Giuggianello. Un insolito stemma borbonico

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di Lucia Lopriore

 

Sulla facciata della vetusta chiesa sotto il titolo della Madonna Assunta, ubicata nella ridente cittadina di Giuggianello,è affisso un insolito stemma borbonico.

La chiesa, risalente al XVI secolo, è nota anche sotto il titolo della Madonna dei Poveri, per l’esistenza del cimitero che si estendeva intorno, utilizzato fino al 1892, che accoglieva le salme dei cittadini più poveri della comunità, oltre a quelle degli associati alla Confraternita dell’Assunta.

Il prospetto principale, dalle semplici linee architettoniche, presenta un sobrio portale, posto in asse, con una piccola finestra rettangolare. La chiesa subì importanti modifiche nel 1782, quando Ferdinando IV di Borbone, giunto in visita nel Salento, si adoperò affinché fossero consolidate le fabbriche danneggiate dal terremoto del 1743. Al di sotto dello stemma è affissa l’epigrafe che celebra l’evento e recita:

 

D.O.M.

DEI PARÆ IN COELUM ADSUMPTÆ

TEMPLUM HOC, QUOD TUNC CONGRE*NIS

IUJANELLI FRATRES POSUERE,

NUNC FERDINANDI IV BORBONII REGIS

PRIDIE NONAS FEBRUARIAS RELIGIO

 FRATRUM ASSENSU ROBORAVIT

ANNO VULGARIS ÆRE

CD. D. CC. LXXXII.[1]

 

 

L’edificio, inoltre, è dotato di un campanile a vela con due fornici.

L’interno, ad aula unica rettangolare con copertura a stella, è scandito da tre arcate per lato nelle quali si aprono brevi cappelle. Sono presenti alcuni dipinti su tela fra cui una Natività. Sull’altare maggiore campeggia la statua della Madonna Assunta.

 

Descrizione dello stemma:

 

Scudo sagomato in cartiglio.

 

Blasone:  partito di due, troncato di uno: nel 1° d’Angiò; nel 2° ripartito di Castiglia e di Leon, innestato in punta di Granada; nel 3° d’Aragona-Sicilia; nel 4° dei Farnese; nel 5°di  Gerusalemme; nel 6° dei Medici. Sul tutto, di Borbone.

 

Timbro: corona reale di (…) abrasa in cima [di otto fioroni (cinque visibili) sulle punte].

Pende dallo scudo l’ordine del Toson d’Oro.

Il tutto poggiante su mensola sovrastante l’epigrafe.

 

Considerazioni:

lo scudo, ben conservato, al contrario della corona che lo sormonta che si presenta abrasa in cima, è di ottima fattura. Nella quinta partizione presenta un’anomalia derivante dal probabile utilizzo, come modello, del verso delle monete coeve. In queste testimonianze monetali, infatti, appare evidente che lo zecchiere abbia alterato la partizione originaria giacché si osserva l’arbitraria sostituzione della croce potenziata scorciata accantonata da quattro crocette scorciate (Gerusalemme) con una croce accantonata da quattro gigli. Un errore, questo, che modifica ed altera lo stemma borbonico e lo rende insolito.

Circa gli altri ordini cavallereschi, che solitamente pendono dallo scudo, mancano: l’Ordine Costantiniano, l’Ordine dello Spirito Santo, l’Ordine di S. Gennaro, l’Ordine Reale di Carlo III di Borbone.

 

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2.



[1] Trad.: “Quando i confratelli di Giuggianello (si unirono) innalzarono questo tempio alla Madre di Dio Assunta in cielo, ora il 4 febbraio la religiosità di re Ferdinando IV di Borbone lo consolidò con l’approvazione dei confratelli, nell’anno dell’era volgare 1782”.

 

Gli argenti della cattedrale di Lucera

Un nuovo allestimento nel Museo Diocesano di Lucera impreziosito dagli Argenti della Cattedrale

 di Lucia Lopriore

In ricorrenza del settimo centenario della fondazione della Cattedrale di Lucera, la Diocesi Lucera-Troia, il Capitolo della Cattedrale di Lucera e l’Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici hanno patrocinato il bellissimo catalogo curato da Giovanni Boraccesi dal titolo Gli argenti della Cattedrale e del Museo Diocesano di Lucera, edito per i tipi delle Edizione Claudio Grenzi di Foggia (pp. 110, ill. B/n e colori, Foggia 2005, € 32,00).

Nella elegante veste editoriale, il testo analizza, con uno studio sistematico, oltre un centinaio di argenti liturgici, proprietà del Capitolo Cattedrale e del Museo Diocesano di Lucera, che insieme evedenziano i raffinati gusti dei vescovi locali e del patriziato cittadino, grazie ai quali la città si è arricchita della presenza dei più rinomati artigiani orafi che hanno prodotto opere di grande pregio artistico.

Essendo Lucera una città universalmente nota per il suo alto valore storico ed artistico, era importante creare un catalogo che inventariasse tutti i reperti relativi al tesoro della sua Cattedrale. Notoriamente Lucera è stata una delle sedi preferite dall’Imperatore Federico II, ma d’altrettanto rilievo fu il ruolo dei sovrani angioini, che eressero una fortezza costruita sulle vestigia del castello federiciano, nonché la Cattedrale di Santa Maria, uno dei più importanti monumenti religiosi in stile gotico.

L’indagine e la catalogazione eseguita dall’Autore del volume, preludono l’urgente restauro dei reperti oltre ad una adeguata conservazione degli stessi per preservarli da frequenti furti perpetrati negli ultimi anni. A tal fine, si è pensato di custodire tali tesori nel Museo Diocesano in modo tale da poter essere sempre prelevati ma, nel contempo, custoditi nel modo migliore.

