Libri| Nostro ulivo quotidiano

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E’ stato pubblicato pochi giorni fa il volume di Elio Ria, Nostro ulivo quotidiano, a cura di Marcello Gaballo, per le edizioni della Fondazione Terra d’Otranto, inserito nella collana Scatti d’Autore, n°2. in quarto| 112 pagine| colore, cartonato. Impaginazione di Mino Presicce, fotocomposizione Biesse – Nardò, stampa Pressup. Foto di Fabrizio Arati, Mauro Bellucci, Maurizio Biasco, Lucio Causo, Coordinamento Forum Salute, Stefano Crety, Marcello Gaballo, Roberto Gennaio, Linda Iazzi, Walter Macorano, Lucio Meleleo, Tommy Mezzina, Francesco Politano, Mino Presicce, Pier Paolo Tarsi. Foto di copertina di Maurizio Biasco.

ISBN: 97888 906976 8 5

Edizione non commerciale, riservata alle biblioteche e ai soci della Fondazione.

 

Prefazione di Marcello Gaballo – Fondazione Terra d’Otranto

Scatti d’Autore è la nuova collana edita da Fondazione di Terra d’Otranto, che persegue l’obiettivo – attraverso le parole e le immagini – di valorizzare e promuovere la cultura salentina con i suoi autori più rappresentativi in ambito letterario, filosofico e artistico.

La grandezza della parola dipende dallo splendore delle immagini e dalla capacità cognitiva di raccogliere argomenti misuratori del Salento, che è luogo blindato di generosità e splendidezza, ma è anche sostanza d’ispirazione per poeti e artisti. Il mare, i porti, le chiese, i campanili, le piazze, i vicoli, i paesi, sono le cartoline di un mondo fiabesco che incarnano la pazienza del tempo e non hanno necessità di urgenza di fare a pezzi le tradizioni e i costumi di una comunità sempre devota a Dio.

Il secondo volume “Nostro ulivo quotidiano” dedicato all’albero di ulivo è scritto da Elio Ria. Le immagini sono di vari fotografi salentini che hanno voluto donare i loro scatti a corredo del presente lavoro.

Ria si distingue per la sua prosa erudita, pregna di allusioni e ironica nelle allegorie, corredata da una poesia metafisica che sembri lo affascini e lo nutri di piacere del sapere. Attento osservatore della propria terra sa incastonare le quotidianità della vita con le tradizioni che tuttora resistono e s’impongono nel Salento. Riservato e incline al silenzio, rifugge da ogni moda stravagante di letteratura, indagatore e archeologo delle parole crede nella modernità con moderazione, ha un naso eccezionale per le cose interessanti, ha la capacità di condensare minuziosamente i concetti e di sintetizzare le complessità esistenziali libero da ogni condizionamento politico e/o religioso. Ama narrare ciò che è invisibile per attualizzarlo e declamarlo in forma poetica. Offre ai suoi lettori un intrattenimento di lettura piacevole poiché ogni sua cosa è realizzata da un intimo godimento, il giubilo di chi fa ciò che gli piace fare.

Nelle sue omissioni volute si può cogliere la riflessione come fonte di emozione poetica e l’erudizione come retorica cortese – ma mai come pedanteria. Guarda sempre con passione tutto ciò che è minore in confronto a ciò che è maggiore, giacché dalle cose minime risultanti insignificanti sa estrapolare significativi e sostanziali frammenti di allegorie e di memorie.

Il libro è un mondo racchiuso in sé stesso, con le immagini dell’albero di ulivo e di una campagna in sofferenza; dove però prevale innanzitutto il senso civico di responsabilità del poeta per la sua terra, il quale avverte l’impegno di un agire per il meglio, nonché il monito ad una scelta di vita più consona alle regole della natura. Xilella fastidiosa è il killer che decreta la morte degli alberi, mettendo in serio pericolo l’ecosistema. Nelle parole del libro si addensano le atmosfere recondite e quelle sonore dell’uomo che riflette sulla realtà e tenta di interpretarle, poiché incombe un futuro senza futuro e il Salento rischierebbe una menomazione ambientale incommensurabile.

L’ulivo è l’albero simbolo del Salento, il gigante, che nei secoli ha germogliato ricchezza, orgoglio di natura, bellezze figurative, idea di poesia. L’omaggio editoriale è tutto per esso, significando in tal modo l’attenzione e l’interesse di questa Fondazione ai beni naturali della propria terra.

ALESSANDRO VII PAPA DAL 1655 AL 1667

 di Lucio Causo

ALESSANDRO VII

DISPOSE NEL 1656 IL TRASFERIMENTO DA FOSSOMBRONE AD OSIMO

DI SAN GIUSEPPE DA COPERTINO

(Prima di diventare Papa fu nominato Vescovo di Nardò nel 1635)

 

  In data 30 dicembre 1973, il quotidiano Avvenire riportò alcune notizie relative alla sede vescovile di Nardò, la quale ha offerto alla Chiesa il pontefice Fabio Chigi, nato a Siena nel 1599 e nominato vescovo dell’episcopio neretino nel 1635 prima di divenire Papa, col nome di Alessandro VII nel 1655, eletto dal Conclave che durò ottanta giorni fra i dissensi violenti del Cardinale Mazzarino.

