpa fu  mia.-

– Tua? Come puoi dire che la colpa fu tua?-

– Fu mia davvero. Mi sento colpevole di quello che accadde quel giorno. –  Addolorato al ricordo, il bocciolo s’ inclinò e un  gocciolo di rugiada scivolò ai piedi di Girolamo.

Il poeta  dolcemente  rialzò  la rosa – non posso credere che, tu così soave e leggiadra sia stata  motivo di tanto dolore. Dai, non avvilirti così,  raccontami  dall’inizio la storia.-

La rosa rossa, sollevò il bocciolo e  – Ti ho appena detto che il bosco  si estendeva anche sul tuo giardino. Un bel giorno, anzi un brutto giorno, mi disse Calliope, si chiamava così la mia amica mortella, il bosco incantato fu divelto completamente per fare spazio alle case che ora vedi qui intorno ed anche al meraviglioso palazzo dove tu  vivi.

– Mi spiace. Ne sei proprio sicura?-

– Sì, è stato proprio così. Me lo ha  confermato la mia amica mortella. Di certo tu  non puoi ricordarlo, eri un bimbo innocente allora o forse non eri neppure nato a quei tempi. Ora però, che sei   grande,  intelligente e sapiente,  puoi scoprire  da te quando tutto questo che ti sto raccontando è avvenuto.

Non farmi tergiversare però, altrimenti giunge l’alba prima che finisca di raccontarti la mia storia e, con la luce, tu sai, la magia della notte svanisce e cominciano altre magie. Dunque:  quando la tua mamma, che tanto amava le rose, decise di interrare me qui dove sono, io ero un tralcio, un piccolo germoglio giunto da molto lontano. Arrivai in treno riposta in un pacco insieme ad altre sorelle. Alcune sono ancora sparse qua e là in questo giardino, altre, purtroppo, non esistono più.

Tra tutte mi ritenni la più felice poiché fui sistemata  proprio  vicino al cespuglio della mortella. Ero in buona compagnia, non sarei stata sola, ne gioì così tanto che già dopo poco avevo stretto amicizia con lei.  Mi sentivo protetta  dalla sua verde chioma e anche se ancora non capivo il suo modo di esprimersi,  parlava solo in dialetto Calliope, bastava che le sue foglioline mi sfiorassero per avvertire il suo affetto e non sentirmi mai triste ed esclusa. Ci siamo tenute compagnia per anni, lei mi aiutava ad affrontare serena le mutevoli stagioni  riparandomi anche dalle intemperie. Era forte, rigoglioso il suo aspetto, io invece crescevo a stento  più gracile e debole. Non me ne dolevo comunque, anche se  m’accorgevo che non ero florida e in fiore come le mie sorelle  che, ammiccanti e superbe,  sculettavano  poco più in là. A me, andava bene così, m’ appagava l’amicizia di Calliope e la sua vicinanza.

Tua mamma, che di tanto in tanto scendeva tra noi, ci curava con dedizione; ad  ogni pianta  aveva dato un nome speciale, io sono venere, c’era  poi diana, selene, aurora  e quel cespuglio di rose piccole e bianche che s’inerpica sul muro  laggiù, sono le ninfe. Ci chiamava per nome tua mamma ogni volta che s’avvicinava!

Un mattino umido e fresco  d’autunno, venne un  nuovo giardiniere  per organizzare i vialetti, potare gli alberi e sistemare i tralci di noi rose che confusamente si sporgevano qua e là. Alcuni  dei miei ramoscelli cingevano i verdi rametti di calliope imperlati di brune e lucenti mortelle e mentre le mie sorelle traboccavano  ancora di boccioli e di rosse bacche,  i miei lunghi tralci erano solo coperti di foglie e di qualche boccio che stentava a schiudersi all’ombra della mia amica.

Quando quell’ omaccione   mi si avvicinò, esaminò attentamente l’intero mio ceppo, scrutò in lungo e in largo lo spazio occupato da calliope e da me poi, senza nemmeno fiatare, si mise a zappare, zappare e tagliare estirpando in un fiat la mia cara amica.   Vedevo cadere sotto i suoi colpi malefici la dolce mortella con tutti i suoi rami e nulla potevamo contro di lui nemmeno le mie aguzze spine. Fitte tremende mi trapassavano, ogni colpo  percuoteva  il mio stelo  fin nelle radici e per quanto stendessi i miei tralci spinosi e provassi a bloccarlo, niente potetti contro quella furia impetuosa  che continuava a svellere svellere ed annientare fin nelle budella la mia  compagna che, inerme, giaceva infranta per terra. Desiderai tanto morire con lei invece  eccomi  ancora qua solitaria ed afflitta.

Son trascorsi degli anni da quel fatidico giorno,  son tanto cresciuta d’allora, son sfarzosi ora i miei tralci di rossi boccioli abbigliati che effondono al cielo e alla terra il loro profumo, ma soffre il mio cuore, mi sento rea,  monca  e rimpiango  Calliope e la sua amicizia. Troppo mi mancano le sue antiche storie, i suoi abbracci, il nostro dondolarci e sfiorarci nel vento. Ho nostalgia dei suoi candidi fiori, del suo intenso aroma e delle sue brune bacche che come gemme preziose, incastonate tra le foglioline, ciondolavano gioconde sui  molli  rametti.