Una significativa campionatura di produzioni dell’artigianato napoletano è rappresentata da pezzi databili tra il XVI ed il XIX secolo ma non mancano, se pure in minor numero, anche preziose opere provenienti da altre zone italiane, di cui alcune mai analizzate sotto l’aspetto critico, fatta eccezione per pochi pezzi unici di grande rilievo; per citare qualche manufatto: il reliquiario a pisside, databile intorno alla metà del XIII secolo, opera di ignoto artista musulmano e la Legatura di Evangelario, della metà del XIV secolo, che ha la peculiarità di essere punzonata con il più antico bollo della città di Sulmona.

Sono presenti nella collezione anche opere attribuite a Vincenzo Guariniello, Vincenzo Buonuomo, Paolo Savoia, Angelo Prizzi, solo per citare alcuni artisti, che impreziosiscono il cospicuo patrimonio di inestimabile valore.

Secondo l’Autore all’importanza dell’estetica di questi preziosi manufatti si aggiunge la caratteristica che gli stessi siano pregnanti della profonda spiritualità della Chiesa lucerina. L’uso di tali tesori durante le celebrazioni religiose, consentiva di poter essere ammirati da tutti i fedeli, gratificando i committenti e spronando altri ad emularli.

Sempre secondo l’Autore nel Museo Diocesano di Lucera sono confluiti i maggiori e più importanti oggetti sacri scampati alla dispersione e già di pertinenza dei conventi “possidenti” della città soppressi nei primi anni dell’800 dai sovrani napoletani ed in seguito nel periodo postunitario.

Ciò che è certo è che i documenti d’archivio disponibili, esaminati nel corso dello studio, non consentono una esaustiva conoscenza dell’attività orafa lucerina, dove non è accertata la presenza di maestranze nel periodo normanno, al contrario di ciò che si registra nella vicina Troia. Qui, infatti, è attestata la fabbricazione della due porte bronzee risalenti al 1132, della Cattedrale da parte di Odorisio da Benevento, che denotano la presenza di un tale Attum aurificem.

Alla luce di quando accertato è senz’altro lecito ipotizzare che nella città esistesse una complessa realtà legata all’arte teutonica nel periodo svevo al fine di soddisfare le richieste dell’imperatore e della sua corte. Così come il cronista del tempo Nicolaus de Jamsilla tramanda che nel palazzo imperiale di Lucera si custodivano diverse suppellettili in metallo pregiato, tempestate di pietre preziose, oltre a raffinate vesti.

A conclusione della relazione scientifica, l’Autore più che fornire risposte, formula ulteriori domande dovute ai limiti contingenti della ricerca che definisce non ancora conclusa in quanto una dettagliata analisi delle fonti storiche e la conseguente scoperta di nuovi documenti potranno risolvere ciò che ad oggi non è emerso.

Il dovizioso corredo iconografico, infine, completa il testo rendendolo di agevole consultazione.

L’industria del freddo in Età moderna. Le neviere nel Salento

ph Sandro Montinaro

di Lucia Lopriore

Da sempre l’uomo ha avuto l’esigenza di trovare refrigerio, specie durante la stagione estiva, attraverso l’assunzione di cibi e bevande fredde.

Oggi la tecnologia consente la produzione del ghiaccio artificiale in ogni casa, con frigoriferi, congelatori ecc., ma non sempre è stato così.

In passato l’uomo, per poter godere del privilegio di avere bevande e cibi freddi durante i mesi torridi, si ingegnò utilizzando ciò che la natura gli metteva a disposizione: la neve. Essa era merce preziosa ed un’abbondante nevicata era considerata una benedizione.

Con ogni mezzo l’uomo cercò di utilizzare questo prezioso genere anche quando madre natura non lo forniva, ossia durante la stagione estiva.

Nei paesi a clima temperato, l’utilizzo della neve era consuetudine sia per l’uso alimentare sia per quello medico: serviva per preparare sorbetti e bevande, per conservare i cibi, come riserva di acqua potabile per i periodi di siccità, ma era usata anche per curare febbri, ascessi, contusioni, ecc.

La neve veniva raccolta in luoghi esposti a nord, freschi ed umidi, quali sotterranei, grotte, scantinati e fosse oppure in costruzioni apposite, chiamate neviere.

Queste ultime assunsero forme e tipologie diverse in funzione della zona geografica in cui si trovavano ed a seconda delle necessità locali.

In talune zone dell’Appennino, le neviere erano delle semplici buche nel terreno, pressoché circolari, con diametro di 5-10 m. e profonde altrettanto, con pareti di rivestimento in pietra in cui veniva conservato il ghiaccio.

In altre zone, specie nell’arco alpino ma anche in molte zone appenniniche, erano delle vere e proprie costruzioni in muratura, con il tetto a due e a quattro falde, senza finestre e con la sola porta di accesso.

Quando la profondità della neviera lo consentiva, si formavano più strati di neve intervallati da strati di frasche e foglie secche, che avevano funzione isolante. Questo sistema consentiva di mantenere freddo lo strato più profondo, anche quando si estraeva la neve dagli strati più superficiali.

Per il trasporto della neve nei luoghi di utilizzo erano adottati vari sistemi: talvolta sul dorso di muli, altre volte, quando le vie lo consentivano, in carretti o slitte.

Lungo l’arco alpino, ogni malga aveva la propria neviera: serviva per conservare meglio il latte, in attesa dell’accumulo di una quantità sufficiente per l’avvio della lavorazione del formaggio.

Nelle zone vulcaniche le neviere consistevano in un cilindro, scavato nel terreno, con una sola apertura per il carico di neve fresca e per il prelievo del ghiaccio; per garantire un sufficiente isolamento termico la costruzione era ricoperta da un grosso cumulo di terreno. Esse avevano l’ingresso rivolto verso Nord, per ridurre l’irraggiamento solare diretto verso l’interno. Anche la porta d’ingresso era schermata da una fitta copertura di frasche.