  Fabio Chigi aveva frequentato l’Università della sua città e nel 1628 fu accolto negli Uffici Vaticani da Urbano VIII; fu vice legato a Ferrara (1629), vescovo di Nardò (1635), visitatore apostolico a Malta e nunzio apostolico a Colonia (1639), rappresentò la Santa Sede al Congresso di Munster (1643), ma si rifiutò di firmare i protocolli finali di Westfalia (1648) perché contrari agli interessi della Chiesa; fu Segretario di Stato nel 1651 e Cardinale nel 1652.

  Nel 1655, la sua elezione a Sommo Pontefice coincise con il trasferimento a Roma della regina Cristina di Svezia, la quale abbandonò il protestantesimo per convertirsi al cattolicesimo, facendo rilevare a Papa Alessandro una condotta di vita altamente intellettuale, ma priva della giusta disciplina ecclesiastica.

  Alessandro VII nel 1656 con un suo decreto permise ai gesuiti della missione cinese di inserire nella liturgia tradizionale alcuni riti locali, fino ad esentare successivamente il clero cinese di celebrare in lingua latina.

  Dopo la morte del Cardinale Mazzarino, avvenuta nel 1661, Alessandro VII ebbe violenti contrasti con Luigi XIV. Per volere di quest’ultimo, inasprì la sua condanna al giansenismo, già decretata dal suo predecessore Innocenzo X, e col trattato di Pisa del 1664 fu costretto dal Re Sole ad accettare le sue imperiose condizioni, rimanendo privato di alcuni territori e subendo l’umiliante controllo sulle nomine episcopali.

  Papa Chigi fu religiosissimo, devoto di San Francesco di Sales che canonizzò nel 1665; fu protettore di artisti, arricchì la Biblioteca Vaticana ed abbellì la città di molte tra le più significative opere del barocco romano, come il colonnato di Piazza San Pietro, realizzato da Lorenzo Bernini, e le chiese di Piazza del Popolo. Alessandro VII si spense a Roma nel 1667 e fu sepolto in Vaticano.

  Il vescovo Giuseppe Maria Palatucci ha scritto che Alessandro VII, nel 1656, dispose che il frate Giuseppe da Copertino fosse trasferito dal Convento di Fossombrone, appartenente ai Padri Cappuccini, al Convento di San Francesco di Osimo; Giuseppe desiderava ansiosamente di ritornare fra i suoi confratelli. D’altra parte il Ministro Generale si era dato un gran da fare per riaverlo nell’Ordine. A tale scopo fu scongiurato anche Innocenzo X, ma inutilmente. Tale desiderio fu esaudito, però, dal successore Alessandro VII, il quale credette opportuno inviare Giuseppe al Convento dei Padri Conventuali, in Osimo, forse come segno di predilezione per il vescovo di detta città, suo nipote.

  I salentini ricordano con devozione Papa Fabio Chigi per il trasferimento del nostro Santo al Convento di Osimo, che si realizzò il 6 luglio del 1657 poiché nell’anno precedente si era diffusa la peste. Il nostro Santo, ricevuto dal vescovo Antonio Bichi, nipote di Alessandro VII, giunto ad Osimo esclamò con gioia: “Haec requies mea!” (Questo è il luogo del mio riposo).

  In breve periodo di tempo, molti miracoli furono attribuiti all’intercessione di Padre Giuseppe, denominato il Santo dei Voli, per i suoi mirabili voli estatici. Alcuni biografi, come il Montanari, enunciano 69 miracoli. Lo stesso Alessandro VII, sofferente per grave malattia, guarì indossando la tonaca usata da Giuseppe.

  Il frate di Copertino si ammalò gravemente il 10 agosto 1663. Poiché non sopraggiunse alcun miglioramento, la mattina dell’8 settembre ricevette il Santo Viatico e nella serata l’Estrema Unzione, chiedendo perdono a tutti con molta semplicità e sincera umiltà.

  Alessandro VII, informato dell’infermità di Giuseppe, volle mandargli la sua benedizione che il frate ricevette in piedi in segno di rispetto, meravigliandosi della bontà del Sommo Pontefice verso di lui. Il frate alle ore 23 del 18 settembre 1663 passò dal tempo all’eternità.

  La gente di Osimo, conosceva molto bene la santità di Giuseppe e per questo, a gran voce, venne acclamato con l’appellativo di Santo.

 

Rocco Serra emigrato salentino

 di Lucio Causo

   Rocco Serra era tornato in Italia per votare e vi aveva trovato la morte. Questa la drammatica vicenda di un emigrato salentino, il cui cadavere venne rinvenuto sui binari della ferrovia per Lecce, ad una diecina di chilometri dalla stazione. La macabra scoperta era stata fatta dal personale ferroviario, in transito nella zona.