Tremò e sospirò assolto il bocciolo di rosa, i suoi petali si dischiusero  in un abbraccio infinito “ Ti sono grata stasera per avermi dedicato un po’ del  tuo tempo prezioso. Era da tanto che volevo, a qualcuno, raccontare la storia della mia amica e liberare il mio cuore dal suo struggimento. Spero di non averti annoiato.  Ti prego dai voce e vita al mio sfogo, al mio ricordo, al dolore per la perdita della mia adorata  amica mortella che ha fatto parte del mio cuore e del tuo giardino. Tu solo puoi, con la tua sensibilità, continuare a narrare ai bimbi la storia dell’amicizia tra Venere, una pianta di rosa, e Calliope una pianta di mirto. E’ autentica la storia, te lo giuro. Autentica come un’amicizia   vera pura  sincera. L’amicizia vera  può nascere e crescere in qualunque luogo, tra le essenze più disparate, nelle situazioni più tragiche e inverosimili. Questo sentimento tenero e devoto non ha bisogno di tanto spazio, di molte parole, vive e si nutre anche di intimi silenzi, d’ intesa, solidarietà e tanto tanto affetto. Buona notte Girolamo e grazie ancora! “

Girolamo ormai non c’è più, son rimasti per noi  i suoi versi,  il suo palazzo e traccia ancora del suo giardino poetico.

Sta ancora lì un po’solitario, celato e lasciato all’incuria,  eppure il poeta ogni notte, zitto zitto, continua a tornare, ad affacciarsi al balcone e godere degli  effluvi scampati poi, scende, s’aggira silente e spande i suoi versi  su quell’oasi di pace ed insiste  esortando, bramando il risveglio del suo favoloso cantuccio e prega  Girolamo per una società più retta, trasparente, sommessa, per una natura difesa rispettata  amata che possa continuare a dare senso e fervore all’ esistenza,  in modo che ogni essere possa continuare a stupirsi del suo miracolo, dei suoi incommensurabili doni e riesca a percepirne il valore in ogni frammento  cogliendo e trasmettendo, ancora ed ancora, l’essenza della vita e le sue  fondamentali virtù.

 

Lucugnano e il suo Territorio, l’ultimo libro di Marco Cavalera

MANIFESTO LIBRO web

LUCUGNANO E IL SUO TERRITORIO

Lucugnano – Palazzo Comi, sabato 25 ottobre 2014, ore 18.30

 

di Melissa Calò

Sarà presentato sabato 25 ottobre, presso la sala conferenze di Palazzo Comi a Lucugnano, il libro di Marco Cavalera “Lucugnano e il suo Territorio. Storia, architetture, archeologia e paesaggio di un paese del Capo di Leuca”, pubblicato dal Centro Culturale Ricreativo Sportivo Lucugnanese, associazione da sempre impegnata in un lavoro di ricerca storica e antropologica su Lucugnano.

Nel corso della serata di presentazione sono previsti gli interventi di Antonio Coppola, Sindaco di Tricase, Luciano Schirinzi – presidente del C.C.R.S.L. – e una relazione dell’autore Marco Cavalera, che illustrerà monumenti e siti menzionati nel libro.

Coordina la giornalista Giuliana Coppola. A seguire un dibattito con il pubblico.

L’evento è organizzato in collaborazione con l’Associazione Culturale Archès, la Biblioteca Provinciale G. Comi e la Città di Tricase.

Inizio ore 18.30 – Info: 340 5897632

 

Lucugnano e il suo territorio. Storia, architetture, archeologia e paesaggio di un paese del Capo di Leuca” di Marco Cavalera, è una pubblicazione essenzialmente necessaria, di questi tempi.

All’indomani della bocciatura di Lecce a capitale europea della cultura nel 2019, ci si ritrova a dover ripensare ai modelli di sviluppo e al ruolo della cultura nel nostro territorio. Una riflessione necessaria, basata sull’analisi dei motivi per cui questo modello, così come pensato e proposto, sia stato scartato. Di fronte all’idea di rafforzamento di alcuni ideotipi mainstream, occorre rimodulare il rapporto tra il cittadino e il proprio territorio, verificare come esso viene visto e vissuto e quale posto occupi in un’ideale geografia interiore.

Di fronte al radicamento della crisi economica e valoriale, intesa proprio come scelta e adozione di  strategie economiche ed esistenziali per i tempi a venire, di fronte all’emorragia di posti di lavoro e alla piena di nuovi flussi emigratori sulla rotta di quelli vecchi tracciati nel secolo scorso, quest’opera si rivela uno strumento in grado di ripopolare di simboli, figure, personaggi e speranze un orizzonte che nell’immaginario collettivo appare deserto, dove sembra non esserci “niente”.

Attraverso la descrizione di quei punti di aggregazione della storia di una collettività che diventa  paese, come le chiese, le cappelle, i palazzi, il misterioso e austero Palazzo Baronale ma soprattutto di Palazzo Comi, punto di riferimento della cultura artistica e letteraria a livello nazionale del secondo novecento, “il presepe disabitato” di Lucugnano “dove sembra non esserci niente” inizia ad affollarsi di voci e volti di carta e di pietra in grado di contrastare una vera e propria fenomenologia della sparizione/rimozione.

Stilato con rigore scientifico ma con uno stile semplice e divulgativo, il lavoro proposto che è arricchito inoltre da un apprezzabile contributo fotografico e cartografico, prova a tracciare un ipotetico itinerario in grado non solo di rendere protagonista il tessuto urbano, ma di metterlo in connessione con lo spazio rurale, in uno scambio incessante: sarebbero – o più correttamente sarebbero potute – esistere le figure dei maestri vasai e delle botteghe artigiane senza le vicine  cave da cui estrarre la materia prima? Il racconto di alcune evidenze del tutto dimenticate o addirittura sconosciute ai più, come la Casa dei Pellegrini in località Matine, suggerisce lo scenario di una Lucugnano che un tempo non era solo un paese “alla fine delle terre”, ma una tappa in rete con altre lungo l’itinerario verso il santuario di Leuca, in una sorta di turismo religioso ante litteram che la rendeva una meta conosciuta dai pellegrini di tutta Europa.

