L’Immacolata Concezione giordanesca conservata nella chiesa dell’Immacolata a Latiano

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 immacolata latiano

Domenico Ble, L’Immacolata Concezione giordanesca conservata nella chiesa dell’Immacolata a Latiano

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 263-267.

 

ITALIANO

Il fenomeno della pittura giordanesca ha avuto una grande importanza e diffusione in Terra d’Otranto tra il XVII e l’inizio del XVIII secolo. La circolazione delle opere del maestro Luca Giordano o degli elaborati dei suoi allievi ha così influenzato la maniera di diversi pittori locali. La pittura giordanesca ha interessato anche Latiano con la tela dell’Immacolata Concezione conservata all’interno dell’omonima chiesa: per anni scarsamente valorizzata e non adeguatamente posta in risalto per il suo valore artistico, in questo articolo viene collocata all’interno di un panorama pittorico ben più ampio. In riferimento al suo artefice si può dunque passare dal generico «autore ignoto» ad un più opportuno «pittore giordanesco».

 

ENGLISH

The phenomenon of the Giordanesca painting has had a great importance and diffusion in Terra d’Otranto between the seventeenth century and the beginning of the eighteenth century. The circulation of Luca Giordano’s works or of his pupils’ papers has influenced the manner of many local painters. The Giordanesca painting has affected also Latiano with the canvas of the Immacolata Concezione (the Virgin) kept in the interior of church with the same name: under-appreciated for years and not enough highlighted for its artistic value, in this essay it is placed on the inside of a much wider pictorial panorama. Referring to its author we can pass from the generic «unknown author» to a more veritable «giordanesco painter».

 

Keyword

Domenico Ble, Luca Giordano, Latiano, Immacolata Concezione

Girolamo Cenatiempo nella chiesa del SS. Crocifisso di Taranto

 

di Nicola Fasano

Nella valorizzazione del patrimonio storico artistico di Taranto non si può trascurare l’importante contributo del pittore napoletano Girolamo Cenatiempo, artista allievo di Luca Giordano, che nel capoluogo ionico realizzò due tele di grande formato raffiguranti: il Martirio di San Bartolomeo e la Visione dei SS. Gregorio e Benedetto Abate. Tralasciando la prima opera, la cui firma mette fuori discussione dubbi attributivi, la seconda non autografa, in un primo momento era stata attribuita allo stesso Cenatiempo da parte dello storico francescano Padre Benigno Perrone (cfr. P.B.P.Perrone  in  I conventi della serafica Riforma di San Niccolò in Puglia, 1590-1835, Galatina 1981 p. 62) e uccessivamente ricondotta da Galante a Paolo De Matteis (cfr. L.Galante, Per la fortuna della pittura napoletana Puglia in  Ricerche sul Sei-Settecento in Puglia III, Fasano 1989 p.240), grande interprete della pittura tardo-barocca a Taranto.

Sarebbe forse il caso, invece, di soffermarsi e concentrare l’attenzione, come propone questo breve scritto, anche sugli elementi che potrebbero confermare come giusta l’intuizione del francescano, che per primo ricostruisce le vicende dei due dipinti.

Entrambi provenienti dalla demolita chiesa francescana di Sant’Antonio di Padova, vennero donati al municipio insieme ad altre suppellettili (tra cui lo splendido crocifisso ligneo del XVI sec.), per poi essere trasferiti nella chiesa del SS. Crocifisso intorno al 1875, edificio che custodisce le due tele in cornici marmoree mistilinee esposte nei bracci del transetto. Il Cenatiempo (documentato tra il 1705 e il 1742) godette di buon prestigio presso i Domenicani e i Francescani, lavorando in Abruzzo, Lucania e nelle Puglie, prevalentemente in quella che anticamente era la Terradi Bari e la Capitanata.

A spostare l’attribuzione in favore del pittore napoletano concorrono una serie di fattori stilistici, quali i volti dei personaggi raffigurati, in particolare i puttini di marca schiettamente “cenatiempana”, che si possono confrontare con gli altri presenti nel Martirio di S. Bartolomeo e in quelli nella tela della Maddalena penitente in San Lorenzo a San Severo.

La grazia pacata e addolcita del De Matteis risulta invece più rigida e meno sciolta nei dipinti del nostro pittore, il quale nell’angelo che regge la tiara papale fa un chiaro rimando al suo maestro: Luca Giordano.

