I cinquant’anni della spedizione etnografica di Ernesto de Martino in Salento

di Gino L. Di Mitri

 

Il cinquantenario della spedizione etnoantropologica di Ernesto de Martino a Galatina, avvenuto nel 1959, è annunciato dall’arrivo nelle librerie della quinta edizione italiana de La terra del rimorso. Si tratta della prima volta che la casa editrice il Saggiatore ricorre a una soluzione redazionale ex novo dopo le precedenti che furono, in realtà, delle ristampe anastatiche della princeps pubblicata nel 1961.

Il volume è sapientemente prefato da Clara Gallini, insigne antropologa già allieva di de Martino, la quale ricostruisce dal suo punto di vista il dibattito passato e recente sul tarantismo alla luce della letteratura specifica. Il volume è accompagnato da un cd che ripropone sia le raccolte musicali effettuate in Salento da Diego Carpitella al seguito della spedizione di de Martino, sia le immagini scattate nel 1960 dallo stesso etnomusicologo e facenti parte del documentario Meloterapia del tarantismo.

Questa decisione di una riedizione de La terra del rimorso si accompagna a una serie piuttosto lunga e articolata di seminari – organizzati dalla stessa Gallini all’Università La Sapienza – che nella fase del loro avvio hanno conosciuto anche una tappa leccese coordinata da alcuni docenti delle’ateneo salentino. In realtà, questa rievocazione di de Martino non nasce sotto il segno della tarantola, bensì in occasione del centenario della nascita dello studioso napoletano: essa era cominciata nel 2008, a un secolo dalla nascita di de Martino avvenuta nel 1908, ed è proseguita per tutto il corso dei colloqui organizzati dalla Gallini toccando, di volta in volta, temi fra loro molto diversi, quali la teoria delle apocalissi culturali, le basi teoretiche di un pensiero spesso ambivalente se non ambiguo e compreso fra crocianesimo e marxismo, il taglio delle indagini sulla magia nel Sud, il significato di storia religiosa relativo al Mezzogiorno d’Italia e molte altre cose. In ogni caso, a mio modo di vedere, l’iniziativa di riflettere su de Martino da parte dei demartiniani è stata talmente differita in tutti questi anni, da giungere verosimilmente in ritardo rispetto a più di un calendario di studi già fittamente costellati di riflessioni e riconsiderazioni critiche su de Martino a partire dal 1998.

Qualunque sia stata la ragione di questo incredibile ritardo che si aggiunge alla negligenza con cui l’opera preziosa di de Martino e la sua ricerca sul tarantismo è stata diffusa nel mondo anglosassone, va lodato invece l’impegno profuso da Dorothy Louise Zinn, un’americana che ha scelto di vivere a Matera e che dunque conosce bene i luoghi di de Martino, per la sua scientificamente accurata e letterariamente apprezzabile traduzione de La terra del rimorso per la Free Association Books di Londra. Giunge quindi finalmente in porto un’operazione editoriale attesa per decenni dal pubblico dei lettori anglofoni.

Si tratta di un caso librario in cui si coniugano le ragioni del cuore (l’amore di una cittadina straniera residente in Italia meridionale per l’opera di un autore italiano) con quelle della cultura (la volontà di donare alla scena culturale anglosassone un testo preziosissimo e finora noto solo a chi conosceva l’italiano o, attraverso un edizione del 1966, il francese). Purtroppo il volume è privo delle musiche originali, tornate invece a corredare il libro del Saggiatore.