 

 

Nardò. San Giuseppe e la fera ti li cumitati

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Sgombriamo il campo, senza perdere tempo, da ogni possibile equivoco; i cumitàti, cioè gli oggetti di creta (dai vasi ai fischietti alle statuine del presepe), protagonisti, insieme con il santo, di una fiera un tempo attesissima da ogni famiglia per rinnovare soprattutto il corredo di stoviglie, non hanno niente a che fare con  comitati, voce alla quale il pensiero subito vola in un paese (e ci riferiamo all’Italia) che prolifera di delegazioni, commissioni e chi più ne ha più ne metta, le quali, dopo aver proliferato, prolificano poco, anzi, il più delle volte abortiscono (e forse è un bene, visti, quando ci sono, i risultati…).

Cumitàti è una di quelle parole che nel corso del tempo hanno subito un vero e proprio terremoto; e questo fenomeno, si sa, colpisce più violentemente le zone vicine all’epicentro, nel nostro caso Nardò.

Se paragoniamo la nostra voce ad un edificio lo troveremo perciò meno malridotto man mano che ce ne allontaniamo. Fuor di metafora, lo studio

Nardò. San Giuseppe e la fera ti li cumitati

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Sgombriamo il campo, senza perdere tempo, da ogni possibile equivoco; i cumitàti, cioè gli oggetti di creta (dai vasi ai fischietti alle statuine del presepe), protagonisti, insieme con il santo, di una fiera un tempo attesissima da ogni famiglia per rinnovare soprattutto il corredo di stoviglie, non hanno niente a che fare con  comitati, voce alla quale il pensiero subito vola in un paese (e ci riferiamo all’Italia) che prolifera di delegazioni, commissioni e chi più ne ha più ne metta, le quali, dopo aver proliferato, prolificano poco, anzi, il più delle volte abortiscono (e forse è un bene, visti, quando ci sono, i risultati…).

Cumitàti è una di quelle parole che nel corso del tempo hanno subito un vero e proprio terremoto; e questo fenomeno, si sa, colpisce più violentemente le zone vicine all’epicentro, nel nostro caso Nardò.

Se paragoniamo la nostra voce ad un edificio lo troveremo perciò meno malridotto man mano che ce ne allontaniamo. Fuor di metafora, lo studio

Lucugnano, 4 – 7 settembre 2012. I giorni dell’armonia, all’insegna del profumo di una rosa

 

di Rocco Boccadamo

 

Io, c’ero.

Per la qual cosa, da subito, ho registrato, dentro, una sensazione d’inusitata e speciale contentezza e, tuttora, vado cullando il piacere della voluta, ma pur sempre fortunata, presenza.

Ai primi bagliori, vivi ma morbidi e soffusi, del crepuscolo di martedì 4 settembre, a Lucugnano, piccola frazione del Basso Salento, nella carinissima cornice dell’atrio di Palazzo Comi, si vive la serata d’apertura della quattro giorni recante il titolo “I giorni dell’armonia”.

Una lodevole iniziativa, pensata, curata e organizzata, con sapienza e classe, in omaggio alla figura di Girolamo Comi – salentino, nativo di un’altra non lontana minuscola frazione, Casamassella, vissuto a lungo, sino alla fine, giustappunto a Lucugnano – preclaro poeta e letterato del Novecento, viepiù esemplare e ammirevole per la semplicità, genuinità e linearità della propria esistenza, come a dire tanto poco barone blasonato, pur vantandone il titolo, quanto molto, anzi moltissimo, uomo alla pari di tutti, aperto e disponibile con chiunque.

Mi tocca rendere una preventiva confessione che, peraltro, sgorga lieve e liberatrice da un limite, una carenza: prima del 4 settembre 2012, a parte veloci transiti lungo la statale 275, non mi era mai capitato di fermarmi a Lucugnano; inoltre, pur non ignorando il lustro di Comi, prevaleva l’associazione di detta località alle vicende, di tutt’altro genere e spessore, ruotanti intorno a tale Papa Galeazzo (Caiazzu, in gergo dialettale) e alla presenza, almeno nel secolo e nei decenni passati, di un cospicuo numero di fabbriche artigianali di articoli in terracotta e, fra essi, le pignatte o pignate (i cotimari).

Al contrario, stavolta, si tratta di una visita chiaramente e precisamente finalizzata e, già nel parcheggiare l’auto, si fa avanti una sorta di benvenuto ideale, sottoforma o meglio nei panni di una ventina di giovanissimi d’entrambi i sessi, in divisa da bandisti, sparsamente assembrati nello slargo e in procinto di dirigersi verso una meta che è anche la mia: Palazzo Comi, affacciato nella sua composta magnificenza proprio lì davanti e raggiungibile dopo qualche passo, appena il tempo di sfilare a fianco del busto artistico del grande poeta e intellettuale.

Ad accogliere i convenuti in arrivo, il sobrio e insieme piacevole atrio, da cui si offre alla vista l’interno dello stabile, con spicco del primo piano della nobile dimora, adornato da pregevoli balconate e perimetrato da elevati infissi e ampie vetrate. Una chicca: l’intera apertura dell’interno verso l’alto è coperta da una rete a maglie strette, appena percettibile, d’indiscussa utilità pratica, sia di giorno, che di sera e di notte.