La tela raffigura sulla sinistra San Gregorio Magno in abito sacerdotale, colto nel tipico atteggiamento estatico della retorica barocca, mentre ammira la colomba dello Spirito Santo; sulla destra San Benedetto in abito nero da abate, con il libro delle regole e il pastorale, indica il cielo con l’indice della mano. In basso due angeli, di cui uno su un rocchio di colonna “pagana”, tributano l’omaggio alla chiesa terrena e trionfante, reggendo la tiara e la mitra; in alto si staglia la colomba dello Spirito Santo fra due schiere di cherubini disposti a ventaglio.

La composizione pecca nell’eccessiva specularità dei due Santi che rispondono a precisi dettami di carattere retorico e didascalico ed il risultato è la messa in scena attraverso la bloccata espressività di gesti e atteggiamenti sapientemente calibrati. A tal proposito si veda la tela di Cenatiempo conservata in Santa Maria degli Angeli ad Avigliano, raffigurante la Vergine col Bambino e i Santi Filippo Neri, Michele Arcangelo, Gregorio e Carlo Borromeo.

Il dipinto, oltre ad una evidente matrice giordanesca, richiama il timbro del De Matteis nel pulviscolo dorato della zona superiore, che risalta i volti rapiti dei due Santi e i preziosi tessuti che accendono la tavolozza. Questa contingenza stilistica con il più quotato Paolo ci permette di azzardare una datazione intorno al secondo decennio del Settecento, periodo in cui il De Matteis arricchiva le chiese di Taranto con le sue preziose opere e dal quale il minore Cenatiempo avrà preso spunto per alcune soluzioni cromatiche.

Non mancano inoltre rimandi ad un altro “giordanesco” quale Giovan Battista Lama, nelle due figure principali. Ad arricchire la composizione si schiude tra le figure un paesaggio boscoso con chiesa, che evidenzia l’attenzione del pittore nell’indagine del dato naturalistico, caratteristica riscontrabile nella tela sorella del SS. Crocifisso e in numerose altre opere del pittore.

La Madonna del Carro (1699) di Gaetano Patalano per San Cesario di Lecce

G. Patalano, Madonna del carro (doc. 1699). Lecce, Museo Castromediano (ph Antonio e Roberto Tartaglione- Bari).

di Isabella Di Liddo

 

L’analisi della circolazione della scultura  in legno policroma in età barocca tra Napoli, Puglia e Spagna sta evidenziando sempre più l’intenso scambio di opere d’arte nel Mediterraneo occidentale[1]. Luoghi di scambio e di approdo delle sculture sono i porti di Napoli, della Puglia (Gallipoli), di Genova, di Cagliari e della Spagna (Alicante, Valencia, Cartagena e Cadice)[2].

Nell’ottica di tali scambi emerge il ruolo importante di alcune botteghe napoletane tra Sei Settecento protagoniste nella produzione di manufatti lignei di altissima qualità che venivano inviate in Spagna e in tutto il Regno meridionale.

Particolarmente proficua  risultata la consultazione di fedi di credito e di pagamento effettuata presso l’Archivio storico del Banco di Napoli[3]. La pubblicazione delle polizze rivelano l’apporto dato dalle botteghe napoletane allo sviluppo della statuaria lignea tra sei-settecento a Napoli, in Spagna e nel mezzogiorno.

Alla fine del Seicento si distingue l’operosa bottega dei fratelli Aniello e Michele Perrone  con al seguito numerosi apprendisti, tra cui sii annoverano Nicola Salzillo, unico scultore della cerchia trasferitosi nella città spagnola di Murcia, dove apre un’importante bottega (dal 1699 al 1727) e Gaetano Patalano. Proprio al Patalano è stata recentemente assegnata la  Madonna del Carro in legno policroma oggi presente al Museo provinciale Castromediano di Lecce, un tempo attribuita a Nicola Fumo.

Considerato dal De Dominici il miglior allievo di Aniello Perrone, la sua produzione vanta un corpus di opere ancora esiguo, a fronte delle testimonianze che ci riferiscono delle numerose opere che egli fece “unite a quelle di Pietro Suo fratello, e per varie chiese del Regno mandaron loro lavori”[4].

