Il brigante del meridione: bandito o Robin Hood ?

briganti

di Cristina Manzo

 

 

« Noi fummo i gattopardi, i leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene; e tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra. »

(Principe Don Fabrizio Salina)1

 

« Ribellarsi e ribellarsi ancora, finché gli agnelli diverranno leoni. »

(Robin Hood)2

 

 

Utopia, si chiamerebbe il luogo della nostra esistenza, se non ci fossero ingiustizie, se la vita fosse felice, e se esistessero sul serio i valori di Liberté, Égalité, Fraternité, che definivano la Rivoluzione Francese. Utopia, come l’isola-regno immaginaria di Tommaso Moro, abitata da una società ideale. Ma così come l’etimologia del nome che  dal greco antico Moro derivò con un gioco di parole, tra  ou-topos cioè ( non-luogo) ed eu-topos (luogo felice); utopia è quindi, letteralmente un “luogo felice inesistente”. La storia ci dimostra che ripetutamente, la disparità sociale è stata presente nella vita dell’uomo, così come l’ ingiustizia, e dovunque esse regnino, non può non generarsi il malcontento e il bisogno anche nascosto di opporvisi. Ora la domanda è, “la storia riesce ad essere super partes? Se la storia è scritta  da  chi vince, che non sempre equivale a essere anche nel giusto, è possibile che vengano sovvertiti e ravvisati gli ideali e i principi degli sconfitti?”

Il Robin Hood della moderna leggenda e del folklore, il principe dei ladri, ripreso da Alexandre Dumas (padre) nel suo romanzo postumo Robin Hood il proscritto, viene privato delle sue terre dallo Sceriffo di Nottingham e diventa un fuorilegge. “in quel periodo, tra coloro che erano stati privati dei loro possedimenti si sollevò il celebre bandito Robin Hood, (con Little John e i loro compagni)”3 Nelle versioni moderne della leggenda, Robin Hood si rifugia nella Foresta di Sherwood, nella contea del Nottingham. Attorno a lui si forma uno stuolo di uomini, anch’essi afflitti dall’ingiustizia che vige nel regno, poveri contadini privati delle loro terre e di ogni possedimento, con tante bocche da sfamare, che non riescono a fronteggiare in alcun modo le angherie e l’esoso aumento delle tasse, che il principe Giovanni, impostosi sul trono, in assenza del re Riccardo Cuor di Leone, partito in terra santa per la crociata, che invece regnava con rispetto e giustizia, impone per le continue guerre e le lotte di dominio. Persino un sacerdote si unisce a loro, Little John, le donne portano nella foresta i viveri e li aiutano come possono, tutto il paese li appoggia, perché essi sono diventati fuorilegge, ma per una giusta causa.

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Molto probabilmente, è questo che accadde in riferimento al fenomeno del brigantaggio, nell’Italia meridionale, nel passaggio di regno che avvenne tra i Borboni e i Savoia. “Chi sono i Briganti? Lo dirò io, nato e cresciuto tra essi. Il contadino non ha casa, non ha campo, non ha vigna, non ha prato, non ha bosco, non ha armento; non possiede che un metro di terra in comune al camposanto. Non ha letto, non ha vesti, non ha cibo d’uomo, non ha farmachi. Tutto gli è stato rapito, dal prete al giaciglio di morte, o dal ladroneccio feudale o dall’usura del proprietario o dall’imposta del comune e dello stato. Il contadino non conosce pan di grano, nè vivanda di carne, ma divora una poltiglia innominata di spelta (farro), segale, omelgone, quando non si accomuni con le bestie a pascere le radici che gli dà la terra matrigna a chi l’ama. Il contadino robusto e aitante, se non è accasciato dalle febbri dell’aria, con sedici ore di fatica, riarso dal sollione, eivolta a punta di vanga due are di terra alla profondità di quaranta centimetri e guadagna ottantacinque centesimi, beninteso nelle sole giornate di lavoro, e quando non piobe, e non nevica e non annebbia. Con questi ottanticinque centesimi vegeta esso, il vecchio padre, spesso invalido dalla fatica già passata, e senza ospizio, la madre, un paio di sorelle, la moglie e una nidiata di figli […] il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata: le avversioni del clero, e dei caldeggiatori il caduto dominio, e tutto il numeroso elenco delle volute cause originarie di questa piaga sociale sono scuse secondarie e occasionali, che ne abusano e la fanno perdurare.”4

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Il brigantaggio fu una risposta del popolo scontento e sobillato, dagli stessi regnanti sconfitti, all’invasione dei Savoia ed alla fine  del Regno delle Due Sicilie. Si sviluppò tra il 1860, con l‘’annessione’ al Regno d’Italia, che si andava costituendo e il  1866 quando migliaia di soldati savoiardi, che nulla sapevano del meridione, furono inviati sulle terre del sud a presidiare.