Nell’estate del 1959, in un contesto civile e socioeconomico dai connotati così diversi da quello attuale, Ernesto de Martino compiva la sua spedizione etnografica in Salento alla scoperta del misterioso fenomeno del tarantismo. Da allora, mezzo secolo è volato in un soffio. A ricordarsi di questo particolare capitolo del suo magistero furono per primi, nel 1998 e dopo un lungo silenzio da parte del mondo accademico, gli “outsider” che organizzarono a Galatina il gremitissimo convegno internazionale “Quarant’anni dopo de Martino”. Ma, si sa, le riconsiderazioni intellettuali sovente viaggiano di ricorrenza in ricorrenza: se il decennio intercorrente tra quel primo e questo secondo colloquio ha talora risuonato dell’attrito fra due idee di de Martino e del tarantismo (quella dei fedeli seguaci demartiniani e quella degli “eretici” fautori di una nuova antropologia storica), l’anno appena iniziato si apre in un clima di maggiore rispetto teoretico dovuto a fattori quali l’attenuarsi del glamour mediatico attorno al fenomeno etnomusicale derivato dal tarantismo, il consolidarsi di una letteratura tematica meno improvvisata e più scientifica, l’instaurarsi di una solida codisciplinarità nella ricerca in cui nessuna scienza è ancillare all’altra. Proprio quest’ultimo elemento sembra essere il portato più genuino de La terra del rimorso, libro scaturito da una ricerca sul campo in cui diversi esperti operavano sotto la guida di uno storico delle religioni che aveva saputo reinventarsi etnologo. Concepita in assenza di una antropologia italiana, l’indagine demartiniana sul tarantismo dovette consumarsi in appena tre settimane di residential research. Essa, per quanto all’epoca ben preparata, alla luce delle acquisizioni successive si mostra oggi debole nella ricostruzione del contesto storico. De Martino, per esempio, ignorava il recente passato bizantino della spiritualità e della devozione popolari in quel territorio estremo della Puglia: se gli fosse stato noto, avrebbe avuto ben chiaro il perché della sopravvivenza di un tale rituale sincretico di possessione per così lungo tempo.

Inoltre, la formazione culturale personale di de Martino, da un lato ancorata a Benedetto Croce e dall’altro protesa verso la richiesta politica di una legittima emancipazione e modernizzazione di quelle genti e di quei luoghi, in parte non gli fece tener conto di elementi che la sua acerba scienza antropologica riteneva che fossero “indegni” di studio, in parte lo spinse a sottovalutare – molto più di quanto non farebbe un antropologo contemporaneo – aspetti e indizi attraverso cui operare una riuscita lettura del fenomeno. Ma al di là di questi e altri punti deboli della sua spiegazione del tarantismo, resta fondamentale in de Martino la brillante intuizione che il tarantismo fosse una voce – la più eclatante e fragorosa – della complessa storia religiosa del Mezzogiorno italiano e non un mero fatto di folklore. Se non avessimo un po’ tutti recepito da lui questo concetto, le stesse nozioni di transe e di possessione probabilmente sarebbero rimaste confinate alla letteratura etnologica francese di stampo coloniale: quella dei Marcel Griaule e dei Michel Leiris.

Grazie invece al sapiente apporto dell’etnomusicologo Diego Carpitella che vi scorse i caratteri di un “esorcismo coreutico-musicale”, l’universo caotico e inquietante del tarantismo acquisì nell’opera di de Martino i lineamenti di una creatura chimerica per metà figlia dell’irrazionale degli antichi greci e per metà evocatrice di primitivismi extraeuropei. Dal suocero e antichista Vittorio Macchioro a Ernesto de Martino pervenne l’interesse per il sistema magnogreco del sacro: una suggestione niente affatto peregrina se in precedenza aveva calamitato l’attenzione di Alfred Maury e di Aby Warburg. Ma de Martino non parlò mai esplicitamente di transe né di possessione. Fu piuttosto per tramite di Diego Carpitella che il raffinato etnomusicologo e africanista Gilbert Rouget inserì il tarantismo nello schema generale dei rituali di transe afromediterrai; benché sia stato Georges Lapassade il vero mediatore culturale tra le acquisizioni di de Martino, le scienze etnoantropologiche europee e il grande pubblico di studenti, studiosi, lettori puri e appassionati estemporanei che ha decretato l’inarrestabile fortuna editoriale de “La terra del rimorso”, il libro che da cinquant’anni spinge turbe di viaggiatori provenienti da ogni luogo d’Italia e d’Europa a compiere ogni estate il pellegrinaggio ai luoghi della tarantola sulle orme di Ernesto de Martino.