In Sicilia fino agli inizi del ‘900, nei mesi invernali più rigidi quando la neve cadeva copiosa, molti contadini di Piana salivano sulla Pizzuta a lavorare nelle neviere di proprietà del comune di Palermo, poste all’inizio del versante occidentale della montagna. La neve, raccolta in buche scavate ad imbuto, era compressa su vari livelli in corrispondenza dei quali veniva inserito uno strato di paglia.

A Catania era molto diffuso il commercio della neve dell’Etna, pertanto, le neviere si trovavano nelle cavità naturali della montagna. La neve veniva trasportata in città e nei paesi limitrofi con carretti coibentati in maniera rudimentale; infatti, per evitarne lo scioglimento i venditori cospargevano il fondo del carro con uno strato di carbonella ricoperto a sua volta di felci; al di sopra di queste ultime si disponeva la neve avvolta in un telo di canapa protetto superiormente da un altro strato di felci.

In Val Mugone, le neviere erano profonde circa 57 metri ed avevano l’ingresso con uno scivolo inclinato che portava direttamente alla cavità, alla cui base era depositata un’enorme quantità di ghiaccio.

Nell’Appennino Umbro Marchigiano, le neviere erano delle strette depressioni esposte a nord, spesso a ridosso di pareti rocciose ed impervie. A Secinaro, vicino alla maestosa catena del Sirente, i nevaroli sin dal ‘500 erano soliti risalire il monte, fino alla neviera, dove si calavano con scale e corde per tagliare i blocchi di ghiaccio e riportarli a valle in gerle di vimini, avvolte in foglie secche isolanti, sul dorso di asini e muli.

Nell’Altopiano delle Murge le neviere erano distribuite soprattutto presso le masserie e nei declivi dei campi; avevano la forma di un parallelogramma con volta a botte ed un piano di calpestìo formato da terriccio ricoprente le lastre adagiate sulla volta per neutralizzare il calore in maniera uniforme. Esse avevano, inoltre, una o due aperture laterali murate o chiuse con porte di legno che servivano per prelevare il ghiaccio mentre la neve veniva infilata dalla bocca posta alla sommità della volta. Sul fondo, all’interno, si deponevano dei fasci di sarmenti il cui scopo era quello di evitare che le neve venisse a contatto con il suolo e potesse sciogliersi o inquinarsi. La neve appena caduta veniva raccolta e, ancora fresca, veniva trasportata sui vaiardi, simili a portantine,perché i traini erano ingombranti e non potevano entrare negli erbaggi senza provocare danni; oppure, si formavano grosse palle di neve e si lasciavano rotolare dall’alto verso il fondo della valle dove erano collocate le neviere. Solo la neve raccolta lontano dalle neviere era trasportata sui traini. Una volta raccolta la neve veniva immessa nella neviera dall’apertura sulla volta mentre le porte laterali restavano chiuse sino al prelievo del ghiaccio. I fasci di sarmenti isolavano la neve dal fondo su cui si lasciava cadere un tubo che serviva per pompare l’acqua che lentamente si accumulava. La neve veniva compressa affinché la neviera potesse contenerne grandi quantità.

ph Sandro Montinaro

Nel Salento il commercio del prodotto era destinato soprattutto all’esportazione, fuori dall’Alta Murgia, verso i paesi costieri. Altamura, Minervivo, Santeramo, Locorotondo ed altri comuni erano i maggiori esportatori di neve. La neve venduta era di due tipi: quella bianca, per uso alimentare e medico, e quella grezza o nera destinata ad altri usi.

In epoca bizantina il territorio salentino era organizzato come provincia dell’impero. Il paesaggio agrario era costituito da muretti a secco che delimitavano le proprietà, costruzioni a secco (furnieddhi) tronco piramidali e tronco coniche che costituivano le case dei contadini, si diffusero nella campagna della “Grecia Salentina”. Con il tempo tali costruzioni si arricchirono di scale esterne e nicchie interne. Spesso intorno alle costruzioni era costruito un recinto per gli animali. Negli avvallamenti naturali del terreno, una serie di cisterne, le pozzelle, raccoglievano e conservavano l’acqua piovana filtrata e arricchita da sali, attraverso il drenaggio del terreno. Le pozzelle risolsero in maniera geniale il problema dell’approvvigionamento idrico.

La tipologia architettonica delle neviere variava di zona in zona. In alcune parti del Salento, ed in particolare a Cellino San Marco, ancora oggi, presso la Tenuta Monte Neviera, nella Contrada Veli, sorge maestosa Villa Neviera o Torre del Rifugio, così chiamata per aver ospitato Sua Maestà Re Vittorio Emanuele III. La villa, chiamata comunemente dagli abitanti del luogo, castello, fu costruita nel 1888, ed è ancora oggi ben conservata, è una vera e propria costruzione costituita da più ambienti, qui fu ospitato il marchese Antonio De Viti De Marco. Riportata al suo originario splendore da un accurato restauro, è attualmente abitata. Essa deve il suo nome alla capacità di conservare anche nei periodi primaverili ed estivi, le scorte di neve all’interno delle sue cantine.

La neviera ubicata nei pressi della masseria Corillo fu edificata probabilmente nel XV secolo. L’edificio di forma rettangolare è scavato nel tufo con volta a botte e sorge sui terreni di pertinenza del complesso della masseria. Tale neviera, è una manifestazione significativa dell’architettura ipogea salentina, scaturita dalla necessità di sopperire alla mancanza di acqua nel periodo estivo. Si raccoglieva la neve nel periodo invernale e si conservava ammassata in queste stanze sotterranee coperte da una volta di pietre e da terreno vegetale. Scavata nella roccia tufacea per una profondità di circa sei metri, a pianta rettangolare e coperta a botte, ha l’accesso mediante una finestrella aperta a piano di campagna su uno dei lati più corti.