A conclusione delle indagini, i Carabinieri dissero che il poveretto, dopo aver votato, si era messo in viaggio per riprendere il lavoro a Berna. Forse aveva aperto per errore uno degli sportelli del vagone nel quale viaggiava ed era precipitato nel vuoto battendo la testa sui “cozzi” che affioravano lungo la ferrovia. Era morto sul colpo.

Al momento della scoperta, Rocco indossava un paio di pantaloni a righe blu e una maglietta rossa. Nel suo portafoglio, oltre al passaporto, furono trovati due biglietti da centomila lire, sessanta franchi ed alcune monete. Dal documento di riconoscimento i Carabinieri erano giunti all’identità dello sfortunato emigrato. La notizia fu presto comunicata a parenti ed amici ed in paese non si parlò d’altro.

Rocco non aveva neppure 17 anni quando emigrò in Svizzera per trovare un lavoro più redditizio. Il padre era malato e non poteva lavorare in campagna, con gli altri contadini del paese.

Il giovane periodicamente lavorava sulla terra di don Antonio Catanese, portando a casa poche migliaia di lire, appena sufficienti per comprare il pane e la farina e per sopravvivere in seno alla famiglia. Non essendo contento di quello che guadagnava, decise di partire con lo zio Vito per lavorare all’estero.

Dopo sette anni trascorsi in Svizzera, si sposò con una giovane di origine tedesca che lavorava nella ristorazione. Non erano ancora passati due anni dal matrimonio quando la moglie rimase incinta. La nascita di Erika, una bimba che si rivelò molto aggressiva e scontrosa, non allietò il già difficile ménage famigliare. Dopo tanti sacrifici e tanta sopportazione, prevalsero le incomprensioni ed i rancori: Erika, all’età di diciotto anni, abbandonò la casa paterna ed andò a vivere con un tedesco separato dalla moglie.

Rocco, col lavoro di giardiniere che svolgeva nelle ville e nei parchi, fuori città, aveva messo da parte un piccolo gruzzolo ed era intenzionato a rientrare definitivamente in Italia, anche da solo, perché la moglie non voleva lasciare la città dov’era nata e cresciuta e dove lavorava da molti anni. E poi in un borgo non lontano da Berna viveva la figlia con i nipotini che andava a trovare ogni fine settimana e durante le vacanze.

Rocco, ogni tanto, nel periodo delle ferie, tornava in Italia per fare i bagni al mare con parenti ed amici. Era sempre triste e non amava parlare del suo lavoro e della sua famiglia, né voleva ricordare i tempi della sua infanzia. Nessuno conosceva la moglie e la figlia, neppure in fotografia. Rocco non ne parlava e se qualcuno chiedeva notizie cambiava discorso. Però guardava ammirato le donne del paese e i ragazzini che giocavano felici nella piazzetta, in campagna e al mare.

La partenza per lui era un momento difficile; soffriva molto quando doveva allontanarsi dalla sua terra e dai suoi compaesani  per tornare in Svizzera. La mattina presto si recava alla stazione da solo perché non voleva farsi accompagnare dai parenti; saliva in silenzio sul piccolo treno locale che lo avrebbe portato in città; poi, dalla stazione di Lecce, sarebbe partito di filato verso il nord, per tornare in quel paese straniero che non aveva mai amato.

Durante la breve permanenza in casa della sorella più piccola, Rocco aveva sottoscritto un compromesso per l’acquisto di un pezzo di terra nella zona del mare. Poveretto, chissà quanto l’aveva desiderato, ma, ormai, non gli serviva più!

Tuglie. Le origini, la storia, le tradizioni (seconda parte)

di Lucio Causo

La storia

Dopo la distruzione operata dai turchi, il territorio di Tuglie passò in proprietà di diversi feudatari [7], finché nel 1681 fu acquistato da Francesco Antonio Cariddi, signore di una nobile famiglia di Gallipoli [8].

Presso la chiesa di Sant’Agata, a Gallipoli, nel registro dei morti dell’anno 1683, è annotato che il 9 novembre, il barone Cariddi, di anni 90, rese l’anima a Dio. Gli succedette il figlio Pietro.

Il 18 gennaio 1696, la nobildonna Antonia Prato, marchesa di Arnesano, acquistò il feudo di Tuglie per 9.000 ducati da Giacomo Antonio Cariddi, tutore e curatore del nipote Domenico Cariddi (figlio ed erede in feudalibus del fratello Pietro). La Prato nel 1650 aveva sposato il duca Ferrante Guarino, signore di Poggiardo, dal quale ebbe nove figli. Diventati signori di Tuglie, Antonia e Ferrante si trasferirono nel palazzo baronale che si ergeva nel mezzo del casale [9]. I nobili Guarino operarono la prima riforma fondiaria nel nostro territorio e ne tennerola Signoria fino al secolo XVII. Alla morte della baronessa Prato, avvenuta il 18 ottobre 1715, il feudo fu intestato al figlio primogenito Fabrizio Guarino, che morì il 22 settembre 1717. Gli succedette il fratello Filippo.