 

 pubblicato su Spicilegia Sallentina n°5

Mostra sulle Seicentine di Giuseppe Battista da Grottaglie

di Cosimo Luccarelli

Nelle sale adiacenti all’ingresso della Casa natale di San Francesco de
Geronimo in Via Spirito Santo(le vecchie  scalelle)- Centro Storico
Grottaglie – una Mostra sulle “Seicentine” del poeta grottagliese
Giuseppe  Battista
.
A Giuseppe Battista, poeta barocco, di cui ricorre il quarto centenario
della nascita, è dedicata una mostra bibliografica che raccoglie testi
pregiati in originale risalenti al 1600 e in anastatica oltre ad alcuni
libri di autori che hanno scritto e antologizzato le opere di Giuseppe
Battista. L’iniziativa è organizzata dal Centro Studi e Ricerche
Francesco Grisi e dai Padri Gesuiti di Grottaglie. Si tratta di una mostra
originale che pone in essere un preciso percorso che è quello non solo definito già nelle ricerche strutturate nel Progetto del Centro Studi “Francesco  Grisi” ma si enuclea in un modello di partecipazione sia dal punto di vista di una metodologia educativa che in una proposta rivolta alla conoscenza del poeta e della poesia del Seicento.

All’inaugurazione della mostra, fissata per Martedì 30 marzo 2010 – ore 19.00,  nelle sale adiacenti all’ingresso della casa natale del Santo Gesuita, via Santo Spirito 54 (stradina che costeggia il Santuario), interverranno Padre Salvatore Discepolo S.I. , Arcangelo Fornaro, Roberto Burano, Ciro De Roma, don Cosimo Occhibianco. La testimonianza critico – letteraria è affidata a Pierfranco Bruni mentre i lavori saranno coordinati dal giornalista della Rai Salvatore Catapano.

La mostra ha lo scopo, appunto” di “mostrare” visivamente i libri del
Battista in un itinerario di bibliografia ragionata con lo scopo di avvicinare il
pubblico a prendere contatto con il materiale.

Alcune seicentine, oltre a illustrarsi con il loro reale valore, definiscono la struttura del testo poetico, con la loro forma e la loro legatura, adottato dall’editoria “battistiana”. Importante la collaborazione, in questo senso, tra il Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi” e i Padri Gesuiti di Grottaglie, le
cui sinergie non solo hanno permesso questa manifestazione ma sancisce
l’avvio per ulteriori attività culturali. Una mostra, questa di Grottaglie, che
legge il percorso editoriale di Giuseppe Battista (1610 – 1675)
attraverso alcuni originali, le “seicentine”, che penetrano il tessuto editoriale di un Seicento che si racconta non attraverso una visione ideologica ma grazie ad una interpretazione estetica dentro la quale Giuseppe Battista
costituisce un riferimento non solo per il barocco italiano ma per il barocco tra Spagna e Francia. Nel corso della serata si potranno ascoltare musiche barocche con particolari illustrazioni di filmati oltre a trasmettere il video
realizzato dal Centro Studi “Francesco Grisi” dedicato completamente a Giuseppe Battista e il Barocco, andato in onda su RAI UNO.  In allegato la
locandina che vale come invito.

Si ringrazia la Biblioteca Comunale di Tuglie per questa ed altre segnalazioni.

Libri/Nardò Sacra

 

 

Emilio Mazzarella, Nardò Sacra, (a cura di Marcello Gaballo) Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, Nuova Serie, Congedo Editore, Galatina 1999. ISBN 8880862758

Dalla PREFAZIONE di Marcello Gaballo al volume:

è un patrimonio notevole quello delle chiese neritine, anzi rappresenta la maggior parte dei beni culturali che la città possiede e sui quali si può puntare per far decollare il paese, in tempi di accresciuta sensibilità per le espressioni storico-artistiche, che sono sotto i nostri occhi e che abbiamo sottovalutato per troppo tempo, perdendo di vista l’interrelazione profonda del futuro della città col suo passato e con la sua identità.