Esiste poi la neviera “Cerceto” di Cannole, localizzata all’interno del complesso della masseria, dal quale prende il nome. Risale forse al IX secolo, epoca di costruzione della masseria. In questo caso la neviera ha una struttura simile ad una cisterna, interamente scavata nella roccia; la neve veniva pigiata e coperta con strati di paglia, di piume e di stracci per conservarla quanto più a lungo possibile. All’inizio della stagione calda la neve veniva venduta ai mercati, con notevoli proventi.

Altra tipologia costituisce il “puddaru Neviere” che è situato in una delle campagna di Poggiardo. Si tratta di un elemento architettonico tipico della la civiltà contadina del posto. Il “puddaru” è situato in una delle campagne circostanti il territorio di Poggiardo. Esso prende il nome, “Neviere”, dalla campagna dove è ubicato. Costruito interamente con pietre a secco, presenta una base circolare e una struttura a campana. Sulla facciata si apre un’ampia porta d’ingresso con architrave. Si tratta di una struttura che i contadini usavano per riporre e allevare i polli, da qui il nome “puddaru” ossia pollaio. Nelle campagne circostanti di Poggiardo, così come anche dei paesi limitrofi, si possono visitare numerosi manufatti del genere, con diverse tipologie.

Sandro Montinaro parlando delle neviere di Cacorzo afferma che : “[…] la località “Cacorzo” è uno dei primi nuclei abitativi di Carpignano. Intorno ci sono le neviere che si presentano come anfratti sotterranei profondi circa tre quattro metri, alcune grotte un tempo abitate, il santuario della Madonna della Grotta con la cripta e la torre colombaria più grande ed austera del Salento. Sull’architrave della porta della colombaia (Palumbaru) ci sono gli stemmi Del Balzo e al centro quello dei Del Balzo-Acquaviva […]”

Sempre nel Salento altre tipologie di neviere sono ubicate nelle zone di Matino, Vernole, Neviano, Casarano, Ugento, Tricase, Corigliano, in quest’ultimo centro se ne contano otto, a Lequile sei.

Per quanto riguarda quelle preistoriche, i centri di Alessano e Supersano vantano una discreta presenza, mentre quelle di epoca rinascimentale sono ubicate nelle zone di Galatina e Maglie.

In queste zone le neviere sono scavate nella roccia ad una profondità che si aggira intorno ai cinque o sei metri, a pianta quadrata o rettangolare dalla larghezza di circa dieci metri, coperte con volte a botte cui si accedeva mediante una piccola finestra collocata da un lato a piano di campagna.

In territorio di Cutrofiano è ubicata una neviera presso la masseria “Nevera”, ed in territorio di Acaja, presso la masseria Favarella, ve ne sono altre.

Nei dintorni della la masseria Mollone, nel territorio di Copertino, c’è una struttura che dicono sia stata in passato una cripta bizantina poi trasformata in neviera nei secoli successivi.[1]

La presenza di tante neviere nel Salento, ed in provincia di Lecce in particolare, mette in luce un aspetto dell’economia locale che in passato ebbe grande rilievo.[2]

Dai primi anni del Novecento la fornitura di neve fu soppiantata dalla produzione di ghiaccio industriale venduto fino a tempi recentissimi, ovvero fino a quando non entrò nelle case il frigorifero. Così si concludeva un’era di tradizioni e di folclore lasciando spazio solo ai ricordi.

 

Foto di Sandro Montinaro: Carpignano Salentino, località Cacorzo, neviera sita nei pressi della colombaia e del santuario della Madonna della Grotta.

 

Pubblicato su Spicilegia Sallentina n°7. 

Bibliografia essenziale:

Amici del Menhir, Costantini A., Del modo di conservare le acque e la neve, in “Sallentum a. XI nn.1-2.

Costantini A., Guida ai monumenti dell’architettura contadina del Salento, Galatina 1996.

Lopriore L., Le neviere in Capitanata – affitti, appalti e legislazione, Foggia 2003.

http://forum.meteonetwork.it/nowcasting-discussioni-climatiche-italia-meridionale-insulare/97818-domani-domenica-alta-probabilita-neve-23.html

http://www.turismo.provincia.le.it/home/risorse.php?id=220

http://www.proloco-zollino.it/default.asp?pagina=arte_territorio

http://culturasalentina.forumattivo.com/tradizioni-popolari-f10/le-neviere-salentine-t407-30.htm

http://static.panoramio.com/photos/original/4684206.jpg

 


[1] Si ringrazia Fabrizio per la notizia.

[2] Si ringrazia Stefano Cortese per aver gentilmente fornito le ultime notizie sulle neviere del Salento.

Il culto di Sant’Antonio da Padova in Capitanata

Orta Nova (FG) Statua di S. Antonio da Padova (ph. Savino Gaeta)

di Lucia Lopriore
“L’Autentico religioso appartiene concretamente al piano della storia. Non collegato solo a periodi intrisi di forte spiritualità e di magistero della chiesa, come il Medioevo o l’età della Controriforma, si manifesta comunque di più quando il “silenzio di Dio” nelle tragedie collettive esaspera la valenza negativa del quotidiano. Con il suo potenziale di annuncio e liberazione, l’autentico religioso continua a rimanere elemento coagulante delle comunità che avvertono vivo il senso del sacro. E questo è ancora coglibile nei centri minori dove la carica culturale tradizionale, incarnata nelle forme della religiosità popolare, resiste meglio alla speculazione razionale e all’imperativo  della tecnologia che irrompe con le sue liturgie.”

Così esordisce Filippo Fiorentino, storico scomparso di recente, parlando della devozione per la religiosità popolare in relazione ai culti presenti nel Gargano.

In particolare, secondo Fiorentino, in quest’area il fenomeno religioso continua ad alimentare processi di coesione sociale, senza essere però solo esperienza storica di rapporto culturale che funziona nella quotidianità o solo coinvolgimento che legittima la realtà sociale plasmandone, attraverso il Vangelo, gli stili di vita e le scelte. La fede ha incontrato sempre la vita, il sentire, l’operare, il produrre della gente.