Sotto il barone Filippo Guarino, il piccolo centro di Tuglie si sviluppò ulteriormente. Il numero delle case arrivò a162 e la popolazione a 600 abitanti, la maggior parte dei quali erano contadini e artigiani.

Nel 1720, il barone, sebbene non più giovanissimo (aveva 60 anni), sposò una nobile sedicenne, Isabella Castriota-Scanderbeg, educanda nel convento

Le campane di don Fabiano

 di Lucio Causo

Carmelo, a quel tempo, non aveva più di otto anni. Era un ragazzo timido, a volte impetuoso e sempre pronto a gettarsi nella mischia dei giochi, anche pericolosi. Abitualmente taciturno, nascondeva sotto quell’apparenza, una fantasia e una mente astuta e volitiva.

Nato e cresciuto all’ombra del campanile che dominava le casupole ammucchiate l’una sull’altra in un piccolo paese del sud, non poteva sottrarsi agli effetti ambientali di un’apatia, che, inasprita dalla calura di certi pomeriggi infuocati, conduceva a una noia letargica quasi incosciente.

In quei pomeriggi, quando gran parte degli abitanti del paese era in campagna a sudare fra le stoppie e quelli che rimanevano in paese si godevano la “siesta” nelle proprie case, Carmelo sedeva al fresco sui gradini della chiesa aspettando, con la leggera brezza della sera, lo stuolo di amici per i soliti giochi.

Di lì poteva seguire il treno che tornava semi vuoto dalla città; la corriera per San Biagio che arrancava lentamente sulla strada dei Cappuccini; oppure il lento ritorno dei contadini lungo le stradine di campagna.

Di tanto in tanto, preso dal desiderio di muoversi, di fare qualcosa per sconfiggere la noia, si aggirava sul piazzale della chiesa, in cerca di lucertole da intrappolare, o di formicai da osservare.

Spesso si fermava a guardare il via vai dei corvi sul campanile.

Ah!… il campanile… Suonare le campane!… Quante volte aveva pregato l’Arciprete di fargli suonare le campane. La risposta era sempre la stessa: “Sei troppo piccolo”.

Un asinello carico di paglia, dalla quale uscivano a stento la testa e le gambe,  passava sfiatato.

Senza capire perché, gli venne in mente il piccolo musicista della banda del paese, quasi schiacciato dal peso del tamburo.

Pensò alla prossima festa patronale; la banda che girava per le strade del paese; i fuochi d’artificio che coloravano il cielo sulla collina e le bancarelle

Pittori pugliesi del nostro Risorgimento

di Lucio Causo

Francesco Netti – Le-ricamatrici levantine

 

   Francesco Netti è nato a Santeramo in Colle nel1832, ha frequentato le scuole degli Scolopi e si è laureato in Giurisprudenza a Napoli, si è spento nel 1894.    A Grez, in un paesino vicino a Fontainebleau, ha studiato Camille Corot e Gustave Courbert, ha viaggiato per l’Europa fino in Turchia.

Egli ha dipinto I Gladiatori, La pioggia sul Vesuvio in gara con Gioacchino Toma, I Mietitori curvi sulle falci con il sole della sua Puglia che spacca dall’alto le pietre delle Murge.

Pietro Marino, in occasione della retrospettiva dedicatagli nel 1980 nella Pinacoteca dell’Amministrazione Provinciale di Bari, visitata dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini, mentre era in allestimento, ha scritto che le 140 opere del Netti lo pongono fra gli artisti intellettuali, in controcanto con gli artisti del Nord, come Angelo Morbelli e Giuseppe Pellizza da Volpedo, animato dal Quarto Stato.

Il Netti è ritenuto anche un grande innovatore della critica d’arte. L’illustre santeramese ha dimostrato con evidente rischio la sua solidarietà verso i popoli in conflitto, militando da volontario nella Croce Rossa Italiana durante la guerra franco-prussiana.

Giuseppe de Nittis, L’ora tranquilla (1874)

Giuseppe De Nittis  è nato a Barletta nel 1846, dopo la sua permanenza a Napoli, ha raggiunto Parigi dove ha sposato nel 1869 Léontine Gruvelle con la quale ha ricevuto nel suo salotto E. De Concourt, Dumas figlio, A. Daudet, E.