Il brigantaggio ebbe inizio storicamente proprio con la partenza per l’esilio del Re Francesco II di Borbone,  il 13 febbraio 1861. Così il popolo ribelle, venne marchiato con la parola “Brigante” che deriva dal termine  francese brigant, cioè delinquente, bandito. Il 13 febbraio 1861 è  il giorno in cui i vincitori, ovvero chi ha scritto la storia, dando la sua versione dei fatti, ha marchiato i contadini meridionali con questo nome. Coloro che dominarono con la forza e con la repressione, un popolo affamato, povero e scontento, sconvolto dall’aumento delle tasse e dei prezzi sui beni primari, costretto alla leva obbligatoria, privato della propria dignità, che con giusta ragione iniziò a rivoltarsi, provando rancore verso il nuovo regime e soprattutto verso gli strati sociali che giocando su questa sciagura, si avvantaggiarono degli avvenimenti politici riuscendo ad ottenere cariche, onori e vantaggi economici.

Nacquero bande di briganti, a cui aderirono non solo contadini disperati ma anche ex soldati borbonici, ex garibaldini e banditi comuni. Il governo delle Due Sicilie facendo leva sulla disperazione del popolo tentò di riprendersi il regno sfruttando il malcontento e la disperazione generale. Il popolo disperato ascoltò le parole del vecchio regime e si lasciò suggestionare dalle sue proposte e, nella speranza di poter ottenere benefici, appoggiò la causa di una restaurazione borbonica.5

Ci fu un proliferare di nuove bande di briganti, sparse in tutto il Mezzogiorno, tra Campania, Lucania, Puglia, Calabria e Sicilia. I componenti delle bande più combattive, venivano considerati, dalle folle, come veri e propri eroi che lottavano contro i nemici Cavour e Vittorio Emanuele. Questi personaggi, dotati di grande tempra e di carisma, e le loro imprese: la continua latitanza; i pasti frugali; le grandi distanze da percorrere, spesso tutte in una volta e quasi sempre di notte; l’uso delle tattiche militari della guerriglia per tenere testa ad un esercito formato da migliaia di uomini ed armato fino ai denti, sono divenute mito. L’ottima conoscenza del territorio era un’altra delle caratteristiche fondamentali che permise a pochi uomini di resistere per lungo tempo agli assalti militari. Tanto fra i boschi e le montagne, luoghi che facilmente si prestano alla mimetizzazione, all’organizzazione di agguati e di scorrerie, quanto sui campi aperti, come gli altipiani, i briganti erano in grado di mostrare una perfetta padronanza delle tattiche militari, grazie alle quali, spesso costringevano la cavalleria sabauda ad impegnarsi in lunghi scontri frontali dall’esito quasi sempre incerto.6

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Essi avevano tutti un inno,che cantavano durante le loro riunioni segrete, in mezzo ai boschi e alle montagne, ed erano tutti fedeli ad un giuramento. Inno dei briganti:  “ Ammu pusato chitarra e tammure pecche’ sta musica s’adda cagna’ simmo briganti e facimmo paure e cu’ ‘a scuppetta vulimmo canta’ E mo’cantammo ‘na nova canzona tutta la gente se l’adda ‘mpara’ nuie cumbattimmo p’ ‘o rre burbone e ‘a terra nosta nun s’adda tucca’ Chi ha visto ‘o lupo e s’e’ miso paure nun sape buono qual e’ ‘a verita’ ‘o vero lupo ca magna e criature e’ ‘o piemuntese c’avimm’ a caccia’ Tutte ‘e paise d’ ‘a Basilicata se so’ scetate e vonno lutta’ pure ‘a Calabria s’e’ arrevotata e stu nemico facimmo tremma’ Femmene belle ca date lu core si lu brigante vulite aiuta’ nun lo cercate, scurdateve ‘o nomme chi ce fa guerra nun tene pieta’ Ommo se nasce, brigante se more e fino all’urdemo avimm’ a spara’ ma si murimmo menate nu sciore e ‘na preghiera pe sta liberta”7

Il giuramento dei “briganti” “Noi giuriamo davanti a Dio e dinanzi al mondo intiero di essere fedeli al nostri augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre); e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia direttamente, sia per i suoi delegati dal comitato centrale residente a Roma. Noi giuriamo di conservare il segreto, affinchè la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore de’ sovrani, trionfi col ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio, difensore della religione, e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi, e dei pretesi liberali; i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati, Noi promettiamo anche coll’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lucifero infernale Vittorio Emanuele e i suoi complici. Noi lo promettiamo e lo giuriamo”8

Lo storico più coraggioso, spirituale e anticonformista del nostro secondo Novecento, l’etrusco Giordano Bruno Guerri, celebra con la disorientante onestà di sempre i 150 anni dell’Unità d’Italia pubblicando Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, (Mondadori, Milano, 2010).

