Lecce: il giallo del Castello di S. Cataldo

di Armando Polito

Chi si attende una storia di fantasmi e simili, magari con contorno di  fattucchiere, magiche pozioni e sangue umano e non a volontà è solo un allocco che si è lasciato incantare dal titolo e probabilmente non proseguirà nella lettura. Per tutti gli altri preciso che il colore nominato nel titolo riguarda solo la fine che fece il castello del quale mi sono già occupato per altri motivi1.

Riproduco dal secondo link indicato in nota quella che probabilmente è l’immagine più antica (seconda metà del XV secolo) del nostro castello.

 

Rimane, tuttavia, incerta la sua data di nascita, proprio come quella della sua morte, che è il giallo di cui sopra. Già qualche anno fa, nel post segnalato col primo link in nota 1, avevo riportato che in Mariangela Sammarco, Silvia Marchi e Stefano Margiotta, Tra terra e mare: ricerche lungo la costa di S. Cataldo (Lecce)1,  in Rivista di topografia antica diretta da Giovanni Uggeri, XXII, Congedo, 2012, nella nota 61 di p. 128 si legge: distrutta da una mina inglese agli inizi del XIX secolo.

Tale informazione, però, aggiungo oggi, era già comparsa, con le stesse parole e virgole, in Rita Auriemma, Salentum a salo: porti, approdi, rotte e scambi lungo la costa adriatica del Salento, Congedso, Galatina, 2001, p. 156.

Andando, poi, a ritroso nella clonazione (altrimenti non so definirla), si giunge a quello che sembra essere l’originale , che, sempre nella forma già riportata, è in Francesco D’Andria, Lecce romana e il suo teatro, Congedo, Galatina, 1999, p. 119.

Ad ogni buon conto, ed è questa la cosa più eclatante, considerando lo spessore degli autori citati, senza ombrta di fonte.

Noto preliminarmente che il toponimo, unito ad un simbolo inequivocabile,  risulta presente nel foglio 31 dell’Atlante Geografico del Regno di Napoli di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni pubblicato a Napoli dal 1808.

 

E le carte successive? Debbo ad un competente ed assiduo frequentatore di questo blog, che nei suoi gratificanti commenti si firma DrAnvilon, la volontà di approfondire la questione, grazie ad una mappa (Terra d’Otranto, Napoli, 1851 Eseguita sotto la direzione dell’autore B. Marzolla), della quale qualche giorno prima mi aveva fatto pervenire un ritaglio, del quale l’immagine che di seguito riproduco è un dettaglio, pensanco che potesse tornarmi utile per qualche eventuale post di interesse storico-geografico.  E questa è la prima occasione che mi si è presentata. Dal dettaglio si direbbe che alla data del 1851 il castello fosse ancora in piedi.

 

Non è finita, perché in un’altra carta, reperita in rete, dello stesso autore e datata 1859, dalla quale ho tratto il dettaglio che segue, nulla, in riferimento all’oggetto di questa indagine, appare cambiato.

 

Antonio Rizzi Zannoni e Benedetto Mazzolla furono cartografi ufficialmente al servizio del regno e, se per il la carta del primo la data del 1808 attribuita per prudenza al foglio risulta compatibile col  citato distrutta da una mina inglese agli inizi del XIX secolo, lo stesso non può certamente dirsi per le date delle due carte del Mazzolla. Mi pare poco probabile, anche perché non si tratta di mappe storiche che Castello S. Cataldo stia ad indicare solo un mucchio di rovine o che Castello sia da intendersi come Faro, ipotesi, questa, inaccettabile se si pensa che l’attuale faro alla data del 1865 era ancora allo stadio progettuale. E così il giallo del titolo per la soluzione attende un investigatore che non sia quella schiappa del sottoscritto.

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https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/16/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-torre-di-san-cataldo-56/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

Santa Croce di Lecce e l’abate generale celestino fra Iacopo da Lezze (parte seconda)

Giulio Cesare Bedeschini,, San Pietro Celestino, 1613, dall’arcivescovato de L’Aquila (da wikipedia)

 

di Giovanna Falco

 

Santa Croce e la Controriforma

Aver individuato in «Frater Iacobus de Leccio civitate Apuliae, Monachus Ordinis Caelestinorum, Paulo Papae IIII summe carus»[1] l’abate generale della Congregazione celestina dal 1546 al 1549, il cui operato e pensiero è trasmesso dalle sue opere letterarie[2],  è spunto di molteplici riflessioni e di future ricerche atte a riportare in luce verità dimenticate e capire a fondo i messaggi scolpiti sulla facciata della chiesa di Santa Croce in Lecce, realizzata a partire dallo stesso anno, il 1549[3], della pubblicazione di Le cerimonie dei Monaci Celestini di fra Iacopo.

Le riflessioni riguardano in primo luogo l’influenza che ebbe la Controriforma nella progettazione dell’opera, ma anche l’ importanza che all’epoca ebbe la sua realizzazione per la Congregazione celestina.

La progettazione e le prime fasi costruttive della nuova chiesa (1549-1582) sono contemporanee ai lavori del Concilio di Trento (1545-1563).  Così come l’abate generale celestino – sull’onda del rigore necessario a ridare vigore alla Chiesa indebolita dalle “dottrine eretiche” sempre più diffuse, anche in ambito leccese[4] – avverte la necessità di rammentare ai suoi frati le antiche regole della Congregazione tramite la stesura in lingua volgare di Le cerimonie dei Monaci Celestini, così fa esprimere da Gabriele Riccardi lo stesso rigore nell’impianto base della chiesa leccese, atta, tra le altre, a rendere manifesta a tutti i fedeli la dottrina celestina divulgata sotto il controllo del priore della comunità monastica locale. Il rigore voluto da Fra Iacopo è tale da far pensare che nelle primissime fasi l’opera di Riccardi (1549-1582) abbia anticipato le Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae del cardinale Carlo Borromeo[5], in quanto nell’impianto della chiesa si riscontrano gran parte delle indicazioni raccolte nel trattato del Santo. Ci si chiede, dunque, quale fosse all’epoca la rinomanza di Gabriele Riccardi e se oltrepassasse i confini locali, se, quali e quante fonti di ispirazione gli abati generali celestini offrirono all’architetto per poter realizzare il repertorio architettonico e scultoreo presente nella chiesa leccese. È innegabile, ad esempio, la rispondenza tra gli elementi decorativi del monumento funebre di Celestino V di Girolamo Pittoni e alcuni presenti non solo in Santa Croce, ma anche sulle colonne e l’architrave del portale di Santa Maria degli Angeli dei Minimi di San Francesco di Paola in Lecce, realizzato anni prima dallo stesso Riccardi.

Mausoleo di Celestino V

 

La possibilità di  costruire una chiesa di tale imponenza era dovuta, alla ricchezza dell’insediamento leccese – feudatario di Carmiano e Magliano[6]-, all’epoca tra i più ricchi della Congregazione celestina, così come è emerso da Le cerimonie dei Monaci Celestini, ma anche perché il pio luogo era di patronato regio e il  detentore del beneficio ecclesiastico nel 1549, sino al 1577, era Carlo V[7].

La realizzazione dell’opera – il solo insediamento celestino di nuova fabbricazione realizzato almeno sino al 1590[8] -, può essere letta come un’occasione unica per la Congregazione Celestina di trasformare in pietra i precetti tramandati da Celestino V, i dettami in corso di definizione della Controriforma e rendere omaggio a Carlo V in qualità di difensore della Chiesa. Si spiegherebbe così l’opulenza della facciata, non riscontrabile in nessun’altra chiesa celestina, ma anche l’impegno costante degli abati generali che si avvicendarono nel corso della realizzazione delle varie fasi costruttive, come, ad esempio, è intuibile osservando il frontespizio degli Opuscola omnia del Santo pubblicati nel 1640 da frate Celestino Telera[9], dov’è raffigurato Celestino V tra l’Umiltà e la Sapienza, poste nello stesso periodo anche ai lati della facciata leccese.

 

A causa della necessità di essere al passo con i tempi, l’eventuale tributo dei Celestini a Carlo V – già espresso dal potere civico con l’Arco di Trionfo realizzato nel 1548 –  non è più leggibile (sul portale centrale risalente al 1606 Francesco Antonio Zimbalo scolpì lo stemma di Filippo III, all’epoca detentore del beneficio ecclesiastico), a meno che non si vogliano interpretare le sei mensole antropomorfe della balconata, come i nemici della Chiesa sopraffatti dall’imperatore. Alla genuflessione fra Iacopo dedica ben tre capitoli di Le cerimonie dei Monaci Celestini.

Nonostante nel corso del tempo la facciata sia stata sempre più arricchita di nuovi elementi iconografici, derivanti sia dalle vicissitudini storiche, sia da nuove esigenze di carattere dottrinale nel frattempo sviluppatesi, a ben guardare il primitivo messaggio,  rivolto alla popolazione con gli elementi essenziali e agli eruditi con l’esorbitante tripudio di allegorie, è ancora leggibile in facciata (lo è meno all’interno dell’edificio, a causa delle varie trasformazioni avvenute nel corso dei secoli).

Osservando il prospetto di Santa Croce si notano immediatamente gli elementi fondamentali che informano chi si appresta ad entrare in chiesa, sia nella partizione orizzontale (i due ordini e il fastigio), sia in quella verticale (corrispondente alla navata maggiore e alle due laterali). Dopo aver  letto De invocazione, venerazione et reliquiis sanctorum et sacris imaginibus stilata nella XXV sessione del Concilio di Trento del dicembre 1563, si capisce cosa vuole indicare ai fedeli: la chiesa di Santa Croce, in sintesi, è un luogo dove grazie all’insegnamento dei frati celestini, i fedeli hanno la possibilità di dare tributo e venerare in modo corretto Cristo, la Vergine madre di Dio e tutti i santi.

 

Note

[1] D. A. Wion, Lignum Vitae, Ornamentum, & Decus Ecclesiae, in quinque libros divisus, Venezia 1595, p. 99.

[2] Cfr. I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, Bologna 1549; Il modello di Martino Lutero, Venezia 1555; De necessitate et utilitate crucis humanae vitae libellus, Roma 1556.

[3] Gli storici che hanno studiato la chiesa riportano al 1549 la posa della prima pietra del pio edificio. Le vicende storiche ed architettoniche di Santa Croce ormai sono note, anche se si spera in una revisione unitaria di quelle che circolano nei siti divulgativi sul web. La bibliografia è vastissima  e in continuo aggiornamento, è impossibile indicarla tutta, ma è innegabile affermare che chiunque abbia condotto ricerche  sul monumento perlomeno negli ultimi vent’anni, apportando nuovi significativi contributi, ha consultato, tra gli altri, i testi a seguire: C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979); M. Calvesi, M. Manieri Elia, Architettura barocca a Lecce e in Terra di Puglia, Roma 1971; M. Paone (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina 1974; M. Fagiolo – V. Cazzato, Le città nella storia d’Italia. Lecce, Roma-Bari 1984-88; M. Manieri Elia, Barocco Leccese, Milano 1989; A. Cassiano, V. Cazzato, Santa Croce a Lecce. Storia e restauri, Galatina 1997.

[4] Alla luce degli scritti di fra Iacopo, potrebbe essere approfondito il ruolo che ebbero i celestini leccesi nel contrastare le “dottrine eretiche”, da confrontare sia con quello degli altri ordini religiosi già presenti in città, sia con quello degli ordini appositamente fondati, a partire dai frati Cappuccini, che nel 1533 fondarono presso Rugge il primo insediamento della loro Provincia di Puglia (cui si aggiunse nel 1553 il ricovero di San Sebastiano e nel 1570 il convento di Santa Maria dell’Alto), e in seguito dai Gesuiti (che si stanziarono  nel 1574)  cui dal 1588 si aggiunsero Fatebenefratelli e Teatini.

[5] Cfr. C. Borromeo, Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae, Milano 1577. Le Instructiones sono già state prese in considerazione, nell’ambito della storia dell’architettura leccese, da Francesco Del Sole (Cfr. F. Del Sole, Fenomenologia del Barocco leccese. Un delicato compromesso fra Controriforma e Riforma cattolica, in Bollettino Telematico dell’Arte, 25 luglio 2021, n. 916.

[6] Cfr. M.E. Petrelli, Palazzo dei Celestini a Carmiano: memorie di barocco e tabacco, in fondazioneterradotranto.it, 14.06.2018.

[7] Il trecentesco complesso celestino di Santa Croce, fondato dal conte Gualtieri VI di Brienne, sorgeva vicino al castello medievale. Quando nel 1537 si decise di ingrandire la struttura militare e allargare lo spiazzo antistante, furono dismessi assieme alla cappella regia della Trinità, ricostruita a spese della Regia Corte nel 1562, e alle cappelle di patronato regio di San Leonardo Confessore e Santi Giacomo e Filippo (Cfr G.C. Infantino. Lecce sacra, Lecce 1634, a cura di M. Cazzato, Lecce 2022, pp. 182-83).

[8] Affermazione che si evince confrontando gli elenchi dei monasteri celestini pubblicati nel 1549 (Cfr. I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini… cit.) e nel 1590 (Cfr. Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, Bologna  1590).

[9] Cfr. C. Telera, S. Petri Caelestini PP.V. Opuscola Omnia, Napoli 1640. Strenuo difensore di Celestino V, frate Celestino Telera di Manfredonia fu abate generale della Congregazione dal 1660 al 1664. Oltre agli opuscoli di Pietro da Morrone, scrisse le Historie sagre degli huomini illustri della Congregazione de’ Celestini, pubblicato a Bologna nel 1648. Alla sua morte, avvenuta nel 1670, l’abate generale Matteo da Napoli fece erigere in suo onore un monumento.

 

Per la prima parte vedi qui:

Santa Croce di Lecce e l’abate generale celestino fra Iacopo da Lezze (parte prima) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Santa Croce di Lecce e l’abate generale celestino fra Iacopo da Lezze (parte prima)

Basilica di Santa Croce a Lecce, particolare del rosone

 

di Giovanna Falco

 

De ceremonijs Ordinis di Iacobus de Leccio

Dopo aver ammirato un raggio di sole entrare dalla cupola e riflettersi sul pavimento della navata centrale di Santa Croce –  la basilica della Congregazione celestina in via Umberto I a Lecce, realizzata tra il 1549 e il 1646 –, mi sono chiesta se l’ubicazione di rosoni e finestre fu progettata in base al movimento del sole nel corso della giornata, per illuminare gli altari nelle ore in cui si svolgevano le solenni cerimonie liturgiche. Ho rintracciato un testo dove sono descritte tutte le funzioni religiose della Congregazione. Non ha risolto i miei dubbi, ma è interessantissimo per la storia di Santa Croce.

 

In un elenco di scrittori celestini redatto da D. Arnoldo Wion[1], ho reperito il «De ceremonijs Ordinis sui, lib. I» scritto da «Frater Iacobus de Leccio»[2], ovvero Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, pubblicate a Bologna nel 1549 – lo stesso anno, ritenuto dagli studiosi, dell’inizio dei lavori della nuova chiesa celestina leccese -, opera di Iacopo Moronessa abate generale della Congregazione celestina nel triennio 1546-1549: un fervente antiluterano e autorevole teologo, che esercitò incarichi importanti all’interno della Congregazione, perlomeno  tra il 1534 e il 1554, così come ho potuto riscontrare consultando successivamente i saggi di Aldo Caputo[3] e Franco Lucio Schiavetto[4].

«Fra Iacopo da Lezze» si autodefinisce: «servo in utile di Gesù Christo, e Minimo di tutti i Celestini, quale con consenso di tutti i Padri dell’ordine ridussi il Capitolo Generale alla terza Domenica poi Pasqua di resurrettione, di, e tempo co(m)modo à tutta la religione, e fù confirmato con breve Apostolico»[5]. La notizia è riportata anche nelle Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum stampate nel 1590[6] e nel 1627[7].

Wion scrive: «Frater Iacobus de Leccio civitate Apuliae, Monachus Ordinis Caelestinorum, Paulo Papae IIII summe carus, scriptis De Consolatione Crucis, lib. I. De ceremonijs Ordinis sui, lib. I. De vita S. Caelestini Papae V, lib. I. Martinellum contra Lutheranos, Lib. I. Quae omnia excusa dicuntur, sed ubi, hactenus ignoro,  per edidit, quae non dum impressa sunt.»[8].

Le opere di fra Iacopo sono citate, tra gli altri, da Giulio Cesare Infantino[9] e Luigi Tasselli[10]. La vita di San Celestino papa fu pubblicata assieme a Le Cerimonie dei Monaci Celestini, le altre due furono date alle stampe con il titolo Il modello di Martino Lutero, pubblicato a Venezia nel 1555, e De necessitate et utilitate crucis humanae vitae libellus, pubblicato a Roma nel 1556. Schiavetto, inoltre, ha individuato in Fra Iacopo l’autore delle Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum pubblicate nel 1534[11].

Tra le opere di Fra Iacopo la più controversa, a causa delle impetuose convinzioni antiluterane, che gli costarono lo scherno di Pietro Paolo Vergerio[12], è Il modello di Martino Lutero, oggetto di molteplici studi, tra cui il saggio di Aldo Caputo[13], dove sono riportate interessanti note biografiche di fra Iacopo. Poco studiata risulta De necessitate et utilitate crucis humanae vitae libellus, opera da prendere in considerazione dagli studiosi della chiesa di Santa Croce.

 

Dopo il capitolo generale della Congregazione indetto a Napoli il 20 maggio 1547[14], fra Iacopo decise di compilare in lingua volgare Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre per indicare a tutti i frati della Congregazione  una regola comune da seguire, motivandone le ragioni. L’abate generale era consapevole «ch’e da molt’anni  in qua, sì per la povertà de i luoghi , sì anchor per essere diminuito il numero dei monaci, le Cerimonie, che si deono usare circa il colto divino, sono in alcun monastero in tutto abbandonate, in alcuno in parte lasciate, & in alcuno adulterate, in tanto, che quanto monasteri habbiano, tante varie Cerimonie vi sono, considera(n)do anchora i varij abbusi, che sono nei nostri monasteri, circa il cotidiano vivere, à i quali in parte non è stato proveduto dalle sacre  costituzioni»[15]. La sua intenzione era quella di dare «gratia divina, pace vera, e felicità Celeste à tutti i direttissimi suoi fratelli, e figliuoli, monaci della istessa Congregatione»[16].

L’opera è un vero e proprio manuale: si compone di un’epistola «à i Padri dell’ordine di molta utilità, nella qual introduce, essorta, persuade, e co(m)manda abbracciare, et osservare tutto quello si contiene in detta operina ad honore d’Iddio, e della religione, di tutti loro»[17]; quarantadue capitoli dov’è dettagliatamente indicato il comportamento cui si dovevano attenere i frati, sia nell’ambito della vita monastica, sia in chiesa durante lo svolgimento delle cerimonie quotidiane e solenni; la trascrizione in latino del verbale del capitolo generale del maggio 1547; il «Della vita, e morte, canonizatione, traslazione all’Aquila, & apparizione in breve ridutta del nostro Beatissimo Padre san Pietro Celestino»; l’elenco «De i nomi, e numero delle Provincie, e dei Monasteri della nostra religione» e «Il Catalogo degli Abati che sono stati nella nostra religione cominciando da Celestino Quinto nostro padre, sin’ all’Autore della operina Maestro Iacopo Aletino».

L’illustrazione presente nel frontespizio di Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, potrebbe rappresentare il monito ai frati di non cadere nei peccati della carne. È riconducibile alla sirena bicaudata, l’elemento iconografico presente in Santa Croce a Lecce e scolpita più volte sul mausoleo funebre di Celestino V nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio a l’Aquila, realizzato nel 1517 da  Girolamo Pittoni (1490-1568).

Ai fini della storia della comunità leccese, è interessante notare che in Le cerimonie dei Monaci Celestini,  «Il monastero di Santa Croce di Lezze» è il primo nell’elenco della «Provincia di Terraotranto»[18].

Nelle  Constitutiones pubblicate nel 1590, il «Monasteriu(m) S. Crucis de Litio» è elencato come ventunesimo priorato della Congregazione celestina, quando versava la «taxa verò pro Reverendissimo Domino Abbate à Monasyerijs exigenda est ista»[19] di 20 tarì – stessa cifra già riportata in Le cerimonie -, risultante la somma più alta dopo quella dei monasteri di Santa Caterina di Terranova (26 tarì) in Calabria e di San Nicolò di Bergamo (22 tarì).

Dal confronto tra l’elenco degli abati generali di Le cerimonie e quello delle Constitutiones, si può risalire sia ai nomi di chi governava la Congregazione celestina nelle fasi cruciali della storia del monastero di Santa Croce[20], sia a quelli degli abati generali di origine leccese, citati anche da Giulio Cesare Infantino: frate Antonio d’Afflitto, eletto nel 1441 (ai tempi di Maria d’Enghien), maestro Stefano da Lecce, eletto nel 1474 e nel 1480, e maestro Raimondo da Lecce, eletto nel 1492, 1498 e 1510[21].

(continua)

 

Note

[1] Cfr. D. A. Wion, Lignum Vitae, Ornamentum, & Decus Ecclesiae, in quinque libros divisus, Venezia 1595.

[2] Ivi, p. 99.

[3] Cfr. A. Caputo, Un antiluterano leccese. L’abate generale Celestino Iacopo Maronessa, in L’Idomeneo, n. 24, pp. 139-158, Lecce  2017.

[4] Cfr. F.L. Schiavetto, Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, in L. Gatto – E. Plebani (a cura di), Celestino V. Cultura e società,  Università La Sapienza, 2007, pp. 109-117. Sono di fondamentale importanza i rimandi dell’autore ad altri studi sulla Congregazione celestina.

[5]  I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, Bologna 1549, c. 131r.

[6] Cfr. Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, Bologna  1590, p 339.

[7] Cfr. Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, Roma 1627, p. 8.

[8] D. A. Wion, Lignum Vitae… cit., p. 99.

[9] Cfr. Cfr G.C. Infantino. Lecce sacra, Lecce 1634, a cura di M. Cazzato, Lecce 2022, p. 121.

[10] Cfr. L. Tasselli, Antichità di Leuca, Lecce 1693, p. 52 32.

[11] Cfr. F.L. Schiavetto, Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum cit.

[12] P.P. Vergerio, Vide Quid Papatus Sentiat De Illustrissimis Germaniae Principibus, ac de liberis Civitatibus quae Evangelio nomen dederunt, 1556.

[13] Cfr. A. Caputo, Un antiluterano leccese. L’abate generale Celestino Iacopo Maronessa, cit.

[14] Tra i priori provinciali convocati erano presenti «f. Iulius Alethinus prior provincialis terrae labris» e «f. Aloisius Alethinus prior provincialis piscarie» (I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini…,, c.111r).

[15] Ivi, c. 9r.

[16] Ivi, carta non numerata.

[17] Ivi, c. 132r.

[18] In Le cerimonie La Congregazione celestina, oltre a 12 monasteri autonomi, era suddivisa in 14 provincie: Terra di Lavoro composta da 16 insediamenti, Puglia composta da 9 insediamenti, Campagna di Roma composta da 7 insediamenti, Romagna composta da 11 insediamenti, Umbria composta da 2 insediamenti, Lombardia composta da 9 insediamenti, Terraotranto composta da 7 insediamenti, Molisio composta da 9 insediamenti, Pischaria composta da 7 insediamenti, Principato composta da 5 insediamenti, Calabria composta da 2 insediamenti, Toscana composta da 2 insediamenti, Francia composta da 19 insediamenti, Alemagna composta da 2 insediamenti, per un totale di 100 insediamenti in territorio italiano, 19 in Francia e 2 in Germania (i due insediamenti tedeschi erano già stati soppressi nel 1590). La Provincia di Puglia è la seconda con 9 insediamenti – San Bartolomeo di Lucera, San Pietro di Manfredonia, San Benedetto di Monte Sant’Angelo, San Pietro di Vesti, Trinità di Barletta, Santo Eligio di Barletta, Trinità di Molfetta, San Pietro di Bari, San Pietro della Rizza (dal 1590 di pertinenza di Santo Eusebio di Roma) -, quella di Terra d’Otranto la settima con 7 insediamenti – Santa Croce di Lecce, San Giovanni Battista di Oria, San Bartolomeo di Mesagne, Sant’Arcangelo di Brindisi, Sant’Angelo di Alessano, San Pietro di Ugento, Santa Maria dei Martiri di Taranto.