Nelle turbolenze esistenziali, nella ricerca del benessere e del progresso tecnologico, le comunità “marginali” del Gargano hanno sperimentato sia liberazione che secolarizzazione attraverso la dimensione culturale, attraverso la figura di affidamento miracolistico del Santo protettore. Così il culto per Sant’ Elia patrono di Peschici, o per San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo, o per San Valentino a Vico, o per altri santi patroni venerati in questa zona, rappresenta l’evento determinante per la popolazione del luogo.

Il Gargano è da sempre la terra delle tradizioni. Osservando più da vicino questo fenomeno strettamente connesso a contesti di religiosità popolare, emerge lo stimolo per analizzare attentamente tale fenomeno attraverso la devozione dei Santi patroni.

Da tempi immemorabili, in ogni centro urbano che si rispetti tutti dovevano contribuire ai festeggiamenti del Santo patrono. Artigiani, commercianti esercenti arti e professioni ogni anno erano invitati a versare laute somme per le spese dei festeggiamenti.

Alcune categorie, come ad esempio quella degli appaltatori, erano obbligate dai comuni a versare una quota sugli appalti (vendita di carne, farina, neve, sale,

Le tradizioni gastronomiche del Natale in Capitanata: la pizza a sette panni

di Lucia Lopriore

La Capitanata è una terra ricca di antiche tradizioni. Il Natale, in particolare, è una delle festività maggiormente sentite, se pure il consumismo degli ultimi cinquant’anni ha modificato, sotto certi aspetti, tante cose.

Anticamente, quando la fame e la miseria dilagavano nella maggior parte delle case, con le poche provviste derivanti dai frutti che la terra offriva, le massaie, in occasione delle imminenti festività natalizie, preparavano i tradizionali dolci. Nei giorni immediatamente precedenti a questa ricorrenza, l’aria era inebriata dal profumo zuccherino dei dolciumi che fuoriusciva dalle finestre delle abitazioni, perché solo in questa occasione ci si dedicava alla preparazione delle specialità dolciarie tradizionali, per la gioia di grandi e piccini. Tra queste, ancora oggi, ad Ortanova, un paese in provincia di Foggia, sulle tavole natalizie non può mancare un gustosissimo dolce natalizio: la pizza a sette panni.

Si tratta di un dolce formato da sette sfoglie inframmezzate, tra una sfoglia

Il culto della Madonna Incoronata di Foggia

di Lucia Lopriore

La devozione mariana, soprattutto in ambito locale, stabilisce la totale prevalenza tra le scelte coeve dell’immagine della Madonna sotto i diversi titoli.

Si deve innanzitutto affermare che nei centri della Capitanata tale devozione, espressa sotto le diverse forme, è stata sentita e riproposta attraverso analisi storiche del fenomeno dalle quali si evince la presenza di una religiosità popolare sentita in modo pregnante.

Importante è accertare la provenienza storica, religiosa e culturale di tale culto che, generalmente, è fatto rientrare tra le pratiche più direttamente connesse a contesti di riferimento popolare.[1]

Il fenomeno dei pellegrinaggi mariani, in particolare, è senz’altro riconducibile alla transumanza.[2] Tra le mete dei pellegrini non può mancare la visita al santuario dell’Incoronata di Foggia. Tale titolo è dovuto alla corona che cinge il capo della Madonna. Il culto per la Madonna Incoronata risale all’XI secolo quando la Ella manifestò la Sua presenza su una quercia nel bosco l’ultimo sabato di aprile. Secondo la tradizione Ella apparve al conte di Ariano[3] mentre questi si trovava nella foresta  nei pressi del fiume Cervaro. Durante la notte una luce vivissima attraversò la selva. Il Signore attratto dal chiarore giunse ai piedi di una quercia dalla cui

I documenti della Terra d’0tranto nell’Archivo General de Simancas

 

di Lucia Lopriore

 

L’Archivo General de Simancas, ubicato a Valladolid fra la bella terra di Castiglia e Leon, fu istituito per volere di Carlo V e completato da suo figlio Filippo II, in un edificio progettato da Juan de Herrera, affinché le generazioni di archivisti potessero mantenerlo onde evitare la perdita e il deterioramento dei documenti.

interno della biblioteca di Simancas

Esso custodisce tutta la documentazione prodotta dagli organi di governo della monarchia spagnola dai tempi di Ferdinando e Isabella (1475) fino al regime liberale (1834). E’ il fondo documentario più omogeneo e completo della memoria storica di Spagna relativo ai secoli XVI e XVIII.

Da qualche anno il suo inventario è stato informatizzato ed alcuni documenti sono stati digitalizzati.

Per poter accedere basta cliccare sul link:

http://www.mcu.es/archivos/MC/AGS/Presentacion.html

Da qui si aprirà la pagina di presentazione e, cliccando sui vari links relativi alle voci che interessano, si potranno ricevere tutte le informazioni necessarie per una più semplice ed agevole consultazione.

E’ senz’altro questo un servizio di grande efficienza poiché l’informatizzazione dell’inventario evita lunghi viaggi ed aggravi di costo agevolando la ricerca.

Importanti documenti nell’archivio Caracciolo – de’ Sangro di Martina Franca

di Lucia Lopriore

In relazione a quanto scritto in precedenza sull’archivio Caracciolo – de’Sangro di Martina Franca, tra i tanti documenti presenti se ne segnalano alcuni di particolare importanza:

 

Dal fondo Buccino Generale:

 

1648 – 1848

  • Rep. 25 in Ordinamento del Petter
  • F.3-n.4 in Ordinamento per Fasci
  • A.1-V.2-n.31 in Pandetta per armadi

Lettere di ringraziamento del re Filippo IV d’Asburgo a Francesco I e Beatrice Caracciolo, duchi di Martina, per la fedeltà dimostrata alla corona da parte della famiglia Caracciolo in occasione dei tumulti antispagnoli del 1647/48 verificatisi nel Regno di Napoli.

fascicolo di cc. 3

 

Dal fondo Buccino Speciale:

 

1560 – 1780

Il feudo di Mottola.