Pendente su un lato, un lenzuolo bianco a una piazza per larghezza e a due per lunghezza, con il testo di una poesia dialettale di Giuseppe Greco “ A lla ‘mpete”.

Appena raggiunta la meta, mi si offre la gradevole sorpresa della presenza e del benvenuto della collega e amica Giuliana Coppola, già conosciuta in altre occasioni, scrittrice che leggo sempre con particolare piacere, giacché, a parte le altre doti e qualità, lei è solita mettere l’anima nelle sue righe.

Scopro che, lucugnanese doc,  è la principale organizzatrice dell’iniziativa, con un lavoro e una dedizione che datano da più di un anno. Alla mia domanda sullo svolgimento della sua stagione estiva, m’informa, Giuliana, che, escludendo le doverose cure e attenzioni riservate ai sei nipotini, è sempre rimasta fissa a presidiare, unitamente ad altri volontari, Casa  Comi, al fine di cercare di scoraggiare, esorcizzare e dissolvere l’ombra dell’infausta destinazione di una parte del palazzo e del relativo giardino a esercizio di trattoria.

Indipendentemente dall’avvenuta chiusura dei manicomi, si vede proprio che, di pazzi (ma, qui, si tratta unicamente di pazzi?), ve ne sono tantissimi.

Amore di Giuliana, un’operazione senza  uguali; la speranza, ovviamente,  è che l’ombra del sacrilegio resti fugata e allontanata in via definitiva.

Subito dopo il piacevole impatto con Giuliana, mi viene dato di conoscere di persona lo scrittore, poeta e critico Vito Antonio Conte e il poeta Marcello Buttazzo, da tempo noti e stimati attraverso i loro frequenti interventi su “Il Paese Nuovo”.

Il primo, da par suo, ossia con incisiva padronanza e maestria, presenta la più recente raccolta poetica di Marcello, intitolata “E ancora vieni dal mare”; ho il privilegio di ricevere in dono, dall’autore, una copia del volumetto, oltre che di declamarne un brano.

Dice, Buttazzo, nella dedica riservatami: “La scrittura getta un ponte…”; a casa, mi sono letto d’un fiato tutte le sessantasette composizioni, che mi riprometto di passare ancora e più volte in rassegna. Sono di una bellezza e di un’arte fine davvero uniche.

Nella foga, credo di aver trascurato una doverosa precedenza, nel senso che, a introdurre e intervallare gli afflati dei versi, si sono esibiti i ragazzi in uniforme da bandisti incontrati all’arrivo a Lucugnano, i quali hanno dato vita, con l’aiuto delle scuole e delle amministrazioni locali, a una reale e autentica banda chiamata “Filarmonica del Capo di Leuca”.

Confidenza di Giuliana, l’idea è nata dalle ripetute insistenze di un’anziana del paese, invalida e relegata in casa, la quale, nell’offrire, ogni tanto, una tazzina di caffè, le andava da qualche tempo segnalando di avere un nipotino alle medie che studiava pure musica, sino a imparare a suonare uno strumento. “Mi piacerebbe tanto che il mio piccolo entrasse in una banda di giro” si augurava la donna e, adesso, il suo sogno si è avverato, anzi, con l’occasione, la “Filarmonica”, prima di esibirsi nell’atrio di Palazzo Comi, ha compiuto un giro per tutte le strade del paese, compresa la via della nonna del giovanissimo musicante.

Dopo i poeti, verso l’epilogo della serata, ho potuto gustare anche un’intensa sintesi dell’intellettuale Luigi Mangia, anche lui assiduo collaboratore de “Il Paese Nuovo”.

Sono volati via novanta minuti, lo stesso tempo di una partita di calcio, di coinvolgimento in una lodevole iniziativa di cultura vera, preziosa e senza fronzoli e, in particolare, stasera, di ascolto di versi vellutati.

Con il contorno, diffuso nell’atrio di Casa Comi, di profumi rari che non si dissolvono, come l’essenza della rosa del giardino del poeta, espressamente eternata sotto forma di un’artistica riproduzione in pietra locale.

 

Le immagini negli arazzi di Casa Comi

di Maria Grazia Presicce

L’arte è divenuta sin dall’antichità impegno primario nella creazione d’immagini-simbolo attraverso schemi differenti nel tempo e nello spazio e, le stesse, hanno una straordinaria capacità comunicativa, evocativa, persuasiva ed emozionale. Guardandole l’uomo ricorda, si riallaccia ad avvenimenti e si avvicina col cuore al pensiero che ha creato quell’immagine. In un’opera, in generale, arte e simbolo sono imprescindibili l’una dall’altro perché ogni autore, da sempre, nel realizzarla la pervade d’intimi effluvi, desiderando conferire un senso al suo manufatto, impregnandolo del suo mondo esteriore ma, ancor di più del suo mondo interiore, delle sue sensazioni più nascoste.

Il simbolo della spirale

 

Il simbolo, in fondo, è sempre parte basilare di un’opera d’arte, ne costituisce il fulcro interpretativo e spesso lo stesso manufatto artistico diventa vettore del simbolo in essa racchiuso. A ben pensarci, arte e simbolo sono coesi l’una all’altro nella storia dell’umanità sin dalle sue origini perché l’uomo, da sempre, ha avvertito la necessità di capire il mondo che lo circondava e, desiderando rendere visibile il sacro nella sua quotidianità, lo ha rappresentato nelle forme artistiche più varie ed anche su supporti più disparati caricando le immagini di una forte simbologia.