E’ un patrimonio straordinario che lentamente si è formato nel corso dei secoli, col contributo delle diverse gentes che hanno animato per secoli la città: messapi, greci, romani, bizantini, normanni, ebrei, francesi e spagnoli.

Già alla fine del Medioevo si era registrato in città un incremento edilizio, stimolato dalle costruzioni dei nuovi ordini mendicanti dei Francescani e dei Domenicani che, a differenza dei Benedettini, preferirono scegliere le loro dimore nel centro abitato anziché nelle abbazie sparse nella campagna.
Il numero di chiese ubicate intra moenia civitatis, che ho voluto considerare come termometro dell’ evoluzione della stessa, già è cospicuo nel XV secolo: lo provano le visite pastorali di Mons. Ludovico De Pennis del 1452 e di Mons. Gabriele Setario del 1500, i quali ne visitano, rispettivamente, 28 e 51 (quest’ultimo numero, da attribuirsi, probabilmente, al rinnovamento urbanistico della città voluto dal duca Belisario Acquaviva d’Aragona).

Emerge chiaramente da recenti studi, ancora meritevoli di approfondimento, che è il periodo compreso tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo quello di maggior sviluppo.

E’ il rinascimento cittadino, in parte stimolato dallo zelo dei diversi vescovi napoletani, ma forse anche dai grandi Giubilei del 1575, 1595 e 1600, che faceva contare ben 55 chiese nella visita di mons. Bovio del 1581 e addirittura 69 in quella di mons. Luigi De Franchis del 1612. C’è lavoro per tutti e, fra i tanti mastri ed experti fabricatores impegnati, spiccano figure come quelle del Tarantino, degli Spalletta, dei Sansone, Pugliese, Dello Verde o ancora dei Maurico, che lavorano in città e in tutta la Terra d’ Otranto.
Ricchi e poveri, nobiltà e popolo, semplici sacerdoti ed alti prelati, tra cui molti vescovi aristocratici, concorrono congiuntamente, con l’ interessamento personale e con le offerte dei devoti, ad incrementare il patrimonio architettonico ed artistico di Nardò.

Non poco impulso a questa rinascita danno i primi Acquaviva d’Aragona, e primo fra tutti il citato Belisario, che probabilmente intendono trasferire nel proprio ducato quanto già avviene a Napoli ed in tutto il Regno. Si circondano essi di nobili cortigiani e di facoltosi faccendieri che a Nardò scelgono la propria dimora, supportando l’emergente ceto sociale, la borghesia, che con le sue attività produttive e mercantili, contribuisce a trasformare la città da centro quasi esclusivamente agricolo a luogo di scambi e di consumi.

Sono i duchi a rilanciare l’amore per le lettere, a fondare accademie, ad ingrandire chiese, a costruiscono il castello e diversi conventi: quando non bastano gli artisti locali, non di rado importano maestranze forestiere, con nuovi modelli e stili che poi, spesso, ispireranno gli artisti locali per la creazione di quanto, solo in minima parte, possiamo ancora ammirare.

La nuova nobiltà invece, proveniente da tutto il Regno di Napoli, gareggia nel suo ambito per comunicare la propria potenza economica, sociale e politica: sorgono sontuosi edifici e case palazziate, individuali e collettive, ricche masserie ed artistiche cappelle, sui quali di frequente spicca, quale signum proprietatis, lo stemma di famiglia.
Sul finire del secolo XVI gran parte degli atti notarili, oltre le frequenti compravendite di suoli e abitazioni, registra numerosi appalti per la costruzione di opere pubbliche e religiose.

Si realizza il nuovo palazzo di città, si ampliano i monasteri di S. Domenico e di S. Francesco, si realizzano ex novo quelli dell’Incoronata, di S. Maria di Costantinopoli, dei Cappuccini e del Carmine con le rispettive chiese. Si ingrandiscono le cappelle della Carità, di S. Maria del Ponte, di San Giuseppe, di S. Maria della Rosa e di tante altre minori. Il tutto, frequentemente, su disegno e progetto delle anzidette maestranze locali, che modellano abilmente la tenera pietra leccese, come già stava avvenendo in tutta la terra d’Otranto.