2 fascicoli, 201 cc. e 24 pp.

  • B.S. 61/42 in Inventario notarile
  • A.1-V.2-n.1 in Pandetta per armadi
  • F.2.n.1

Estratti legali di patenti di nobiltà che comprovano di essere l’eccellentissima Casa ducale di Martina la primogenita, ossia il ceppo della famiglia Caracciolo dal 1292 al 1306

fascicolo cartaceo e membranaceo, 13 cc. e 7 pergamene

Uno scrigno di preziose informazioni: l’Archivio Caracciolo – de’ Sangro di Martina Franca

di Lucia Lopriore

Il Salento terra dove arte, folklore e tradizione fungono da corollario nella storia del territorio, conta la cospicua  presenza di archivi pubblici e privati a testimonianza di una lunga storia. Questi luoghi, spesso dimenticati e frequentati, quasi sempre, da studiosi appassionati o dagli addetti ai lavori, restano sconosciuti ai più.

In genere gli archivi sono considerati come luoghi polverosi e monotoni dove non c’è nulla di interessante. Ovviamente, così non è, perchè gli archivi, al contrario, rappresentano, con le loro preziose carte, un patrimonio importante di notizie dove si può ricostruire dettagliatamente la storia del proprio paese. Tra i tanti è utile segnalare l’archivio Caracciolo – de’Sangro di Martina Franca.

Questo archivio, custodito nella Biblioteca Comunale “Isidoro Chirulli”, raccoglie 1322 buste ed è strutturalmente suddiviso in due sezioni, la Sezione Antica e la Sezione Contemporanea.

 

SEZIONE ANTICA

Venne donata al comune di Martina Franca nel 1978, per disposizione testamentaria dell’ultimo duca di Martina, Riccardo de’ Sangro. Comprende materiale cartaceo e pergamenaceo tra la metá del XIV sec. e l’inizio del XX sec., ed è stata oggetto di vari riordini, il primo dei quali affidato all’archiviario Giuseppe Petter nel 1790.

Il secondo riordino è documentato da una Pandetta organizzata per Armadi, all’interno dei quali, la documentazione venne riposta ordinata per argomento, riconducibile alla metá del XIX sec.

Il terzo ed il quarto rimaneggiamento di questa sezione d’archivio, sono presumibilmente contemporanei e contingenti una divisione ereditaria degli inizi del XX sec.; in effetti, quasi contemporanei risultano un Inventario dell’archivio della Casa de’ Sangro organizzato per fasci ed un inventario notarile, quest’ultimo redatto tenendo ben separate le carte per asse

I Pignatelli: aristocratici a Napoli e in Europa

I Pignatelli: aristocratici a Napoli e in Europa

di Lucia Lopriore

Fresco di stampa il meraviglioso volume edito dalla casa editrice foggiana, Edizione del Rosone “Franco Marasca”, che inaugura una nuova collana editoriale sulle genealogie e l’araldica diretta da chi scrive, autore Davide Shamà, titolo: “L’Aristocrazia Europea ieri e oggi. Sui Pignatelli e famiglie alleate”. (pp.326, ill. B/n e colori, Foggia 2009, prezzo € 35,00).

Questo primo volume tratta della genealogia di una tra le più importanti casate europee: i Pignatelli.

L’autore a tale riguardo nell’Introduzione scrive:

Questo lavoro è nato con l’intento di presentare una genealogia attendibile dei Pignatelli e di studiare i rapporti parentali con le famiglie alleate. Fin dal XVI secolo sono numerosi gli autori che  hanno trattato questa dinastia, ma nessuno si è occupato di presentare, in tempi moderni, una genealogia completa di dati e informazioni araldiche. Se si escludono le note sparse di Ammirato, Mazzella e altri minori, il primo ad aver pubblicato qualcosa di importante in merito è stato Filiberto Campanile agli inizi del XVII secolo. A questo seguì Carlo de Lellis, che a parte vari aggiornamenti e correzioni, riprese tale e quale l’impostazione del lavoro del predecessore. Questi autori soffrono, chi più e chi meno, dei limiti della storiografia seicentesca, basata, specie per il periodo medioevale, su leggende, su veri e propri travisamenti delle fonti o, peggio ancora, su falsificazioni. Il tedesco Jakob Wilhelm Imhoff, uno dei maggiori genealogisti del suo tempo, agli inizi del XVIII secolo definì la genealogia Pignatelli in una prospettiva più internazionale, indagando i matrimoni con le nobiltà spagnola e belga (nobiltà imperiale), che aveva studiate minuziosamente. Com’è noto, Imhoff pubblicò importanti volumi che ancora oggi sono considerati fondamentali. Dopo il XVIII secolo non si segnalano opere di così larga prospettiva ed erudizione. Bisogna arrivare alla fine dell’ottocento con la genealogia manoscritta di Livio Serra di Gerace, oggi all’Archivio di Stato di Napoli, per trovare un lavoro moderno. Il manoscritto si presenta come una semplice raccolta di dati anagrafici e nominativi riportati in uno schema genealogico. Si ferma, all’incirca, al 1919. La scarna documentazione, per quanto attenta, contiene però vari errori e incongruenze. Per la parte medioevale, tra l’altro, Serra non dà particolari indicazioni e si limita a far cominciare lo schema dal XIV secolo, sull’esempio di de Lellis, Imhoff e Campanile. Il presente lavoro tenta di correggere, integrare, modificare e aggiornare tutte queste fonti e propone una ricostruzione della genealogia più antica a partire dal XI secolo.