In particolare in Puglia le  si conservano 4 sculture documentate, tutte nella città di Lecce: un San Matteo e l’angelo (datato 1691) in san Matteo, una Immacolata (documentata 1692) un San Gaetano Thiene (1692), un San Pietro d’Alcantara (1692) nella chiesa di S. Chiara[5]. A questo esiguo corpus numero si aggiunge la Madonna del Carro, grazie al ritrovamento di una polizza, datata 31 marzo 1699, reperita da chi scrive presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli:

«A Francesco Marulli ducati quaranta, e per lui a Gaetano Patalano, statuario per farene una statua della Madonna Santissima del Carro secondo il convenuto con D. Giovanni Battista Oricelli della città di lecce, in qualità del disegno, al medesimo trasmesso, e per lui a Nicola Garofano» (Monte e Banco della Pietà, giornale copia polizze di cassa 1699, matr. 1069, 31 marzo).

L’opera proviene dalla chiesa matrice di San Cesario, vicino Lecce, ed è stata collocata nel Museo Provinciale Castromediano di Lecce alcuni anni  dopo il restauro.

Dalla lettura della polizza emerge che il committente fu Francesco Marulli che paga 40 ducati a Gaetano Patalano per la statua della Madonna Santissima del Carro in qualità del disegno che lo stesso Gaetano aveva inviato precedentemente a Giovan Battista Oricelli. Francesco Marulli, in questo momento storico, è una delle personalità più importanti di San Cesario, membro dell’antica e nobile famiglia dei Marulli, duchi del feudo di Frisa in Abruzzo, detentori di numerosi titoli e dal 1681 Duchi di San Cesario[6].

I Marulli arrivano a San Cesario già dieci anni prima , nel 1671, quando Giuseppe compra la parte del feudo di San Cesario da Florenzia Vaaz de Andrada, intraprendendo i lavori di ampliamento del palazzo ducale (la nuova ala destra) con la realizzazione dei saloni e del nuovo cortile[7].

Questi anni sono fondamentali per la città di San Cesario: infatti dal 1623 iniziano i lavori relativi alla costruzione della nuova Chiesa Matrice (situata di fronte al Palazzo ducale e sorta sulla cappelletta di S. Maria delle Grazie) col nuovo titolo di Santa Maria del Carro. Pertanto sin dalla sua fondazione, la nuova chiesa matrice di S. Cesario fu dedicata alla Madonna del Carro. A conferma di ciò, più tardi, nel 1641 Mons. Pappacoda, negli Acta Primae visitationis oppidi sancti Cesari, riferisce che la chiesa Matrice è “sub titolo Sanctae Mariae de Carru” e che alle spese della Cappella provvede la Confraternita del SS. Sacramento. Riguardo alle suppellettile, il Pappacoda, riferisce che è presente un affresco dedicato alla Madonna del Carro in cornice di legno e pietra elegantemente scolpito[8].

G. Patalano, Immacolata (doc. 1692). Lecce, Chiesa di S. Chiara (ph Antonio e Roberto Tartaglione- Bari)

Sono le fonti del Settecento che riferiscono della scultura della Madonna del Carro  nella Chiesa Matrice, infatti la presenza della scultura in chiesa è segnalata nelle due Visite di Mons Alonzo Sozy Carafa, nel 1753 e nel 1763, e in una Platea del 1760. Quest’ultima, conservata nell’Archivio Parrocchiale di San Cesario, ricorda che il titolo S. Maria del Carro dato alla nuova Chiesa Matrice fu voluto per “l’avvenuto miracolo di essa rimasto illeso un nostro paesano,dal passagli da sopra un carro carico, all’invocazione di M. a SS.a perlocchè la nuova Chiesa Madre eretta rimpetto al Palazzo Ducale fu sotto il Titolo della Vergine del Carro, e se ne fece un simulacro che fu collocato sul ciborio dell’altare maggiore”[9].

Riguardo invece alla due Sante Visite di Mons. Alonzo Sozy Carafa, una, quella del 1763, si limita  segnalare la presenza di una statua in legno della Vergine Maria col Bambino collocata sull’altare, l’altra del 1753, molto più interessante perché ci fornisce una dettagliata descrizione: “istar cursus variis simulacris angelo rum praedita, variasque cordulas seiceas cum flosculi rubri coloris minibus detinentibus”[10].

La monumentale scultura (alta metri 1,80) presenta la Madonna seduta su un enorme carro, finemente intagliato, con una grande conchiglia che le fa da schienale, mentre l’articolato movimento degli angeli, collocati ai piedi della Madonna attorno ad una nuvola, simulano il traino del carro. Gli angeli sostenevano tra le mani cordoni di seta rosso, oggi non più visibili.