Considerando, poi, che l’arte, in genere, è l’illustre linguaggio in cui il segno e il simbolo vengono esplicitati per consegnarli alla società come valori di autenticità e sacralità, è quasi scontato per quel segno essere metafora di comunicazione per chi le sta di fronte.

L’arte, come la poesia, va “scritta” e interpretata secondo il proprio pensiero e per farlo si possono usare varie chiavi di lettura; non vi è dubbio, però, che proprio grazie a questa sua rappresentatività impregnata di simboli e metafore, l’opera d’arte, più della poesia, si presenta ai nostri occhi come fonte inesauribile di segni, di messaggi silenziosi e d’impercettibili vibrazioni che scuotono nel profondo e che, spesso, fanno parte del nostro modo di essere mondo nel mondo e della nostra coscienza solitaria e silente.

Girolamo Comi, forse, si era avvicinato all’arte grazie al suo amico Evola[2] ed era amante dell’arte in genere.

Forse anch’egli aveva provato a cimentarsi nel disegno; infatti nei suoi diari, conservati gelosamente nelle teche della biblioteca provinciale di Lucugnano, ritroviamo in alcune pagine schizzi e disegni o forse simboli.

 Brani del diario Comi[3]  

 

Nel momento in cui ho cominciato ad interessarmi agli arazzi presenti nel Palazzo del poeta Girolamo Comi ( oggi Biblioteca della provincia di Lecce) mi ha colpito l’interesse di questo poeta verso l’arte del tessere, sia perché arte

Palazzo Comi a Lucugnano di Tricase

PALAZZO COMI A LUCUGNANO DI TRICASE:

OGGI BATTE IL CUORE E HO PERSO LA PAZIENZA

 

di Giuliana Coppola

“Menomale, menomale che la stampa, quella che parla troppo, non ha parlato di noi, dice papà Tarlo a mamma Tarlo” nell’angolo loro d’un tavolino di legno d’olivo “menomale che possiamo stare ancora tranquilli almeno noi in questi tempi di magra”. Si riaddormentano i Tarli nobili di Casa Comi, mentre la campanella, a Lucugnano, alle sei suona prima tre tocchi e poi, in cadenza cinque e poi sette e attende che si svegli l’orologio e sono le sei e un quarto e anche l’orologio si sveglia; di notte, a Lucugnano, anche l’orologio dorme e si riposa.

Lo sveglia tocco di campana, canto di galline nei giardini, voci di contadini che già ritornano dai campi con la verdura fresca; così riprende un altro giorno e questa è un’altra storia di una notizia sfuggita dal segreto, di Tarli un po’ poeti, di un prato all’inglese e di un caffè.

E anche di quattro chiacchiere al bar Comi, naturalmente; ché esiste già un bar Comi accanto al palazzo suo; un caffè e la notizia della giornata; e il cielo benedica sempre la stampa, quella, oggi fa rimbalzare la notizia anche quella di un “fazzoletto, piccolissima porzione d’un giardino chiuso sino ad ora trascurato e dimenticato da tutti, logisticamente separato da palazzo Comi”. E come fai a dimenticarlo? Se lo chiedono i cittadini di Lucugnano intorno al caffè, è là, sotto gli occhi di tutti, ci passi decine di volte al giorno, che è quasi un obbligo se si vuole andare in chiesa, comprare sigarette e giornali, fare la spesa, sedersi in piazza, è lì e non può essere dimenticato; qualcuno, a turno, da volontario, l’ha sempre coccolato ed ora c’è Cesario, c’era prima Fernando. Già Fernando; “ora se ne è andato in pensione”, ti dicono. Era lui l’anima del giardino; quello che ne curava ferite, coccolava e carezzava piante e s’è disperato perché vedeva morire le palme e gli sembrava di tradire memoria del barone che scendeva dalle scale di casa sua e lo sentiva subito il primo sbocciare d’una rosa; questo tu pensi e intanto si legge insieme che quel “fazzoletto” si descrive lontano e diviso e invece è proprio legato, comunicante da tutti gli angoli e da tutte le porte alla Casa Comi, basta scendere scale per ritrovarsi giù, tra le piante.

“E mo pacenzia”… il giardino tanto quanto, dice la voce, é dentro che sta morendo “sta casa” e tanto quanto significa che proprio non è che stia tanto male il giardino e invece… ma il caffè è finito e il sole avanza e suda anche lui, il barone sul suo piedistallo e chissà che pensa, chissà se pensa. E la giornata

Lucugnano di Tricase, i giorni della vergogna

LUCUGNANO DI TRICASE,

I GIORNI DELLA VERGOGNA.

ACCORDO PER UNA TRATTORIA NEI GIARDINI DI PALAZZO COMI.

IL SIGILLO E’ DELLA PROVINCIA DI LECCE

 

di Giacomo Cazzato

La prima volta che entrai a casa Comi fu una frase di Alfonso Gatto ad accogliermi: “In questa casa, anche le ombre sono amiche”. Con queste parole di un poeta salernitano ha avuto inizio la mia storia d’amore con questo palazzo, il luogo in cui il barone-poeta Girolamo diede spazio al più grande esperimento di condivisione culturale che il Salento abbia mai potuto vivere, un luogo magico dove gli arredi e le librerie parlano ancora oggi, dove si respira ancora la poesia che trasuda da ogni dove, dagli arazzi, dalle camere da letto spartane e al tempo stesso gentili, adibite numerose, con l’unico scopo di ospitare qualche gigante della cultura italiana, che sarebbe passato in compagnia da Lucugnano. Lì puoi incontrare Alfonso Gatto, o Bodini, la Corti, o Vincenzo Ciardo, Pagano o il duo mistico Pierri-Merini. Solo lì.