Anton Dohrn e la stazione zoologica di Napoli

acquario e stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli

di Lucio Causo

Allorché, nel 1874, il professore Anton Dohrn, libero docente dell’Università di Jena, portò a compimento, in gran parte con mezzi propri, la stazione zoologica di Napoli, la scienza europea era sotto l’influsso del darvinismo. E Dohrn apparteneva a quella piccola schiera di studiosi che voleva suffragare con nuovo materiale, ricavato dalle indagini sugli organismi marini, la teoria dell’evoluzionismo. Egli fu il primo a costruire un acquario convenientemente attrezzato e dotato dei necessari laboratori. La grandissima varietà di organismi inferiori della fauna marina del golfo di Napoli offriva un materiale di osservazione incomparabile. I pescatori portavano giornalmente alla stazione quanto pescavano ed innumerevoli esemplari dello stesso organismo passavano dal microtomo al microscopio.  Quando tale stazione cominciò a funzionare, si ebbero gravissime difficoltà finanziarie ed organizzative. In un momento particolarmente critico Dohrn ebbe la felice idea di istituire, accanto ai laboratori, anche un acquario, la cui magnificenza doveva essere tale da attrarre in gran massa i visitatori, permettendo così di sopperire con il ricavato della vendita dei biglietti alle spese d’esercizio di tutta la stazione.

Dopo aver preventivato le spese e gli introiti, il giovane studioso ritenne di poter superare la crisi. Ogni visitatore doveva divenire, senza accorgersene, un mecenate della scienza; vi erano inoltre anche altre fonti di proventi: le

Pietro Giannone personaggio di rilievo nel nostro Settecento

di Lucio Causo

    Pietro Giannone nacque ad Ischitella, un piccolo paese del Gargano, nel 1676. Sostenuto da uno zio sacerdote, si laureò in giurisprudenza nel 1698 ed esercitò la professione di avvocato, interessandosi particolarmente dei rapporti fra lo Stato ela Chiesa.

Nel 1723 pubblicò la Istoria Civile del Regno di Napoli che venne subito tradotta in tedesco, inglese e francese. In essa espresse il suo pensiero illuminato denunciando su base giuridica le ingerenze e gli abusi della chiesa nei riguardi del potere civile dello Stato. Non mancò la solidarietà di illustri personaggi del suo tempo, considerato che il potere ecclesiastico possedeva due terzi del reame ed esercitava irragionevoli diritti nei confronti dei cittadini.

Per le sue asserzioni contro la chiesa, Pietro Giannone fu scomunicato e dovette rifugiarsi in Austria presso la Corte dell’imperatore Carlo VI. Nel 1735, durante la sua permanenza a Vienna, scrisse la sua seconda opera importante: Triregno.

Per questa pubblicazione, il pontefice Clemente XII interessò i Nunzi Apostolici di Vienna e di Napoli perché lo punissero in quanto non credeva

Antonio Pignatelli, da vescovo di Lecce a pontefice

ANTONIO PIGNATELLI

VESCOVO DI LECCE NEL 1671

DIVENNE PAPA INNOCENZO XII NEL 1691

di Lucio Causo

Antonio Pignatelli nacque a Spinazzola il 13 marzo 1615 da famiglia di principi napoletani. Prima di entrare nella carriera ecclesiastica fu al servizio dei Cavalieri di Malta. Poi divenne Nunzio Apostolico in Toscana nel 1652, in Polonia nel 1660, a Vienna nel 1668, per risolvere alcune controversie sorte con il pontefice Clemente X; nel 1671 fu inviato a Lecce, dove agì come vescovo amministratore, lontano dagli affari di Stato della Curia Vaticana, e solo nel 1673 riuscì a tornare a Roma.

Papa Innocenzo XI, nel 1681 lo elevò alla porpora cardinalizia; fu anche vescovo di Faenza e Legato alla diocesi di Bologna.

Nominato Arcivescovo di Napoli nel 1687, dopo la morte di Alessandro VIII, fu eletto papa il 12 luglio 1691, dopo un lungo conclave che durò cinque mesi, e prese il nome di Innocenzo XII. Nella villa romana appartenente alla nobile famiglia dei Pignatelli si può ammirare la bella statua del papa, opera dello scultore Tavolini.

Innocenzo XII fu un pontefice pio e caritatevole, sommo servitore della Chiesa verso la quale cercò di ricondurre il clero con i suoi esempi di umiltà e di singolare

Gregorio Falconieri da Nardò (1885-1964), vescovo di Conversano

Mons. Gregorio Falconieri nel 1935 (stampa dell’epoca)

Mons. Gregorio Falconieri. L’altare e la poesia

di Lucio Causo

   Gregorio Falconieri nacque a Nardò il 20 febbraio del 1885. Dai cenni biografici di don Gregorio Gaballo si rileva che il giovane ecclesiastico, dopo aver frequentato le classi ginnasiali e liceali, nel 1905 fu ammesso alla prima tonsura dal vescovo Ricciardi nella Cattedrale di Nardò; divenne presbitero nel 1908 e poi fu nominato da mons. Giannattasio vice rettore del Seminario, ottenendo di frequentare l’Università di Padova per addottorarsi in lettere.

Monsignor Falconieri fu docente a Nardò, a Lecce, a Porto Mirteto, a Cava dei Tirreni. Rientrato a Nardò, divenne arciprete di Casarano nel 1927, successivamente fu richiamato a Nardò dal vescovo Muller e nel 1935, sotto il pontificato di Pio XI, divenne vescovo di Conversano.