[19] Constitutiones monacorum… cit. p 205. All’epoca, oltre l’abazia di San Pietro di Sulmona, da cui dipendevano 4 insediamenti (tra cui il vicariato di S. Petri de Archis), la Congregazione sul territorio italiano era suddivisa in 37 monasteri, di cui 35 priorati,  e 61 vicariati, per un totale di 115 insediamenti. Riguardo gli insediamenti ricadenti nelle provincie di Terra d’Otranto e Puglia in Le cerimonie, erano suddivisi nei priorati di: San Bartolomeo di Lucera; Santa Croce di Lecce; S. Giovanni Battista di Oria, da cui dipendevano i vicariati di S. Pietro di Bari  e della Trinità di Molfetta; Santa Maria dei Martiri di Taranto, da cui dipendevano i vicariati di S. Bartolomeo di Mesagne, Sant’Arcangelo di Brindisi, Sant’Angelo di Alessano e San Pietro di Ugento; SS. Trinità di Barletta, da cui dipendevano i vicariati di S. Eligio di Barletta, S. Pietro di Limosano e S. Pietro di Petrella (quest’ultime due in Le cerimonie ricadevano nella provincia di Molisio); S. Benedetto di Monte S. Angelo, da cui dipendevano i vicariati di S. Pietro di Vesti e S. Pietro di Manfredonia.

[20] Infantino, in base alle carte consultate nell’archivio del monastero, cita ai tempi della fondazione «D. Matteo Abbate Generale» (G.C. Infantino, op.cit,, p. 117), ma le fonti celestine consultate riportano eletto nel 1350 frate Giovanni della Torre. Le sole Constitutiones del 1627, citano frate Giacomo da Eboli eletto nel 1353.

[21]Infantino riporta i nomi dei tre abati generali leccesi con le stesse date di elezione, definendo d’Afflitto e P. Stefano teologi e «P.D. Raimondo Petrello Teologo, e Predicatore famosissimo», tralasciandone, però, l’elezione del 1510 (G.C. Infantino, op.cit,, p. 117).

Viaggio nel passato al Museo Ferroviario della Puglia

di Giovanni Maria Scupola

Il Museo Ferroviario della Puglia è una struttura del Comune di Lecce, gestita dall’AISAF Onlus (Associazione Ionico Salentina Amici Ferrovie), sodalizio con finalità no profit che persegue la diffusione e valorizzazione del trasporto collettivo su rotaia attraverso la conoscenza della storia e della realtà ferroviaria.

Il museo, sito in Via Giuseppe Codacci Pisanelli, si aggiunge a tante altre realtà che a livello locale sono sorte in questi anni e che sono la testimonianza vivente di quanta passione ed amore sollecitino le ferrovie nei territori delle nostre belle province.

Dal 1997 l’AISAF è impegnata nella raccolta e salvaguardia di rotabili storici, cimeli e documenti per testimoniare la storia ferroviaria della Puglia.

Nel 2007 il Comune di Lecce ha acquisito dalle Ferrovie dello Stato i fabbricati e parte dell’area di pertinenza delle ex Officine Squadra Rialzo di Lecce, ne ha avviato la ristrutturazione e nel 2010 li ha affidati all’AISAF per l’organizzazione, la gestione e l’apertura al pubblico del museo.

La collaborazione tra AISAF, Ferrovie dello Stato e Ferrovie del Sud Est ha portato alla salvaguardia di importanti testimonianze storiche della rete ferroviaria pugliese, oggi visitabili all’interno del museo.

Nel 2016 la raccolta si è arricchita di un rotabile che è l’unico testimone rimasto della tradizione a vapore nel Salento: la locomotiva N. 316 FSE del 1913, recuperata e restaurata grazie al notevole impegno dei soci della Onlus.

Oggi nel museo sono esposti cimeli di vario genere, diorami (ambientazioni in scala) e plastici ferroviari che riproducono situazioni locali, nazionali ed internazionali, locomotive a vapore, locomotori elettrici e diesel, carri e carrozze, provenienti dalle Ferrovie dello Stato, dalle Ferrovie del Sud Est, dalla ex Manifattura Tabacchi di Lecce; testimonianze che, grazie anche alla qualificata ed attenta collaborazione di Fondazione FS Italiane, si spera poter incrementare e valorizzare al meglio.

Un bell’esempio di quali risultati possa raggiungere la passione per la ferrovia quando è unita all’amore per le proprie radici, all’impegno ed al sacrificio personale.

George Berkeley e Lecce

di Pier Paolo Tarsi

George Berkeley, dopo averle visitate – rigorosamente, da buon filosofo empirista! – non aveva dubbi su quale fosse la città più bella d’Italia.
«Signore,
sono appena tornato da un viaggio attraverso le parti più remote e sconosciute d’Italia. Le celeberrime città di cui Sua Signoria è perfettamente a conoscenza.
Forse però Lei non sa che la città più bella d’Italia si trova in un remoto angolo del tacco. Lecce (anticamente Aletium) è di gran lunga la città più ricca di ornamenti architettonici tra tutte quelle che ho visitato. Le case più semplici sono costruite con pietre tagliate, porte decorate, case rustiche. Gli ornamenti attorno alle finestre sono di ordine dorico e corinzio, le balaustrate sono in pietra. I bellissimi conventi che ho visto a Lecce non li ho ritrovati in nessuna altra parte d’Italia, per quanto a volte le decorazioni risultino addirittura superflue.
Prevalgono gli ornamenti di ordine corinzio, il più amato dagli abitanti. Lo si ritrova infatti anche sulle porte della città, stupende.
La città non si affaccia sul mare e quindi non ha un commercio florido, ragion per cui gli abitanti non sono più di 16.000. Sono persone civili ed educate, sembra che abbiano ereditato l’amabilità degli antichi greci che in passato hanno abitato
queste parti dell’Italia.
Saprà che nella maggior parte delle città italiane i palazzi sono effettivamente molto belli, ma le case ordinarie sono di scarso rilievo. Anche a Roma è così. A Lecce invece il buon gusto è generalizzato e caratterizza perfino le più umili delle abitazioni. Ho visto tante altre città notevoli, tra le rimanenti cinque bellissime città in un giorno solo, la maggior parte di esse costruite con marmo bianco i cui nomi sono ignorati dagli inglesi.
La stagione dell’anno (molto più mite di quel che mi aspettavo) e i tanti splendidi paesaggi di Puglia, Peucezia e l’antica Calabria hanno reso questo viaggio davvero piacevole. Devo ricordare anche i bei resti dell’antichità che ho visto a Brindisi,
Taranto, Venosa (città natale di Orazio), Canne, famosa per l’importante vittoria riportata da Annibale e tanti altri posti, in ognuno dei quali eravamo visti come creature cadute dal cielo, a volte eravamo seguiti da cospicui gruppi di curiosi cittadini che ci accompagnavano per le strade. La paura dei banditi che dissuade tanti stranieri dal visitare queste terre non è che uno spauracchio.
Al mio ritorno a Napoli ho trovato il Vesuvio in uno stato preoccupante che non è ancora scomparso del tutto.
Prego Sua Signoria di comunicarmi quale strada intendono percorrere Lei, la mia Signora e Mrs Parker, in maniera da poterci incontrare per il viaggio di ritorno.
Porga loro i miei saluti.
Testaccio, isola di Inarime,
I settembre N.S. 1717»

La Terra d’Otranto in un prezioso arazzo (3/3)

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

Passiamo ora alle immagini dei monumenti e degli stemmi contenute nei medaglioni sottostanti le coppie di nomi. Siccome tutti i monumenti si riferiscono a Lecce, l’unica concessione fatta a città diverse consiste nella riproduzione del loro stemma in riferimento al personaggio, a cui dette i natali,  indicato nel cartiglio. Da notare, però come i medaglioni, i cartigli e la stessa figura centrale siano legati tra loro da elementi decorativi di natura vegetale che conferiscono al tutto un senso di compattezza e di straordinaria unità nella diversità. Di stemmi e monumenti forniamo anche l’immagine recente per consentire al lettore un immediato riconoscimento-riscontro. Di solito in lavori del genere per la rappresentazioni di paesaggi era normale avvalersi a mo’ di modello di foto, possibilmente di fotografi famosi. E non si può fare a meno a tal proposito di pensare a Pietro Barbieri ed a Francesco Lazzaretti. Pietro Barbieri, di origini modenesi, insieme col fratello Augusto trasferì lo studio da Modena a Lecce, ove i due operarono dal 1878 al 1905.  Pietro fu anche pittore di ritratti, le cui foto serviranno di base ai pittori. A lui e al fratello fu commissionato un album fotografico sulla Terra d’Otranto da donare al sovrano insieme con l’Illustrazione dei principali monumenti di Terra d’Otranto, che raccoglieva i contributi monografici di Giacomo Arditi, Francesco Casetti, Luigi Maggiulli, Cosimo De Giorgi, Luigi De Simone e Sigismondo Castromediano. Questa sorta di catalogo venne pubblicato con il titolo di Illustrazione dei principali monumenti di Terra d’Otranto per i tipi di Campanella a Lecce nel 18891. Le foto dei Barbieri, per i quali una sorta di gemellaggio, sia pure in formato risotto, con gli Alinari non sarebbe fuori luogo, vennero utilizzate a corredo di parecchi testi geografici, alcuni dei quali avremo occasione di citare più avanti.

Federico Lazzaretti  (1858-1937), invece, nato a Lecce, vi aprì nel 1884 insieme con il fratello Luigi la Premiata litografia, uno studio che si occupava anche di legatoria e fotografia. Nel 1905 insieme con Luigi Conte rilevò lo studio dei fratelli Barbieri.

Nonostante per certi soggetti l’inquadratura sia quasi obbligata, volta per volta riporteremo per ogni dettaglio paesaggistico contrassegnato da un numero sull’insieme la foto che potrebbe aver funto da modello ed una recente.

1 A sinistra lo stemma di Lecce2, a destra la chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo.

Foto Barbieri tratta da Gustavo Strafforello, La patria. Geografia dell’Italia. Provincie di Bari, Foggia, Lecce, Potenza, Unione Tipografico-editrice, Torino, 1899,  fig. 63, p. 200

2 Piazza Duomo. In questo caso il modello potrebbe essere stato Federico Lazzaretti (1858-1937). La foto, sua,  che segue è  tratta da Giuseppe Gigli,  Il tallone d’Italia, op. cit., Istituto italiano d’arti grafiche editore, Bergamo, 1911, p. 25.

 3 A sinistra lo stemma di Brindisi3 (patria del De Leo), a destra l’Istituto Marcelline.

Qui come elemento di raffronto siamo in grado di proporre solo due cartoline del 1901 (data d’inoltro), comunque preziose a testimoniare il cambiamento del paesaggio in un secolo.

Questa seconda offre una prospettiva molto vicina a quella dell’arazzo.

4 A sinistra Porta Napoli, a destra stemma di Gallipoli4 (patria, per alcuni, del De Ribera)

L’inquadratura obbligata rende problematica l’individuazione del modello, che potrebbe coincidere con uno dei tre proposti di seguito.

Foto Barbieri tratta da Gustavo Strafforello, La patria …, op. cit., fig. 59, p. 196

Da Le cento città. Supplemento mensile illustrato del Secolo, Sonzogno, Milano, n. 9420 del 28 giugno 1892.

Foto Lazzaretti tratta da Giuseppe Gigli, Il tallone …, op. cit., p. 29

5 Palazzo dei Celestini e Basilica di S. Croce

 

Foto Lazzaretti, tratta da Giuseppe Gigli, Il tallone …, op. cit., p. 43

6 A sinistra la Torre di Belloluogo, a destra lo stemma di Taranto5 (patria di Paisiello e di Archita). Da notare come nello stemma Taras (il mitico fondatore della città) in groppa al delfino regge con la destra un tridente raffigurato in verticale, posizione diversa rispetto a quella dello stemma attuale e ispirata a quella delle monete antiche di datazione più recente (III secolo a. C.6; in quelle precedenti il tridente è assente).

Foto Barbieri tratta da Gustavo Strafforello, La patria …, op. cit., fig. 75, p. 212

La comparazione che segue tra l’immagine originale del Barbieri (che nello Strafforello risulta tagliata) e quella dell’arazzo mostra la loro perfetta sovrapponibilità. Molto probabilmente proprio la foto del Barbieri funse da modello per l’esecuzione del dettaglio dell’arazzo. Se ciò risponde alla realtà dei fatti possiamo stabilire un elemento di datazione, per quanto approssimata, dell’arazzo, dicendo che esso è probabilmente successivo al 1889, anche se il Barbieri avrà sicuramente realizzato la foto qualche anno prima di tale data.

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/29/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-1-3 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/30/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-2-3/

_________

1 Il volume è raro (l’OPAC segnala una copia nelle seguenti biblioteche: Ugo Granafei  di Mesagne ( BR),  Nicola Bernardini di Lecce, Pietro Siciliani di Galatina (LE), Pietro Acclavio di Taranto, Apulia di Manduria (TA) e Reale di Torino. Una copia manoscritta (ms. N/14) è custodita nella Biblioteca arcivescovile A. De Leo a Brindisi, naturalmente senza le immagini (http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACNMD0000209597&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU).

2 (immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/File:Lecce-Stemma.png)

Sullo stemma vedi La Terra d’Otranto ieri e oggi (8/14): LECCE, in  http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

3 (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/5/55/Brindisi-Stemma.png)

Sullo stemma vedi Brindisi e il suo porto cornuto in http://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/09/brindisi-e-il-suo-porto-cornuto/

4 (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/b/b9/Gallipoli_%28Italia%29-Stemma.png)

Sullo stemma vedi Bartolomeo Ravenna, Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836, pp. 25-27 (https://books.google.it/books?id=fM8sAAAAYAAJ&printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&q&f=false)

5 (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/4/47/Simbolo_Taras.jpg)

6 (immagine tratta da http://www.wildwinds.com/coins/greece/calabria/taras/BMC_214.jpg)

Verso di un nummo d’argento. Taras nudo seduto sul dorso di un delfino regge con la sinistra (nell’arazzo con la destra) il tridente.

Sullo stemma vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/01/25/taranto-suo-stemma/.

I coniugi Peruzzi, benefattori dello Spedale degli Innocenti a Firenze e fondatori del convento dei Minimi in Lecce

Lecce, chiesa di S. Maria degli Angeli

 

di Giovanna Falco

Si aprono nuove prospettive di ricerca sulla storia della chiesa di Santa Maria degli Angeli e del convento di San Michele Arcangelo dei Minimi di San Francesco di Paola, ubicato in piazza dei Peruzzi a Lecce: i fondatori Giovannella e Bindaccio di Bernardo di Bindaccio Peruzzi[1] furono anche benefattori dello Spedale degli Innocenti di Firenze, dove i loro ritratti sono conservati insieme con quelli di altre personalità dell’Istituto fiorentino.

Tutte le fonti che trattano della fondazione del complesso conventuale dei Minimi in Lecce[2], seppur contraddittorie sulle date, concordano nell’attribuirla a Giovannella Maremonte, vedova di Bindaccio Peruzzi, morto il 14 luglio 1502[3].

La vedova Peruzzi su disposizione testamentaria del marito, volle far realizzare in un giardino fuori porta San Giusto un oratorio e chiesa. Il 14 maggio 1524 il notaio Sebastiano de Carolis di Firenze rogò l’atto di fondazione del convento dei Minimi di San Francesco di Paola, alla presenza del provinciale genovese dell’Ordine e di Giovannella[4].

Con testamento del 13 marzo del 1527, rogato a Firenze dal notaio Paolo Antonio de Rovariis[5], la Peruzzi donò altri beni per l’erigendo convento.

Purtroppo i documenti originari sono stati dispersi, così come i riassunti degli atti del 1524 e del 1527, eseguiti nel 1766 dal notaio Lorenzo Carlino[6].

Lecce, chiesa di S. Maria degli Angeli, portale di ingresso

 

Il giardino dov’è sorto il complesso conventuale dei Minimi, era conosciuto dai leccesi come Panduccio, distorsione dialettale del nome del proprietario, la cui presenza a Lecce è attestata negli anni Settanta del Quattrocento[7]. Ritornato a Firenze, Bindaccio Peruzzi ricoprì ruoli rappresentativi per l’Arte dei Mercanti[8], di cui nell’aprile del 1502 era ancora membro del consiglio, seppur assente[9]. Tre mesi dopo donò parte dei suoi beni allo Spedale degli Innocenti di Firenze, così com’è riportato nella targa del ritratto che lo commemora (www.catalogo.beniculturali.it › sigecSSU_FE › schedaCompleta.action): «Bindaccio Peruzzi priore del comune nel MCCCCXCV largi’ con testamento de’ X luglio MDII parte de’ suoi averi a questo brefotrofio e l’esempio del misericordioso consorte fu seguitato dalla moglie»[10] .

Stemma dei Peruzzi

 

Grazie alla consultazione delle carte d’archivio dell’Ospedale degli Innocenti, Luigi Passerini e Alessandra Mazzanti e Vincenzo Rizzo, individuano la vedova di Bindaccio in Giovannella Peruzzi, il cui ritratto nel Settecento era esposto nel guardaroba dell’Istituto[11]. La vedova Peruzzi figlia «di Niccolò De Noe»[12], proveniente dalla «Basilicata nel Regno di Napoli»[13], morta nel 1527[14].

Le date coincidono, ma Giovannella Peruzzi, nei documenti dell’archivio dell’Istituto fiorentino risulta essere un’esponente di casa de Noha, e non di casa Maremonte.

Stemma dei Maramonte

 

La diversa interpretazione del cognome della fondatrice nei documenti conservati presso il convento leccese è indirettamente chiarita da Michele Paone, quando scrive che nel 1524: «in Firenze la vedova di Bindaccio Bernardo Peruzzi, Giovannella, orfana di Nicola Gionata e Margherita Maremonte, donò ai minimi di S. Francesco di Paola la chiesa di S. Maria degli Angeli»[15]. La provenienza dalla Basilicata del padre di Giovannella, Nicola de Noha, è attestata (salvo che non si tratti di un caso di omonimia) da Giustiniani: nel 1457 re Alfonso diede Latronico «per ducati 600 a Cola de Ionata de Noha»[16]. Conferma la distorta lettura dell’atto del 1524, il nome del notaio fiorentino tramandato in maniera errata: si è individuato, infatti, Sebastiano de Carolis, in Bastiano di Carlo da Fiorenzuola, i cui atti, anche quelli del 1524, sono conservati presso l’Archivio di Stato di Firenze, dove non è reperibile l’annata 1527 di Paolo Antonio Rovai, il notaio che ha redatto il testamento della vedova Peruzzi[17].

Lecce, chiesa di S. Maria degli Angeli, particolare dell’ingresso

 

Alla luce di questa identificazione, sono tanti gli elementi da riprendere in considerazione, per aggiungere nuovi capitoli alle vicende del complesso monastico. Riguardo al campo prettamente artistico, non è da escludere la provenienza diretta dei disegni per realizzare la chiesa commissionata dalla Peruzzi, dalla Firenze dei grandi artisti rinascimentali, poiché i lasciti per entrambe le istituzioni denotano l’appartenenza della coppia all’elite fiorentina. Seppur di fattura locale e successiva, è evidente, ad esempio, il richiamo iconografico della lunetta della chiesa leccese alle opere di Andrea Della Robbia.

Andrea della Robbia, Madonna con Bambino e Angeli (1504-1505), cattedrale di San Zeno, Pistoia (dal sito Tuscany sweet Life)

 

Andrea della Robbia Madonna con Bambino e angeli (1508 ca. – 1509 ca.), Museo Civico di Viterbo, prima chiesa di San Giovanni dei Fiorentini Viterbo (dal sito della Fondazione Federico Zeri, Università di Bologna)

 

Un’attenta analisi delle fonti minime, contestualizzata con le vicende storiche di Puglia e Firenze, inoltre, potrebbe determinare il perché la scelta dei fondatori ricadde su quest’Ordine. Lo studio delle vicissitudini delle famiglie dei fondatori e delle fasi costruttive del complesso monastico, potrebbero individuare l’epoca e il perché la famiglia Maremonte passò alla storia come fondatrice della chiesa di Santa Maria degli Angeli, il cui stemma è presente in facciata assieme a quello di Bindaccio Peruzzi.

 

Note

[1] Cfr. F. Bruni, Storia dell’ I. e R. Ospedale di S. Maria degl’Innocenti di Firenze e di molti altri pii stabilimenti, Volume I, Firenze 1819 p. LXXXII.

[2] Cfr. L. Montoya, Coronica general de la Orden de los Minimos de S. Francisco de Paula su fundador, lib. I, Madrid 1619, p. 87; G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. A cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), pp. 93-94; F. Lavnovius, Chronicon generale ordinis Minorum, 1635, p. 193; R. Quaranta, Storia della provincia pugliese dei Minimi nel manoscritto Historialia monumenta chronotopographica provinciae Apuliae del p. Antonio Serio: (metà sec. XVIII), Roma 2005, pp. 35-40; F.A. Piccinni, Principiano le notizie di Lecce, in A. Laporta (a cura di) Cronache di Lecce, Lecce 1991, pp. 15, 224-226; A. Foscarini, Guida storico-artistica di Lecce, Lecce 1929, pp. 126-130; G. Paladini, Note storico-artistiche, in L’Ordine: corriere salentino, 6 luglio 1934 , a 29, fasc. 27 (www.internetculturale.it); G. Paladini, Guida storica ed artistica della città di Lecce. Curiosità e documenti di toponomastica locale, Lecce 1952, pp. 212-224; L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, p. 114-118; O. Colangeli. S. Maria degli Angeli. S. Francesco di Paola, L’ex convento dei Minimi francescani, Galatina 1977; M. Paone, Chiese di Lecce, vol. I, Galatina 1981, pp. 317-319.

[3] Cfr. A. Foscarini, Op. cit., p. 126; O. Colangeli. Op. cit., p. 5.

[4] Il Provinciale genovese, sostituiva padre il generale dell’Ordine, Marziale de Vicinis, assente. Padre Antonio Serio lo individua in Michele de Comte, Francesco Antonio Piccini, invece, in Antonello de Vicinis. Il Chronicon conferma quanto asserito da Serio (cfr. F. Lavnovius, op. cit., pp. 190-191). Da Piccinni in poi la data riportata è il 10 maggio 1524 (cfr. G. Paladini, Guida storica ed artistica della città di Lecce, cit; L. G. De Simone, op. cit; O. Colangeli. Op. cit).

[5] Cfr. R. Quaranta, Storia della provincia pugliese dei Minimi, cit, p. 36. De Simone e Paone datano l’atto al 1524, attribuendolo al notaio Antonio de Boccariis.

[6] Cfr. F.A. Piccinni, op. cit.

[7] Cfr. C. Massaro, Territorio, società e potere, in B. Vetere (a cura di), Storia di Lecce. Dai Bizantini agli Aragonesi, Bari 1993, pp. 315-316; Ministero dell’Interno. Pubblicazioni degli Archivi di Stato, XVIII, Archivio di Stato di Firenze. Archivio Mediceo avanti il Principato. Inventario, volume secondo, pp. 35, 212, 361; F. Carabellese, Bilancio di un’accomandita di casa Medici in Puglia del 1477 e relazioni commerciali fra la Puglia e Firenze, in Archivio storico pugliese 1896 a. 3, fasci 1-2, vol. 2, pp. 77-104.