Ogni barone fa realizzare la propria degna sepoltura nelle cappelle laterali delle chiese, prediligendo S. Antonio da Padova o la Cattedrale, senza però tralasciare San Domenico, il Carmine, S. Francesco d’Assisi.
Si fortificano anche le masserie, si costruiscono le torri costiere, i ponti, le mura esterne all’ abitato; si ripavimenta anche l’intero centro urbano. Tutta la città è un cantiere.

La straordinaria rinascita purtroppo viene interrotta dalle mutate vicende politiche, che la tirannia di Giangirolamo II (1603-26/6/1665) rende sempre più intricate e difficili, sino ad arrivare alle sommarie condanne ed alle numerose morti, tra cui quelle dei gloriosi martiri neritini del 1647.
Il clima pesante e la delazione dei sicari, l’arroganza della nobiltà e gli odiosi balzelli, preoccupano sempre di più e ben poco pensiero rimane da dedicare all’arte e forse anche al culto, tanto da far registrare un vertiginoso decremento delle opere pubbliche e delle chiese: di queste, le sole intra moenia sono passate dalle 69 visitate da Mons. Luigi De Franchis (1612), alle 23 del Vicario Nicola Giorgio Corbino (1655).

Bisognerà aspettare almeno altri 70 anni, e cioè durante l’episcopato di Mons. Antonio Sanfelice (2/11/1707 – 1/1/1736) e quando gli Acquaviva si sono definitivamente trasferiti a Conversano, per assistere finalmente ad una ripresa della città e al rifiorire di chiese e confraternite.
I modelli napoletani importati dal celebre Ferdinando Sanfelice, fratello del vescovo, e dal non meno importante pittore Solimena, prevalgono dappertutto e l’ occasione, altrettanto funesta, del flagello del terribilissimo terremoto sortito in questa città à 20 febbraro 1743, determina una nuova fisionomia della città, in gran parte ricostruita e tuttora visibile.
Si realizzano le chiese di S. Maria della Purità e dell’annesso Conservatorio, le chiese di S. Trifone, S. Giuseppe, S. Lucia, S. Teresa, la guglia dell’Immacolata. Si rifanno gli interni di S. Domenico e dell’Incoronata, del Carmine e dei Paolotti e tante altre chiese minori, intra ed extra moenia, sorgono dovunque.
Nel frattempo sono scomparse le antiche abbazie e delle chiese di patronato familiare cinque-secentesche ne sopravvivono ben poche.

Cessate da molto tempo le incursioni piratesche e venuto meno il pericolo del brigantaggio, le nuove famiglie, per lo più forestiere, giuntevi più che altro per la fertilità dei terreni e l’ amenità dei luoghi, si trasferiscono in campagna e lì, per non mancare agli obblighi domenicali della Messa, fanno costruire per sè e per i propri servi le chiesette private nei pressi della masseria o annesse alle lussuose residenze nelle Cenate.

Una ulteriore perdita, forse ancor più grave, del patrimonio religioso, viene causata dalla repubblica giacobina del 1798-99 e, soprattutto, dalla seconda occupazione Napoleonica del 1809-1814 e la promulgazione della legge 7/7/1866 numero 3036, concernente la devoluzione allo stato dei beni delle corporazioni religiose soppresse. Tutti i monasteri, fatta eccezione per quello di S. Chiara, sono soppressi e fatta variare la loro destinazione d’uso: quelli di S. Teresa, dei Paolotti, dell’ Incoronata e di S. Francesco d’Assisi sono adibiti ad abitazioni private, quelli dei Carmelitani e Domenicani in caserma e scuole. L’altro convento, quello dei Riformati, viene adibito ad ospedale civico, mentre quello dei Cappuccini è abbandonato per le esigue dimensioni. Molte chiese sono ridotte a stalle, depositi o abitazioni private, privandole delle preziose tele del Sei e Settecento, degli arredi sacri, dei reliquiari, tavole dipinte, oreficerie, ex voto, sculture…
Con queste premesse e con la speranza di dare giusto risalto e possibile salvataggio delle testimonianze di civiltà e cultura religiosa di una città distratta e poco sensibile come la nostra, si è voluta inserire Nardò Sacra, del canonico don Emilio Mazzarella, che ben merita un posto di rilievo tra gli studiosi delle vicende civiche e religiose di Nardò.