I briganti «immaginiamoli magrissimi, di statura bassa, membra grosse, capelli ruvidi e irti, denti guasti, scuri, mancanti. Mani come pale, grosse di calli, dita non fusellate, corte, unghie nere. I pidocchi fanno parte della vita quotidiana, come l’aria». E Guerri parla dei contadini, non di quelli che sono andati alla macchia. In quel frangente le cose peggiorano con una certa facilità7 Nella scuola italiana, dalle università alle elementari, i fatti sono stati distorti nell’interesse della cultura delle classi dominanti.” Il popolo meridionale è stato privato della vera memoria storica, nascondendo e distruggendo quanto ritenuto inopportuno, con la conseguenza che esso «ancora oggi paga lo scotto economico e politico di un’unità nazionale che esiste solo sulla carta, imposta con l’inganno e la violenza e mantenuta con l’astuzia”, scrive nella  premessa di Il Brigantaggio in Terra d’Otranto, Ribellione popolare e repressione militare dal 1860 al 1865 Carlo Coppola.9

I “pennivendoli” Croce, Gentile, De Amicis, Carducci, Verga, D’Annunzio, Fucini e un’intera schiera di loro epigoni hanno imposto una storia del Meridione che non è quella vera. Il Brigantaggio, dice Coppola, anche con i suoi errori e le sue storture, fu l’ultimo tentativo del popolo meridionale di rimanere libero. Il Brigantaggio, che fu resistenza contro gli invasori piemontesi, ha interessato tutto il Meridione d’Italia e quindi anche il Salento.

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Briganti salentini furono Pasquale Romano di Gioia del Colle ricordato come il “Sergente Romano”, Cosimo Mazzeo di San Marzano soprannominato “Pizzichicchio”, Rosario Parata “Lo Sturno” di Parabita, Quintino Venneri “Melchiorre” di Alliste. Il Salento, che costituiva la Provincia di Terra d’Otranto, si estendeva dal Capo di Leuca fino al Golfo di Taranto con parte dell’odierna Basilicata, comprendeva un territorio di circa 6.500 chilometri quadrati suddivisi in 130 comuni e 70 borgate con una popolazione di circa mezzo milione di abitanti.

Nel Salento diffusissime erano le banche, esistevano ben 145 istituti di credito tra banche agricole, monti di pegno e monti frumentari. Con l’arrivo dei piemontesi fu tutto smantellato e rapinato. Il territorio salentino non ha mai avuto una vera e propria tradizione brigantesca. Tuttavia, in molti, dovettero ricredersi quando il giornale “La tribuna del Salento”, nel 1971, cominciò a pubblicare a puntate “Brigantaggio e reazione nel Salento dopo il 1860”. Il fenomeno Scoppiato dapprima nella Basilicata, si estese, poi, a quasi tutte le province del Salento. Ma la figura più caratterizzante fu senza dubbio quella del “brigante letterato”, Giuseppe Valente, chiamato così per la sua spiccata capacità dialettica e stilistica; fu, infatti, uno dei pochi briganti a non essere analfabeta. Egli redigeva personalmente le “missive” che, poi, inviava alle famiglie più ricche per estorcere loro denaro. La banda del Valente ebbe un’attività impressionante.10

Come in tutto il Regno, anche nel Salento, pur se con minore intensità essendo la proprietà fondiaria molto più frammentata rispetto al resto del meridione, esisteva l’eterno dissidio tra i feudatari proprietari terrieri e i contadini che lavoravano le terre. La dinastia Borbone, in questa lotta, era schierata con il popolo contro i cosiddetti “galantuomini”. Attraverso una mirata legislazione venivano difesi i diritti di chi nei fatti possedeva e lavorava la terra. L’avventura garibaldina e la conseguente unità d’Italia rompe questo delicato equilibrio. Il popolo meridionale, privato dell’alleato Borbone, rimase alla mercé degli eterni nemici “galantuomini”. Tutte le promesse garibaldine sulle quotizzazione delle terre non vengono mantenute. I contadini vengono ridotti alla fame. Non resta che la rivolta.