[8] Nel 1496 è mastro di zecca per l’oro (Cfr. P. Argelatus, De Monetis Italiae vario rum illustrium virorum Dissertationes. Parte Quarta, Milano 1752; I. Orsini, Storia delle monete della Repubblica Fiorentina, Firenze 1760, pp. 191 e 272).

[9] Cfr. G. Milanesi, Delle statue fatte da Andrea Sansovino e da Gio. Francesco Rustici sopra le porte di S. Giovanni di Firenze (1) 1502-1524, in G. Milanesi, Sulla storia dell’arte toscana scritti varj di Gaetano Milanesi, Siena 1873, pp. 247-261, p. 247, pp. 250-52. La targa è stata trascritta anche in G.B. Niccolini, Iscrizioni per i ritratti de’ benefattori del R. Spedale degli Innocenti di Firenze, in C. Gargiolli (a cura di), Opere edite e inedite di G.B. Niccolini, Tomo VII, Milano 1870, p. 728.

[10] Fu priore del quartiere San Giovanni nel bimestre Settembre – Ottobre 1495 (Cfr. I. di San Luigi, Istorie di Giovanni Cambi cttadino fiorentino pubblicate, e di annotazioni, e di antichi munimenti accresciute, ed illustrate da Fr. Ildefonso di San Luigi carmelitano scalzo della provincia di Toscana Accademico Fiorentino, volume secondo, Firenze 1785; F. Bruni, Storia dell’ I. e R. Ospedale di S. Maria degl’Innocenti di Firenze e di molti altri pii stabilimenti, Volume I, Firenze 1819, p. LXXXII). Nel 1759 il ritratto di Bindaccio era esposto nell’Istituto: «Dalla Chiesa per la Porta a manritta si passa nel primo Cortile, intorno intorno ornato di Colonne Corintie di pietra serena, co i Ritratti de i più insigni Benefattori alle Lunette» (G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine. Divise nei suoi quattro Quartieri, Tomo ottavo, Firenze 1759, p. 129). Nel 1845 i ritratti di Bindaccio e Giovannella, dispersi o deteriorati, furono ridipinti gratuitamente rispettivamente da Giuseppe Marini e Carlo Falcini, per volontà del commissario dell’epoca cavalier Michelagnoli (Cfr. O. Andreucci, Il fiorentino istruito della chiesa della Nunziata di Firenze, Firenze 1857, pp. 175 e 275). Attualmente sono conservati presso il deposito dell’Istituto.

 

[11] Cfr. G. Richa, op. cit., p. 396. La scheda del ritratto è consultabile a questo link: https://www.beni-culturali.eu › opere_d_arte › scheda ›

[12] L. Passerini, Storia degli stabilimenti di beneficenza e d’istruzione elementare gratuita della città di Firenze, Firenze 1858, p. 946.

[13] A. Mazzanti, V. Rizzo, Memorie dell’organo di Santo Stefano a Campi: un priore, tre famiglie di artisti e di artigiani, Opus libri, 1992, p. 31.

[14] Cfr. U. Cherici, Guida storico artistica del R. Spedale di S. Maria degli Innocenti di Firenze, Firenze 1926, p. 52.

[15] M. Paone, Chiese di Lecce, vol. I, Galatina 1981, p. 317.

[16] L. Giustiniani, Dizionario Geografico – Ragionato del Regno di Napoli, Tomo V, Napoli 1802, p. 223.

[17] Cfr. Archivio di Stato di Firenze. Notarile antecosimiano. Inventario sommario. Trascrizione su database informatico degli inventari N/272-275 a cura di Eva Masini (2015).

Lecce: galeotto fu il convento e chi lo eresse

di Armando Polito

Immagine tratta da http://www.trnews.it/2018/03/04/209655/209655

 

La locuzione del titolo dopo i due punti forse apparirà a qualcuno come un meschino espediente per avere qualche lettore in più. Sarà. ma sicuramente più di uno non animato solo da morbosa curiosità avrà colto il mio miserabile, questo sì, tentativo di utilizzo con parafrasi del celebre verso dantesco (Inferno, V, 137) Galeotto fu il libro e chi lo scrisse, con cui Francesca da Rimini attribuisce alla lettura di un poema cavalleresco (Galeotto è la traduzione di Galehaut, nome del siniscalco della regina che nel ciclo bretone fungeva da paraninfo o, se preferite, mezzano, tra lei e Lancillotto) il bacio scambiato con Paolo Malatesta e la responsabilità del loro adulterio.

Oggi Galeotto è usato per antonomasia  come nome comune (perciò scritto con l’iniziale minuscola, al pari ci cicerone e mecenate) nel significato di intermediario d’amore, ben diverso come etimo (nonostante qualche punto semantico di contatto che potrebbe ingenerare confusione) da galeotto nel significato originario di condannato a regare sulle galee.

L’intermediario (o, meglio, gli intermediari ) d’amore qui sono i Teatini ed il loro convento. Senza di loro, infatti, a Lecce non sarebbe stato dedicato nel XVII secolo un epigramma in distici elegiaci scritto da Giuseppe Silos di Bitonto. Di lui e del componimento mi sono già occupato più di un paio d’anni fa in https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/09/06/lecce-taranto-due-epigrammi-giuseppe-silos-1601-1674/, ma qui riprendo ed integro l’argomento rispondendo ad alcune domande che allora neppure mi ero posto.

Parto dal frontespizio del volume, che riproduco con la mia traduzione a fronte.

Il volume, dunque, fu scritto da un teatino (Giuseppe Silos; per altre notizie su di lui vedi il link segnalato all’inizio) in occasione della canonizzazione del fondatore dell’ordine, Gaetano Thiene, avvenuta il 12 aprile 1671 da parte di Clemente X. Non so quanto possa tornare utile ma, coi tempi che corrono, ne approfitto per ricordare che è il santo della divina provvidenza, dei disoccupati e di coloro che cercano lavoro (non mi meraviglierei se ogni navigator fosse stato dotato dell’apposito santino, che protegga proprio lui in via prioritaria …

Per passare dal faceto al serio, provvidenziale è, a questo punto, una parentesi iconografica.

L’immagine è tratta da Columnæ militantis Ecclesiæ, sive Sancti, et illustres Viri, eremitae primi, anachoretae, ordinum regularium institutores, propagatores, reformatores aeneis figuris excusi, elogiis dilaudati, a spese della vedova di Cristoforo Weigel cittadino di Norimberga, 1725. La didascalia recita: Italus, Vicentiae illustri Thienoeorum prosapia natus, Iulii II Papae Praelatus domesticus, deserta aula proximorum saluti se impendit, Venator animarum dictus. Ordinem Clericorum regularium, a Clemente VII a. 1524 confirmatum erexit, qui Theatini a Joanne Petro Caraffa Episcopo Theatino, post Paulo IV Pontifice dicti, Dei Providentiae intenti, eleemosynis sponte oblatis viverent. Multis clarus miraculis obiit 7 Aug. 1547 aet. 60.

(Italiano, nato a Vicenza dall’illustre famiglia dei Thiene, prelato domestico di papa Giulio II, lasciata la corte, si dedicò al bene del prossimo, detto cacciatore di anime. Istituì l’ordine dei chierici regolari confermato da Clemente VII nell’anno 1524 perché i Teatini, così detti da Giovanni Pietro Carafa vescovo di Chieti, poi dal pontefice Paolo IV, vivessero di elemosine spontaneamente offerte. Famoso per molti miracoli, morì il 7 agosto 1547 a 60 anni)

L’incisione appena esaminata è anonima, a differenza di quella che segue, custodita nel Museo statale di Monaco (immagine tratta da http://www.portraitindex.de/documents/obj/34704744/gs13153d).

Fuori campo (dettaglio ingrandito) si legge in basso a sinistra Solimene pinx(it) Solimena dipinse

e a destra Dom(ini)cus Cunego del(ineavit) et sc(ulpsit) Veronae Domenico Cunego disegnò ed incise a Verona

Dunque il Cunego (1724/5-1803) fu autore del disegno e dell’incisione, avendo come modello la pittura di Francesco Solimena (1657-1747), che è inequivocabilmente, nonostante quache infedeltà,  quella che segue, custodita nella chiesa di S. Gaetano a Vicenza  (immagine tratta da https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Diedci-Solimena-Sangaetano.jpg).

Non fu questa la sola incisione ispirata dal Solimena. Quella che segue è conservata nel British Museum a Londra (immagine tratta da https://www.britishmuseum.org/research/collection_online/collection_object_details/collection_image_gallery.aspx?assetId=830227001&objectId=3225620&partId=1).

Ecco la lettura dei dettagli ingranditi.

                                                    F. Solimena in(venit) Francesco Solimena ideò

                  Petrini excu(dit) Petrini stampò        Andrea Magliar scul(psit) Andrea Magliar incise

Torniamo al libro: il frontespizio ci informa pure della struttura del libro e il lettore avrà già intuito che il componimento che ci accingiamo a leggere fa parte della sezione relativa alle lodi delle città. È l’epigramma XX e si trova a p. 78. Lo riproduco in formato immagine con la mia trascrizione a fronte e traduzione a seguire.

(Lecce

Sebbene tu mi veda presso le estreme regioni degli Itali, sono la prima gloria del territorio salentino. Mi nobilitano l’umanità, lo splendore degli uomini ed i templi dal soffitto a cassettoni e le pietre scolpite da abile mano. Mentre risuonava la fama del trionfo di Gaetano  non mi rincrebbe che essa avesse intrapreso lunghe vie, senza dubbio con cuore appassionato, più velocemente degli stessi venti, sembrando divorare tante terre con  rapido passo; sicché io, che di certo  sono l’ultima città del mondo italico. sono stata la prima per la gioia di Gaetano)

Il componimento è in forma di  prosopopea: è la città stessa a parlare in prima persona e a rivendicare nell’ultimo verso  una priorità devozionale contrapposta ad una marginalità geografica espressa nel primo e ribadita nel penultimo. E, oltretutto, Lecce è la sola città del Salento a comparire nell’elenco che vede il resto della compagnia così composto: Roma, Matritum (Madrid), Ulyssipo (Lisbona), Caesaraugusta (Saragozza), Valentia (Valencia), Parisii (Parigi), Praga, Monachium Bavariae (Monaco di Baviera), Neapolis (Napoli), Mediolanum, (Milano) Venetiae (Venezia), Genua (Genova), Panormus (Palermo), Messana (Messina), Bononia (Bologna), Florentia (Firenze), Vicentia (Vicenza), Liburnus (Livorno), Comum (Como), Licium (Lecce), Bituntum (Bitonto), Goa.

Non è certo casuale il fatto che siamo in presenza di un catalogo delle città dove più significativa era in quel tempo la presenza dei Teatini , non solo in Europa ma anche in India (a Goa già nel 1640 i Teatini avevano creato una testa di ponte, prodromo dell’arrivo nel 1683 dell’arrivo di Antonino Ventimiglia , che poi fu vescovo del Borneo dal 1691 al 1693, anno in cui morì in quella terra lontana).

Nel post relativo al link segnalato all’inizio ho riportato a suo tempo un altro epigramma dello stesso autore dedicato a Taranto, inserito, però in un’altra pubblicazione (epigramma 54 a p. 254). Anche di questa riporto il frontespizio sottoponendolo allo stesso trattamento riservato a quello dell’altra.

Se l’epigramma relativo a Lecce era legato ai Teatini, questo dedicato a Taranto (per testo, traduzione e commento rinvio al link più di una volta citato) è sempre di carattere celebrativo ma il Galeotto questa volta è Tommaso Caracciolo, che fu  arcivescovo di Taranto dal 1637 al 1663: a lui l’autore indirizzò la lettera dedicatoria che si legge alle pp. 350-354. Galeotto secondario è da considerare Gaetano Thiene: le  pp. 355-357 contengono un componimento in versi latini per il beato (la beatificazione era avvenuta l’8 ottobre 1629 da parte di Urbano VIII). Ma un altro Galeotto di primo piano prende definitivamente il sopravvento: le pp.358-377, con cui si chiude il volume, contengono  ben 23 elogi della famiglia Caracciolo.

Anche qui Taranto è in buona compagnia:  Roma diruta (Roma diroccata), Neapolis (Napoli), CapuaPanormus (Palermo), Messana (Messina), Siracusa, Drepanum (Drepano), Florentia (Firenze), Bononia (Bologna), Venetia (Venezia), Verona (Verona), Patavium (Padova), Vicentia (Vicenza), Ferraria (Ferrara), Genua (Genova), Mantua (Mantova), Mediolanum (Milano), Taurinum (Torino), Parisii (Parigi), Constantinopolis (Costantinopoli)

Per le città in comune nelle due pubblicazioni (Roma, Napoli, Palermo, Messina, Firenze, Bologna, Venezia, Genova, Milano e Parigi) il testo è diverso e, quando compaiono nel secondo. non contiene alcun riferimento ai Teatini.

S. Oronzo 2019: a Lecce sulle ali della nostalgia

di Armando Polito

Forse la mia è una maniera tutta laica di fare omaggio ad una memoria, quella del santo protettore,  che nella devozione popolare puntualmente si esprime  non senza clamorose contraddizioni e strizzando l’occhio, più che mai oggi,  al mercato.  Così ho pensato di presentare per l’occasione una serie di vecchie foto, le cartoline di una volta, della piazza a lui dedicata. Nell’era del selfie sarebbe già tanto se questo servisse a riflettere su  come siamo e su come eravamo; su come saremo, forse, conviene lasciar perdere …

 

 

Lecce e una sua veduta cinquecentesca (3/4)

di Armando Polito

Bisogna riconoscere che ne valse la pena perché la nostra cinquecentina si colloca certamente al vertice della produzione editoriale dell’epoca in virtù della composizione, dell’apparato di tavole su cui mi sono soffermato, delle numerose immagini minori frammiste al testo e imitanti le miniature.

E i tipografi, infatti, non erano certo degli sconosciuti o alle prime armi, ma tra i più noti ed attivi a Venezia nella prima metà del XVI secolo: i fratelli Giovanni Antonio, Stefano e Pietro  De Sabbio (Il loro cognome era Nicolini, Sabbio Chiese, in provincia di Brescia,  il luogo d’origine).

Sotto i loro tipi passarono edizioni scarne e spartane, come altre molto raffinate, il che s’intuisce legato alla capacità economica del committente. Lo documento con la serie di frontespizi (ognuno col suo colophon) che seguono e che scandiscono pure, con il cambiare della marca editoriale, le tappe dell’attività dei fratelli tipografi.

Francesco Lucio Durantino, De optima reipublicae gubernatione, 1522

Una salamandra attorcigliata al fusto di un cavolo (alla base si legge BRASICA; brassica è il nome latino del cavolo, quello scientico brassica oleracea). Nel cartiglio avvolto anch’esso al fusto si legge IO(ANNES) ANT(ONIUS) ET FRATRES DE SABIO. La stessa marca, ma senza il cartiglio, ricorre in un volume del 1531 che sarà presentato più avanti.

Comedia chiamata Floriana, 1523

 

Aristotele, Περὶ ζώων γενέσεως, 1526

 

Dioscoride Pedanio, De medicinali materia, 1527

Federico Crisogono, De modo collegiandi, pronosticandi et curandi febres, necnon De humana felicitate, ac denique De fluxu et refluxu maris lucubrationes nuperrime in lucem edite, 1528

S. Bonaventura da Bagnorea, Stimulo de amore, 1531

Pietro Barozzi, De modo bene moriendi, 1531

Si ripete, ma senza il cartiglio, la stessa marca del volume del 1522.

Iacopo Sadoleto, De liberis recte instituendis, 1533

Bartolomeo Ricci, Apparatus latinae locutionis ex M.T. Cicerone, Caesare, Sallustio, Terentio, Plauto, ad Herennium, Asconio, Celso, ac De re rustica, 1533

Bartolomeo Spina, Regola del felice vivere de li Christiani del stato secolare …, 1533

Jean de Campen, Commentariolus in duas quidem D. Pauli, sed argumenti eiusdem, epistolas, alteram ad Romanos, alteram ad Galatas, 1534

Antonio Maria da Siena, Cieco errore, 1539

Leonardo Tuchs, Methodus seu ratio compendiaria, 1543

Ortensio Landi, Ragionamenti familiari di diversi autori, non meno dotti, che faceti, All’insegna del pozzo, 1550

 

(CONTINUA)

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/28/lecce-sua-veduta-cinquecentesca-14/

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/03/lecce-e-una-sua-veduta-cinquecentesca-2-4/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/14/lecce-e-una-sua-veduta-cinquecentesca-4-4/

Lecce e una sua veduta cinquecentesca (1/4)

di Armando Polito

Preliminarmente è doveroso precisare che le vedute di città che spesso corredano i testi antichi vanno accettate con beneficio d’inventario, cioè non è da credere ciecamente che esse costituiscano sempre una rappresentazione fedele dello stato dei luoghi all’epoca in cui vennero realizzate, anche perché spesso alcuni dettagli (case, campanili, etc. etc.) sembrano ricalcare modelli stereotipi e non seguire un intento realistico.

Credo che questo valga anche per l’immagine che segue, che è poi il frontespizio di un volume custodito nella Biblioteca Innocenzo XII di Lecce dal titolo Breviarium Liciense ex antiquo ecclesiae ritu nuper correctum et reformatum nunquam alias impressum novis quibusdam additis officiis: tabulis: atque rubricis suo loco necessariis: iuncto etiam foliorum numero ad quodvis facile inveniendum pro maiori orantium clericorum facilitate atque devotione (Breviario leccese secondo l’antico rito della chiesa recentemente corretto e riformato mai altra volta stampato con l’aggiunta al loro posto di certi nuovi servizi, tavole e rubriche necessari al loro posto, aggiunto anche un numero di fogli per trovare facilmente qualsiasi cosa per maggiore facilità e devozione dei chierici preganti).1

Il volume è prezioso non solo per il suo valore antiquario, trattandosi di una cinquecentina2, ma anche per i motivi che saranno detti alla fine.

Nel frontespizio, oltre al titolo prima trascritto, si legge, all’interno dell’immagine SANCTA ERINA D(I) LICII e in basso Ad instantiam Francisci De Ferrariis et magistri Donati Sommerini bibliopolae sociorum Liciensium. 1527 (Su richiesta di Francesco de Ferrariis e di mastro Donato Sommerino venditore di libri, soci leccesi, 1527).

L’immagine mostra la città di Lecce con le sue mura e a sinistra S. Irene, sua protettrice fino al 1656, che regge nella destra, accostata al petto, una lampada votiva ed appoggia la destra sulla cima del campanile del duomo3. Questo, che sarebbe stato ricostruito tra il 1661 e il 1682 per volere del vescovo Luigi Pappacoda su progetto di Giuseppe Zimbalo, mostra i due livelli  superiori movimentati ciascuno da un’ampia bifora.  Ai piedi di S. Irene si vede una chiesa la cui copertura ricorda quella di S.Maria della Porta, che, però, stando all’Infantino, fu  ampliata nel 15674.

Tornando al campanile, va notato che appare come una via di mezzo tra come si vede in una tavola della prima metà del XVII secolo5

e come si ammira oggi.

Di seguito il dettaglio in sequenza comparativa.

Pare scontato che la santa appoggi la mano sul campanile del duomo, che è il punto più elevato della città in duplice senso, quello materiale o fisico o paesaggistico o laico e quello spirituale o religioso. Tuttavia io non escluderei nella rappresentazione un riferimento a quanto sul campanile si legge in Antonio Beatillo, Historia della vita, morte, miracoli, e Traslatione di Santa Irene da Tessalonica, Vergine, e Martire, Longo, Napoli, 1609, pp. 299-301: … volendo un Vescovo di LECCE per nome Formoso nell’anno del Salvatore mille cento, e quattordeci,.fare à sue spese per ornamento  della città. e per accrescimento maggiore di divotione ne’ suoi Leccesi, un Vescovato nuovo ion honor della  Beatissima  Vergine nostra Signora, come tosto lo mandò ad effetto, il Conte della stessa città, ch’era all’hora un certo Goffredo, vi eresse dalla parte di fuori à man sinistra, in luogo de’ campanili ordinari, una torre molto alta, e di bellissima prospettiva. E perche il suo intento fù di far questa torre à memoria, et honore della Santa vergine IRENE, s’informò à pieno, con mandar gente sin là, del modo com’era quell’altra, che in Tessalonica il Rè Licinio edificò alla Santa nell’anno sesto dell’età sua. Et havendo trovato, che quella havea cinque appartamenti l’un sopra l’altro con una real corona di belle fabbriche nel più sublime luogo delle stanze, fece egli, che la sua torre, qual fabbrico nel Vescovato Leccese, fosse se non di quella grandezza, almeno dell’istessa forma, e figura. Ma che avvenne? Da lì à cento, e sedeci anni, cioè nel mille ducento, e trenta, havendo il Vescono di all’hora, che Roberto si domandava, scoverta per certa occasione la Chiesa per levarne il tetto, che gli stava di sopra, cascò repentinamente il Vescovato di Formoso con tutta la torre, che il Conte Goffredo vi havea fatto per le campane. Spiacque al buon Prelato la disgratia, ma non per questo si perdè d’animo; anzi confidato nell’aiuto divino, e nella liberale benignità de’ Leccesi, cominciò subito a rifar la sua Chiesa da’ fondamenti con fabriche assai più sode di quel ch’erano l’altre di prima, e ridusse per l’essatta sua diligenza tra poco tempo à perfettione quel Vescovato, che ancor hoggi stà in piedi. E perche gli fù insinuato da’ divoti di Santa IRENE protettrice della città, che il Campanile antico era stato tanti anni prima dal buon conte Goffredo eretto à somiglianza della Torre di Tessalonica in memoria, et honore della loro Padrona, in un tratto lo fè Roberto rifare per l’istessa caggione della medesima grandezza, e figura. Di ciò prese tanto contento il popolo di LECCE, c’havendo fino à quel tempo fatto per insegna ò arme, che vogliam dire, della città un albero di Quercia, ò Elce che sia, con una Lupa di sotto, si risolse mutarla, e per l’avvenire, in luogo delle cose già dette, far nel suo feudo una torre simile in tutto à quella del Vescovato. Ma perche le cose di questa vita patiscon sempre mutationi, e vicende, havendo non sò che tuoni, ò saette, che nel decimosesto secolo della nostra salute vi cascarono, data occasione, che si buttasse à terra buona parte della torre del Duomo, i Leccesi ancora ripigliaron di nuovo l’insegna antiche della Lupa, e della Quercia, non già perche havessero lasciata la divotione della loro antica protettrice, ma perche in altro modo non le sarebbero stati ammessi da’ padroni, et officiali del Regno quei privileggi antichi della Lupa, e della Quercia.       

Per la seconda parte: http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/03/lecce-e-una-sua-veduta-cinquecentesca-2-4/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/10/lecce-e-una-sua-veduta-cinquecentesca-3-4/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/14/lecce-e-una-sua-veduta-cinquecentesca-4-4/

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1 Integralmente leggibile e scaricabile da http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?teca=&id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AUBOE037128.