La successione delle prime generazioni è da considerare ipotetica, ma è almeno verosimile da Giovanni, ambasciatore napoletano all’incoronazione di Federico II di Svevia nel 1220. Questo personaggio è il probabile genitore di un Riccardo Pignatello de Caserta, da cui la genealogia continua certa fino ad oggi. I pochi documenti coevi rimasti, i nomi ricorrenti da generazione in generazione, le cariche e i possessi, orientano la ricostruzione in questo senso.

Documentati dal XI secolo, i Pignatelli sono una famiglia prettamente napoletana, conosciuta con il cognome de Domina Maria, che possiede parecchi beni a Napoli e nei suoi dintorni. Secondo de Lellis la loro influenza si estendeva fino a Caserta, dove è attestato che vari personaggi del casato ebbero beni e incarichi per tutto il XIII secolo fino agli inizi del secolo successivo. E’ da escludere che discendessero da un console napoletano di nome Lucio vivente nel 1102, essendo questo personaggio privo di documentazione storica. Durante il periodo angioino appartengono alla classe cavalleresca e ricoprono cariche amministrative di varia importanza. Alla creazione dei seggi si aggregarono al Seggio di Nido. Al tempo di Carlo III di Durazzo (1381-1386), con un Angelo Pignatelli, iniziò l’ascesa della dinastia. La linea maggiore fu quella di Monteleone, originata da Carlo (1421-1476), pronipote di Angelo. La prima alleanza importante, senz’altro uno dei fattori dell’ascesa sociale, si ha con Caterina, figlia di Carlo, moglie di uno dei maggiori feudatari del Regno di Napoli, Onorato Gaetani Conte di Fondi. Ettore († 1535), figlio di Carlo, entra nell’amministrazione napoletana come molti nobili del tempo e diviene ben presto favorito del Re Federico. Conserva il favore con Ferdinando II d’Aragona e diviene poi uomo di fiducia dell’Imperatore Carlo V. Questi lo ricompensa con titoli, feudi e onori, e lo tiene tra i più stretti collaboratori italiani. Ricordo solo che ebbe il governo vicereale della Sicilia per quasi diciotto anni, caso più unico che raro nella serie dei governatori spagnoli in Italia. Egli e i discendenti accumularono un enorme patrimonio feudale in Calabria, che aveva il suo centro nel ducato di Monteleone. Lo stato era vincolato, cosa strana per le consuetudini del tempo, da un fidecommisso che permise la sua  trasmissione intatta per vari secoli. La fusione tra le linee di Monteleone e di Noia, a seguito del matrimonio tra Girolama Duchessa di Monteleone con il lontano cugino Fabrizio Principe di Noia (1615), espanse ulteriormente il patrimonio feudale. A questa fusione ne seguì un’altra ancora più importante nel corso del XVII secolo quando, per alleanza, entrarono in casa Pignatelli tutti i feudi, titoli e beni della famiglia Tagliavia d’Aragona, una delle più cospicue della Sicilia. La linea che ne derivò, i Pignatelli Aragona Cortes, s’impose  tra le dinastie napoletane più influenti del meridione e tra le prime cinque siciliane per numero di feudi e cariche ereditarie detenute. Erano l’asse attorno al quale ruotava la stirpe. Esclusi pochi casi, quasi tutti i membri più influenti e celebri appartenevano a questo ramo. I Pignatelli Aragona Cortes ebbero incarichi, onorificenze e contrassero matrimoni con la più importante nobiltà iberica. Almeno nel corso del XVII secolo ebbero una influenza grandissima nell’area spagnola. Una sua linea si trasferì in Spagna, dove tuttora fiorisce, e nel XVIII secolo ebbe almeno un importante diplomatico. Anche nell’ambito ecclesiastico si distinsero con vari cardinali (ma nessuno arrivò al soglio pontificio, privilegio che toccò, invece, ad Antonio Pignatelli, appartenente alla linea principesca di Minervino). Tra i feudi spicca il marchesato americano della Valle de Oaxaca (detto Vaglio), concesso a Hernán Cortés, il celebre conquistatore del Messico e distruttore della civiltà azteca, ereditato tramite le famiglie Hurtado de Mendoza e Tagliavia Aragona. Le sue ricchezze furono cospicue ed è noto che ancora nella prima metà del XX secolo godevano di rendite messicane. Questa immensa fortuna scomparve del tutto agli inizi del passato secolo. Il terzo grande patrimonio che entrò in casa Pignatelli Aragona Cortes fu quella dei principi Piccolomini d’Aragona principi di Valle. A seguito di tale alleanza raggiunsero la massima espansione per domini, entrate feudali e vassalli negli ultimi decenni del XVIII secolo.

Accanto alla linea primogenita di Noia si distinse, a cavallo tra ‘700 e ‘800, il ramo dei principi di Strongoli, le cui gesta legate alla rivoluzione napoletana del 1799 e al regime murattiano è inutile ricordare in due righe tanto sono celebri.

L’unica altra linea che per importanza si potrebbe paragonare è quella ducale di Bisaccia, che sulla fine del XVII secolo ereditò le ragioni degli Egmont. Trasferiti a Bruxelles e poi a Parigi, i Pignatelli d’Egmont si legarono con le principali dinastie francesi e belghe. Il Principe Casimiro Pignatelli d’Egmont (1727-1801) ricoprì la carica di ministro plenipotenziario per conto del Re Luigi XV e governò alcune province francesi. Possedeva beni e feudi in Belgio, in Francia, nello Stato Pontificio e nel Regno di Napoli.