Dopo il plebiscito-truffa le masse contadine in tutto il Meridione ed anche nel Salento si mettono in subbuglio. A cominciare dagli ultimi mesi del 1860 scoppiano tumulti contro i piemontesi, con sorti alterne, a Tuglie, a Sava, a Surbo, a Matino, a Parabita, a Sternatia, a Poggiardo, a Marittima, a Oria, a Taviano, ed in tantissimi altri centri. Il governo di Torino avrebbe potuto cercare la pacificazione, attraverso una vigorosa riforma agraria e un approccio moderato. Risponde invece con i fucili, spostando nel Meridione la maggior parte dell’esercito “italiano”, e con la leva obbligatoria. E’ l’innesco del grande brigantaggio. La maggior parte dei giovani meridionali arruolabili si da alla macchia e si unisce agli sbandati del disciolto esercito borbonico. Nascono tante bande, capitanate da uomini valorosi. Cosimo Mazzeo di San Marzano, detto “Pizzichicchio”, acquisterà grandissima fama per essere riuscito per un lungo periodo a tenere in scacco e a battere ripetutamente le truppe regolari. Nell’agosto 1862 tutti i principali capibanda di Terra d’Otranto si riunirono nel bosco della Pianella, vicino a Taranto, per concordare una strategia comune. Pasquale Romano viene nominato capo supremo, riuscendo ad avere a disposizione circa 700 uomini a piedi e 300 a cavallo. La rivolta diventa guerra civile, il Salento e l’intero Meridione sono in fiamme. La spietata repressione che si abbatté su tutto il Meridione ebbe ragione della ribellione.11

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Si promulga così la cosiddetta “Legge Pica“, dal nome del deputato abruzzese che la formulò, che per oltre due anni trasformò le regioni meridionali in un immenso campo di combattimento, o meglio ancora in un enorme lager dentro il quale i soldati del re sabaudo, i “piemontesi”, con la scusa della lotta al brigantaggio uccisero, stuprarono, squartarono, sgozzarono, misero a ferro e fuoco interi paesi causando migliaia e migliaia di morti innocenti.12  La Pica, scrive Coppola, non fu una legge, fu un’infamia.13

Nella seduta parlamentare del 29 aprile 1862, il senatore Giuseppe Ferrari affermava: « Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi. »14

Il Salento in appena 5 anni, scrive ancora Coppola, arretra economicamente di 50 anni.15Tra i capi briganti più temuti, e di cui si parlò di più nel Salento, vi erano Ciro Annicchiarico, e il già citato Cosimo Mazzeo, meglio conosciuto come Pizzichicchio.

Ciro Annicchiarico detto Papa Ciro o Papa Ggiru (Grottaglie, 15 dicembre 1775 – Francavilla Fontana, 8 febbraio 1817) è stato un presbitero e brigante pugliese. Vissuto all’inizio del XIX secolo, della vita di Papa Ciro da religioso non si hanno molte notizie, eccetto che fu prete a Grottaglie e dopo essere stato accusato di un omicidio per motivi passionali, avvenuto il 16 luglio 1803, si diede alla macchia al fine di sottrarsi all’arresto. Al termine delle scorribande, don Ciro riparava sulle alture boschive del territorio di Martina Franca, spesso sul monte o all’interno di una caverna che ancora portano il suo nome.16

Martina Franca, la caverna nascondiglio del brigante papa Ciro
Martina Franca, la caverna nascondiglio del brigante papa Ciro

 

La setta che il brigante Ciro Annicchiarico fondò nel mese di ottobre del 1817, era diversa da tutte le altre per la sua atrocità, si chiamava “la setta dei decisi”. “ Gli iniziati in questa società furono i più insigni assassini della provincia, ma specialmente quei di Grottaglie, Francavilla e Martina, i quali furono riuniti in una setta, organizzati e patentati come “decisi” e l’assemblea o seduta loro, invece di essere chiamata campo o squadriglia, si chiamava “decisione.” 17 Ad ognuno degli iniziati veniva rilasciato un diploma con il sigillo della società.

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Il brigante Cosimo Mazzeo detto “Pizzichicchio”, nato a San Marzano nel 1837, fu uno dei signori più temuti e importanti del brigantaggio meridionale. Leader incontrastato di una vasta zona del tarantino, era circondato da un gruppo di fedeli come Francesco Maniglia, Tito Trinchera (insieme ad una cinquantina di fedelissimi). La banda Pizzichicchio era adorata dai contadini poveri e temuto dai possidenti, il Pizzichicchio era considerato un bandito paterno verso gli oppressi e gli sfruttati, collaborò con Romano e Lavaneziana alla presa dei comuni di Carovigno, Erchie e Cellino San Marco. La caverna è stata individuata nella primavera del 2000 dai soci del Centro Speleologico dell’Alto Salento (ex C.D.G.M.) e si apre sul versante orografico orientale della gravina di S. Elia in territorio di Massafra (Grotta S. Elia – sin. Grotta del brigante Pizzichicchio Pu. 1651). Si presenta con un’ampia apertura larga 13 metri e alta 5,5 che conduce in una cavità profonda 16  metri che si restringe progressivamente ad imbuto. Dai pastori del luogo è conosciuta con sinonimo di “Grotta Coppolecchia” per differenziarla da un’altra distante 500 metri denominata “Coppola grande”18