2 L’OPAC (http://opac.sbn.it/opacsbn/opac/iccu/scheda.jsp?bid=IT%5CICCU%5CNAPE%5C007851) non registra il nostro esemplare ma un altro con nel titolo Psalterium invece di Breviarium; impossibilitato a controllare, ipotizzo che l’errore sia atato indotto dal colophon che è in calce alla prima parte contenente, appunto, il salterio) custodito nella Biblioteca provinciale “Nicola Bernardini” a Lecce. L’ICCU (http://edit16.iccu.sbn.it/scripts/iccu_ext.dll?fn=10&i=53093)  registra la presenza di tre soli esemplari custoditi, rispettivamente, nella Biblioteca provinciale “Nicola Bernardini” a Lecce (è quello dell’OPAC), nella Biblioteca comunale dell’Archiginnasio a Bologna e nella Biblioteca Angelica a Roma.

3 Nella scheda descrittiva in  http://www.internetculturale.it/opencms/opencms/it/viewItemMag.jsp?case=&id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AUBOE037128&hits=0 leggo che la chiesa rapprerentata è quell di S. Irene, che, però, all’epoca in cui il volume uscì non esisteva, essendo la sua costruzione iniziata nel 1591.

4 Giulio Cesare Infantino, Lecce sacra, Micheli, Lecce, 1634, p. 71.

5 Giulio Cesare Infantino, op. cit.

L’obelisco di Porta Napoli a Lecce (5/5)

di Marcello Gaballo e Armando Polito

STRETTO DI GALLIPOLI

“1) La Serpe dritta su di un altare, ed alla destra il Sole, col motto Jones Xhutidae Chaldaeorum colonia1 2) Ercole colle spoglie del Leone, coll’arco impugnato, e la faretra, col motto Jones Leuternii, et Morgetes2; 3) Ercole nudo stante, a destra la clava, alla sinistra una Cornucopia colla spoglia del Leone. Una piccola vittoria alata lo incorona, col motto Jones Kalii, et Salentini.34

 

 

 

 

Ecco le fonti: Strabone, op. cit., VI, 3: Πολίχνιον καὶ τοῦτο, ἐν ᾧ δείκνυται πηγὴ δυσώδους ὕδατος. Μυθεύουσι δ᾽ ὅτι τοὺς περιλειφθέντας τῶν γιγάντων ἐν τῇ κατὰ Καμπανίαν Φλέγρᾳ Λευτερνίους καλουμένους Ἡρακλῆς ἐξελάσειε, καταφυγόντες δὲ δεῦρο ὑπὸ γῆς περισταλεῖεν, ἐκ δὲ ἰχώρων τοιοῦτον ἴσχοι ῥεῦμα ἡ πηγή· διὰ τοῦτο δὲ καὶ τὴν παραλίαν ταύτην Λευτερνίαν προσαγορεύουσιν  [Anche questa (Leuca) è una piccola città, nella quale si mostra una fonte di acqua puzzolente. Raccontano che Ercole cacciò dei  giganti quelli sopravvissuti a Flegra in Campania, chiamati Leuterni ed essi rifugiatisi qui sotto terra scomparvero; la fonte deriva siffatto flusso dal (loro) sangue marcio; per questo chiamano Leuternia anche questo litorale); VI, 1: Ἀντίοχος δὲ τὸ παλαιὸν ἅπαντα τὸν τόπον τοῦτον οἰκῆσαί φησι Σικελοὺς καὶ Μόργητας, διᾶραι δ᾽ εἰς τὴν Σικελίαν ὕστερον ἐκβληθέντας ὑπὸ τῶν Οἰνωτρῶν. Φασὶ δέ τινες καὶ τὸ Μοργάντιον ἐντεῦθεν τὴν προσηγορίαν ἀπὸ τῶν Μοργήτων ἔχειν. (Antioco dice che anticamente tutto questo luogo [nei pressi di Reggio di Calabria] lo abitarono anticamente i Siculi e i Morgeti, che essi successivamente scacciati dagli Enotri passarono in Sicilia. Alcuni dicono che lì Morganzio prende il nome dai Morgeti).

Dionigi d’Alicarnasso, I, 12: Ἀντίοχος δὲ ὁ Συρακούσιος, συγγραφεὺς πάνυ ἀρχαῖος, ἐν Ἰταλίας οἰκισμῷ τοὺς παλαιοτάτους οἰκήτορας διεξιὼν, ὡς ἕκαστοί τι μέρος αὐτῆς κατεῖχον, Οἰνώτρους λέγει πρώτους τῶν μνημονευομένων ἐν αὐτῇ κατοικῆσαι, εἰπὼν ὧδε· Ἀντίοχος Ξενοφάνεος τάδε συνέγραψε περὶ  b  Ἰταλίης ἐκ τῶν ἀρχαίων λόγων τὰ πιστότατα καὶ σαφέστατα· τὴν γῆν ταύτην, ἥτις νῦν Ἰταλίη καλεῖται, τὸ παλαιὸν εἶχον Οἴνωτροι. Ἔπειτα διεξελθὼν ὃν τρόπον ἐπολιτεύοντο, καὶ ὡς βασιλεὺς ἐν αὐτοῖς Ἰταλὸς ἀνὰ χρόνον ἐγένετο, ἀφ᾽ οὗ μετωνομάσθησαν Ἰταλοί, τούτου δὲ τὴν ἀρχὴν Μόργης διεδέξατο, ἀφ᾽ οὗ Μόργητες ἐκλήθησαν, καὶ ὡς Σικελὸς ἐπιξενωθεὶς Μόργητι ἰδίαν πράττων ἀρχὴν διέστησε τὸ ἔθνος, ἐπιφέρει ταυτί: Οὕτω δὲ Σικελοὶ καὶ Μόργητες ἐγένοντο καὶ Ἰταλίητες ἐόντες Οἴνωτροι (Antioco di Siracusa, scrittore molto antico, esponendo dettagliatamente i più antichi abitanti nella colonizzazione dell’Italia e come ciascuno ne occupava una parte, dice che tra quelli ricordati vi abitarono per primi gli Enotri, esprimendosi così: “Antioco figlio di Senofane compilò sull’Italia queste notizie, le più credibili da dagli antichi scritti; gli Enotri anticamente abitavano questa terra che ora si chiama Italia”. Poi, discorrendo del modo in cui la governavano, anche come Italo un tempo  vi diventasse tra loro re, dal quale furono chiamati Itali, come poi prese il suo potere Morgete dal quale furono chiamati Morgeti e come Sicelo ospite presso Morgete esercitando un potere privato divise il popolo; e aggiunge questo: “Così essendo Enotri divennero e Siculi e Morgeti e Italici”).

Licofrone (IV secolo a. C.), Alessandra, vv. 984-987: Πόλιν δ’ὁμοίαν Ἰλίῳ δυσδαίμονες/δείμαντες, ἀλγυνοῦσι Λαφρίαν κόρην/Σάλπιγγα, δῃώσαντες ἐν ναῷ θεᾶς/τοὺς πρόσθ’ἕδεθλον Ξουθίδας ᾠκηκότας./Γλήναις δ’ἄγαλμα ταῖς ἀναιμάκτοις μύσει,/στυγὴν Ἀχαιῶν εἰς Ἰάονας βλάβην/λεῦσσον, φόνον τ’ἔμφυλον ἀγραύλον λύκων … (Infelici, dopo aver costruito una città simile a Troia, daranno dolore alla vergine Lafria5, la Trombettiera6, uccidendo nel tempio della dea gli Xutidi che abitavano davanti al santuario. La statua abbasserà le palpebre sugli occhi esangui vedendo l’odioso massacro degli Achei sugli Ioni, la strage di consanguinei, atto feroce di lupi …). Dal passo di Licofrone, ambientato a Siri, colonia della Magna Grecia, si deduce l’identità tra Ioni e Xutidi (discendenti di Xuto figlio di Elleno e Orseide e fratello di Eolo).

 

Chiudiamo con una curiosità, quasi sicuramente una mezza bufala, riportata parola per parola allo stesso modo in svariati siti in rete, per cui è impossibile individuare, ammesso che ne valga la pena, anche per l’assenza in molti della data dell’inserimento, da dove è partita: la propaganda borbonica lo fece colorare di nero, in modo che ricordasse un obelisco marmoreo, ma la prima pioggia cancellò ogni traccia del colore. Peccato che nei giornali dell’epoca, da noi consultati tempo fa per altre ricerche, tale ghiotta notizia non compare; e non parliamo di una pubblicazione “ufficiale” o, se preferite “di regime” quale il Giornale di Intendenza della Provincia di Terra d’Otranto, che usciva a Lecce ed i cui numeri fino al 1861 sono custoditi nell’Archivio di Stato della città. Abbiamo detto mezza bufala con riferimento a prima pioggia perché in Palmieri7 si legge: È in forma d’obelisco a quattro facce e in pietra leccese, dipinta ai primi tempi ad olio a colore di pietra del Vesuvio.

Ci piace congedarci da chi ha avuto la pazienza di seguirci fin qui parafrasando un famoso esametro enniano con uno nostro, consapevoli che certo non passerà, come quello, alla storia:

NOS SALENTINI QUI FUIMUS ANTE CRETENSES (Noi Salentini che prima fummo Cretesi).

E speriamo che da lassù il Castromediano e il Vacca, riferendosi solo a noi autori, non ci giudichino, più che Cretesi, cretini, pur consapevolissimi e (e chi più di loro?) del diverso etimo …

 

Questo lavoro è stato pubblicato integralmente nel periodico della Fondazione  Terra d’Otranto Il delfino e la mezzaluna, anno III, n. 1 (ottobre 2014), pp. 171-189.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/20/lobelisco-porta-napoli-lecce-1-4/

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/23/lobelisco-porta-napoli-lecce-24/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/25/lobelisco-porta-napoli-lecce-35/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/31/lobelisco-porta-napoli-lecce-45/

 

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1 Gli Ioni discendenti di Xuto, colonia dei Caldei. Xuto, personaggio della mitologia greca, padre di Ione (da cui gli Ioni) e Acheo. “Basterà per intender bene il senso del motto analogo al primo emblema di questo Distretto il ricordarsi dell’origine di sopra esposta degli antichi Giapigi. Dessi furono, come si à già detto, i discendenti di Japhet, e propriamente di Javan di lui figlio, i quali furono anche chiamati Xhutidae, perchè Jone fu figlio di Xhuto. La religione di questi nostri primi coloni fu diretta solamente al culto del Sole, e d’Igea figlia di Esculapio, e Dea della salute. Da ciò nacque, che il primo periodo dell’antica storia di questo Distretto venne dai nostri maggiori simboleggiato coll’adorazione del Serpente, e del Sole” (op. cit., pagg. 14-15).

2 Gli Ioni Leuterni e Morgeti. “Dietro la venuta di questi primi popoli Orientali, poichè accadde ancora nel promontorio Salentino l’eccidio dei Giganti, e Lestrigoni, detti Leuternii, e Morgetes, fatto da Ercole Libico, il quale gl’inseguì sino a questo luogo dai Campi Flegrei, da ciò appunto è nata l’idea del loro secondo emblema” (op. cit. ,pag. 15).

3 Gli Ioni Kalii e Salentini. “L’ultimo e più fiorente stato di questa parte della nostra Penisola appartiene al periodo del governo dell’antica Dinastia Cretese sotto Licio Idomeneo; ed è perciò, che fu assunto da cotesti popoli l’emblema di Ercole nudo stante, col motto, Jones Kalii, et Salentini. La Cornucopia, la clava, la spoglia del Leone, e la vittoria alata alludono al natale, ed alle imprese di Ercole, dal quale si gloriavano di discendere i Cretesi Tarantini” (op. cit. pag. 15).

4 Luigi Cepolla, op. cit. pag. 5.

5 Epiteto di Atena.

6 Altro epiteto di Atena ad Argo.

7 Op. cit., p. 306.

L’obelisco di Porta Napoli a Lecce (4/5)

Marcello Gaballo e Armando Polito

DISTRETTO DI BRINDISI

1) “Il Desco e la statua di Bacco con corona convivale, col motto Brundusini Cretenses1; 2) Amore colla cetra, e col motto Brundusini sub Partheniis Tarentinis2 3) Il Delfino, che indossa Taras colla cetra in mano, e col motto Brundusini sub Romanis.34

 

La fonte utilizzata è  Strabone, Geographia, VI, 3, 6: Βρεντέσιον δ᾽ ἐποικῆσαι μὲν λέγονται Κρῆτες οἱ μετὰ Θησέως ἐπελθόντες ἐκ Κνωσσοῦ, εἴθ᾽ οἱ ἐκ τῆς Σικελίας ἀπηρκότες μετὰ τοῦ Ἰάπυγος λέγεται γὰρ ἀμφοτέρωςοὐ συμμεῖναι δέ φασιν αὐτούς, ἀλλ᾽ ἀπελθεῖν εἰς τὴν Βοττιαίαν. Ὕστερον δὲ ἡ πόλις βασιλευομένη πολλὴν ἀπέβαλε τῆς χώρας ὑπὸ τῶν μετὰ Φαλάνθου Λακεδαιμονίων, ὅμως δ᾽ ἐκπεσόντα αὐτὸν ἐκ τοῦ Τάραντος ἐδέξαντο οἱ Βρεντεσῖνοι, καὶ τελευτήσαντα ἠξίωσαν λαμπρᾶς ταφῆς (Dicono che abitarono Brindisi i Cretesi, quelli giunti con Teseo da Cnosso o quelli che si erano allontanati insieme con Iapige dalla Sicilia (si racconta infatti in entrambi i modi); dicono che questi non vi rimasero ma partirono per la Bottiea. Successivamente la città governata da un re perse molto del suo territorio ad opera degli Spartani [venuti] con Falanto, ma i Brindisini lo accolsero ugualmente quando fu cacciato da Taranto e dopo la morte lo onorarono di una splendida tomba).

 

Questo lavoro è stato pubblicato integralmente nel periodico della Fondazione  Terra d’Otranto Il delfino e la mezzaluna, anno III, n. 1 (ottobre 2014), pp. 171-189. 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/20/lobelisco-porta-napoli-lecce-1-4/

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/23/lobelisco-porta-napoli-lecce-24/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/25/lobelisco-porta-napoli-lecce-35/

Per la quinta parte: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/04/lobelisco-porta-napoli-lecce-55/

 

 

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1 I Brindisini Cretesi. “…doveva quindi naturalmente avvenire, che la vittoria portasse al vincitore non solamente il vantaggio dell’acquisto delle proprietà reali de’ vinti, ma quello ancora delle loro persone. Quindi l’origine de’ servi addetti alla gleba…Questa specie di servi aveva però alcune leggi favorevoli  alla loro libertà…nella cui esecuzione si dovevano pure osservare alcune pubbliche solennità dopo un certo tempo di servitù definito dalle leggi….di tal genere fu…la nostra famosa Brunda, o Brendais, ossia il convito dei nostri antichi servi indigeni addetti all’agricoltura sotto il dominio de’ Cretesi…Il luogo dunque destinato alla festività…fu la maremma di Brindisi…si è espresso il convito detto Brunda nella lingua Messapia coll’antico Sigma, perchè questa figura si ebbero tutti i Deschi dell’antichità. Si è sormontato ancor questo simbolo colla figura di Bacco, avente nella destra una corona convivale, dappoichè si sà, ch’egli era Conviviorum Deus” (Luigi Cepolla, op. cit., pagg. 11-12).

2 I Brindisini sotto i Parteni di Taranto.”Il lusso,che nella maggior floridezza della repubblica Tarantina s’introdusse in ogni parte del di lei stato fu causa, ch’ella fosse stata sin dall’ora tacciata di mollezza, e di ogni genere d’intemperanza. La città di Brindisi, e di Oria, come quelle che obbedivano ai Tarantini, presero anche a gareggiare con loro nella mollezza, e nel lusso. Quindi è, che gli Oritani assunsero anche per loro emblema Amore colla cetra: questo medesimo emblema fu comune ancora alla Città di Brindisi sino all’epoca de’ Romani” (Luigi Cepolla, op. cit. pagg. 12-13).

3 I Brindisini sotto i Romani. “In tal’epoca [dei Romani] la Città di Brindisi continuò a servirsi dell’istesso originario emblema dei Tarantini Achei, cioè, del Delfino, che indossa [=porta sul dorso] Taras, perchè i Cretesi lo conservarono anch’essi sotto il dominio deì medesimi Achei; e ne scambiò ella solamente nelle mani di Taras il tridente con la cetra per alludere al secondo periodo della sua storia antica, nella quale ebbe essa questo emblema”(Luigi Cepolla, op. cit., pag. 14).

4 Luigi Cepolla, op. cit., pag. 4.

L’obelisco di Porta Napoli a Lecce (2/5)

di Marcello Gaballo e Armando Polito

DISTRETTO DI LECCE

1bis

 

Ecco i dettagli citati nell’opuscolo: “1) Minerva progrediente col motto Lycii Japygum ultima colonia1; 2) Il dio Pane, ed il Lupo, col motto Lycii Japygo-Messapii2; 3) L’Aquila, che nasconde la testa tra le nuvole, col motto allusivo Lycii Cretenses et Salentini3″4.

Procederemo ora ad esaminarli uno per uno partendo dal basso e aggiungeremo anche la descrizione di quei dettagli che nell’opuscolo non sono citati.  Faremo così anche con le altre tre facce dedicate agli altri distretti.

“L’Autore vuole ancora, che il pubblico abbia la conoscenza di una sua latina iscrizione, da lui fatta per l’Aguglia medesima, nella quale essa non vedesi scolpita per causa della di lui assenza da Lecce. Egli ben si lusinga di meritarne alcun favorevole suffragio, che vale sempre più di quello, che gli verrebbe dall’opera dello scalpello.

FERDIN. I Siciliarum Regum omnium optumo

  1. F. invicto Augusto

                  Viam hanc Praetoriam,

                                Quod,

Ubi eam fieri concessit, suum etiam sacrum

               nomen commendaverit,

Moxque, ut abs Tarento Neapolim usque

                          sterni jusserat,

Ipsum quoque ad quatuor Salenti regiones

                extendendam permiserit,

Ad perpetuum istius beneficii memoriam servandam,

Qua harum viarum caput occurrit, pyramide

                         a solo excitata,

Cunti5 hujus, populique

Concordibus, gratisque animis consecrarunt.

  1. AE. Chr. MDCCCXXII6

 

Eccone la traduzione linea per linea, nei limiti del possibile:

A Ferdinando I il migliore di tutti i re delle Sicilie,

pio felice invitto Augusto.

Questa via pretoria,

poichè

quando concesse che fosse costruita, anche il suo sacro

nome (le) diede,

e ora, come da Taranto fino a Napoli

aveva disposto che fosse spianata,

che essa pure alle quattro regioni del Salento

venisse estesa permise,

per conservare il perpetuo ricordo di questo beneficio,

dove è posto l’inizio di queste vie, una piramide

essendo stata elevata dal suolo,

tutte le istituzioni e i popoli di questa provincia

consacrarono con animo concorde e grato.

Nell’anno 1822 dell’era di Cristo.

 

Sul monumento, invece, venne incisa quella che all’inizio abbiamo riprodotto e che qui replichiamo.

Traduzione: A Ferdinando I di Borbone molto provvido re del Regno delle Due Sicilie, restauratore della pubblica felicità, poiché diede ordine che la via rotabile da tutti i principi prima intentata, opportunissima per il commercio della provincia otrantina e delle confinanti, fosse spianata e che all’eternità del nome di Augusto fosse consacrata. I cittadini di ogni ordine, gli abitanti del posto ed i vicini, formulati voti augurali per la prosperità del principe e la saldezza della casa augusta, devotissimi alla sua potenza e maestà.

Poiché il Cepolla lamenta che l’iscrizione che aveva preparato non vedesi scolpita, che quella che oggi leggiamo presenta non solo discordanze testuali notevoli ma, soprattutto l’assenza di un dettaglio presente in ogni epigrafe che si rispetti, cioè  la data, bisogna concludere che la stessa fu apposta successivamente all’uscita dell’opuscolo cioè durante o dopo il 1827, a cinque o più anni dalla visita del sovrano (1822), a tre o più dalla sua morte (1 gennaio 1825).  Tutto ciò giustificherebbe l’assenza della data, anche se lo spazio libero del margine inferiore poteva benissimo contenere non una ma due linee, il che non esclude che almeno un rigo sia stato abraso (per vandalismo politico? e quando?), anche perché il dettaglio nella prima immagine anteriore al recente restauro, mostrerebbe, rispetto al secondo successivo al restauro qualche residuo di incisione.

Continuando l’esame della facciata dell’obelisco dedicata al distretto di Lecce incontriamo un’iscrizione non citata nel progetto del Cepolla. È un augurio di buon viaggio per chi è diretto ad Otranto. Alla stessa altezza nelle facce dedicate agli altri distretti leggeremo messaggi analoghi, anche loro, come questo, non citati dal progettista.

 

 

Per questa origine di Lecce dai Lici il Cepolla ha seguito Erodoto (V secolo a. C.) per il quale (Storie, VII, 170): Ὡς δὲ κατὰ Ἰηπυγίην γενέσθαι πλέοντας, ὑπολαβόντα σφέας χειμῶνα μέγαν ἐκβαλεῖν ἐς τὴν γῆν: συναραχθέντων δὲ τῶν πλοίων, οὐδεμίαν γάρ σφι ἔτι κομιδὴν ἐς Κρήτην φαίνεσθαι, ἐνθαῦτα Ὑρίην πόλιν κτίσαντας καταμεῖναί τε καὶ μεταβαλόντας ἀντὶ μὲν Κρητῶν γενέσθαι Ἰήπυγας Μεσσαπίους, ἀντὶ δὲ εἶναι νησιώτας ἠπειρώτας [(Si racconta) che come (i Cretesi) navigando giunsero presso la Iapigia una grande tempesta dopo averli sorpresi li scaraventò a terra; essendosi fracassate le navi non c’era nessuna possibilità per loro di tornare a Creta. Allora, dopo aver fondato la città di Hyrie, restarono passando ad essere, invece di Cretesi, Iapigi Messapi, continentali invece di isolani)].

Per completare il quadro di questa commistione va detto che per Erodoto i Lici provenivano da Creta; op. cit., VII, 92: Λύκιοι δὲ Τερμίλαι ἐκαλέοντο ἐκ Κρήτης γεγονότες, ἐπὶ δὲ Λύκου τοῦ Πανδίονος ἀνδρὸς Ἀθηναίου ἔσχον τὴν ἐπωνυμίην (i Lici originari di Creta si chiamavano Termili ma presero il nome da Lico figlio dell’ateniese Pandione).

Anche se il Cepolla non lo dice espressamente, per lui Lecce è, pure etimologicamente parlando, da Lici). Sull’origine cretese dei Salentini ecco come si esprime Strabone (I secolo a. C.-I d. C.), Geographia, VI, 3: Τοὺς δὲ Σαλεντίνους Κρητῶν ἀποίκους φασίν (Dicono che i Salentini sono coloni dei Cretesi).

Questo dettaglio, insieme col successivo, si ripete, come abbiamo già detto, tal quale sulle altre tre facce. Si è pure detto che nell’opuscolo si parla solo di “uva intrecciata con frondi di ulivo”: le spighe di grano, che nel monumento hanno una rilevanza figurativa pari, come si può agevolmente notare, al ramo d’ulivo e al tralcio d’uva, non compaiono.

Anche questo dettaglio, insieme col precedente, si ripete tal quale sulle altre tre facce, riferendosi ad elementi perfettamente comuni ai quattro distretti.