Palazzo Comi, lo studio del poeta

Sono stati tanti gli incontri in questo ultimo anno, tanti gli universitari più brillanti che si sono avvicendati in quel nido fecondo che fu e che è, tanti i

L’antica viabilità nel territorio neretino

di Maria Vittoria Mastrangelo

L’antico Salento presentava un aspetto assai diverso da quello odierno. Sicuramente gli antichi centri abitati, e soprattutto quelli di epoca medioevale, erano collegati tra loro da carrarecce o mulattiere. In questa terra si viveva di commercio oltre che di agricoltura. E dobbiamo anche immaginare la maggior parte del territorio salentino coperta da querceti e macchia mediterranea: un territorio boscoso, molto diverso dall’aspetto ordinato dei moderni oliveti che si estendono oggi a perdita d’occhio tra un abitato e l’altro; le antiche strade dovevano di fatto attraversare zone ombrose, e talvolta malsane; ovvio quindi che si mantenessero distanti dagli acquitrini e dalle zone malariche immediatamente sulla costa.

Di certo, restano tracce ancora alquanto evidenti di una situazione oggi difficile anche da immaginare: pesanti carri che a difficoltà procedevano tra i boschi di lecci o in mezzo a paludi malariche; rischi di assalti dei predoni saraceni che, sbarcando improvvisamente lungo le coste, saccheggiavano, distruggevano e sparivano con la stessa velocità con cui erano comparsi all’orizzonte; eppure qualche traccia di quest’antico vissuto resiste tuttora, celata nei muretti a secco o nella toponomastica, pronta a raccontare una storia romanzesca a chi sappia leggere le testimonianze dei luoghi e le tracce lasciate dallo scorrere delle ruote dei carri nel tufo salentino.

Prima che i  commerci mondiali si estendessero al di là degli oceani con la scoperta dell’America e delle rotte per l’Africa e l’Estremo Oriente, il Salento, penisola che si immerge nel centro del Mediterraneo tra il mar Ionio ed il mar Adriatico, era una terra ambita, fulcro del commercio di epoca antica e medioevale: la sua posizione naturale ed il suo aspetto morfologico, sostanzialmente pianeggiante, ne facevano una delle principali porte d’Europa, luogo di partenza e di arrivo di merci pregiate; da qui partivano anche spedizioni militari o pellegrini verso la Terrasanta, e qui più volte sbarcarono i musulmani, nell’intento di insinuarsi in Europa.

Ed ancora una storia molto più recente, fatta di sbarchi clandestini, sottolinea la funzione di ponte che la penisola naturalmente presenta tra l’Europa occidentale, i Balcani e l’Africa.

Nei tempi antichi, quando il Mediterraneo era solcato dalle navi delle colonie greche e fenicie, la penisola salentina era abitata dai messapi, un popolo fiero che difendeva la propria indipendenza anche dagli assalti della ricca e potente Taras greca (l’odierna Taranto). Le città messapiche – Manduria a parte che si trova poco più all’interno – erano situate tutte a circa cinque chilometri dalla costa ionica, tra Taranto e l’attuale Santa Maria di Leuca: Nardò, Alezio, Ugento e Vereto. Tra l’una e l’altra una distanza media di 11 miglia.

Le città messapiche erano collegate tra loro da una strada che correva lungo la costa ionica mantenendosi a circa 5 chilometri di distanza dal mare; Ognuna di esse era poi collegata ad un proprio porto-emporio sulla costa. Questo sistema di viabilità, creato in epoca messapica e poi ricalcato ed ampliato dai romani, ci è stato in parte riportato dalla famosa tavola peutingeriana, redatta in epoca imperiale. Sicuramente è stato poi utilizzato in epoca medievale e nella prima età moderna, non essendosi di fatto la viabilità interna modificatasi fino a tutto il sec. XVIII.

Nel Salento, dell’antica viabilità terrestre ci resta oggi ben poca traccia: il territorio è solcato da strade moderne che hanno quasi ovunque cancellato le tracce di quelle arcaiche; le antiche mappe per lo più riportano con accuratezza la morfologia della costa coste, essendo all’epoca preponderante l’utilizzo delle rotte marine, sicuramente più veloci rispetto alla percorrenza di carrarecce e mulattiere per via di terra.

D’altra parte, l’analisi del territorio e la ricerca sia storica che archeologica hanno dato discreti risultati ed è in parte possibile ricostruire gli antiche tracciati viari. Esiste in merito una buona bibliografia tra cui emergono gli studi di Giovanni Uggeri che – sebbene datati, essendo stati redatti venticinque anni fa – restano ad oggi l’analisi più dettagliata, almeno per quanto concerne l’area ionica a sud di Taranto.

La via Sallentina, riportata anche dalla tavola peutingeriana, era la strada che, correndo parallelamente alla costa ionica, collegava il porto di Leuca all’Appia all’altezza di Taranto; proveniendo dal Vicino Oriente, si poteva attraccare a Leuca, piuttosto che a Brindisi, e raggiungere l’Appia percorrendo la via Sallentina: la strada doveva pertanto essere assai frequentata e ben conservata se  talvolta veniva preferita alla rotta marina fino a Brindisi – da cui poi, in ogni caso, bisognava raggiungere Taranto percorrendo l’ultimo tratto della via Appia.