La presenza di altre opere di Gaetano Patalano a Lecce, come abbiamo visto, e la sua rinomata fama (De Dominici) costituiscono probabilmente il tramite per il quale Francesco Marulli, per conto dell’Oricelli, decide di commissionare la scultura al Patalano. La stessa Madonna del Carro richiama, nel volto, fortemente ieratico, un modello stilistico dell’artista già sperimentato a Lecce, come può emergere dal confronto con il volto dell’Immacolata in S. Chiara (fig. sopra).

Appare evidente che questo modello iconografico trovi riferimento nel Trionfo di Galatea, e che questa straordinaria iconografia è forse destinata qui, per la prima volta, ad un soggetto religioso. Ciò mostra il bagaglio culturale del Patalano che spazia anche nei temi generalmente espressi nei dipinti. Sottolineava già il De Dominici che i Patalano acquistarono “buon nome appresso gli amatori delle belle arti del disegno”; pertanto l’esercizio del disegno, com’è noto, costituiva l’anello di congiunzione con la pittura[11].

Nella polizza, infatti, viene ribadito che la scultura deve essere fedele al disegno che lo stesso Gaetano aveva precedentemente inviato. Pertanto il confronto con il Trionfo di Galatea di Luca Giordano appare plausibile e immediato. L’opera del Giordano, eseguita per Firenze[12], costituisce un precedente iconografico di numerosissimi Trionfi di Galatea prodotti da altri giordaneschi, tra cui Paolo de Matteis (Figg. in basso).

P. De Matteis, Trionfo di Galatea (1692). Milano, Pinacoteca di Brera

Luca Giordano e Paolo de Matteis non appaiono estranei all’ambiente di Gaetano Patalano, non solo perché i rapporti dovevano essere personali, in quanto due figlie dello scultore Michele Perrone sposano, una, Paolo de Matteis, e l’altra Giovan Battista Lama, quest’ultimo discepolo di Paolo de Matteis e poi di Luca Giordano[13].

P. De Matteis, Carro marono trainato da Tritone e Nereidi davanti al Dio Sebeto. Napoli, Fondazione Maurizio e Isabella Alisio

Emergono anche attraverso i rapporti familiari di questi scultori quegli intrecci artistici che ci permettono di  rileggere la scultura lignea napoletana in rapporto alla pittura.

Ritengo utile anche sottolineare che la Madonna del Carro, oltre all’immediato confronto con le opere coeve di Luca Giordano e Paolo de Matteis, rimanda nella sua classicità di impostazione alla Galatea di Raffaello alla Farnesina. Colpisce l’analogo motivo gigantesco della conchiglia, qui però ai piedi della dea (come cocchio marino) e soprattutto gli analoghi puttini alla base del carro (fig. 5). Se sulla Galatea di Raffaello sono evidenti i cordoni (per trascinare il carro) legati ai delfini, analogamente possiamo cogliere il motivo dei pugni socchiusi delle manine dei putti (sorreggenti la Madonna del Carro).

L’idea della conchiglia è un elemento classico che trasmigra dal profano al sacro: legata tradizionalmente alla condizione acquatica, la conchiglia diviene via via- passando dal mito antico alla concezione cristiana- simbolo di nascita (generazione di Venere dalla spuma del mare), di maternità (identificandosi col sesso femminile: si pensi all’ambivalenza del termine latino concha) e infine di santificazione e di resurrezione (vedi l’uso paleocristiano di inserire i ritratti entro le conchiglie, che rimanda alla assimilazione della conchiglia alla tomba che rinchiuderebbe l’uomo nel tempo che va dalla morte alla resurrezione)[14].

Un’interessante iconografia della Madonna entro la conchiglia è presente  nella lunetta del portale della chiesa di S. Domenico di Andria. Tale iconografia sembra saldare la Grande Madre di Dio col mito di Venere (intesa come divinità materna e assimilata alla natura Generante), e insieme visualizza il simbolo della Madonna come conchiglia che custodisce nel suo seno la perla del figlio di Dio: “Si allieti il mare del mondo, perché in lui è prodotta una conchiglia, la quale concepirà nel seno il celeste raggio della divinità, e darà alla luce Cristo, pietra preziosissima”, scrive ad esempio San Giovanni Damasceno. Importante, dunque, la formazione di Gaetano Patalano che trova (grazie al ritrovamento del documento) pregevole esplicitazione nella Madonna del Carro, opera che oggi si può aggiungere al piccolo corpus di opere certe. Lo stesso Fagiolo segnala questa bella scultura “che nel segno degli Elementi scandisce il contrasto fra la solennità della posa della Madre (quasi Cibale, dea della Terra) e l’incedere del carro trionfale (la conchiglia appare in sintonia con i carri acquatici di Nettuno e di Venere), portato in area dagli angeli non senza reminiscenza di fuoco che aveva rapito Elia in cielo”[15].