 

Questo lavoro è stato pubblicato integralmente nel periodico della Fondazione  Terra d’Otranto Il delfino e la mezzaluna, anno III, n. 1 (ottobre 2014), pp. 171-189.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/20/lobelisco-porta-napoli-lecce-1-4/  

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/25/lobelisco-porta-napoli-lecce-35/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/31/lobelisco-porta-napoli-lecce-45/

Per la quinta parte: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/04/lobelisco-porta-napoli-lecce-55/            

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1 Lycii Japygum ultima colonia= I Lici ultima colonia degli Iapigi. “I discendenti di Giapeto rappresentati generalmente da tutti questi popoli [Siri-Egizi, Babilonesi ed Assiri] devono certamente considerarsi come gli autori dell’origine del loro nome collettivo di Giapigi nella prima epoca della civilizzazione dei nostri aborigeni…restò in fine riconosciuta per ultima colonia de’ cosiddetti Giapigi la Città di Lecce…chiara, ed evidente pruova nell’istessa significazione del primo di lei nome, che fu quello di Sybaris, dappoiché secondo il linguaggio Caldeo significa Figli della divinità del Sole. Quindi è ben agevole comprendere la ragione dell’assunto di loro emblema della Dea Minerva progrediente, poiché in siffatta guisa restò abbastanza definito il carattere della loro origine Achea, essendo stata Minerva la prima condottiera delle principali colonie di tali Genti”. (L. Cepolla, op. cit., pagg. 7-8).

2 Lycii Japygo-Messapii=I Lici Iapigo-Messapi. “Il secondo periodo dell’antica storia di questa Città si rinviene facilmente nella politica, e religiosa riunione dei primitivi Giapigi co’ popoli Messapi, ossia cogli altri nostri primi coloni  Arabo-Egizi, giacchè tanto per l’appunto suona letteralmente il nome Messapus. Imperciocché non vi è dubbio, che il culto del Sole fu proprio dei Babilonesi, e degli Assiri, non che degli Arabo-Fenici, e degli Egizi, i quali adorarono la natura sotto tutt’i rapporti della fisica rappresentazione di tutti i di lei effetti; e da ciò avvenne, che fu da loro immaginato il Dio Pane, il quale colla sua figura rappresentava tutto l’ordine della natura” (L. Cepolla, op. cit., pag. 8).

3 Lycii Cretenses et Salentini=I Lici Cretesi Salentini. “L’ultimo periodo dell’antica storia di questa Città…può bene attribuirsi intieramente al glorioso avvenimento del governo della Dinastia Cretese sopra tutta questa Provincia. Licio Idomeneo, tanto per effetto delle sue armi, che per mezzo del matrimonio che contrasse con Evippa figlia di Malennio Re dei Messapi, fondò il suo trono sopra tutti i popoli di questa Penisola…Meritò quindi a buon diritto codesto sì grande avvenimento di esser consacrato all’immortalità coll’emblema di un’Aquila, che innalza la sua testa sopra le nuvole. Si sa, che l’Aquila è sacra a Giove, il quale nacque in Creta sul Monte Ida, onde i Cretesi assunsero per emblema nazionale il divino Augello. Qui ella figura, che vola, e nasconde la testa nelle nuvole per indicar la sublimità dell’origine del prototipo di siffatto emblema, qual fu Giove, padre degli uomini, e degli Dei” (L. Cepolla, op. cit., pag. 8).

4 L. Cepolla, op. cit., pag. 3.

5 Per Cuncti.

6 L. Cepolla, op. cit., pag. 16.

 

L’obelisco di Porta Napoli a Lecce (1/5)

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Il ritmo frenetico della vita moderna scandito dall’uso sistematicamente esagerato e controproducente per tutti e per tutto (basta pensare al danno ambientale e alla paradossale perdita di tempo dovuta alle difficoltà di circolazione a causa del numero esorbitante dei veicoli in movimento in un certo tempo e in un certo tragitto) dell’auto ha precluso ogni possibilità di meditare su alcuni aspetti del paesaggio, naturale o no, nonché dell’arredo urbano in cui ad una semplice epigrafe e, nei casi più complessi, ad un vero e proprio monumento era affidato il compito di tramandare una memoria e di risvegliare con essa in chi si trovava a passare (a piedi!) nei paraggi la curiosità e, dunque, la voglia di approfondire e conoscere.

Oggi, per esempio,  un malcapitato obelisco che si trovi al centro di un quadrivio sembra assolvere ad una funzione più tecnica che storico-artistica, quella di consentire l’eliminazione dei semafori, ridotto al rango di una semplice rotatoria a costo zero. Poteva sottrarsi a questa fine l’obelisco di Porta Napoli a Lecce che, in fondo, per quanto si dirà, pur nella dominante valenza commemorativa del potere, aveva fin dalla nascita tutte le caratteristiche di una rotatoria?

Non è fuori luogo, a tal proposito, far notare come l’area gradinata su cui sorgeva il monumento era quadrata (la foto d’epoca è tratta da Giuseppe Gigli, Il tallone d’Italia, I, Lecce e dintorni, n. 61 della serie Italia artistica diretta da Corrado Ricci, Istituto italiano d’arti grafiche editore, Bergamo, 1911; tutte le altre corredanti il testo sono degli autori e di Corrado Notario), mentre quella attuale, esagonale, rivela l’avvenuta mutilazione degli angoli del quadrato originario.

Non sappiamo quando tale mutilazione avvenne. Ricordiamo che il monumento venne realizzato per celebrare la visita a Lecce nel 1822 di Ferdinando I di Borbone1, ma, se tutte le fonti sono concordi nell’attribuire la sua realizzazione allo scultore Vito Carluccio di Muro Leccese, estremamente variabile è il range temporale del periodo di esecuzione (1820-1842).2

Ma già prima il monumento era stato oggetto di “manomissione” se in un trafiletto de Il cittadino leccese del 13 dicembre 1870 si legge, col titolo Senso comune, sottotitolo Decoro e bellezza della città: “Uscendo dalla porta detta di Napoli, v’imbattete in una specie di costruzione che, pel tempo in cui fu fatta, non era poi delle più spregevoli. Vogliamo parlare dell’obelisco, posto nel punto d’intersezione delle due strade che corrono l’una verso Taranto e l’altra intorno della città. Ora noi crediamo che quell’obelisco, quelle mezze colonne stirate ed ornate con vasi di fiori, e quei canapè di pietra leccese che veggonsi collocati simmetricamente, in giro di esso, furono con una spesa non lieve (si figurino!) eseguiti non a solo fine di abbellire e decorare convenientemente quel luogo, ma a qualche altro ancora, che osservando il malvagio stato in cui vediamo ridotto quel quadrivio, non sapremmo ben diffinire; e vorremmo esserne istruiti dalla cortesia di chi non dovrebbe ignorarlo. Attenderemo adunque che il nostro giustissimo desiderio fosse appagato, per dire su quel luogo, e su l’obelisco di porta a Napoli un’ultima parola”.3

Non abbiamo la pretesa con questo modestissimo contributo, che nulla aggiunge a ciò che da sempre è noto a chi di queste cose si interessa per lavoro o per passione, di contenere e tanto meno di invertire una tendenza in atto; non ci auguriamo neppure che, in concreto, un automobilista rallenti in prossimità di questo monumento per lanciare uno sguardo, per quanto fugace, suscitando le ire di chi lo segue e propiziando pure qualche incidente. La nostra fatica non sarebbe stata vana se solo fossimo riusciti attraverso queste poche note ad educare, prima di tutti noi stessi, ad abbandonare, per quanto è possibile, l’inveterata abitudine di considerare non più degno di considerazione ciò che si vede ogni giorno e del quale crediamo di conoscere tutto.

Nella lettura del monumento che ci accingiamo a fare non ci lasceremo sfuggire la fortunata circostanza che il suo stesso progettista4 ce ne ha lasciato, in un opuscoletto5 dal titolo un po’ altisonante, ampia descrizione insieme con l’interpretazione dei singoli dettagli; fortunata circostanza perché così si eviterà il rischio di superfetazione sempre in agguato quando si tenta di commentare qualsiasi manufatto artistico, da una poesia ad una statua,  da una pittura ad una cattedrale o, come nel nostro caso, un obelisco; il che non significa, altrimenti sarebbe plagio, che rinunceremo a riportare le nostre riflessioni, anche perché non di  tutti i dettagli è presente nell’opuscoletto la descrizione e l’interpretazione.

Prima di cominciare, però, dobbiamo segnalare la strana notizia che Pietro Palumbo ci ha lasciato in Storia di Lecce, (citiamo dall’edizione Congedo, Galatina, 1991, 2a ristampa fotomeccanica della prima edizione uscita a Lecce nel 1915 per i tipi dello Stabilimento tipografico Giurdignano, p. 306): In quelle (le facce) dell’obelisco furono messi gli emblemi dei quattro capoluoghi della Provincia e le relative iscrizioni latine furono composte da Monsignor Rosini vescovo di Pozzuoli e dall’Abate don Angelo Antonio Scorti6.

Per comodità espositiva divideremo il monumento in nove parti: un’area a forma di ottagono irregolare (a) articolata, mediante tre gradini su ogni lato in tre piani sull’ultimo dei quali poggia un parallelepipedo a base quadrata (b) che ne regge uno simile ma di dimensioni ridotte  press’a poco della metà (c); segue una base con una cornice convergente all’interno (d) che regge una parte cubica (e) sormontata da una cornice aggettante (f); a seguire un parallelepipedo (g) da cui  si diparte un tronco di piramide (h) sul quale poggia la parte terminale cuspidata (i).

Sulla faccia di c rivolta verso Porta Napoli c’è una lunga iscrizione della quale ci occuperemo più in là.

Sulle quattro facce del cubo (e) è rappresentato lo stemma della Terra d’Otranto (ora della Provincia di Lecce) che mostra un delfino mentre azzanna la mezzaluna7 sul campo dello stemma d’Aragona con i quattro pali originari, però, diventati bande oblique per la diversa postura del delfino,  ma anche per creare una sorta di continuità con le bande delle tre altre consimili raffigurazioni.

Le facce del tronco di piramide si presentano divise in cinque settori, i primi tre dei quali, per ogni faccia, sono dedicati ai quattro distretti dell’antica Terra d’Otranto: Lecce, Gallipoli, Taranto e Brindisi, con un orientamento direzionale  coincidente con quello dei rispettivi percorsi di cui l’obelisco rappresenta contemporaneamente il punto di arrivo da e il punto di partenza per. La decorazione per gli altri due settori di ogni faccia è comune a quella delle altre (dal momento che celebra caratteristiche comuni), perciò verrà riprodotta, più avanti, solo quella del distretto di Lecce.

Di essa così scrive il progettista nel suo opuscolo (op. cit., pag. 3): ”Nella cima della Colonna si deve scolpire l’effigie della Costellazione Celeste, che domina la provincia di Terra d’Otranto, ossia il Leone, il quale deve contenere tutto il suo corpo, compresa anche la coda, ventisette stelle, col motto allusivo Benigno hoc sydere nati. Appresso vi si deve scolpire dell’uva intrecciata con frondi di ulivo, e col motto parimenti allusivo Bacchi, et Minervae munera indigenis propria”. In realtà di stelle ne compaiono otto, dislocate correttamente come mostra il raffronto con la mappa astronomica.

Inoltre, come si vedrà più avanti, le fronde di ulivo saranno accoppiate anche a dei fasci di spighe di grano. Com’è noto, il Leone che, insieme con il Sagittario e l’Ariete è un segno di fuoco, copre il tempo tra il 23 luglio e il 23 agosto e perciò ben si addice a simboleggiare, al di là delle idee di potenza e dominio, il clima della nostra terra e in particolare i frutti che si raccolgono proprio nel periodo prima indicato (il grano) o che in tale periodo vivono una fase fondamentale del loro sviluppo e maturazione (olive e uva). A questa scelta del Cepolla probabilmente non sarà stato estraneo il ricordo della rappresentazione del mese di agosto nel mosaico della cattedrale di Otranto.

 

Questo lavoro è stato pubblicato integralmente nel periodico della Fondazione  Terra d’Otranto Il delfino e la mezzaluna, anno III, n. 1 (ottobre 2014), pp. 171-189. 

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/23/lobelisco-porta-napoli-lecce-24/

Per la terza parte: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/25/lobelisco-porta-napoli-lecce-35/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/31/lobelisco-porta-napoli-lecce-45/

Per la quinta parte: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/04/lobelisco-porta-napoli-lecce-55/

                                  

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1 Così si legge in Maria Bianca Gallone, Lecce e la sua provincia, Edizioni Sussurro, Lecce, 1968, p. 93; ribadito in Florinda Cordella, Lecce e il Salento, Touring Club Italiano, 2005, p. 25. Questa nota non è presente nella pubblicazione originale ma è stata qui ora aggiunta per presa d’atto di quanto si legge, a firma di Niceta Maggi nel foglio locale Il Bardo, XXIV, 1, Marzo 2015. Di seguito citiamo in grassetto e volta per volta replichiamo in corsivo.

Nel 2015 l’amico Andrea Tondo pubblicò il volume Dal giglio dedi Borbone al Tricolore d’Italia dove fra l’altro dedicò l’Appendice ad una inaspettata “breve cronaca della costruzione dell’Obelisco dedicato al Re Ferdinando I di Borbone che segnava l’inizio della strada Ferdinandiana”. Ebbene, quest’appendice faceva giustizia di molte “leggende” che sul monumento circolavano e purtroppo ancora circolano. Il non aver letto questo fondamentale contributo non ha permesso agli autori di un recente saggio intitolato L’obelisco di Porta Napoli a Lecce (Il delfino e la mezzaluna n. 3) di cadere sugli stessi errori come, per esempio, quello di credere che l’obelisco stesso fu innalzato per una mai avvenuta visita di Ferdinando I a Lecce: in quegli anni, (dal 1822) il re, com’è noto, aveva ben altri problemi e spesso era per lunghi periodi fuori dal Regno. Comunque sia, il problema non è questo.

Premesso che la mancata involontaria lettura di un fondamentale contributo può capitare a chiunque, un “auspicata” aggiunto a “visita” avrebbe forse aiutato a capire meglio l’incongruenza tra il 1822 presente nell’iscrizione tramandataci dal Cipolla e la sua assenza su quella del monumento (L’autore vuole ancora, che il pubblico abbia la conoscenza di una sua latina iscrizione, da lui fatta per l’aguglia medesima, nella quale essa non vedesi scolpita per causa della di lui assenza da Lecce). In parole povere: è pensabile che un simile monumento fosse realizzato senza l’intento di invitare, anche ad alcuni anni dal suo compimento, l’augusto dedicatario che non si sarebbe certo lasciato sfuggire, secondo un’abitudine inveterata e perseverante fino ai nostri giorni, una simile occasione? Che poi la speranza andò delusa perché il re aveva ben altri problemi che non fossero connessi con una banale diarrea è provato anche dall’assenza della notizia di tale visita nei giornali dell’epoca.

Nessuno di questi studi, tranne l’accenno che ha fatto V. Cazzato sul catalogo Foggia Capitale. La festa delle arti nel Settecento (1998) ha messo in evidenza l’humus culturale dal quale proviene una proposta artistica del genere: questa è storia, storia della cultura, che non si trova belleffatta su Internet.

Di seguito il recensore si prolunga sull’humus egizio-napoleonico dell’obelisco che non contestiamo minimamente; aggiungiamo solo che esso, fatte le dovute tare stilistiche, non è affatto un fenomeno nuovo ma, tutt’al più, contingente, visti i famosi precedenti, solo per fare qualche esempio, di Sisto V con la sistemazione ad opera del Fontana degli originali egizi Vaticano (1586), Lateranense (1588), Flaminio (1589), di Pio VI  (con la sistemazione dell’originale egizio Montecitorio (1792). E, se gli esempi precedenti possono essere considerati come un recupero archeologico finalizzato alla celebrazione del potere ecclesiastico, l’obelisco carolino di Bitonto (iniziato nel 1736) ne costituisce il … contraltare laico. Insomma, l’humus evocato dal recensore era tanto banale che non ci è parso opportuno farne cenno. Per quanto riguarda, poi, la “storia della cultura, che non si trova belleffatta su Internet”: la tanto vituperata rete, e il suo uso critico, avrebbe consentito al recensore, “belleffatta” a parte, di riportare del padiglione e degli obelischi quanto meno l’olio di Salvatore Fergola (1799-1874) custodito nella Reggia di Caserta, e non l’anonima stampa mancante di qualsiasi indicazione relativa alla fonte. Dubitiamo che essa appartenga a qualche libro antico in vendita, magari, nella sua libreria e lo stesso dubbio formuliamo per l’immagine a corredo dell’articolo su Alberigo Longo, apparso, sempre a sua firma, sullo stesso numero; e, a proposito di numeri,  ci permettiamo di far notare che il simbolo del Bocchi di cui si parla e lì riprodotto non è il n. 147 ma il n. CXLV, come chiunque potrà controllare, sempre scomodando la rete, in https://books.google.it/books?id=JTi4-NPUQAYC&printsec=frontcover&dq=achille+bocchi&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwikvOOy2PzWAhVMJcAKHbl1B94Q6AEIJjAA#v=onepage&q=achille%20bocchi&f=false.

E quindi, ogni tanto, bisogna studiare lontano dalla comoda, pigra e sviante postazione del proprio computer.

La raccomandazione finale della maestrina mal si concilia con l’assenza nella sua recensione di qualsiasi riferimento all’humus classico (non è questione di spazio …), ben più profondo ed antico di quello napoleonico orgogliosamente sbandierato; ma sarebbe pretendere troppo da chi probabilmente non conosce né il latino né il greco (tanto meno la storia delle rispettive civiltà), ma col suo belleffatta dimostra di non conoscere nemmeno l’italiano … “. E, a tal proposito, sempre sfruttando la rete, notiamo che belleffatto compare solo in Gian Gasparo Napolitano, Troppo grano sotto la neve, un inverno in Canada, Casa editrice Ceschina, Milano, 1936, p. 359 e in Marina Minghelli, I tossici, Armando Editore, Roma, 2008, p. 172. Non ci risulta che il Napolitano e la Minghelli abbiano acquisito autorevolezza tale da far entrare “belleffato” nel novero dei lemmi registrati anche dal più scadente dei vocabolari. Ci riuscirà il Maggi?   

2 Vedi Mario Falco, Il neo classico a Lecce, in La zagaglia, anno X, N. 38 (giugno 1968), p. 217.

3 Già poco dopo la sua realizzazione il monumento era stato oggetto di “attenzione” politica con manifestazioni vandaliche da parte degli antiborbonici. Sull’argomento vedi Nicola Vacca, I Carbonari e l’obelisco di porta Napoli, in Rinascenza salentina, anno II (1934), pagg. 158-160. Gli autori ringraziano la signora Mariagrazia Presicce per aver fornito la copia fotostatica dell’articolo de Il cittadino leccese.

4 Luigi Cepolla, nato nel 1766 a San Cesario di Lecce, era un avvocato, docente di diritto a Napoli,  con la passione dell’archeologia e dell’epigrafia. Ebbe l’onore di vedere esaminate le sue carte dal Mommsen e nello stesso tempo la sfortuna della stroncatura da parte del maestro tedesco che in Annali dell’istituto di corrispondenza archeologica, 1848, volume 20, pagg. 80-81 proposito di alcune presunte iscrizioni messapiche mostrategli dal Cepolla così scrive: Fra le carte di Luigi Cepolla di Lecce, chè molto si diletta di studiare e tradurre le iscrizioni messapiche, rinvenni la seguente….non debbo tacere che di altre due iscrizioni che il Cepolla mi diede…l’una si trovò essere una nota iscrizione osca capovolta, l’altra…contiene un alfabeto greco antico. Tanto questo però che l’iscrizione capovolta furono credute cose messapiche, e come tali tradotte e spiegate. Di una terza iscrizione…lascio volentieri il giudizio ai lettori se sia vera o falsa, messapica o cristiana, e  conclude impietosamente: Che disgrazia di dover attingere notizie importanti da così torbidI fonti!.

Il giudizio negativo sull’attendibilità scientifica del Cepolla verrà ribadito successivamente da L. G. De Simone che in Di un ipogeo messapico scoperto il 30 agosto 1872 nelle rovine di Rusce e delle origini de’ popoli della Terra d’Otranto, Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1872, pag. 25 lo definisce un dotto ma strambo archeologo leccese. Dello stesso parere Luigi Maggiulli e Sigismondo Castromediano che in Iscrizioni messapiche, Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1871, pag. 3 così lo giudicano:  Tuttoché dotto fu strambissimo interpetre delle antichità, i documenti della quale storpiava a piacere, per poscia interpetrarli a piacere. Il Castromediano ribadirà la stroncatura affinando la mira nella sua Relazione della commissione conservatrice dei monumenti storici e di belle arti di Terra d’Otranto per l’anno 1871 al Consiglio provinciale, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1872, p. 23 nota 1: … la sua [dell’obelisco] composizione venne ideata da Luigi Coppola. Dotto costui nelle antichità della Provincia alla maniera del secolo passato, ma più che dotto strano, servendosi di alcuni motti latini e della mitologia creò in quel monumento uno dei più intricati geroglifici, che anche leggendo la memorietta spiegativa da lui stesso stampata al proposito, nemmeno s’intende. Altre sue indecifrabili stramberie si scorgono nei brevi e pochi opuscoli da lui pubblicati. Anche se, come tenteremo di dimostrare, indecifrabili stramberie ci pare un po’ esagerato e se la celebrazione della componente cretese poteva forse avvenire in un modo meno prolisso, ci chiediamo, maliziosamente forse, se Coppola invece di Cepolla sia un refuso o una forma originalissima di damnatio memoriae, anche se una coppola vale certamente più di una cipolla …

Pure Nicola Vacca, op. cit. p. 159, era stato poco tenero con lui: Gli emblemi, i simboli dell’obelisco furono ideati ed illustrati stranamente dall’avv. Luici Cepolla.

Quanto ai brevi e pochi opuscoli, oltre la memorietta che citeremo in nota 3: Saggio d’idee filosofiche sopra la quistione più favorita del giorno. Qual è la migliore politica costituzione, Manfredi, Napoli, 1820;  Dissertazione sulla significazione del toro a volto umano usato comunemente per simbolo della Italia, della Sicilia, e di molte altre città greche in alcune loro più antiche medaglie, Nobile, Napoli, 1826; Saggio analitico di varii oggetti di morale, di scienze, di arti, e di bella ed amena letteratura, Chianese, Napoli, 1837; Breve componimento, Fratelli Cannone, Bari, 1841;  Breve cenno fugitivo della storia primitiva di Ugento, s. n., s. l., 1841 (?): Agesilao Milano: Storia del secolo XIX, Giuntini, Catania, 1862.

5 Illustrazioni degli emblemi mito-istorici seguiti d’alcuni motti indicanti le prime tre epoche degli antichi popoli salentini figurati nella nuova aguglia eretta fuori della Porta di Napoli in Lecce del Sig. L. Cepolla, autore della formazione iconografica, ed epigrafica di tutta la storia Antiquario Numismatica della Provincia Salentina, Tipografia di Agianese, Lecce, 1827. Gli autori ringraziano Giovanna Falco peraverne fornito la copia fotostatica.

6 Carlo Maria Rosini, (1748-1836), vescovo di Pozzuoli dal 1797 fino alla morte, filologo. Ecco le sue benemerenze “laiche”: nel 1787 fu nominato da Ferdinando I titolare della Cattedra di Santa scrittura nella Regia Università di Napoli (in sostituzione di Nicola Ignarra nominato precettore del principe ereditario e poi re Francesco I), nel 1817 Presidente perpetuo della Società Reale Borbonica, nel febbraio 1822 presidente della Reale Biblioteca Borbonica, nel settembre dello stesso anno presidente della Pubblica Istruzione. Sterminata la serie delle sue pubblicazioni tra le quali spicca in campo scientifico Dissertationis isagogicae ad Herculanensium voluminum explanationem, Tipografia Regia, Napoli, 1797 (opera continuata dopo la sua morte dallo Scotti). Angelo Antonio Scotti (e non Scorti, come si legge nel libro del Palumbo) (1786-1845), arcivescovo di Tessalonica (dal 1843 fino alla morte), paleologo. Tra le sue numerose pubblicazioni, oltre la continuazione dell’opera del Rosini : Illustrazione di un vaso italo-greco del museo di mons. arcivescovo di Taranto, Stamperia Regia, Napoli, 1811; Memoria sopra un greco diploma esistente nel grande archivio di Napoli, s. n., s. l., 1813 (?); Dissertazione sopra un antico busto, Tipografia Trani, Napoli, 1815; Dissertazione sopra un antico mezzo busto falsamente attribuito ad Annibale cartaginese, Napoli, Tipografia Trani, 1816; Syllabus membranarum, Stamperia Reale, Napoli, 1824. I due si conoscevano e stimavano reciprocamente, stando a quanto si legge in Prospero De Rosa, Elogio istorico di Monsignor Carlo Rosini vescovo di Pozzuoli, Stamperia Reale, Napoli, 1841 (opera dedicata allo Scotti).