Giunto nella Diocesi assegnatagli, oltre agli insegnamenti pastorali, si occupò della storia locale, rilevando con grande prestigio gli episodi relativi all’incoronazione di Maria SS. della Fonte, in occasione del primo centenario, nel 1947. Commentò l’Historiarum Cupersanensium di P.A. Tarsia e rievocò la figura del primo vescovo di Conversano, Simplicio, inviato dal pontefice Felice III a confutare in Africa l’eresia dei Patarini nel 489.

In occasione del quindicesimo centenario del concilio di Calcedonia , mons. Falconieri spiegò ai diletti figli e fratelli della sua diocesi molti particolari inerenti le controversie che caratterizzarono la vera dottrina del pontefice Leone I e la grande eresia di Eutiche, monaco greco di Costantinopoli. Egli seppe rammentare quanto era accaduto ai concili di Nicea e di Efeso e l’azione

Oscar Kokoschka a Gallipoli

di Lucio Causo

Oscar Kokoschka nasce a Pochlarn, sul Danubio, il 1° marzo 1886. Dal grande musicista Mahler, con la di cui moglie Alma aveva avuto una relazione,  prenderà l’espressionismo dei suoi eccellenti spartiti che si staccano decisamente dalle vecchie relazioni tonali per divenire, più tardi, il motivo  innovatore della dodecafonia.

Nei primi anni del ‘900 Adolf Loos procura dei lavori a Kokoschka, che disegna e dipinge ritratti a Berlino facendosi notare dai collaboratori della rivista Der Sturm che lo accolgono nel gruppo redazionale.

   Nel 1910 espone alcuni quadri nella capitale tedesca insieme al gruppo di Blaue Reiter (Cavaliere Azzurro). Le sue immagini sono diafane e nascondono tormenti misteriosi che dissolvono il barocco viennese per inserirsi nelle nuove formule dell’espressionismo.

Nel 1919 viene chiamato ad insegnare nell’Accademia di Dresda, ove rimane fino al 1924. Nel periodo fra le due guerre ha già cominciato i suoi viaggi durante i quali dipinge soprattutto paesaggi. Dedica buona parte della sua attività anche alle incisioni.

Nel 1934, dopo la condanna della sua opera, come arte degenerata, dal regime nazista, Kokoschka si trasferisce a Praga e vi rimane fino al 1938, anno in cui è costretto a rifugiarsi a Londra, città che diviene la sua dimora fino al 1953. Successivamente si trasferisce in Svizzera, ed è qui che si spegne nel 1980 all’età di 94 anni.

G. Carlo Argan sostiene che il problema di Kokoschka è quello del segno, inteso come trascrizione immediata di uno stato sensorio, affettivo, istintivo.

Nel 1984 alla Mostra Permanente di Milano sono stati esposti i fogli da lui disegnati ed acquerellati nel periodo dal 1906 al 1924, insieme ai cento fogli, provenienti dai musei italiani ed americani, di Gustav Klimt che ritrae le donne della nuova epoca e gli uomini con barba ad appena 16 anni.

La nuova oggettività tedesca, la moda-arte, l’erotismo grafico e il verismo decorativo di scuola viennese compaiono come cronaca del tempo e del costume in una stimolante, eccezionale esposizione, della quale Giorgio Mascherpa su Avvenire di gennaio del 1994 dà ampia notizia.

Kokoschka intervistato da Piero Girace per il Roma, nel gennaio del 1959, afferma che “l’arte moderna potrà essere superata dalla civiltà meccanica, mentre l’arte accademica ritarderà la sua distruzione poiché l’accademia è costituita da elementi disciplinari difficilmente costretti alla demolizione. L’arte non può staccarsi dalla tradizione, essa è come un essere vivente che ha i suoi genitori, i quali devono essere rispettati nella loro continuità di idee e di pensieri rinnovati”.

Kokoschka visita il Salento negli anni successivi al secondo dopo guerra e, da Gallipoli, riporta la visione fantastica del tramonto sulla perla dello Ionio, filtrata dall’istintismo di un grande drammaturgo.

Tuglie tra fine 800 e inizi 900

CRISI ECONOMICA E AMPLIAMENTO DEL TERRITORIO

 

di Lucio Causo

 

Nel 1816 il Catasto aveva attribuito a Tuglie una superficie di207 ettari. Nella ripartizione territoriale di quel Catasto non si tenne conto delle condizioni di miseria in cui si trovavano i tugliesi, del numero delle persone che vivevano nei paesi vicini (Gallipoli, Neviano, Sannicola, Parabita, Alezio) e neanche dell’ importanza presente e futura dei vari Comuni.

Si tenne essenzialmente conto del domicilio dei proprietari del terreno, infatti, accadde che la masseria Aragona, vicinissima al paese, divenne parte di Gallipoli perché i proprietari erano domiciliati in quella città.