Uggeri ha rintracciato quasi completamente l’antico percorso che da Manduris (Mandria) arrivava fino a Veretum (Leuca), passando per Neretum (Nardò), Baletum (Alezio) ed Uzintum (Ugento). Relitti di questa viabilità sono spesso rintracciabili nella campagna ed Uggeri li ha dettagliatamente indicati sulle mappe topografiche da lui pubblicate dove il percorso della via Sallentina da Manduria a Nardò è molto ben individuato. Soprattutto la zona a  nord di Porto Cesareo è ricca di testimonianze del passaggio di un’antica ed importante strada: in particolare vale la pena ricordare il villaggio medioevale di Lucugnano – di cui oggi restano tracce di un’antica necropoli e resti di antichissime carrarecce, forse in parte coincidenti con un tratto della Sallentina stessa – e più a sud il relitto del paretone greco (antica fortificazione della guerra greco-gotica) che corre immediatamente a sud della masseria Console e prosegue nel territorio della masseria Giudice Giorgio – con i resti di un antico e larghissimo tratturo perfettamente individuato dalle mappe dell’Uggeri. Prima di arrivare a Nardò, si trova ancora il casale di Agnano, abitato fino al tardo medioevo.

Colpisce, invece, che la zona immediatamente a sud di Nardò – il tratto verso Alezio – risulti poco indagato e soltanto accennato. Qui sono state fatte solo delle ipotesi, non potendosi ad oggi, riscontrare alcun tratto di strada antica ascrivibile con sicurezza al percorso della Sallentina.

Mentre già in epoca romana, le città messapiche di Manduris, Baletum e Veretum venivano progressivamente abbandonate, Neretum ed Uzintum conservavano una certa importanza, divenendo in epoca cristiana anche sedi vescovili.

La presenza di una notevole densità demografica potrebbe quindi essere tra le cause di una costante ed incisiva modificazione del territorio circostante la città, che ha cancellato le tracce della sua storia più remota: e così il percorso della viabilità antica risulterebbe oggi molto poco leggibile, rispetto ad altre zone in cui lo stato dei luoghi si è conservato più simile a quello originario.

Nardò era collegata al suo porto – Naunia, probabilmente l’odierna Santa Maria al Bagno – da una strada diretta che incrociava, all’altezza dell’odierna località delle Cenate la strada che da Gallipoli intersecava la Sallentina – collegando così Gallipoli a Taranto – e proseguiva per Copertino, Novoli e Squinzano, congiungendosi qui con l’Augusta Traianea.

Tracce di questa strada, di importanza secondaria rispetto alla Sallentina stessa, sono rintracciabili nelle vicinanze della villa Taverna – il cui nucleo originario quattrocentesco era probabilmente un punto di ristoro della lungo la strada: si tratta di relitti stradali e di qualche pietra miliare.

Immediatamente a nord di Nardò, laddove la moderna strada per Avetrana ricalca abbastanza fedelmente l’antica Salentina, il tracciato antico è in alcuni punti ben evidente; mentre a sud dell’abitato, essendo la situazione dei luoghi molto più modificata, non si è potuto ben individuare l’antico percorso: la moderna statale 101 (Lecce-Gallipoli) che incrocia la strada antica poco a nord di Sannicola, ha in quel punto ulteriormente cancellato le tracce dell’antica viabilità, rendendo ancor più complessa l’individuazione del probabile percorso.

Uggeri sostiene che uscendo da porta Viridiana (all’altezza dell’attuale Castello di Nardò) la strada attraversasse la località Castellino, dov’è oggi la discarica, e toccando villa Frezza, l’abbazia medioevale di San Nicola in Pergoleto e contrada Coppola fino alla masseria Portolano (quest’ultima immediatamente a nord di Alezio, al di là dell’attuale statale 101).

In alternativa a questa, un’altra ipotesi sarebbe quella di far passare la strada leggermente più ad ovest, facendola coincidere con la strada che dal castello neretino conduce verso la  masseria Pantalei e da qui, rasentando la masseria Corillo e la chiesetta di santa Maria delle Tagliate – venendo ad attraversarne l’omonimo villaggio rupestre – prosegue verso sud, fino alla masseria Morige Grande. Questa strada, in parte ancora esistente, è sicuramente molto antica: la zona è però oramai densamente coltivata e costellata di moderne villette; lo stato dei luoghi appare completamente alterato, né sono rinvenibili resti di un eventuale  antico lastricato,  neanche nei muretti a secco che, spesso costruiti re-impiegando i massi del lastricato stradale, sono fonti preziose per documentare l’antico stato dei luoghi.

Questa area a sud di Nardò è peraltro ricca di rinvenimenti: nei pressi della località Torre Mozza (di poco più ad ovest rispetto alla strada Pantalei-Tagliate-Morige) furono rinvenuti negli anni ‘70  del secolo scorso, resti tombali di epoca bizantina, oggi conservati al museo di Gallipoli; ancora più a sud, nei pressi della masseria Mosca e a poca distanza dalla chiesa di San Mauro, si trova la chiesetta bizantina di San Salvatore, costruita in un punto pianeggiante, probabilmente al crocevia con un’altra strada che collegava i due i porti di Gallipoli ed Otranto, passando per Muro Leccese – dove si trova l’altra importantissima chiesa bizantina di Santa Marina.