Ignoto scultore, Madonna dell’umiltà (1510). Andria, chiesa di S. Domenico, portale maggiore

[1]Il presente contributo è parte del volume I. Di Liddo, La circolazione della scultura lignea barocca nel Mediterraneo: Napoli, la Puglia e la Spagna. Una indagine comparata sul ruolo delle botteghe: Nicola Salzillo, De Luca Editori d’Arte, Roma, 2008.

[2] I.Di Liddo, Nicola Salzillo entre Nápoles y España. Un entramado de relaciones entre talleres, in C. Belda Navarro (a cura di), Salzillo,testigo de un siglo, catalogo exposición (2 marzo-31 luglio 2007, museo Salzillo, iglesia de Jesus, iglesia de S. Andres, Murcia), Murcia, 2007, pp. 154-169; I.Di Liddo, La cappella maggiore della cattedrale di Santiago de Compostela: un esempio di influenza berniniana in Spagna, in F. Abbate (a cura di), Interventi sulla «questione meridionale». Saggi di storia dell’arte, Ed. Donzelli, Roma 2005 pp. 201-203; I.Di Liddo, Da Jacopo Gambino a José Gambino, scultore a Santiago de Compostela (Spagna), in F. Abbate (a cura di) Ottant’anni di un Maestro. Omaggio a Ferdinando Bologna, Ed. Paparo, Napoli 2006, pp. 435-443. 

[3] Ringrazio il direttore dell’Archivio Storico del Banco di Napoli, dott. Edoardo Nappi, e il dott. Elio Catello per la disponibilità e i suggerimenti fornitomi durante i cinque mesi di studio presso l’Archivio a Napoli.

[4] B. De Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, voll I-II, Napoli 1742-45, rist. an., Sala Bolognese, 1979, p. 191.

[5] R. Casciaro, La scultura, in A. Cassiano (a cura di), Barocco a Lecce e nel Salento, cat. Mostra (Lecce, museo provinciale 8 aprile-30 agosto 1995) Roma 1995, pp.143-169; GG. Borrelli, Gaetano Patalano, in Civiltà del Seicento a Napoli, cat. Mostra (Napoli, Museo di Capodimonte 24 ottobre 1984- 14 aprile 1985, museo Pignatelli 6 dicembre 1984- 14 aprile 1985), Napoli 1984, pp. 223-225; GG. Borrelli, Sculture in legno di età barocca in Basilicata, Napoli 2005, doc. 60, p.112.

[6] R. Poso, I feudatari di San Cesario, in San Cesario Storia, arte e architettura, Galatina 1981, pp. 258-264.

[7] R. Bozza, Evoluzione e caratteri della forma urbana di San Cesario, in San Cesario Storia, arte e architettura, Galatina 1981, p. 9.

[8] F. DeLuca, La prima visita pastorale in San Cesario, in San Cesario Storia, arte e architettura, Galatina 1981, p. 233.

[9] R. Poso, Appendice documentaria, in San Cesario Storia, arte e architettura, Galatina 1981, p. 273.

[10] F. DeLuca, La prima visita pastorale in San Cesario, in San Cesario Storia, arte e architettura, Galatina 1981, p. 220.

[11] L. Gaeta, Pittori e scultori a Napoli tra ‘600 e ‘700: tracce di un’intesa, in «Kronos». Studi per Gino Rizzo, n. 10, 2006, pp. 139-156.

[12] L. Martino, Scheda Paolo de Matteis, in Civiltà del Seicento a Napoli, Napoli 1984, p. 246.

[13] B. De Dominici 1742-45,  op.cit, p. 390.

[14] M . Fagiolo, Simbolismo della conchiglia, in V. Cazzato, M. Fagiolo, M.Pasculli Ferrara, Atlante del Barocco in Italia Terra di Bari e Capitanata, de Luca editori d’Arte, Roma 1996, p. 421.

[15] M. Fagiolo, Presentazione, in R. Casciaro, A. Cassiano (a cura di), Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, cat. Mostra (Lecce, chiesa di S. Francesco alla Scarpa16 dicembre-28 maggio 2008), Roma 2007, p. 11.