7 Questo elemento venne aggiunto dopo la cacciata dei Turchi (popolazione di cui la mezzaluna costituisce uno dei simboli)  ad opera di Alfonso d’Aragona nel 1481.

 

 

 

Sulla statua dell’Assunta nel Duomo di Lecce

La nuova statua fatta venire da Napoli’: attori e comprimari intorno alla commissione dell’Assunta lignea per il Duomo di Lecce

1. Nicola Fumo, Assunta, 1689. Museo diocesano, Lecce, proveniente dalla cattedrale della città.

 

di Maura Sorrone

<<A 15 agosto si fece la prima festa della SS. Vergine Assunta della nuova statua fatta venire da Napoli dal vescovo Pignatelli collocata sopra l’altare maggiore della cattedrale, opere del celebre Nicola Fumo insigne scultore napoletano>>[1].

L’opera, conservata nel museo dell’arcidiocesi di Lecce, ben conosciuta dai più autorevoli studiosi del settore[2], testimonia la fervida attività di committenti nobili ed ecclesiastici che tra Sei e Settecento favorirono la devozione popolare, facendosi carico e promuovendo l’acquisto di importanti sculture sacre.

Il 15 agosto del 1689 i leccesi per la prima volta avevano a disposizione un’opera monumentale per manifestare la propria devozione alla Vergine Maria.

All’arrivo della statua, avvenuta qualche mese prima, la chiesa cattedrale era già stata ricostruita e ammodernata da Giuseppe Zimbalo (1659 – 1670) per volontà del vescovo Luigi Pappacoda (1639 – 1670)[3].

Il committente dell’opera, mons. Michele Pignatelli (1682 – 1694), tenne conto dello spazio a disposizione per la sistemazione della maestosa statua sull’altare maggiore del duomo, probabilmente accordandosi con lo scultore su misure e modello da realizzare. Come possiamo immaginare tale scelta rendeva piuttosto scenografica l’area presbiteriale della chiesa.

Giuseppe Cino, testimone dell’arrivo dell’opera a Lecce, con le sue Memorie ha fornito agli studiosi di scultura in legno un importante dato documentario. Infatti la sua affermazione che cita Nicola Fumo autore dell’Assunta è tra le più antiche .

Fin qui nulla ci sarebbe da aggiungere. Nel 2011, però, un atto di pagamento recuperato da Vincenzo Rizzo presso l’archivio storico del Banco di Napoli, ha permesso di conoscere altre personalità che contribuirono in diverso modo alla realizzazione dell’opera.

ASBN, Banco della Pietà, giornale copia polizze di cassa, matr. 903, 15 aprile 1689:

  1. A Geronimo d’Aponte, ducati 25 et per lui a Giovanni Battista Gricelli per altrittanti e per lui a d. Carlo Coppola per altrittanti e per lui a Francesco D’Angelo a compimento di d. cento ottantuno, e sono in conto d’una statua di legno lavorata e miniata dell’Assunta della nostra Regina quale doverà consignarli per servitio del duomo di Lecce, non restando a conseguir’altro che d. dodici, atteso l’altri l’ha ricevuti per diversi banchi et per lui ad Aniello Conte per altrittanti [4].

Come talvolta accade, non sempre negli atti di pagamento è dichiarato il nome dell’artista. Questo documento in un primo tempo ha portato a mettere in discussione dati storicizzati e considerati attendibili.

Considerare ogni singolo episodio come facente parte di una “serie”, cioè di un insieme di fatti, circostanze e abitudini legati tra loro da un’imprescindibile relazione, ci consente di dare la giusta importanza ad eventi artistici che, se estrapolati dalla realtà che li ha generati, finirebbero per restituirci una visione alquanto distorta di fatti e relazioni che hanno contribuito alla presenza nel territorio salentino di importanti sculture in legno commissionate a Napoli tra Sei e Settecento.

Da un’analisi del nostro documento diverse persone prendono parte alla vicenda. Si tratta di un passaggio di denaro da Geronimo, noto esponente della famiglia d’Aponte[5], a Francesco D’Angelo tramite diverse altre personalità. Nel gergo delle attività bancarie dell’epoca, Geronimo d’Aponte è il “cambiatore”, colui cioè che da una determinata zona periferica raggiungeva i Banchi napoletani per adempiere commissioni prese in carico. Infatti, analizzando i documenti a suo nome, si leggono tantissimi atti di pagamento effettuati tramite i banchi riguardanti le faccende più disparate, che legavano molti prelati e membri della nobiltà locale della Terra d’Otranto alla città di Napoli. Allo stesso modo gli altri personaggi citati nel documento fanno da tramite: da quanto è emerso dagli archivi, Don Carlo Coppola è un sacerdote della curia leccese, vicino al vescovo Pignatelli. Quest’ultimo, seppur non presente nell’atto di pagamento, da quanto leggiamo nelle attendibili cronache di Giuseppe Cino, è evidentemente il committente della scultura.

Giovan Battista Gricelli, non è stato rintracciato in nessuna fonte locale, ma finora è stato sottovalutato un fatto importante: il suo nome compare nella polizza di pagamento della Madonna del Carro realizzata dieci anni dopo da Gaetano Patalano per la parrocchiale di San Cesario di Lecce [6], sebbene Isabella Di Liddo abbia riportato il nome di Giovan Battista Oricelli, il corretto nome dell’intermediario è da leggersi più correttamente “Gricelli”:

ASBN, Banco della Pietà, giornale copiapolizze di cassa, matr. 1069, anno 1699

31 marzo:

A D. Francesco Marullo ducati quaranta, e per lui a Gaetano Patalano, statuario per farne una statua della Madonna Santissima del Carro secondo il convenuto con D. Giovanni Battista Gricelli della Città di Lecce, in qualità del disegno, al medesimo trasmesso, e per lui a Nicola Garofano.

Invece non possiamo affermare con certezza che Francesco D’Angelo, citato nel documento riguardante l’Assunta del Duomo, sia l’argentiere attivo nel cantiere della fontana di Monteoliveto a Napoli, come si è pensato in un primo momento  [7].

Ad ogni modo un Francesco D’Angelo compare ancora in un atto di pagamento per altre opere leccesi, cioè le statue di San Pietro d’Alcantara, di San Gaetano Thiene e dell’Immacolata  per la chiesa di Santa Chiara, datate 1692. Dunque è importante evidenziare che le commissioni fatte in questi anni a Nicola Fumo e Gaetano Patalano per le chiese leccesi avvenivano tramite gli stessi intermediari.

ASBN, Banco dello Spirito Santo, giornale copiapolizze di cassa, matr. 721, anno 1692, 7 febbraio:

A Francesco d’Angelo duc. Cinquantasei, e per lui a Gaetano Patalano e sono per saldo delle tre statue che l’ha fatto per servitio del monastero delle rev.de monache della città di Lecce cioè della Concettione, San Gaetano, e San Pietro d’Alcantare di altezza di palmi sette l’una, e d.ti 56 li paga se suoi propri denari per doverseli rimborzare da d.to monasterio, e con d.to pagamento resta d.to Gaetano interamente soddisfatto per non doversene avere cosa alcuna [8].

Sicuramente non si tratta di nomi clamorosi, ma comparare fonti e documenti ci permette indubbiamente di conoscere al meglio le relazioni tra individui che hanno contribuito alle scelte delle opere e degli artisti nel campo di un settore alquanto complesso come quello della scultura in legno napoletana.

Ritornando alla nostra Assunta, ricordiamo che l’opera restò sull’altare maggiore sino al 1757, quando si decise di dotare la cattedrale di un cospicuo arredo marmoreo che modificò nuovamente l’aspetto dell’edificio. A testimonianza di ciò Francesco Piccinni nel 1757 ci racconta del nuovo capo altare consacrato dal vescovo Sozy Carafa e di una nuova sistemazione dell’Assunta del “celebre Nicola Fumo”. Cambiamento voluto dall’Abate don Francesco Palumbo canonico della Cattedrale, “di indole portato alle novità nonostante molti reclami del popolo” [9]. All’Assunta lignea del Fumo, fu preferita una nuova tela della titolare, dipinta da Oronzo Tiso e collocata nell’area presbiteriale [10].

Si può comprendere quanto l’opera di Fumo fosse stata una novità apprezzata dai fedeli che non sembra abbiano ben tollerato le modifiche compiute dal vescovo Alfonso Sozy Carafa nel 1757. Il vescovo attuò le disposizioni testamentarie del predecessore, Scipione Sersale (1744 – 1751), facendo eseguire un nuovo altare marmoreo con balaustrata e due angeli capo altare dal marmoraro napoletano Gennaro De Martino.

È evidente quanto l’immagine della Vergine dipinta dal Tiso abbia avuto come modello la scultura di Nicola Fumo sia nell’impostazione delle figura sia nella postura degli angeli – soprattutto quello a sinistra di chi guarda l’opera -[11] .

Dal punto di vista dello stile non si aggiungerà in questa sede nulla d’inedito riguardo alla scultura di Fumo. L’opera, già ricordata da Borrelli come “un’autentica montagna colorata semovente” [12] si caratterizza per la dinamicità totale. Lo scultore, con abilità e sapiente maestria, ha perfettamente reso l’idea del transito al Cielo della Vergine in anima e corpo.

La figura di Maria sembra pronta a sollevarsi dalla nuvola posta sotto i suoi piedi, i panneggi sono mossi e impreziositi dalla fantasia floreale [13]. Motivo questo che ben presto diverrà modello iconografico da non sottovalutare nella pittura e nella scultura locale da questa data in poi.

Il panorama che si andava così tracciando nel Salento sul finire del XVIII secolo, fu quello di un territorio pronto ad accogliere le principali novità napoletane. Tali innovazioni artistiche furono ricercate dai committenti per omologare le città della Terra d’Otranto, alla Capitale. Il Salento, infatti, a differenza di quanto accadde nelle altre periferie dipendenti da Napoli, fu senz’altro maggiormente disposto ad accogliere le opere d’importazione, allontanando ogni tipo di ritardo artistico o rifiuto dei nuovi modelli elaborati nella capitale partenopea.

 

Note

[1] CINO, Giuseppe, Memorie ossia notiziario di molte cose accadute in Lecce dall’anno del Signore 1656 sino all’anno 1719 del signor Giuseppe Cino ingegnere leccese, in Cronache di Lecce, a cura di Alessandro Laporta, Lecce: Ed. del Grifo, 1991, pp. 49 – 98, p. 63.

[2] CASCIARO, Raffaele, Seriazione e variazione: sculture di Nicola Fumo tra Napoli, la Puglia e la Spagna, in La scultura meridionale in età moderna nei suoi rapporti con la circolazione mediterranea, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Lecce, 9 – 11 giugno 2004), a cura di Letizia Gaeta, Galatina: Congedo ed. 2007, 2 voll., II, pp. 245 – 264, 247 – 248; Rossi, Valentina, scheda opera n. 48 p. 260- 261, in Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e la Spagna catalogo della mostra (Lecce, 16 dicembre 2007-28 maggio 2008), a cura di Raffaele Casciaro e Antonio Cassiano, Roma: De Luca edit. 2007, pp. 260 – 261.

[3] Cazzato, Vincenzo, Schedatura dei centri urbani, Provincia di Lecce, in Atlante del Barocco in Italia, Puglia, 2. Lecce e il Salento, 1, i centri urbani. Le architetture e il cantiere barocco, a cura di Mario Cazzato e Vincenzo Cazzato, Roma: De Luca ed. 2015, pp. 99 – 103.

[4] RIZZO, Vincenzo, Su alcune ritrovate sorprendenti sculture napoletane tra Sei e Settecento, in “Quaderni dell’Archivio Storico del Banco di Napoli”, Napoli 2009 – 2010, Napoli: Farella snc. 2011, pp. 213 – 231, p. 224. Il documento è stato verificato da chi scrive durante le ricerche per la tesi di dottorato presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli. Colgo l’occasione per ringraziare il responsabile dell’Archivio Storico dell’Istituto Banco di Napoli – Fondazione – Eduardo Nappi e il personale tutto.

[5] BALSAMO, Bruno, Gli Aponte: un’antica famiglia marinara sorrentina, Sant’Agnello: Monghidoro 2011.

[6] DI LIDDO, Isabella, La circolazione della scultura lignea barocca nel mediterraneo. Napoli, la Puglia e la Spagna una indagine comparata sul ruolo delle botteghe: Nicola Salzillo, Roma: De Luca ed. 2008, pp. 131 – 136.

La Madonna del Carro (1699) di Gaetano Patalano per San Cesario di Lecce

[7] Rizzo, Vincenzo, Su alcune ritrovate sorprendenti sculture napoletane…cit., p. 223

[8] Borrelli, Gian Giotto, Sculture in legno di età barocca in Basilicata, Napoli: Paparo ed. 2005, doc. 60 p. 112.

[9] Principiano le notizie di Lecce di Francesco Antonio Piccinni della classe dei civili di questa città nell’anno 1757, in Cronache leccesi…cit., pp. 99 – 303, p. 148.

[10] In precedenza, nel presbiterio era collocata un’Assunta dipinta dal gallipolino Giovan Domenico Catalano (1560 ca. – 1627 ca.).

[11] Sicuramente non fu una novità per il pittore Oronzo Tiso prendere a modello l’opera di Fumo. Egli, infatti, nella sua produzione ebbe come punto di riferimento i pittori del barocco napoletano, però probabilmente nel duomo leccese il modello di riferimento fu specificatamente la statua dell’Assunta.

[12] BORRELLI, Gennaro, Sculture di Nicola Fumo nel Salento, in Studi di storia pugliese in onore di Nicola Vacca, Galatina: Congedo ed. 1971, pp. 19 – 25, p. 24.

[13] GAETA, Letizia, … colorite e miniate al naturale: vesti e incarnati nel repertorio degli scultori napoletani tra Seicento e Settecento, in La statua e la sua pelle. Artifici tecnici nella scultura dipinta tra Rinascimento e Barocco, Atti del Seminario Internazionale di Studi (Lecce, 25 – 26 maggio 2007), a cura di Raffaele Casciaro, Galatina: Congedo ed. 2007, pp. 199 – 220.

Lecce e due casi di realtà virtuale ante litteram

di Armando Polito

Oggi la tecnologia ci consente di immortalare e condividere  qualsiasi momento, anche il più banale e meno coinvolgente per gli altri, della nostra vita. Non ci rendiamo conto che proprio la condivisione, che sembra essere il non plus ultra della libertà e della democrazia, rappresenta il cibo quotidiano che ogni giorno ingrassa colossi che eludono il fisco e, quel che è peggio, custodiscono le testimonianze, intelligenti e stupide, della nostra vita. C’è, però, anche il rovescio della medaglia perché in quella messe di dati è celata una potenzialità sbalorditiva di conoscenza che nel breve volgere di qualche decennio, visto il rapido mutare, soprattutto per colpa nostra, di ciò che ci circonda, può costituire una fonte preziosa per la ricostruzione del passato. Così un semplice selfie, per esempio, potrà essere importantissimo non per il dettaglio più importante al momento dello scatto, cioè il nostro volto o la nostra figura, ma il secondario, cioè lo sfondo. Insomma gli scatti condivisi assumeranno l’importanza che hanno le cartoline d’epoca. In riferimento al tema di oggi va detto che prima dell’avvento della fotografia le uniche fonti visive erano le rappresentazioni artistiche (bozzetti, disegni, incisioni, dipinti, sculture) che per la loro natura non garantiscono tutte la certezza di una riproduzione fedele, oggi diremmo fotografica, della realtà. D’altra parte, ad essere sinceri, nemmeno le fonti letterarie spesso consentono un’interpretazione univoca della realtà e in certi casi basta una sola, miserabile variante della tradizione manoscritta per dar luogo ad una ridda di ipotesi contrastanti. Pensate che noia mortale sarebbero i nostri tentativi di conoscere, se per loro le porte del successo si spalancassero più o meno immediatamente e tutto fosse incontrovertibilmente chiaro.

E poi c’è la realtà virtuale che con un realismo abbastanza spinto consente esplorazioni di ogni tipo senza spostarsi nemmeno di un passo e un’immersione sufficientemente attendibile dal punto di vista scientifico nelle testimonianze del passato delle quali nulla (o nei casi migliori pochi resti) rimane di materiale.

Tutta questa premessa per presentarvi la tavola di un libro e per giustificare il titolo che farebbe invidia ad una puntata di Voyager …

Di seguito il frontespizio del libro e la tavola che ne costituisce l’antiporta (per chi volesse consultarlo integralmente: https://books.google.it/books?id=_QSzTrz4uHsC&printsec=frontcover&dq=i+primi+martiri+di+Lecce&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjO1pL-iP_UAhWiB8AKHav_BjkQ6AEIIjAA#v=onepage&q=i%20primi%20martiri%20di%20Lecce&f=false).

Ritornerò dopo a commentare l’immagine. Ora mi preme sintetizzare la struttura del libro, che consta di 147 pagine così distribuite:

pp. 6-37 libro I (Istoria de’ tre santi, e primi martiri della città di Lecce Oronzio, Giusto, e Fortunato)

pp. 38-64 libro II (Istoria de’ santi di Lecce Giusto, Oronzio, e Fortunato

pp. 65-79 libro III (Martirio di Emiliana e Petronilla)

pp. 80- 97 libro IV (Vita di S. Fortunato)

pp. 98-131 libro V (Miracoli e grazie concesse da Dio per intercessione di S. Oronzio)

pp. 132 Oremus

pp. 133-134 Inni in onore del santo

pp.135-140 Memoria della grazia concessa della liberazione del contagio di questa fedelissima città dii Lecce, e sua provincia del glorioso S.Oronzio padrone e protettore, registrata nel libro Rosso dell’istessa

pp.140-147 Questa parte contiene un sintetico ricordo dell’intervento del santo in occasione dei terremoti del 1743 e del 1835.

Tutto questo perché l’edizione del 1835 fu preceduta da quella del 1714, a sua volta preceduta da quella del 1672. Poiché quest’ultima è introvabile (nella scheda dell’OPAC, pur essendo riportato  nelle note generali frontespizio preceduto da antiporta xilografata  A c. O8v. vignetta xilografata S. Orontio Segn.: *8 A-O8, manca qualsiasi indicazione nello spazio riservato alle biblioteche che la custodiscono). passo a quella del 1714 (http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?teca=&id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ASBLE013227).

Essa consta di 110 pagine così articolate:

pp. 3-4 Dedica del Barichelli alla città di Lecce

pp. 5-6 Avviso del Barichelli ai lettori

pp. 7-8 Richiesta di stampa da parte del Mazzei e imprimatur

pp. 9-15 libro I (Lecce Oronzio, Giusto, e Fortunato)

pp.1 6-27 libro II (Dell’istoria de’ santi di Lecce Giusto Oronzio – e Fortunato)

pp. 28-36 libro III (Martirio dfi Emiliana, e Petronilla)

pp. 37-41 libro IV (Dell’istoria de’ tre santi e primi martiri della città di Lecce Orontio Giusto – e Fortunato)

pp. 42-57 libro V (Miracoli e gratie concesse da Dio per intercessione di santo Oronzio

pp. 58-59 Inni in onore del santo

pp. 60-66 Semplice e diligente relazione della rinovata Divozione verso il glorioso Martire di Cristo, Patrizio, e primo Vescovo di Lecce S. Oronzo di Giovanni Camillo Palma Dottor Teologo, & Arcidiacono di Lecce

pp. 67-73 Lettera pastorale di Monsignor Luigi Pappacoda vescovo di Lecce alla sua città, & diocesi

Alla fine di p. 73 c’è la seguente immagine.

Credo che in essa possa ravvisarsi la rappresentazione, per quanto libera, della città vista da Porta Rudie. Lo stesso profilo della porta mi pare sovrapponibile a quello mostrato dalla tavola di Lecce a corredo della seconda parte dell’opera postuma di Giovanni Battista Pacichelli Il regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie, Parrino, Napoli, 1703. Di seguito la tavola e il dettaglio della porta.

 


Riprendo la descrizione interrotta della struttura del volume:

pp.74-90 Ricordi per il vivere cristiano ad ogni stato di persona, del glorioso S. Carlo Borromeo

pp.91 Memoria della colonna

La p. 92 presenta l’immagine di seguito riprodotta.

Da notare nella parte superiore, da sinistra a destra, lo stemma della città di Lecce, quello del vescovo Fabrizio Pignatelli (1696-1734) e uno scudo vuoto.

pp. 93-110 Lecce con la sua provincia de’ Salentini preservata dalla peste negl’anni 1656 e 1690 …

L’immagine che costituisce l’argomento centraledi questo post, dunque, non compare nell’edizione del 1714 ma non doveva, anzi non poteva comparire neppure in quella del 1672. La ripropongo per rendere più agevole la lettura del commento che avevo promesso.

La didascalia recita: S. ORONZIO VESCOVO E MARTIRE. Protettore della Città e della Provincia di Lecce. In Lecce da Gaetano de Blasi.

Al di sotto del margine inferiore destro della raffigurazione si legge: d’Angelo inc.

Molto probabilmente di tratta di Raffaele D’Angelo, incisore napoletano attivo nella prima metà del XIX secolo. Di lui la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli conserva tre stampe:

a) Ritratto a mezzo busto di tre quarti verso sinistra in atteggiamento benedicente di Giuseppe Maria Trama (1790-1848), vescovo di Calvi e Teano.

b) Ritratto a mezzo busto di tre quarti verso sinistra di Francesco Antonio Fasani (1681-1742); in alto a sinistra, su di una nuvola, la Madonna calpesta il serpente.

c) Il beato Vincenzo Romano (1761-1831) prega inginocchiato dinanzi ad un altare.

Del D’angelo è pure un ritratto di suor Serafina di Dio (1621-1699), al secolo Prudenza Pisa. La tavola è inserita nel volume di Salvatore Farace Un gioiello di arte ossia la chiesa di S. Michele Arcangelo detta Paradiso terrestre : con un cenno della veneranda Madre Serafina di Dio e dei monumenti e ricordi di Anacapri, Giannini & Sons, Napoli, 1931.

L’assenza di Raffaele nella “firma” della nostra immagine mi suscita qualche dubbio sulla sua paternità, non sulla  quanto sua cronologia. In altre parole: Gaetano de Blasi avrebbe fatto stampare a sue spese un’incisione che, per via dell’assenza di Raffaele, potrebbe essere un falso.

Del De Blasi nulla ho potuto reperire, se non il fatto che a sue spese fece stampare pure un’altra tavola sullo stesso tema. La riproduco da http://www.vecchiaprovinciadilecce.it/images/small/c3b.jpg.

La scheda presente nel link appena segnalato al dato Autore reca la dicitura Lit. Pötel, come data di stampa 1850 circa, mentre sconosciuto risulta il luogo di stampa e, lacuna secondo me gravissima per un sito “ufficiale”, non c’è nessuna indicazione circa il luogo di custodia. L’unica cosa certa è, come si legge nella didascalia, che la litografia fu realizzata A SPESE DI GAETANO DE BLASI.