 

Massafra Planimetria della grotta coppolecchia, nascondiglio del brigante Pizzichicchio
Massafra Planimetria della grotta coppolecchia, nascondiglio del brigante Pizzichicchio

 

Un altro luogo molto caro ai briganti, fu quello di Cellino S. Marco, esattamente nei territori che appartengono alla famiglia di Albano Carrisi, si trovava il loro nascondiglio. Del brigantaggio a Cellino San Marco ci informa anche lo storico cellinese Enzo Gambardella: “Già sin dal 1842 i briganti scorazzavano nel nostro agro e dal vicino bosco di Curtipetrizzi, dove si erano stabiliti, assaltavano le diligenze, svaligiavano i malcapitati viaggiatori e non mancavano di penetrare di tanto in tanto nello stesso paese, dove, spargendo il terrore, non lievemente danneggiavano nelle persone e nei beni la già immiserita popolazione.”

I briganti oltre a rifugiarsi nel bosco di “Curtipetrizzi” usavano come covo segreto la famosa “Rutta dei Briganti” (Grotta dei Briganti) che si trova nella campagna antistante al menzionato bosco a circa 400 m. in linea d’aria. Questo covo ben si prestava ad essere un nascondiglio poiché l’ingresso della grotta sotterranea era completamente coperto dalla fitta vegetazione di macchia mediterranea ancora oggi presente. I più anziani del paese, che a loro volta hanno sentito dai loro nonni, raccontano che la grotta era collegata con il vicino bosco tramite dei “camminamenti” (tunnel) sotterranei da dove i briganti potevano passare e sfuggire facilmente alla Guardia Nazionale, nascondendosi nella fitta vegetazione boschiva.

I briganti vestivano come contadini; qualcuno di loro portava in testa un berretto con fiocco rosso; d’inverno si avvolgevano in grandi cappe scure. I capi-banda avevano la barba ed il cappello all’italiana.  L’animatore delle imprese del Brigantaggio nel Brindisino fu il bandito Romano di Gioia del Colle.

Più volte intervenne anche la banda dello spietato Carmine Crocco, il capo esponente del brigantaggio tra le montagne della Basilicata Altri personaggi di spicco furono: Cosimo Mazzeo detto “Pizzichicchio”, Giuseppe Nicola La Veneziana, Antonio Lo Caso detto “Il Capraro”, Giuseppe Valente detto “Nenna-Nenna“.

Nell’organizzazione generale del Brigantaggio brindisino vigeva un sistema simile a quello militare. Il La Veneziana che conosceva perfettamente ogni zona del circondario, fungeva da coordinatore tra le varie bande. I briganti provvedevano alle proprie necessità mediante l’opera di alcune persone chiamate manutengoli. Questi erano i fornitori volontari, sostenitori del Brigantaggio. Tutte le volte che i soldati della Guardia Nazionale penetravano nei nascondigli, nei covi dei Briganti, vi trovavano ogni sorta di provvigioni e squisitezze: carni, pane, formaggio, vini, liquori, medicinali. Manutengoli erano preti, monaci, parenti dei briganti, contadini.

A confermare è Don Carmelo, padre di Franco Carrisi il quale racconta che suo nonno Antonio lavorava nel bosco come carbonaio. Aveva contatti diretti con i briganti, tanto da meritare la loro fiducia. A lui, infatti, si rivolgevano per avere vettovaglie e tutto ciò di cui avevano bisogno. L’anziano carbonaio, temendo i disertori non poteva sottrarsi al suo compito di “corriere”. La sera del 24 luglio 1861, dopo un conflitto a fuoco, la Guardia Nazionale comandata dal cap. Luigi Lupinacci riuscì a catturare gli undici briganti nascosti nel bosco di Curtipetrizzi; furono, poi, condotti a Brindisi e fucilati il 26 luglio del 1861.19 All’incirca quattro mesi prima, era stata proclamata la tanto attesa Unità d’Italia. Ma invero le incomprensioni tra le “due Italie” esistono ancora ai nostri giorni.