La zona nord di Tuglie era costituita da colline rocciose (Spalla, Cretazzi, Passaturi, Aiavecchia), le quali non erano adatte alla costruzione di strade, case e stabilimenti industriali. Le abbondanti piogge, a causa del pendio delle colline, avevano reso quelle zone inabitabili comportando così per parecchie volte il rifacimento delle strade vicinali. A sud dell’abitato, invece, vi era una vallata dove si depositavano le acque piovane che scendevano dalla collina rendendo così il terreno paludoso e provocando la diffusione della malaria che fece numerose vittime tra i contadini tugliesi. Ciò necessitava di una completa sistemazione territoriale attraverso il deviamento delle acque piovane a monte dell’ abitato, un sistema di fognature all’interno e la costruzione di depositi raccoglitori a valle.

La crisi economica in quel periodo si era ormai affermata, tanto che molti cittadini tugliesi furono indotti a ricercare nuove terre da coltivare oppure, come tanti altri italiani ridotti in povertà, ad emigrare in America.

I nostri emigranti partivano da Gallipoli per raggiungere via mare Napoli per poi imbarcarsi su grossi bastimenti insieme ad altri emigranti meridionali. Per evitare che la disoccupazione si diffondesse sempre di più, nacquero delle Cooperative di lavoro e Sindacati di contadini che proibivano l’importazione della manodopera per difendere quella locale; i risultati furono disastrosi perché nei Comuni di notevole estensione vi era manodopera, anche se non specializzata, invece i tugliesi, pur essendo esperti contadini rimasero senza occupazione per l’ insufficienza di territorio.

Molti furono i tentativi per fare in modo che la crisi non travolgesse l’intera popolazione di Tuglie massimizzando i punti di forza del paese, ma questo non fu possibile per i molti ostacoli che si presentarono. Le maggiori ricchezze del paese sono sempre state la produzione dell’olio, del vino e dell’alcool. Purtroppo, i più importanti stabilimenti erano situati nel territorio di Alezio e nel territorio di Parabita.  In seguito, con la crisi vinicola, molti agricoltori tugliesi trasformarono i vigneti in campi di tabacco e gli industriali fecero

Libri/ Cesare Vergine: pagine del mio diario

 

CESARE VERGINE: PAGINE DEL MIO DIARIO

Africa Orientale 1935-1936

 

di Lucio Causo

Il Centro Studi “Dottor Cesare Vergine”, costituito a Tuglie da alcuni anni, grazie al Presidente Dott. Ennio Vergine e ai soci fondatori, ha pubblicato il libro CESARE VERGINE: PAGINE DEL MIO DIARIO – AFRICA ORIENTALE 1935-1936, per i tipi della Casa Editrice Del Campo di Roma.

Il libro, curato dagli studiosi di Storia Patria Lucio Causo, Giuseppe Orlando D’Urso ed Ermanno Inguscio, propone alcune fra le più belle ed importanti pagine del Diario scritte dal Dottor Cesare Vergine, illustre medico chirurgo, politico e sindaco di Tuglie dal 1951 al 1969, durante la sua avventura bellica vissuta in Africa nello svolgimento del conflitto Italo–Etiopico del 1935-1936.

Il dottore Vergine si arruolò come ufficiale medico nella 252a Legione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), denominata “Acciaiata” da Achille Starace, Segretario del Partito Fascista, che la tenne a battesimo. Questo reparto era costituito in gran parte da giovani volontari dell’Italia Meridionale, tra cui i Leoni del Battaglione Salentino e i Lupi di Lucania. Cesare Vergine partì in Africa Orientale da Napoli, a bordo del piroscafo Saturnia, il 12 settembre 1935, col grado di Capo Manipolo medico della

Tuglie. Le origini, la storia, le tradizioni (terza ed ultima parte)

di Lucio Causo

 Le chiese

Nella piazza centrale di Tuglie sorge la Chiesa Matrice, dedicata alla protettrice Maria SS. Annunziata. Fu edificata agli inizi del secolo XVIII sul posto ove si trovava una vecchia chiesetta.

Il 2 aprile 1719 il vescovo di Nardò, mons. Antonio Sanfelice, visitò la piccola chiesa dell’Annunziata. Avendola trovata piccola ed angusta, invitò il barone Guarino, il parroco provvisorio ed il popolo del casale di Tuglie a porre mano alla costruzione di una nuova e più grande Chiesa Parrocchiale. Nella visita successiva (1720) il vescovo Sanfelice elargì un contributo di 47 ducati in monete d’oro per la sollecita costruzione della parrocchia. La prima parte della chiesa, corrispondente alla navata centrale, fu iniziata nel 1721e si protrasse per oltre quindici anni. Don Vito De Santis, primo arciprete tugliese (1733-1785), ampliò ulteriormente la chiesa ed a sue spese fece costruire due altari. Il successivo ingrandimento si rese necessario intorno al 1850, quando fu realizzata la navata di borea. Nel 1875, l’arciprete Pasquale Miggiano iniziò la costruzione della navata di scirocco, che fu completata nel 1880. Nel giugno 1894 la chiesa fu consacrata dal vescovo Giuseppe Ricciardi. Nel 1900 fu posato il pavimento in marmo grigio bitonale di Carrara che ancora oggi si vede. La facciata della Parrocchia, ampia ed elegante, presenta tre portali d’ingresso ed è preceduta da una balaustra con colonnato in pietra leccese. L’interno è arricchito di numerosi altari costruiti in varie epoche. Sono opere di particolare pregio: il pulpito in legno dorato del 1800, l’organo polifonico a 1500 canne costruito nel 1912 e restaurato nel 1978, il Battistero in marmo di Carrara costruito nel 1914, i mosaici della Via Crucis, il grande mosaico raffigurante l’Annunciazione realizzato nel 1963 e numerose statue in cartapesta, opera di rinomati artisti leccesi del Settecento e dell’Ottocento. La