Nei tempi moderni la dinastia è decaduta dagli antichi fasti, e nel XX secolo parecchi Pignatelli hanno brillato solo nelle cronache mondane. Rovesci finanziari ed eccentricità hanno minato irreversibilmente l’importanza e lo status sociale di alcune linee. Forse l’unico personaggio storico ancora degno di nota è il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara (1886-1965), che ebbe un’esistenza avventurosa tra guerre, fascismo e intrighi politici di ogni genere, ancora tutta da studiare. Se dal lato storico c’è stata una decadenza evidente, invece alcuni membri della dinastia si sono distinti nelle arti. Giuseppe (detto Pepito) Pignatelli Aragona Cortes (1931-1981) è stato un famoso batterista e animatore di alcuni dei maggiori locali jazz d’Italia, noto a livello internazionale, mentre la zia Maria Anna (detta Mananà) (1894-1960), scultrice e pittrice di talento, fu mecenate di pittori e musicisti insieme al marito Guido Sommi Picenardi. In entrambi i casi, però, mancano ancora studi adeguati sugli effettivi meriti e sull’influenza esercitata nel loro contesto socio-culturale. Non escludo che future e più approfondite ricerche riserveranno interessanti sorprese.

 Sono sopravvissute fino ai nostri giorni le linee di Monteroduni, di Montecalvo, di Noia-Terranova, di Cerchiara e di Fuentes-Monteleón. Già nel medioevo sono attestati parecchi personaggi d’incerta collocazione, forse qualcuno ha anche dato origine a dei rami che, in qualche modo, sono arrivati fino ai tempi recenti. In mancanza di documentazione convincente e provata, ma soprattutto perché omessi fin dalle fonti più antiche, si è preferito tralasciarli. Saranno oggetto di una ricerca più approfondita in una prossima edizione del presente volume.

Per quanto riguarda le titolazioni, i trattamenti di Don e Donna sono stati limitati alle sole dinastie con titoli ducali e principeschi, com’era in uso prima dell’inflazione avvenuta nel periodo spagnolo, e per tutti i nobili spagnoli nella loro lingua originale come da tradizione araldica di quel paese. I titoli moderni italiani sono indicati anche dopo la caduta della monarchia, ma si è preferito considerare la situazione legislativa come congelata agli Elenchi Ufficiali pubblicati e ai riconoscimenti avvenuti fino al 1946. In effetti, il vecchio ordinamento nobiliare sarebbe in urto con parecchie novità introdotte dal nuovo diritto di famiglia del 1975, che renderebbero problematiche le attribuzioni e le successioni dei vari titoli. Per questo motivo, e perché privi di copertura giuridica o perché difformi dalla vecchia legislazione del Regno d’Italia, non sono indicati i riconoscimenti (o concessioni) effettuati da Re Umberto II in esilio, dal Corpo della Nobiltà Italiana, da ordini cavallereschi e da entità statali straniere. I titoli stranieri moderni sono riportati come in origine o secondo la legislazione degli stati che attualmente riconoscono i titoli e la nobiltà, limitando le correzioni  solo dove strettamente necessario. Gli aggiornamenti sui viventi sono riportati fin dove è stato possibile. Infine, ho preferito omettere informazioni specifiche inerenti la vita privata dei personaggi viventi (professioni, titoli di studio ecc.). Solo in alcuni casi eccezionali sono state riferite le vicende personali che ebbero riscontri sulla genealogia in tempi recenti”.

Suddiviso in undici capitoli, il volume si apre con la summenzionata Introduzione, per poi entrare nel vivo della trattazione delle varie linee della casata.

Il primo capitolo parla della linea antica, qui l’autore si sofferma ampiamente sulle origini del cognome Pignatello che si affermò a partire dalla metà del XII secolo, nascendo come soprannomen della famiglia napoletana dei De Domna Maria, come attestato da vari documenti del monastero di San Gregorio Armeno. Pertanto, la tradizione genealogica secondo cui il primo esponente noto della famiglia fosse Lucio Pignatelli, Console di Napoli nel 1102, nome proprio peraltro non presente nei documenti napoletani di epoca ducale e normanna, è da ritenersi falsa, così come sono da ritenersi frutto dell’invenzione dei genealogisti del XVI secolo i suoi discendenti Giordano e Ridolfo.

Segue il secondo capitolo che tratta dei marchesi di Casalnuovo, il terzo dei principi di Monteroduni e della Leonessa, il quarto dei principi di Strongoli e duchi di Roccamandolfi, il quinto dei duchi di Montecalvo e marchesi di Paglieta, il sesto dei duchi di Monteleone e conti di Borrello, il settimo è dedicato alla linea Pignatelli Aragona Cortes – principi del SRI, di Noia, di Strongoli e di Belmonte, nel capitolo ottavo si parla della linea illegittima dei principi di Strongoli, nel nono dei principi di Minervino e dei marchesi di Spinazzola, nel decimo dei principi di Marsiconovo, e dulcis in fundo, l’undicesimo capitolo parla della linea di Egmont, dei principi di Gavre e duchi di Bisaccia.

Un’ampia trattazione che, per la prima volta in assoluto, si avvale di una ricerca capillare svolta anche presso gli archivi privati appartenenti a vari rappresentanti della famiglia. Un’opera unica che rappresenta  senz’altro  un genere letterario altamente scientifico nel quale il testo si inserisce, a pieno titolo, nel novero delle ricerche svolte secondo criteri agnatistici e cognatistici essenziali per tramandare la memoria storica alle generazioni future.

Il volume è altresì corredato da un dovizioso apparato iconografico, con foto d’epoca inedite, opera della laboriosa ricerca dell’autore, svolta presso gli archivi privati dei rappresentanti la famiglia, nonché dell’archivio privato del fotografo Giovanni Battista Brambilla, e di alcuni corrispondenti e collaboratori dell’autore stesso.

Conclude il testo una splendida Appendice che tratta delle famiglie principesche che hanno assunto il cognome Pignatelli per eredità, a cura dell’autore, ed un preziosissimo Blasonario, composto di 120 stemmi a colori, curato da Loris Castriota Skanderbegh,  esperto in storia delle famiglie aristocratiche europee ed Araldica.

Il volume è acquistabile dal catalogo on line della casa editrice al link: www.edizionidelrosone.it oppure si può ordinare all’indirizzo e- mail: edizionidelrosone@tiscali.it.

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