INDICE DELL’ OPERA
Presentazione di S. E. Mons. Vittorio Fusco
In memoria di Mons. E. Mazzarella, di Cosimo Carrozza
Omelia di S. E. Mons. Vittorio Fusco nelle esequie di Mons. E. Mazzarella
Prefazione del Curatore
Sequenza delle chiese nelle Visite Pastorali, a cura di Marcello Gaballo
Avvertenze del Curatore
Abbreviazioni e sigle
Introduzione
Cenno storico della città di Nardò
Dominazioni, date ed eventi memorabili
Topografia
Nardò Sacra

PARTE PRIMA
Chiese, conventi, confraternite, oratori domestici nella città di Nardò
Oratori domestici o privati

PARTE SECONDA
Istituzioni, monumenti sacri, opere caritative e pie

PARTE TERZA
Conventi e chiese presso le mura

PARTE QUARTA
Abbazie e cappelle fuori le mura
APPENDICE
Altre chiese e cappelle intra ed extra moenia non riportate dall’Autore, a cura di Marcello Gaballo

INDICI
Indice delle chiese, confraternite, monumenti ed altre istituzioni
Indice dei nomi
Indice dei luoghi

Libri/ Antonio e Ferdinando Sanfelice

“Antonio e Ferdinando Sanfelice. Il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento”
 

a cura di Marcello Gaballo, Bartolomeo Lacerenza e Fulvio Rizzo, Lavello (Potenza), Congedo Editore-Galatina, 2003. 315×220 mm., 152 pagine, con 119 tra rilievi e fotografie b/n di Raffaele Puce. Supplemento I della collana “Quaderni degli Archivi diocesani di Nardò e Gallipoli”. 20 Euro.

Prefazione di B. Lacerenza, preside dell’Istituto Statale d’Arte. Contributi di S. Bove Balestra, A. Campo, R. Casciaro, G. De Cupertinis, D. Falconieri, M. Gaballo, L. Galante, V. Manca, F. Musumeci, P. Peri, F. Rizzo

Davvero fortunata ed interessante la serie di volumi curati dall’Istituto Statale d’Arte di Nardò. Il primo riguardava la chiesa ed il convento dell’Incoronata, il secondo la cattedrale di Nardò e le pitture di Cesare Maccari nel coro dello stesso edificio. Ora la scuola ha lavorato per un superbo progetto, l’analisi delle opere dell’architetto Ferdinando Sanfelice (Napoli, 1675-1748) in città, in concomitanza con l’episcopato del fratello Antonio (Napoli, 1660-Nardò, 1707), XXIV vescovo della diocesi di Nardò, in carica per circa trent’anni.

Questo volume, ben curato e con illustrazioni di effetto, illustra l’operato e l’attività pastorale dei due fratelli che cambiarono lo spirito e l’arte a Nardò nei primi decenni del Settecento.

Ben inseriti nel contesto napoletano (la loro famiglia era tra le più in vista nella capitale del regno), trasferirono a Nardò stuoli di maestranze e capolavori dei più grandi artisti napoletani, tra i quali opere di Olivieri, De Matteis, Luca Giordano e Francesco Solimena, maestro ed amico di Ferdinando.

All’elenco delle opere artistiche tuttora esistenti in città si affianca lo studio più approfondito della chiesa del Conservatorio, che Antonio volle realizzare per le fanciulle ospiti nell’istituzione e per conservare i suoi resti mortali.

Progetti, rilievi, studio di particolari eseguiti dagli studenti della scuola ed esauriente documentazione fotografica ne fanno un testo importante.

Non è da meno la ricerca archivistica, che vanta la riproduzione dei disegni dell’architetto conservati nel museo napoletano di Capodimonte e la pubblicazione integrale dell’inedito testamento del vescovo, ritrovato negli atti notarili dell’archivio di Stato di Lecce.

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