I percorsi istmici tra lo Ionio e l’Adriatico avevano nell’antico Salento l’essenziale funzione di collegare i principali insediamenti portuali tra loro con strade carraie, evitando di dover doppiare via mare il capo di Leuca: di quello più a sud, tra Otranto e Gallipoli si è appena accennato; ve ne erano altri due: uno collegava il porto di Nardò, Naunia (Santa Maria al Bagno), a Roca Vecchia, passando da Galatina, Soleto e Calimera; un altro ancora più a nord collegava Senum (Porto Cesareo) a San Cataldo, passando da Leverano, Copertino e Lecce (Lupiae e Rudiae). Ancora più a nord c’era ovviamente la parte terminale della via Appia, il collegamento tra i porti di Taranto e Brindisi.

Le notizie riportate sono tratte per lo più da mappe e documenti antichi, ma il territorio merita di essere studiato più dettagliatamente, alla ricerca delle tangibili testimonianze del passato. Il Salento non è solo la terra de lu sule, lu mare e lu ientu: è una terra che conserva le labili tracce della sua storia plurimillenaria, del suo passato messapico, ma anche bizantino, dei suoi villaggi rupestri scavati nel tufo e mascherati tra gli olivi; aspetti meno noti, cui però la civiltà e la tradizione locale devono tanto della loro unicità.

pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°5.

Lucugnano (Lecce), meraviglie in terracotta

laboratorio “La Terracotta” di Giampiero Indino (ph M. Gaballo)
L’Associazione Porta d’Oriente propone, in collaborazione con il Centro Culturale Ricreativo Sportivo Lucugnanese e Casa di Ritrovo “Giovanni Paolo II”, la terza edizione de

La Sagra della Terracotta

 
il 1° Agosto 2011, con l’intento di recuperare e rivitalizzare la manualità, l’utilità e la creatività di un’arte che la nostra terra, in maniera esclusiva e plenaria, ha ereditato dalla notte dei tempi.

La storia ci porta a considerare gli eventi degli ultimi tremila anni che hanno visto protagonisti la creta e i suoi innumerevoli utilizzi: la sua duttilità, la sua facile reperibilità, la sua durata nel tempo, la sua resistenza alle alte temperature, all’acqua e ai cambiamenti climatici e la sua facilità di trasporto ci inducono a scommettere sulle notevoli potenzialità dei manufatti da essa ottenuti anche in futuro.

Il bacino del Mediterraneo è stato notoriamente la culla delle lavorazioni di questa materia prima anticipando di diversi secoli uno dei fenomeni culturali, sociali ed economici più attuali: la globalizzazione.

Difatti, la sua praticità rese la creta uno degli elementi fondamentali nella vita quotidiana di diverse popolazioni delle più svariate ere e per tale motivo divenne oggetto di scambi commerciali, culturali religiosi dell’intero Mediterraneo.

Oggi, l’immaterialità delle relazioni sociali e l’indifferenza verso la storia, le identità e le usanze che ci appartengono hanno deviato l’attenzione e l’interesse delle nostre generazioni dalla portata artistica della terracotta, quale motivo di valorizzazione del territorio e di riqualificazione sociale. L’unica eccezione all’oblio di questa tradizione perdura nel Salento ed in particolare nella nostra cittadina, Lucugnano.

L’Associazione culturale e di volontariato Porta d’Oriente intende dar seguito al successo ottenuto il 1° Agosto 2009 e 2010 con la prima e seconda edizione de “La Sagra della Terracotta”, tenutasi nell’ambito del Coordinamento delle Sagre del Capo di Leuca. L’evento è stata occasione per le centinaia di persone presenti per degustare le specialità culinarie tipiche della nostra terra, per ascoltare e ballare la musica popolare de “Lu Rusciu Nosciu” e, soprattutto, per ammirare la lavorazione e la decorazione sul posto dei manufatti degli artigiani lucugnanesi. Grande curiosità ed apprezzamento, infatti, sono state manifestate dai visitatori salentini e dai turisti delle più svariate provenienze che per tutta la serata hanno potuto constatare con i propri occhi il significato raffinato e concreto della lavorazione della creta e il connubio tra la fantasia e la laboriosità artigianale di tale attività. Per tale motivo, con lo stesso entusiasmo e la stessa passione della passata edizione, Porta d’Oriente, C.C.R.S.L. e Casa di ritrovo “Giovanni Paolo II” rinnovano le loro intenzioni per l’estate 2010, precisamente il 1° Agosto in Piazza Comi, quale ulteriore occasione per il pubblico di avvicinarsi alla evoluzione storica della nobile arte, alle tecniche di manipolazione della materia e di creazione dei prodotti e alla decorazione artistica degli stessi.

aboratorio “La Terracotta” di Giampiero Indino (ph M. Gaballo)
Alla realizzazione della Sagra collaborano (attraverso l’esposizione dei loro lavori) gli stessi artigiani figuli di Lucugnano, i “critari” (“La Terracotta” di Giampiero Indino, “La Bottega” di Giuseppe Indino” e “Ferrari Ceramiche” di Massimo Ferrari”) impegnati nell’evoluzione delle tecniche di lavorazione della creta, la quale continua ad offrire numerosi oggetti di grande bellezza artistica, che fanno da sfondo a tutti i prodotti genuini dell’agricoltura lucugnanese.
Numerosi gli stand, ben undici, che arricchiranno l’evento, offrendo davvero di tutto a residenti e turisti che si annunciano numerosissimi: antipasti caserecci, pasta, carne arrosto e alla griglia, rosticceria, “pittule”, angurie paesane, dolci, crépes, bibite e vino. Ad allietare ed a rendere più invitante il tutto ci penserà, immancabilmente, la musica.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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