 

 

 

1 Il Gattopardo è un film drammatico del 1963 diretto da Luchino Visconti, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, vincitore della Palma d’oro come miglior film al 16º Festival di Cannes

2 Robin Hood  film del 2010 diretto da Ridley Scott

3 Secondo The Annotated Edition of the English Poets – Early ballads (Londra, 1856, p.70)

4Da uno scritto di F.S Sipari di Pescasseroli ai censurari  del Tavoliere, Foggia 1863, Cfr. B. Croce, Storia del Regno di Napoli  Oggi anche di Laterza, Bari, 1966, pp.337-339

5 Tommaso Pedio, Brigantaggio e questione meridionale, Levante, Bari, 1982, p.135

6 da  ibrigantiditerranostra.wordpress.com

7  idem

8 Marco Monnier, Notizie documenti sul brigantaggio nelle province napoletane, Barbero, Firenze 1862, pp. 73,74

9 www.lankelot.eu/…/guerri-giordano-bruno-il-sangue-del-sud-antistor

10 Carlo Coppola, Il Brigantaggio in Terra d’Otranto, Ribellione popolare e repressione militare dal 1860 al 1865, Associazione Culturale Area, Circolo di Matino “Raffaele Gentile”, Matino (LE) 2004

11 http://roccobiondi.blogspot.com/2011/07/il-brigantaggio-nel-salento-di-carlo.html

12 perlacalabria.wordpress.com/…/la-legge-pica-del-1863

13 http://roccobiondi.blogspot.com/2011/07/il-brigantaggio-nel-salento-di-carlo.html

14Patrick Keyes O’Clery, La rivoluzione italiana. Come fu fatta l’Unità della nazione, Milano, Ares, 2000, pag. 528

15 http://roccobiondi.blogspot.com/2011/07/il-brigantaggio-nel-salento-di-carlo.html

16 da  ibrigantiditerranostra.wordpress.com

17Riccardo Church, Brigantaggio e società segrete nelle Puglie, Arnaldo Forni editore, Firenze, 1899, p.118

18 idem

19 da: http://www.curtipetrizzilandia.it/briganti.php

Briganti di casa nostra

Archivio di Stato Lecce, Pref. Gab. Ctg. 28, fasc. 2636

di Fernando Scozzi

Ancora oggi emerge come siano contrastanti  le interpretazioni che i vari indirizzi storiografici danno del brigantaggio meridionale postunitario. Cosicché, la  storiografia di destra che prima condannava il brigantaggio vedendo in esso la personificazione della reazione borbonico-clericale, oggi  lo  rivaluta  facendolo assurgere a lotta partigiana contro l’invasore  piemontese,  mentre gli storiografi di sinistra, che fino ad un certo periodo hanno  visto  nel  brigantaggio  i  prodromi  delle  lotte  contadine  contro la protervia dei galantuomini, usurpatori dei demani, oggi lo condannano vedendo in esso più l’aspetto delinquenziale che quello politico. In effetti, non fu l’unificazione nazionale a creare il brigantaggio, perché le molteplici cause di questo fenomeno, da sempre esistito, non sono di origine politica, ma di origine sociale. I presupposti per lo sviluppo della rivolta si svilupparono sotto i Borbone e se pure a Napoli e in Campania c’erano delle isole felici, (dovute alla presenza della corte e di alcune industrie manifatturiere) nel resto del Regno delle Due Sicilie e specialmente nelle campagne, si  viveva nella miseria. Il caos politico e sociale scatenato dall’unificazione, la leva militare, le tasse, l’usurpazione dei demani (che i Borbone, comunque, non avevano provveduto a far dividere fra i contadini)  la politica anticlericale del governo, innescarono la miccia. Ma  non ci fu un brigantaggio politico, bensì un brigantaggio utilizzato per fini politici. E’ lo stesso Pasquale Villari a scrivere che il brigantaggio meridionale antico e contemporaneo trae unicamente origine dalla triste condizione delle popolazione, non dagli avvenimenti politici, che se possono aumentargli forza, non basterebbero mai a dargli vita; il brigantaggio altro non è che una questione ardente agraria e sociale. I borbonici, quindi, strumentalizzarono il malessere del Mezzogiorno servendosi del brigantaggio per impedire la stabilizzazione del nuovo ordine. I briganti accettarono il patrocinio politico perché  in  questo  modo  le  loro imprese uscivano dal  novero  delle azioni delinquenziali   e  della mera vendetta contro i signorotti locali per assurgere a lotta politica contro l’invasore piemontese. In realtà, sia i briganti che i borbonici combattevano per scopi diversi e si servivano gli uni degli altri.   La comunanza  di  interessi  si  ruppe  per  il mancato intervento delle Potenze assolutistiche europee nel Mezzogiorno e per il conseguente rafforzamento dello Stato unitario. A quel punto, chi dalle retrovie aveva soffiato sul fuoco della rivolta si dileguò; ma i briganti non potevano tornare indietro e furono fucilati, deportati, massacrati senza pietà.