Gallipoli. Nicola Malinconico (1663-1727) nella cattedrale di Gallipoli

Nicola Malinconico nella cattedrale di Gallipoli

Analogie artistiche

Da un bozzetto ritrovato ad una singolare congiunzione di tre artisti in rapporto con Gallipoli

di Antonio Faita

Chi entra nella cattedrale di Sant’Agata, sin dal primo sguardo, percepisce d’essere entrato in un tempio importante per la sua ricchissima decorazione pittorica. E’ una vera e propria galleria d’arte dove sono presenti opere di artisti locali e napoletani del ‘600-‘700 e tra le quali spiccano quelle di Giovanni Andrea Coppola, Gian Domenico Catalano, Luca Giordano, Nicola e Carlo Malinconico. Su questi ultimi due, e soprattutto su Nicola, mi vorrei soffermare e, in particolar modo, sul suo dipinto: “La cacciata dei mercanti dal Tempio” che sovrasta la porta centrale.

Recentemente, lo studioso napoletano Achille della Ragione ha ricostruito, cronologicamente e con più precisione, il percorso inerente l’attività pittorica di Nicola Malinconico, sulla scorta di numerosi documenti di pagamento che lo studioso Umberto Fiore è riuscito a reperire nell’archivio storico del Banco di Napoli e nell’archivio di Stato.

Ciò ha permesso di datare gran parte dei lavori del Malinconico, correggendo molti precedenti errori, tra i quali la data della sua morte, indicata da Bernardo De Dominici e riportata, successivamente, da vari biografi, al 1721 ed oggi spostata al 1727[1].

Nel 1700 la cattedrale di Gallipoli, grazie alla volontà del nuovo prelato mons. Oronzo Filomarini della casa dei teatini di Sant’Eligio di Capua[2], fu oggetto di abbellimento e di trasformazione in chiave barocca. L’artista, chiamato a completare il programma perseguito da mons. Filomarini[3], fu il napoletano, esponente di area giordanesca, Nicola Malinconico (Napoli 1663-1727)[4] il quale, per il gran numero di tele commissionategli, fu impegnato quasi sicuramente, anche se non ininterrottamente, dal 1715 fino al 1726, un anno prima della sua morte. Non è documentato infatti quel che molti sostengono, e cioè che il Malinconico abbia dipinto per la chiesa di Sant’Agata già a partire dal 1700, mentre è attestata la sua presenza in Gallipoli nel 1715. Infatti, dalla Visitatio ai locali della cattedrale che mons. Filomarini fece il primo agosto di

Gallipoli. Luca Giordano e il dipinto di Maria SS.ma della Purità

Luca Giordano: documento inedito del dipinto di Maria SS.ma della Purità di Gallipoli

 

di Antonio Faita

Nella seconda metà del Seicento la pittura napoletana rinnovò il suo linguaggio in modo moderno e maturo grazie alla presenza e all’attività di due artisti: Mattia Preti e Luca Giordano.

Interpreti felici della pittura barocca, i due artisti dettero inizio alla loro carriera con un’adesione sentita e partecipata al naturalismo caravaggesco. I termini maggiormente utilizzati per definire Luca Giordano sono libertà espressiva, energia creativa, rapidità dell’esecuzione, vastità della produzione. La libertà espressiva fu ciò che lo contraddistinse sin da giovane, quando, allievo di Mattia Preti, apprese soprattutto lezioni di metodo. In tal modo iniziò a dar corpo al suo giovanile desiderio di rinnovamento, dettato da quell’energia creativa che lo accompagnò durante tutto il suo lungo percorso formativo.

Luca Giordano diede vita ad un numero ingente di opere con una rapidità nell’esecuzione ineguagliabile al punto che gli valse, secondo quanto riportato dal biografo Bernardo de Dominici, il soprannome di “Luca fa presto”.

Anche Gallipoli, la bella città jonica, può vantare una testimonianza del grande pittore napoletano. Trattasi del dipinto su tela del grande altare marmoreo del ‘6001, raffigurante “Sancta Maria Puritatis”, ubicato in una delle più interessanti chiese della città, la chiesa a lei intitolata, un vero gioiello che raggiunge le tonalità più alte dell’arte plastica figurativa2.

Il dipinto è un autentico capolavoro, uno dei pochi quadri del  pittore napoletano, siglato in basso sulla destra, con le lettere L. G., intrecciate e seguite da una F (Luca Giordano fece). Da notare, inoltre, che nella

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