Con tutte le perplessità finora espresse non mi rimane che fare l’esame comparativo tra quest’ultima immagine e la nostra.

Il presunto Raffaele D’Angelo, pur apparendomi più rozzo nel tratto, mi appare più coinvolgente da un punto di vista emotivo rispetto al tema rappresentato per tre dettagli, uno paesaggistico, gli altri due umani. Lo spazio extra moenia antistante Porta Napoli appare più selvaggio, incolto e disordinato, La figura femminile a braccia tese orizzontalmente nel vuoto dell’arco (nell’altra immagine, invece, si intravvedono dei fabbricati) sembra esultare alla visione del santo, mentre il giovane in primo piano (si trova più o meno laddove ora sorge l’obelisco) appare congelato nell’atto di impugnare una zappa.Insomma, a costo di sembrare banale: la perfezione tecnica non è toiut court, e non solo in questo campo, sinonimo di convincente interpretazione.

Mi pare molto probabile, poi, che nel modello compositivo i due incisori abbiano tenuto presente Nicolas Perrey e la sua tavola raffigurante S. Gennaro che ferma l’eruzione del Vesuvio del 1631, tavola inserita alla fine del volume di Francesco Balzano L’antica Ercolano, overo la Torre del Greco tolta all’obblio, Paci, Napoli, 1688.

In conclusione: è probabile che la tavola del 1714 in cui ho ravvisato Porta Rudie fosse la stessa che compariva nell’edizione, introvabile come ho detto, del 1672 e che rappresentasse, sia pure in modo sommario, la porta com’era prima della ricostruzione in seguito al crollo della fine del XVII secolo.

Non è da escludere che anche la vecchia porta, come avverrà per quella ricostruita, fosse dedicata a S. Oronzo, il che renderebbe tale tavola più congruente al tema trattato nel volume di quella relativa a Porta Napoli presente nell’edizione del 1835.

Per tornare, infine, alla realtà virtuale del titolo, la ricostruzione del passato appare, secondo me, più convincente nel reale o presunto Raffaele D’Angelo, per la cui immagine, almeno, a differenza dell’altra di Pötel, abbiamo la fonte, oltre che una definizione decisamente più accettabile, per cui mi chiedo che senso abbia pubblicare un documento pressoché illeggibile nei dettagli. E questa non è affatto un’altra storia …

Lecce, piazza S. Oronzo e un’altra incisione ottocentesca

di Armando Polito

Quando mi si chiede quale, secondo me, è ciò che contraddistingue un genio (da quello artistico in genere allo scientifico) dai mortali comuni, la risposta a bruciapelo, senza bisogno di cercarlo, nell’uovo, è lapidaria: l’originalità. In tempi in cui la globalizzazione ha massificato, omogeneizzato ed omologato l’umanità ed in cui l’imperativo dominante è quello del tutto e subito e il fine principale, se non unico, il profitto ad ogni costo, la purezza dell’originalità tende ad essere contaminata più che mai dalla scarsa onestà intellettuale e, nei casi peggiori, dalla sua totale assenza. Non mancano le operazioni di piccolo cabotaggio, quali appaiono ai miei occhi tante tesi di laurea o di dottorato di ricerca frutto di frenetici copia-incolla o, nei casi meno appariscenti, di elementari parafrasi, squallido mezzuccio per non sobbarcarsi alla fatica del virgolettato … Questo deleterio fenomeno, tuttavia, non è nuovo e ho avuto in questo blog più di un’occasione per stigmatizzarlo. Emblematico, a tal proposito, per il campo squisitamente letterario, l’esempio che ho portato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/05/14/se-non-e-plagio-ditemi-voi-cose/. Tutti i nodi, tuttavia, prima o poi vengono al pettine e oggi più facilmente e rapidamente grazie proprio allo stesso strumento che ne ha reso possibile il confezionamento: il pc. Il post di oggi, anche se riguarda il campo figurativo, ne è la dimostrazione e costituisce  l’integrazione, probabilmente provvisoria, di uno precedente sullo stesso tema (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/04/lecce-plagiata/).

A beneficio dei lettori più pigri riproduco le due immagini mostrate nel link appena segnalato. La prima fu    pubblicata da Audot padre in L’Italia, la Sicilia, le Isole Eolie, l’Isola d’Elba, la Sardegna, Malta, l’isola di Calipso, ecc., Pomba, Torino, 1835, tomo II.

La seconda è tratta dalla rivista settimanale  L’omnibus Pittoresco, Napoli, anno I, n. 50 del 23 febbraio 1839, pag. 415 (http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AMIL0132098_184488&teca=MagTeca+-+ICCU).

Passo all’immagine di oggi. Nel  1843 usciva per i tipi dell’editore Parente a Napoli Collezione di novanta vedute della città e Regno di Napoli. Tra le novanta vedute quattro sono dedicate ad altrettante città della Terra d’Otranto (Brindisi, Lecce, Otranto e Taranto). Riproduco la tavola LXXXIX dal testo appena citato. integralmente consultabile in https://books.google.it/books?id=TpnLGRkuxpsC&printsec=frontcover&dq=colleziuone+di+novanta+vedute+della+citt%C3%A0+e+regno+di+napoli&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjG8aPr4rzTAhXhAsAKHe6yC7UQ6AEIJTAA#v=onepage&q=colleziuone%20di%20novanta%20vedute%20della%20citt%C3%A0%20e%20regno%20di%20napoli&f=false.

Per Aubert e Segoni rinvio al precedente post. Alessandro Moschetti, secondo quanto si legge in Giovanna Sapori e Sonia Amadio, Il mercato delle stampe a Roma, XVI-XIX secolo,  Libro Co. Italia, 2008, p. 334, morì nel 1845, aveva la bottega a Roma  in via Bocca  di Leone, 63 e fu incisore di architetture. Gran parte delle incisioni della Collezione di novanta …, op. cit. reca il suo nome. Aggiungo che sua è anche l’incisione della Carta corografica dello Stato Pontificio indicante le dogane, i posti armati dalla truppa di finanza, le strade doganali, la fascia bimiliare di divieto …, su disegno di G. Spinetti,  stampata a Roma (non compare il nome dell’editore) nel 1838 ed attualmente custodita nella Biblioteca Casanatense a Roma.

Lascio al lettore lo stesso gioco enigmistico dello Scopri le differenze a suo tempo ricordato e mi pongo, estendendola a Moschetti, la stessa domanda: possono tre artisti della loro fama, per giunta pressoché contemporanei, differenziarsi sostanzialmente nel trattamento delle nuvole?

E chiudo questo post con le stesse parole del precedente: E la caccia continua …

Lecce, piazza S. Oronzo in un disegno della fine del XVIII secolo

di Armando Polito

A chi, come me, è un cibernauta incallito sarà tante volte capitato di sentire il bisogno di rilassarsi, prima di spegnere il pc, concludendo una sessione di lavoro (io lo chiamo così, anche se non mi fa guadagnare un centesimo), caratterizzata da una ricerca in rete mirata (anche se spesso ravvivata proficuamente dalla scelta di parole-chiave a prima vista destinate all’insuccesso), con un’ultima disordinata scorreria dando in pasto al motore di ricerca la prima parola che viene in mente. Succede pure che in questa situazione ci si imbatta in qualcosa di interessante e che, data la stanchezza, si spenga il pc prima di annotare il prezioso link. Niente di drammatico se prima di togliere gli alimenti giornalieri al nostro prezioso strumento non abbiamo avuto l’infelice idea di purgarlo eliminando la cronologia. Fortunatamente questo non è successo con l’immagine di testa, un disegno  custodito nel Museo nazionale di Svezia, dal cui sito (http://emp-web-22.zetcom.ch/eMuseumPlus?service=ExternalInterface&module=collection&objectId=47787&) l’ho tratta. Grazie alle informazioni contenute nella scheda ho appreso che l’autore non è Pinco Pallino e nemmeno Pallone Gonfiato, ma, nientepopodimeno, il grande Jean Louis Desprez (1743-1804). La stessa scheda mi fa sapere che del disegno si è occupato Nils G. Wollin in Desprez en Italie, dessins topographiques et d’architecture, décors de théâtre et compositions romantiques, exécutés 1777-1784, J. Kroon. Malmö, 1935, fig. 68. Purtroppo l’OPAC mi segnala che il libro è consultabile solo nella Biblioteca comunale centrale di Milano e nella Biblioteca nazionale di S. Luca a Roma. Ho detto peccato, perché, consultandolo,  avremmo avuto non solo la certezza che non si tratta di una semplice attribuzione ma, probabilmente, qualche dato in più. Com’è noto i disegni del Desprez vennero utilizzati da Jean-Claude Richard de Saint-Non (1727-1791) per le tavole del suo Voyage pittoresque ou description des royaumes de Naples et de SIcilie, Clousier, Parigi, 1781-1786. Tuttavia nella parte del terzo tomo dedicata alla Terra d’Otranto sono presenti  tavole dedicate a Gallipoli (una), Manduria (una), Soleto (una), Squinzano (una) Maglie (una), Taranto (due) e Brindisi (due). Per Lecce compare solo una tavola raffigurante il chiostro dei Domenicani e solo quelle di Gallipoli, Soleto (Soletta nella didascalia) e Squinzano recano come nome del disegnatore quello del Desprez.  Non so quanto il saggio di Wollin aiuti ad individuare o ad intuire i motivi che spinsero il Saint-Non a non utilizzare il disegno del Desprez. Ammettendo che lo conoscesse, una ragione del mancato utilizzo potrebbe risiedere nella difficoltà di trasferirlo sul rame a causa della sua densità, soprattutto nella parte inferiore, rispetto al disegno del soggetto prima citato, cui fu affidato il compito di rappresentare Lecce. E questo spiegherebbe l’assenza, a quanto ne so, di stampe derivate. Piazza S. Oronzo, comunque, dopo il disegno del Desprez, che molto probabilmente ne costituisce la rappresentazione più antica1, ebbe occasione di rifarsi ampiamente nel secolo successivo, come si può vedere in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/04/lecce-plagiata/.

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1 Nella seconda parte Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie, opera di  Giovanni Battista Pacichelli (1541-1695), uscita postuma per i tipi di Parrino a Napoli nel 1703,  tra le pp. 176 e 177 reca inserita la veduta di Lecce che di seguito riproduco e dalla quale ho tratto il successivo dettaglio della piazza, che non presenta, a parte la diversa cura rappresentativa dei particolari (dovuta, secondo me, non solo al minor spazio a disposizione ma soprattutto  ad una stereotipa simbologia delle fabbriche), sostanziali differenze rispetto al disegno del Desprez, posteriore di più di settanta anni.

 

Per la descrizione pacichelliana di Lecce e di Piazza S. Oronzo in particolare vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/07/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-seconda-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

Lecce “città del libro 2017”: non voglio fare il gufo …

di Armando Polito

… ma, visto il precedente, recente flop di Lecce capitale europea della cultura, essere prudenti  nel manifestare entusiasmo , almeno per me, è d’obbligo. Questa volta, però, non si tratta di concorrere per un titolo, perché quello di Città del Libro 2017 la città salentina l’ha in tasca dal 13 maggio u. s., quando il conferimento avvenne nell’ambito della XXIX edizione del Salone del libro a Torino.

Nell’occasione Il ministro Dario Franceschini annunciò l’abolizione dell’IMU per le librerie, aggiungendo, subito dopo, che la tassa sarà a carico del Governo, non dovrà essere sostenuta dai Comuni (riporto passo passo le parole in corsivo, che dovrebbe corrispondere al virgolettato, citandole da http://www.torinotoday.it/eventi/cultura/salone-libro-dario-franceschini-abolizione-imu-librerie.html).

Pur con beneficio d’inventario (non ho riportato io, dopo averle ascoltate, le parole dette), omettendo di dire la mia su titoli, premi, onorificenze, giornate e simili …,  mi permetto di fare delle osservazioni a distanza di qualche mese dall’annuncio ed a mente sufficientemente … raffreddata:

a) siccome a carico del Governo non significa certamente che i suoi componenti metteranno mano al portafogli personale, siamo al solito, disgustoso, anche per una persona di limitata intelligenza, giochetto del dare con una mano ad uno e sottrarre con l’altra ai restanti contribuenti. Abolire significa sopprimere (non trasferire obblighi) e qui l’annuncio mi sembra una sorta di rivisitazione del mito più caro ai politici, soprattutto quando si parla di tasse: quello dell’araba fenice.

b) il solito maligno, prevenuto e ostruzionista potrà affermare che si tratta di una delle tante uscite preelettoralistiche (il suffisso è voluto …) per mendicare una manciata di voti : ogni ppetra azza parete (ogni pietra eleva il muro) si dice dalle nostre parti. Per zittirlo sarebbe bastato annunciare solo l’abolizione; è il colmo che un ingenuo come me debba pure mettersi a suggerire queste finezze, peraltro ampiamente collaudate …

c) nonostante la mia inesistente cultura giuridica, il buon senso mi fa dubitare che il provvedimento sia costituzionalmente legittimo alla luce dell’articolo 3 e che possa trovare fondamento solo parziale nell’articolo 9 (almeno finché questi articoli resteranno in vigore …). Dato che, secondo un altro ministro, con la cultura non si mangia, prevedo una sollevazione di fornai e affini che chiederanno pure loro l’esenzione dall’IMU …, anche perché, se non mangi per un tempo nemmeno tanto  lungo un tozzo di pane, come fai a leggere e, quel che più importa, a capire cosa hai letto con la scarsa irrorazione cerebrale che ti ritrovi?

d) il provvedimento mi sembra la polemica risposta politica con strizzamento d’occhi “laico” all’intenzione manifestata da Virginia Raggi di far pagare l’IMU a chi, in sublime coerenza con lo spirito cristiano, ancora non ha manifestato, unilateralmente (e cce, so’ ffessa? [e che sono fesso?] si dice, sempre dalle nostre parti), la volontà di essere fiscalmente trattato, pur essendo per mestiere più vicino al divino …, come tutti gli altri poveri cristi.

e) trovo scandaloso che si sia preso un provvedimento a favore, tutto sommato e, aggiungerei, ancora una volta, del privato, sbandierando l’alibi (perché di questo, come al solito, si tratta) di riconoscimento e promozione della cultura, quando in un museo, un archivio, una biblioteca, tutti pubblici, per poter avere una semplice foto devi affrontare un iter burocratico stressante e … pagare.

Mi ha fatto, però,  piacere leggere tra le dichiarazioni piene di sbavante entusiasmo di politici ed editori le parole prudenti di due editori salentini. Le riporto citandole dall’articolo a firma di Dino Levante apparso su La gazzetta del Mezzogiorno del 15 maggio u. s. (http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/home/757333/-Lecce-citta-del-libro-2017.html):

Gli unici a non sapere che Lecce è, di fatto, “città del libro” sono evidentemente gli amministratori. Leggendo le loro dichiarazioni, mi pare di capire che si vada più alla ricerca di finanziamenti vari per il cosiddetto “mondo della cultura” che non invece a puntare su iniziative a sostegno della intera filiera del libro. Purché non sia fuoco di paglia, il riconoscimento ottenuto è un’ottima opportunità offerta ad una città che è ricca di libri e di librerie: ora, alle parole, bisogna far seguire i fatti con iniziative concrete (Lorenzo Capone).

Una buona opportunità. Speriamo che questa sia l’occasione giusta per mettere insieme sinergie tra pubblico e privato e che non sia solo una vetrina, strumento di propaganda elettorale o espediente per attrarre consenso politico (Paola Pignatelli della Grifo Edizioni).

Chi vivrà, vedrà …

Lecce: l’obelisco di Porta Napoli, ieri oggi e … domani

di Armando Polito

Non è la prima volta che una testimonianza del passato, per quanto relativamente recente, subisce trasformazioni o, come nel nostro caso, mutilazioni. Se, poi, queste ultime alterano, comunque, l’aspetto originario di un monumento che in modo più esplicito degli altri evoca una importante memoria della storia, l’intervento, appare scellerato, anche se dovesse essere stato dettato da ragioni puramente estetiche, prima agli occhi, poi alla mente e, infine, al cuore. Dimostrazione palese di questo assunto mi pare lo smussamento dei gradini  dell’obelisco del titolo, che qui documento con una serie di foto d’epoca. L’ultima è del 1962; essa è la più antica da me trovata che mostri il discutibile (uso un eufemismo) intervento, dettato, probabilmente,  dalle esigenze del traffico veicolare  che ha amplificato la funzione di rotatoria che pure l’obelisco aveva avuto fin dal momento della sua realizzazione. Per farsi un’idea di questa sorta di prostituzione architettonica  rinvio a Marcello Gaballo-Armando Polito, L’obelisco di Porta Napoli a Lecce, in Il delfino e la mezzaluna (periodico della fondazione Terra d’Otranto), anno III, n. 1, Tipografia Biesse, Nardò, ottobre 2014. Ringrazio fin da ora chiunque vorrà documentare con maggior precisione la data dello stupro e il nome dell’autore. Siccome poi la stupidità umana non ha limiti, mi son voluto cimentare anch’io in questa dimensione e alla fine il lettore troverà una sorpresa …

                                                                             1909

                                                                                       1940

   1949

 

    1952

 1955

        1962

E siamo alla sorpresa promessa. Non mi meraviglierei se fra qualche anno l’obelisco avesse le sembianze che seguono, dico fra qualche anno e non decennio perché a quella data, molto probabilmente, sarà stato demolito integralmente ….

E non mi rallegra certamente il fatto che possa succedere che il carnefice di turno, in un empito di insolita onestà intellettuale, dichiari espressamente di essersi ispirato alla mia geniale proposta …

Lecce, viale Otranto: armonie urbanistiche del passato

di Armando Polito

Che piaccia o no, la crisi economica in atto almeno un effetto positivo, secondo me, lo sta esercitando col ridimensionamento della smania di costruire (con linguaggio psichiatrico potrebbe essere definita come sindrome di ossessione edificatoria compulsiva  …) manifestatasi in tutta la sua invadenza soprattutto negli ultimi decenni del secolo scorso, preceduta, anche nel nostro territorio, dallo sciagurato sventramento di tanti centri storici e non solo (con la perdita irrimediabile di memorie architettoniche, alcune delle quali di indubbio pregio artistico) e dall’osceno deturpamento delle nostre coste. C’è solo da augurarsi che, quando questa famigerata luce in fondo al tunnel (mai similitudine rischiò di diventare più retorica, stupida e ridicola …) apparirà, non si ricominci ad imitare il passato, ma, piuttosto, si tenda alla tutela dell’esistente, pur nella sapiente ristrutturazione e nel rispettoso adeguamento  alle esigenze abitative di oggi.

Per renderci conto di quanto abbiamo perduto per sempre e quale schifo siamo riusciti a creare basta una semplice cartolina illustrata, in molti casi anche dei primi anni 50 ed un po’ di pazienza nello sfruttare adeguatamente Google Maps alla ricerca di una prospettiva attuale che coincida quanto più possibile con quella della cartolina. È quello che ho fatto, come altre volte, anche oggi e per dimostrare quanto detto genericamente all’inizio, nell’imbarazzo, purtroppo, della scelta, ho deciso questa volta di puntare sul capoluogo, proponendo  uno scorcio di viale Otranto qual era nel 1921, impietosamente messo a confronto con quello attuale.

Evito di esprimere ulteriori , dettagliati giudizi e chiudo, ancora una volta, con la solita comunicazione di servizio: sarà graditissima la collaborazione di tutti quei lettori locali che vorranno inviare alla redazione una foto attuale per prospettiva più  vicina all’antica di quanto non sia quella da me tratta ed adattata da Google Maps (anche per chiudere la bocca a chi eventualmente dovesse affermare, pur a denti stretti, che la maggiore gradevolezza dell’antico rispetto al moderno è solo una questione di inquadratura …). In tal caso provvederò quasi in tempo reale alla provvidenziale sostituzione, aggiungendo in didascalia il nome dell’autore dello scatto. Ringrazio anticipatamente quanti vorranno farlo.

Lecce, Porta Napoli ieri e oggi … dentro e fuori

di Armando Polito

Questa serie di viaggi nel tempo da tempo iniziati attraverso la comparazione tra l’aspetto attuale di un luogo e quello antico sta conoscendo una grande partecipazione passiva, nel senso che, mentre è veramente notevole il numero di lettori che volta per volta seguono ciascun post, nessuno ha pensato o avuto la voglia di contribuire attivamente inviando alla redazione qualche vecchia foto possibilmente mai vista prima, in quanto di natura privata, non consistente, cioè, in una una cartolina, anche se quest’ultima, laddove è presente (leggibile …) il timbro postale o la data (anch’essa leggibile) in testa o in calce al messaggio offre un riferimento cronologico più preciso. Nell’attesa, per quanto riguarda la parte documentaria, continuerò a cavarmela sfruttando la rete.

Debbo subito dire che innumerevoli sono le immagini datate di Porta Napoli con visuale, però, extra moenia. Più rara. invece, la visuale opposta (chiedo scusa a tal proposito per i caserecci dentro e fuori del titolo)  e l’unico documento che son riuscito a trovare è la foto che segue tratta da Salento com’eravamo, dove, per quanto riguarda la datazione, si legge  fine anni 30.

Ora è la volta dell’immagine comparativa (stato attuale), che ho tratto ed adattato, come al solito, da Google Maps.

L’imbarazzo della scelta, invece, si pone, come ho anticipato, per la vista opposta, per cui mi limiterò a riportare in ordine cronologico solo le testimonianze più significative

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Foto di Pietro Barbieri tratta da Gustavo Strafforello, La patria. Geografia dell’Italia. Provincie di Bari, Foggia, Lecce, Potenza, Unione Tipografico-editrice, Torino, 1899,  fig. 59, p. 196. Pietro Barbieri, di origini modenesi, insieme col fratello Augusto trasferì lo studio da Modena a Lecce, ove i due operarono dal 1878 al 1905.  Pietro fu anche pittore di ritratti, le cui foto serviranno di base ai pittori. A lui e al fratello fu commissionato un album fotografico sulla Terra d’Otranto da donare al sovrano insieme con l’Illustrazione dei principali monumenti di Terra d’Otranto, che raccoglieva i contributi monografici di Giacomo Arditi, Francesco Casetti, Luigi Maggiulli, Cosimo De Giorgi, Luigi De Simone e Sigismondo Castromediano. Questa sorta di catalogo venne pubblicato per i tipi di Campanella a Lecce nel 1889. La foto del Barbieri che lo Strafforello incluse nella sua pubblicazione, dunque, è sicuramente anteriore a tale data.

Immagine (stampa) di autore ignoto tratta da Le cento città. Supplemento mensile illustrato del Secolo, Sonzogno, Milano, n. 9420 del 28 giugno 1892.

Foto di  Federico Lazzaretti (1858-1937) tratta da Giuseppe Gigli,  Il tallone d’Italia, op. cit., Istituto italiano d’arti grafiche editore, Bergamo, 1911.