In Terra d’Otranto non c’erano le condizioni per una rivolta di grandi dimensioni, perché – scriveva un funzionario di pubblica sicurezza al prefetto –  la Provincia di Lecce non sarà mai la prima a ribellarsi contro l’attuale ordine di cose, essendo pronta sì alla parola, ma tarda, anzi nemica di ogni azione. I leccesi hanno buone viscere, calda fantasia, facile parola,  ma tardo il braccio.   In realtà, più che di brigantaggio si può parlare di gravi problemi di ordine pubblico per evitare i quali  era necessario assicurare pane e lavoro ai contadini che, ben presto, iniziarono a manifestare il loro malcontento. Il contadiname del piccolo Comune di Surbo – infatti – falsamente imbevuto dell’idea del rientro in Napoli di Francesco II,  si abbandonava dall’avemaria fino alle ore sette  circa  della sera di domenica 10 marzo, alle maggiori sfrenatezze reazionarie imperocché,  principiando a gridare in piazza “Viva Francesco II , Abbasso la Costituzione”, in più centinaia si davano a percorrere le vie del paese, continuando sempre nelle stesse grida e portando un lenzuolo bianco come vessillo. Nel giro che facevano abbatterono gli stemmi reali, mentre nel corpo di guardia venivano presi e rotti alcuni fucili e bistrattato un militare in servizio che tostamente se la svignava per la paura. Poscia aggredirono diverse persone che avevano fama di liberali arrecando loro molti danni. Al municipio si davano a sconquassare la poca mobilia, rompendo i quadri di Garibaldi e di Vittorio Emanuele, nonché disperdendo diverse carte dell’archivio, molte delle quali bruciarono in piazza. E durante il tumulto alcuni dei più facinorosi gridavano: “ Vittorio Emanuele, che ci dai? Noi moriamo di fame e dobbiamo rivoltare per farci dare lavoro. A Marittima la popolazione insorse il 23 marzo 1861 mentre i tumulti si propagavano nei comuni di Ortelle, Andranno e Spongano. A Taviano, nel corso di un tumulto popolare scoppiato il 7 aprile 1861, fu ucciso Generoso Previtero, primo eletto del Comune, mentre la rivolta si estendeva rapidamente ai limitrofi comuni di Racale, Melissano e Alliste dove  furono  devastati  i locali del municipio e fatto un corteo con l’immagine di Ferdinando  II.

Ma la causa scatenante della rivolta è da ricercarsi nella legge per la coscrizione militare, obbligo fino ad allora sconosciuto nel Mezzogiorno d’Italia, che privava le famiglie dell’apporto indispensabile dei figli più giovani i quali non intendevano marciare sotto le bandiere di uno Stato lontano e sconosciuto. A Vernole l’affissione della lista dei reclutabili provocò un tumulto popolare con grida ostili e laceramento della medesima, mentre a Gallipoli un centinaio di popolani e di pescatori, si spinse fino al palazzo municipale fra le grida: Non vogliamo la leva! Abbasso il Municipio, Viva la libertà! La guardia nazionale, prima di essere sopraffatta da una violenta sassaiola, aprì il fuoco; quando la folla si dileguò rimasero sul terreno due morti e numerosi feriti.

Furono quindi i renitenti alla leva, uniti ai soldati sbandati del disciolto esercito borbonico a costituire le prime bande brigantesche anche nel Salento meridionale. Gli ex soldati borbonici, infatti, rientrati a casa col rancore di una perduta carriera, non avevano altra prospettiva che il duro lavoro dei campi e si comprendere benissimo come la possibilità di darsi alla macchia  e spadroneggiare col pretesto della difesa del trono e dell’altare, costituisse per alcuni di loro una valida alternativa.  Fra questi,  Rosario Parata, alias lo Sturno che dopo il 1860, soldato sbandato del disciolto esercito borbonico, ritornò a Parabita. Lo Sturno era un brigante “sui generis” perché non si macchiò mai di delitti di sangue. Si faceva annunciare da uno squillo di tromba e al grido di Viva Francesco II,  irrompeva nei vari centri abitati sventolando la bandiera bianca gigliata dei Borboni e disperdendo i militi della guardia nazionale. Così invase  Supersano, Nociglia, Scorrano e Gagliano, dove prese un caffè e poi attraversò la pubblica piazza con i fucili spianati. Nel 1864, venne catturato. Processato, fu condannato a sette anni di reclusione e a due di lavori forzati. Un anno dopo, a soli 34 anni, fu trovato morto in carcere.

L’esempio dello Sturno fu seguito da alcuni renitenti alla leva di Carpignano, Borgagne e Martano i quali costituirono una banda brigantesca capitanata da Donato Rizzo, alias Sergente e il 7 agosto 1861 penetrarono in Carpignano impadronendosi dei fucili della Guardia Nazionale e ingaggiando un conflitto a fuoco con i carabinieri nel bosco del Belvedere.