Tuglie. Le origini, la storia, le tradizioni (prima parte)

di Lucio Causo

    Le origini

   Tuglie, in provincia di Lecce, ha origini molto antiche. Lo confermano i quattro “Menhir” tugliesi che si trovano in aperta campagna: il menhir di “Monte Prino”, alto circa due metri; il menhir delle “nove croci” in contrada “Camastra”; il menhir che si trova all’incrocio della via vicinale del “Caruggio” con la via vicinale “Camastra”; il menhir del  fondo “Scirocco”, al confine tra le tenute Santese e Losavio.

Sono di particolare interesse le “Grotte Passaturi” o “Case vecchie”, situate in prossimità delle scuole elementari, che, secondo alcuni studiosi, costituivano la dimora dell’antico popolo dei “Tulli” [1].

Intorno al 1270, il piccolo nucleo abitato, sorto spontaneamente a ridosso della collina, era denominato “Casale Tulli” ed apparteneva ad Almerico di Montedragone, ufficiale dell’esercito di Carlo d’Angiò. Il sovrano lo aveva donato al nobile cavaliere in cambio di alcuni beni posti nel territorio di Sulmona, città natale di Almerico [2].

Nel 1280, il conte di Montedragone dovette accorrere a Taranto per sedare una rivolta popolare. Della sua assenza approfittò Gervaso da Matino che occupò con la forza il casale di Tuglie, ribattezzandolo “Castri Tulli” [3].

Si racconta che Almerico, prima di lasciare il casale, fece edificare una piccola cappella nel posto dove prima c’era una nicchia di pietra con l’immagine delle Anime Sante, proprio dove ora sorge la Chiesa Matricededicata alla Madonna dell’Annunziata [4].

Il 28 luglio 1480, una formidabile flotta di galee turche con 1.600 pezzi di artiglieria e 18.000 soldati, si schierò di fronte al porto di Otranto. Acmet, il capo dei turchi, promise vantaggiose condizioni, in cambio della resa, ma gli otrantini decisero di resistere ad oltranza. Cominciò così un assedio violentissimo, che durò 15 giorni. L’artiglieria ottomana bombardò le mura, l’abitato e la rocca. Poi i turchi, travolta ogni resistenza, dilagarono nella città

Libri/ Tuglie nel XX secolo

di Paolo Vincenti

E’ stata pubblicata nel 2004, l’opera in due volumi “Tuglie nel XX secolo”, di Lucio Causo, Salvatore Coppola ed Ermanno Inguscio (E.G.S. Edizioni), a cura dell’Amministrazione Comunale di Tuglie e con il patrocinio della Provincia di Lecce, vide la luce dopo circa tre anni di intensissimo lavoro da parte degli autori, tutti e tre componenti del Consiglio Direttivo della Società di Storia Patria per la Puglia-Sezione di Maglie, Otranto e Tuglie: Salvatore Coppola, che ne era all’epoca  il Presidente, e già docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Classico “Capece” di Maglie; Ermanno Inguscio, già docente di Letteratura Italiana e Storia nel Liceo Classico “Dante Alighieri” di Casarano e collaboratore del settimanale cattolico leccese “L’Ora del Salento”; Lucio Causo, unico tugliese, ragioniere in pensione, che collabora con il quindicinale “Il Galatino” e con il settimanale “Voce del Sud”.

Lodevole lo sforzo degli autori di ricostruire, con puntigliosità ed onestà intellettuale, gli ultimi cento anni di storia di Tuglie, attraverso la consultazione di una miriade di fonti, quali i documenti conservati nell’Archivio di Stato e nell’Archivio comunale, i giornali locali, gli atti degli Enti ecclesiastici e quelli delle Associazioni di assistenza e beneficenza, gli archivi privati, le fonti orali, e così via, nella consapevolezza che la storia locale, la cosiddetta microstoria, non si può comprendere se non la si colloca nel contesto della macrostoria, cioè nel contesto regionale e nazionale nel quale la stessa è inserita.

Il primo volume, intitolato “Gli anni difficili- 1900-1950”, tratta gli avvenimenti che vanno dalla fine dell’Ottocento al secondo dopoguerra, attraverso una analisi del contesto economico-sociale del Mezzogiorno d’Italia, la Prima Guerra Mondiale, i conflitti sociali e politici nel primo

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