Molto più pericolosa si rilevò la banda capeggiata  da Quintino Venneri, detto Macchiorru, di Alliste. Costui,  partito  militare  nel  1859,   ritornò in   Alliste  nel 1860 come sbandato del disciolto esercito borbonico e il 7 aprile 1861 prese  parte al tumulto popolare scoppiato a Taviano. Fu arrestato ed uscito dal carcere l’anno seguente, si diede alla macchia.  Attorno a lui si raccolsero una ventina di persone, fra le quali il melissanese Barsanofrio Cantoro anch’egli sbandato del disciolto esercito borbonico, il gallipolino Scardaffa, Ippazio Gianfreda, alias Pecoraro, di Casarano, Vincenzo Barbaro, alias Pipirusso, di Alliste, Giuseppe Piccinno, di Supersano, detto Mangiafarina. Questa banda, il 25 giugno 1863, penetrò in Melissano per derubare e poi uccidere don  Marino Manco, uno dei pochi sacerdoti della diocesi di Nardò favorevole all’unificazione nazionale. Ma  le azioni delinquenziali del Venneri non finirono qui perché, pochi giorni dopo l’assassinio del Manco, assaltò il carcere di Ugento per liberare suo fratello, ivi recluso; ferì un carabiniere, si rese responsabile di numerosi furti ed estorsioni. Arrestato, riuscì ad evadere dal carcere di Lecce e infine, il 24 luglio 1866, fu ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri,  dietro la cappella di Santa Celimanna, nei pressi di Supersano.  Il suo corpo fu esposto, come monito,  sulla piazza di Ruffano.

Nella zona di Alliste operava anche la banda di Salvatore Coi che nel 1865 arruolò soldati sbandati nei Comuni di Racale, Alliste e Felline, con la promessa di quattro carlini al giorno e di saccheggio delle abitazioni dei liberali. I briganti costrinsero quindi il sindaco di Alliste a consegnare 12 fucili e dopo aver requisito altre armi si diressero verso Melissano, ma si scontrarono con i carabinieri e si diedero alla fuga. La banda fu poi catturata dalle forze dell’ordine nei pressi della masseria “Campolusio”, in agro di Ugento.

Con la morte dello Sturno e di Macchiorru  e con la cattura del Coi,  il brigantaggio nella nostra provincia poteva dirsi esaurito; rimanevano i problemi di una terra cui occorreranno decenni per uscire dalle nebbie del sottosviluppo.

Solo un’autentica rivoluzione popolare avrebbe potuto risolvere il problema agrario, coagulando intorno al nuovo Stato il consenso delle masse contadine.  Ma nel Mezzogiorno, l’Italia nasceva per opera di una minoranza che, assediata dal malcontento, consegnò le province napoletane alla monarchia sabauda. I meridionali si rassegnavano ancora una volta alla fame e alla miseria, mentre la borghesia celebrava il trionfo della sua rivoluzione.

Lettera minatoria al sindaco di Laterza per la mancata divisione dei demani comunali.

Romanzo “brigante”

 
(da wikipedia)

1861-2011 – 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, Brigantaggio e secessionismo (3.)

di Maurizio Nocera

Se «si vuole comprendere veramente il “brigantaggio”, è proprio nel “quotidiano” dei contadini del Sud che bisogna scavare, immergendosi nell’atmosfera dei tempi, dei luoghi e dell’umanità che li percorse: bisogna – in altri termini – tentare un approccio al fenomeno che non sia preconcetto e partigiano, ma storico e antropologico»

La “miseria” del Mezzogiorno era “inspiegabile” storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di citta-campagna, cioè che il Nord concretamente era una “piovra” che si arricchiva alle spese del Sud e che il [suo] incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale»

Romanzo “brigante”

di Maurizio Nocera

Ancora un appunto su un altro importante riferimento storico. Spesso i borbonici, quando parlano o scrivono di brigantaggio, richiamano una frase che Antonio Gramsci avrebbe scritto sul suo settimanale torinese «L’Ordine Nuovo» del 1920. È strano che costoro che citano Gramsci non diano mai le giuste indicazioni bibliografiche. Non riprendo qui la frase gramsciana di cui costoro si servono per richiamare il giudizio sullo Stato unitario, perché significherebbe per me, ancora una volta, falsificare la verità storica. Antonio Gramsci, in qualità di segretario generale del Partito comunista d’Italia, ha scritto tutt’altre frasi.

La supremazia del Nord

Conosco bene gli scritti di Gramsci su quel suo settimanale. Egli scrisse solo due editoriali di carattere, diciamo così, istituzionale: “Lo Stato italiano” (cfr. «L’Ordine Nuovo», 7 febbraio 1920, p. 282; e “Stato e libertà” (cfr. «L’Ordine Nuovo», 10 luglio 1920, p. 65). In questi articoli Gramsci denuncia le mostruose disparità economiche tra Nord e Sud, senza fare alcun accenno al brigantaggio, ma solo alle masse contadine meridionali costrette dai governi della Destra, primo fra tutti quello di Cavour, a

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