Porta Napoli prima del restauro di qualche anno fa; foto tratta da http://www.salogentis.it/2009/07/11/porta-napoli-accesso-al-centro-storico-di-lecce/

Porta Napoli, stato attuale. Foto tratta da http://www.vacanzelecce.net/scopri-il-territorio/itinerario-fuori-dalle-mura/

Il Salento in ventiquattro immagini di Abraham Louis Rodolphe Ducros (3/6): LECCE

di Armando Polito

Zuil op het plein van Lecce (Colonna nella piazza di Lecce)

È l’unica tavola dedicata a Lecce e, se la rappresentazione della colonna è fedele (come si vede nelle tavole di epoca successiva di cui ho avuto occasione di occuparmi in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/04/lecce-plagiata/), lo stesso non può dirsi del Sedile con i suoi cinque  archetti superiori invece di tre (come si vede nelle tavole appena indicate e come potrà agevolmente vedere il lettore non leccese nell’immagine che segue, mostrante lo stato attuale del luogo).

immagine tratta da http://nessunapretesa.com/tag/lecce/#jp-carousel-28882
immagine tratta da http://nessunapretesa.com/tag/lecce/#jp-carousel-28882

 

Per la prima parte (BRINDISI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/30/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-16-brindisi/

Per la seconda parte (GALLIPOLI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/12/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-26-gallipoli/

Per la quarta parte (MANDURIA): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/07/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-46-manduria/

Per la quinta parte (NARDÒ): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/11/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-56-nardo/

Per la sesta parte (TARANTO): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/24/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-66-taranto/

 

Note storiche, araldiche e genealogiche su Mons. Alfonso Sozi Carafa

Fig. 1

di Marcello Semeraro

 

Gli stemmi rappresentano una sorta di stato civile dell’opera d’arte. Se adeguatamente letti e interpretati, infatti, essi forniscono preziose informazioni sia sulla datazione dell’opera, sia sull’identità, lo status giuridico, le intenzioni e l’ideologia della committenza artistica. Questa premessa è utile per introdurre l’argomento oggetto di questo breve studio: lo stemma episcopale utilizzato da Mons. Alfonso Sozi Carafa, vescovo di Lecce dal 1751 al 1783. La presente indagine, in particolare, prende in esame gli esemplari a lui attribuibili, visibili negli edifici monumentali raccolti attorno a Piazza Duomo.

 

Il personaggio e la sua famiglia

La famiglia Sozi, originaria di Perugia, si vuole discenda dai Paolucci, il cui capostipite sarebbe stato Paoluccio d’Agato o d’Agatone, nobile perugino citato in documenti del 7601. La discendenza dai Paolucci trova comunque riscontro nel blasone, comune alle due famiglie, raffigurante un orso levato (cioè rampante) al naturale in campo d’oro, come si evince dallo stemma Sozi/Paolucci riportato nel Blasone Perugino di Vincenzo Tranquilli, un manoscritto araldico risalente al XVI secolo2.

Nel 1389, ai tempi della rivoluzione popolare a Perugia, molti patrizi furono cacciati dalla città e messi al bando. Tra questi troviamo un Giovan Francesco Sozi che nel 1414 si trasferì nel Regno di Napoli al seguito del capitano di ventura Muzio Attendolo detto Sforza, capostipite della celebre famiglia ducale3. Risale, invece, al 1575 l’acquisto di quello che sarà il feudo di famiglia, San Nicola Manfredi (Benevento), fatto da Maddalena Gentile, vedova di Marcangelo Sozi, che due anni dopo lo cedette al figlio Leonardo Aniello4.

In seguito poi al matrimonio (1656) fra Alessandro Sozi, nato da Ascanio di Leonardo Aniello e da Vittoria Giordano, e Artemisia Carafa della Stadera, figlia di Marcantonio e di Elena Daniele, la famiglia aggiunse al proprio cognome quello dei Carafa5.

Nipote abiatico di Alessandro e Artemisia fu proprio il nostro Alfonso. Egli nacque a San Nicola Manfredi il 7 marzo 1704, quartogenito di Nicola Sozi Carafa, barone del predetto feudo e patrizio di Benevento, e di Anna Maria Merenda, figlia di Giovan Battista, patrizio di Aversa e Cosenza, e di Francesca di Donato6. Dopo essere stato ordinato sacerdote nel 1727, fu creato vescovo di Vico Equense nel 1743, donde nel 1751 fu traslato alla sede diocesana di Lecce. Fu inoltre Lettore di filosofia, teologia e matematica al Collegio Clementino di Roma, diretto dai Padri Somaschi, che per più anni governò come Rettore. Morì il 19 febbraio 1783 e fu sepolto nel Duomo7.

“Uomo rigido e spendido”, “per le magnificenze de’ suoi atti e delle trasformazioni che apportò negli edifici, si poté dire l’Alessandro VII dei suoi tempi e della sua diocesi8.

Fig. 2

 

Lo stemma episcopale

Nei secoli passati lo stemma utilizzato da cardinali, vescovi ed altri prelati riproduceva per lo più la loro arma gentilizia. Ciò dipendeva dal fatto che, per lo più fino alla fine del XVIII secolo, venivano elevati ai vari gradi della gerarchia ecclesiastica soprattutto chierici provenienti da famiglie nobili le quali erano già dotate di uno stemma. Questo uso consolidato è riscontrabile anche nello stemma di Mons. Sozi Carafa, che mutuò il proprio scudo da quello gentilizio, personalizzandolo mediante l’utilizzo di un timbro corrispondente alla sua dignità episcopale, ovvero un cappello prelatizio di verde munito di sei nappe per lato, ordinate in file 1.2.3.

Rammentiamo che a partire dal XV secolo, negli stemmi vescovili ed arcivescovili, il cappello prelatizio cominciò a sostituire progressivamente la mitriache era il timbro caratteristico di coloro che, insigniti dell’ordine espiscopale, non facevano parte del Collegio Cardinalizio9.

Fig. 3

Lo stemma gentilizio dei Sozi Carafa è costituito da uno scudo inquartato, recante nel primo e nel quarto punto il blasone dei Sozi (d’oro, all’orso levato al naturale), mentre nel secondo e nel terzo compare quello dei Carafa (di rosso, a tre fasce d’argento10). Si tratta di una tipica arma di alleanza matrimoniale, dove l’inquartatura corrisponde araldicamente al doppio cognome assunto dalla famiglia in seguito al già ricordato matrimonio fra gli avi paterni del prelato. Il blasone summenzionato è riportato anche dallo Spreti nella sua monumentale opera intitolata Enciclopedia storico-nobiliare italiana (fig. 1).

Fig. 4

Con l’utilizzo della necessaria terminologia tecnico-blasonica, lo stemma episcopale oggetto di questo studio può essere descritto nella maniera seguente: inquartato: nel 1° e nel 4° d’oro, all’orso levato al naturale (Sozi); nel 2° e nel 3° di rosso, a tre fasce d’argento (Carafa). Lo scudo timbrato da un cappello prelatizio a sei nappe per lato, il tutto di verde.

Le testimonianze araldiche di Mons. Sozi Carafa presenti in Piazza Duomo costituiscono una chiara ed efficace rappresentazione visiva di alcuni momenti del suo episcopato e della sua committenza artistica. Segnaliamo in questa sede quelli che ci sembrano gli esemplari più rappresentativi.

All’ingresso di Piazza Duomo, al di sotto delle balaustre dei propilei, fanno bella mostra di sé due scudi sagomati e accartocciati, recanti l’arma del prelato. I due propilei furono costruiti nel 1761 a spese del presule che decise di affidarne la realizzazione all’architetto Emanuele Manieri11. Al termine dei lavori il vescovo fece scolpire le sue insegne, vera e propria firma della sua committenza. Un altro esemplare è visibile sulla facciata del Palazzo Episcopale, racchiuso in uno scudo sagomato e accartocciato di fattezze tipicamente settecentesche (fig. 2).

Nel 1761 Mons. Sozi Carafa fece costruire la fabbrica sull’Episcopio per sistemarvi il nuovo orologio, opera del leccese Domenico Panico12. Secondo il De Simone, il prelato fece abbattere la vecchia gradinata esterna del Vescovado e sulla nuova fece trasportare il nuovo orologio in sostituzione di quello vecchio che era sul portone13. Si può ipotizzare che sia stata questa la circostanza che determinò la collocazione dello stemma, ma non è da escludersi che le ragioni vadano cercate altrove.

Le armi finora analizzate risultano essere acrome, ma se ne possono trovare anche degli esempi smaltati. E’ il caso dei due gradevoli esemplari, stilisticamente molto simili, osservabili all’interno del Duomo, rispettivamente sul fastigio del monumento sepolcrale del vescovo, posto nella navata laterale di destra (fig. 3), e sul fastigio del battistero della navata laterale di sinistra, realizzato per volere del presule da Giovanni Pinto e sistemato nel 1760 (fig. 4)14.

Un altro esempio di composizione cromatica è l’arma dipinta sulla tela dedicata all’Assunta, visibile dietro l’altare maggiore. Il quadro, realizzato dal pittore leccese Oronzo Tiso e collocato nel 175715, reca in basso a sinistra uno scudo ovale accartocciato contenente il blasone episcopale di Mons. Sozi Carafa, committente dell’opera, che proprio in quell’anno riconsacrò il Duomo dopo anni di lavori voluti da Mons. Luigi Pappacoda (1639-1670)16.

Degno di menzione, infine, è l’esemplare che orna il retro di una pianeta di seta rossa, ricamata con motivi floreali e galloni d’oro, conservata nel Museo Diocesano di Arte Sacra (fig. 5). Non si tratta, però, di un caso isolato, perché da un inventario dei beni del presule, redatto nel 1752, risulta che egli utilizzò anche altri paramenti sacri stemmati (piviali, mitrie, altre pianete)17.

 Fig. 5

Note

1. Cfr. V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, Milano 1928-36, suppl. 2, p. 598; cfr. anche E. Ricca, La nobiltà delle Due Sicilie, Napoli 1869, vol. IV, pp. 248-273, dove è presente anche un albero genealogico della famiglia Sozi Carafa.

2. Il manoscritto è consultabile on line al seguente indirizzo: http://bibliotecaestense.beniculturali.it/info/img/mss/i-mo-beu-gamma.y.5.4.pdf

3. Cfr. E. Ricca, op. cit., pp. 251-252.

4. Cfr. ivi, p. 272.

5. Cfr. ivi, p. 273. Per la nobile e antica famiglia Carafa, che si suddivise in due rami detti rispettivamente della Spina e della Stadera e che diede alla cattolicità un Sommo Romano Pontefice nella persona di Paolo IV, rimando a G.B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane, estinte e viventi, Pisa1886, vol. 1, p. 231.

6. Cfr. E. Ricca, op. cit, p. 273.

7. Cfr. ivi, p. 267.

8. Cfr. P. Palumbo, Storia di Lecce, Lecce 1910, rist. Galatina 1981, p. 285.

  1. Cfr. A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, Manuale di araldica ecclesiastica nella Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 2014, p. 19.

10. Nello stemma dei Carafa della Stadera compare a volte anche una stadera all’esterno dello scudo.

11. Cfr. T. Pellegrino, Piazza Duomo a Lecce, Bari 1972, p. 11.

12. Cfr. ibidem.

13. L. De Simone, Lecce e i suoi monumenti descritti e illustrati, vol. I, Lecce 1874, pp. 93-94.

14. Cfr. T. Pellegrino, op. cit., p. 103.

15. Cfr. ivi, p. 65.

16. Cfr. ivi, p. 41.

17. Cfr. M. Pastore, Arredi, vesti e gioie della società salentina dal manierismo al rococò, in “Archivio storico pugliese”, XXXV  (1982),  pp. 133.134.

 

 

Riflessioni sulle reliquie della passione di Cristo della chiesa di Santa Maria del Tempio in Lecce

di Giovanna Falco

 

In occasione della Settimana Santa 2012 su Spigolature Salentine è stato pubblicato l’articolo Lecce e gli strumenti della Passione di Cristo: araldica religiosa e reliquie[1], dove elencando i frammenti sacri attestati nel 1634 da Giulio Cesare Infantino nelle chiese leccesi, si citano anche quelli conservati nella chiesa di Santa Maria del Tempio[2].

Approfondito l’argomento, è stato possibile apprendere ulteriori notizie inerenti reliquie e reliquiari custoditi, forse sino ad una delle soppressioni ottocentesche, nella sagrestia della chiesa dei padri Riformati, e mettere a confronto le testimonianze tra loro discordanti a causa della natura delle fonti: relazioni francescane e descrizioni che, pur se scritte da testimoni oculari, non possono essere considerate attendibili in mancanza di documenti che ne attestano la veridicità.

Infantino cita  «Il Santissimo Chiodo del Signore. Una Spina della Corona di Christo. Due pezzotti del legno della Santa Croce»[3]. Nel Chartularium della Serafica Riforma di S. Nicolò la relazione di padre Gonzaga del 1646 riporta le «una Spina ed un Chiodo di Nostro Signore»[4], così come padre Giovan Battista Moles da Turi nel 1664: «una Spina Coronae Christi Domini Salvatoris nostri, unusque Clavus»[5]. L’abate Giovan Battista Pacichelli del 1686 enumera oltre al Chiodo «una spina insanguinata del Signore, un pezzo del Santo Legno della Croce»[6]. Negli anni Venti del Settecento, infine, padre Bonaventura da Lama elenca: «due spine della corona di Cristo Signore nostro, ed uno de’ chiodi che lo trafissero» e «una piccola Croce, tutta di legno della Croce di Nostro Signore»[7].

Dal confronto si nota come tutte le fonti concordano sulla presenza del Chiodo, ma non c’è corrispondenza sul numero delle Spine (padre da Lama a differenza degli altri ne cita due), né sul legno della Croce. Le relazioni seicentesche del Chartularium, pur se successive alla Lecce sacra,non menzionano questa reliquia. Infantino, inoltre, fa riferimento a «Due pezzotti del legno della Santa Croce», ma solo «un pezzo» è menzionato da Pacichelli. Queste due ultime testimonianze differiscono da quella di padre Bonaventura da Lama:

«Essendo poi morto in questo Convento il Padre Antonio da Castellaneta Predicatore dei Riformati, l’anno 1675, lasciò una piccola Croce, tutta di legno della Croce di Nostro Signore, datali da un Paesano, qual diceva con fede giurata, che soleva tenerla in petto Urbano VIII»[8].

Ritratto di Urbano VIII di Bernini (1632), tratto da commons.wikimedia.org http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bernini-Urban8.jpg
Ritratto di Urbano VIII di Bernini (1632), tratto da commons.wikimedia.org
http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bernini-Urban8.jpg

A differenza dell’abate Pacichelli, che riferisce quanto gli fu raccontato durante la sua visita al convento, cioè che la reliquia era stata donata ad un frate «dalla Principessa Donna Olimpia Panfili»[9], padre da Lama cita “una fede giurata” probabilmente conservata nell’archivio francescano.

È stato possibile appurare che dal 1635 al 1645 fu vescovo di Castellaneta Ascenzio Guerrieri, già «Cappellano Segreto d’Urbano VIII»[10], canonico della basilica di Santa Maria in Cosmedin e precettore del cardinal nepote Francesco Barberini[11]. Dato che si è a conoscenza di almeno un altro manufatto simile a quello leccese,  «due particelle del Sacro Legno della Santa Croce di Nostro Signore Gesù Cristo adattate in forma di croce»[12] donate da Urbano VIII (1623-1644) a Barberini, non è del tutto inverosimile supporre che il vescovo di Castellaneta abbia posseduto la reliquia pervenuta successivamente alla chiesa di Santa Maria del Tempio.

Nel 1629 il papa trasferì nella basilica di San Pietro alcuni frammenti della Croce, ribadendone il valore cultuale con la bolla del 9 aprile Ex omnibus Sacris Reliquiis:

«Urbano, estraendo da una Croce del Santo Legno della Croce, che si conserva nella chiesa di s. Ananstasia, e da un’altra parimente conservata nella Chiesa di s. Croce in Gerusalemme, alcune particelle, le fece includere in una Croce di argento, di preziose pietre ornata, e di questa fece un dono alla Basilica Vaticana, ordinando che fosse collocata fra le Reliquie maggiori, e mostrata ne’ consueti giorni al popolo, dopo la Sagra Lancia, e prima della Sagra Veronica, con Indulgenza plenaria ogni volta, che si mostrassero queste tre sacrissime Reliquie»[13].

La reliquia di Santa Maria del Tempio, dunque, potrebbe essere uno dei frammenti della Sacra Croce portati, secondo la tradizione, da san Girolamo e sant’Elena a Roma e custoditi, rispettivamente, nella basiliche di Sant’Anastasia e di Santa Croce in Gerusalemme. Accurate ricerche potrebbero confermare o smentire questa ipotesi.

Interno basilica Santa Croce in Gerusalemme in Roma, tratto da commons.wikimedia.org
Interno basilica Santa Croce in Gerusalemme in Roma, tratto da commons.wikimedia.org

In qualche modo la storia della chiesa di San Giovanni in Gerusalemme si era già intrecciata con quella di Santa Maria del Tempio anche attraverso le vicende del Chiodo: Raimondello Orsini del Balzo, cui padre da Lama attribuisce la donazione della sacra reliquia, intorno al 1386 commissionò per la basilica romana il trittico reliquiario detto altare di San Gregorio[14].

Il Chiodo «assai grosso con la punta tagliata»[15] ove «si vedono stille di sangue»[16], all’epoca di Infantino era riposto «in un bel vaso d’oro, fatto da una collana d’oro offerta à quest’effetto dal Principe di Taranto la prima volta, che adorò questa Santa Reliquia»[17]. Data l’epoca di fondazione del convento (1432), nel 2012 si è attribuito l’atto di devozione a Giovanni Antonio Orsini del Balzo. Nel 1664 padre Moles scrive «Clavus repositus ab Excellentissimo Domino Joanne Antonio Baucio Ursino Comite Lytij ut supra»[18], perché gli assegna erroneamente anche la fondazione di Santa Caterina in Galatina[19]. Senza alcun dubbio Bonaventura da Lama reputa che il Chiodo fu donato con «la Pace, che teneva seco il Conte di Lecce, Raimondo»[20], morto nel 1407.

National gallery in Washington d.c., Gian Lorenzo Bernini, monsignor Francesco Barberini, 1623 circa, tratto da commons.wikimedia.org http://commons.wikimedia.org/wiki/File:National_gallery_in_washington_d.c.,_gian_lorenzo_bernini,_monsignor_francesco_barberini,_1623_circa.JPG
National gallery in Washington d.c., Gian Lorenzo Bernini, monsignor Francesco Barberini, 1623 circa, tratto da commons.wikimedia.org

Non è dato sapere se l’atto di devozione sia da attribuire a Raimondello o ai suoi eredi, sta di fatto che, attenendosi a quanto tramandato dalle fonti, ci si chiede perché una reliquia reputata così importante sia stata offerta alla Madonna del Tempio e non alla basilica di Santa Caterina in Galatina fondata da Raimondello e dotata dagli Orsini del Balzo di numerosissimi frammenti sacri, tra cui una Spina, una scheggia della colonna della flagellazione e un’altra fede appartenuta a Raimondello[21], né alle leccesi chiese di Santa Croce (dove fu sepolta Maria d’Enghien) o di San Giacomo nel Parco (fondata da Raimondello)[22]. Forse la famiglia nutriva una particolare venerazione per una immagine miracolosa della Madonna del Tempio, attribuita nel 1647 da padre Diego Tafuro da Lequile a San Luca[23], conservata in «un’antichissima Cappella che per antica tradizione si dice esse stata de’ Principi di Taranto»[24], ricadente nei giardini del convento di Santa Maria del Tempio.

Blasone Orsini del Balzo, tratto da commons.wikimedia.org
Blasone Orsini del Balzo, tratto da commons.wikimedia.org

I leccesi nutrivano una forte venerazione per la reliquia, perché «per quem Clavum Cives Lytientium multa, et continua beneficie recipiunt»[25] e il «Venerdì Santo la sera, concorre tutta la Città, a baciare il Santo Chiodo, ed insieme la Croce, e le Spine, tutte quel giorno rubiconde»[26], riposte dopo il 1634 in un unico reliquiario d’argento, una croce scrive Pacichelli, un’Ostensorio secondo padre da Lama, che aggiunge:

«Nel Chiodo anche si vedono stille di sangue, né mai l’acqua toccata dal Chiodo per bisogno d’Infermi, che la chiedono con divozione, ha potuto per lo spazio di tanti anni cancellare, o generare, com’è solito del ferro, la ruggine»[27].

L’usanza di immergere nell’acqua il sacro Chiodo «per divozion de gl’infermi» è riportata anche da Pacichelli, che con disappunto ricorda «non però datasi a me questa a gustare per la poltroneria di un laico sagrestano»[28].

 

[1]https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/31/lecce-e-gli-strumenti-della-passione-di-cristo-araldica-religiosa-e-reliquie-2/

[2] Cfr. G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979). Sulle reliquie in Santa Maria del Tempio cfr https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/17/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-terza-ed-ultima-parte/  .

[3] G. C. Infantino, op. cit., p. 210.

[4] B.F. Perrone, Chartularium della Serafica Riforma di S. Nicolò. Documenti inediti sulla presenza dei Frati Minori in Puglia e a Matera dal 1429 al 1893, p. 80.

[5] Ivi, p. 130.

[6] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi dell’abate Pacichelli (1680-7), Galatina 1993, p. 76. Riguardo l’opera dell’abate Pacichelli cfr. su questo sito https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/05/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta/  e La Terra d’Otranto ieri e oggi, 14 articoli di Armando Polito di cui l’ottava parte è dedicata a Lecce https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

[7] B. Da Lama, Cronica de’ Minori osservanti riformati della provincia di S. Nicolò, a cura di L. De Santis, Lecce 2002, 2 voll., vol. II, p. 56.

[8] B. Da Lama, op. cit., p. 56.

[9] M. Paone, op. cit., p. 76. Olimpia Maidalchini Pamphili (1592-1657) era la discussa cognata di Giovan Battista, papa Innocenzo X (1644-1652), e nel suo testamento devolse un congruo lascito affinché fossero celebrate messe presso le chiese dei Minori Riformati a Roma e a Viterbo, cfr. http://212.189.172.98:8080/scritturedidonne/Testamenti/Pamphili/pdf/MaidalchiniO.pdf .

[10]G.M. Crescimbeni, L’Istoria della basilica diaconale, collegiata e parrocchiale di S. Maria in Cosmedin di Roma, Roma 1715, p. 274.

[11] Cfr. http://web.tiscali.it/enteliceoconvitto/moticense6/5Flaccavento.htm

[12]S. Crepaldi, Santi e Reliquie. Devozione popolare nella diocesi novarese, Cologno Monzese 2012, p. 147. La reliquia, dopo svariati passaggi di proprietà, nel 1717 fu offerta da mons. Lorenzo Gallarati alla comunità di Tornaco nella diocesi di Novara (cfr. Ibidem). Lo stesso pontefice devolse nel 1634 «una Croce di argento con un pezzetto del legno della Santa Croce» alle monache carmelitane della chiesa di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi di Firenze (G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine divise ne’ suoi quartieri, Tomo I, Firenze 1754, p. 324).

[13]G. De Novaes, Elementi della storia de’ sommi pontefici da san Pietro sino al felicemente regnante Pio papa VII, Tomo 9, Roma 1822, p. 222. È la reliquia con cui la mattina del Venerdì Santo in San Pietro è data la benedizione solenne. Puntuali notizie sulle reliquie maggiori della Basilica di San Pietro e la loro provenienza sono in F. Cancellieri, Descrizioni delle funzioni della Settimana Santa nella Cappella Pontificia, Roma 1818, pp. 144-152.

[14] Cfr. http://www.cassiciaco.it/navigazione/monachesimo/conventi/monasteri/italia/toscana/fivizzano/bosco.html. Per l’immagine del reliquiario cfr. http://pesanervi.diodati.org/pn/?a=302.

[15] M. Paone (a cura di), op. cit., p. 76.

[16] B. Da Lama, op. cit., p. 56.

[17] G. C. Infantino op. cit., p. 211.

[18] B.F. Perrone, op. cit., p. 130.

[19] Cfr. Ivi, p. 129.

[20] B. Da Lama, op. cit., p. 56. Sulla suppellettile liturgica denominata pace, cfr. http://www.silvercollection.it/pace.html

[21]https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/26/note-sulla-chiesa-e-sul-tesoro-di-s-caterina-dalessandria-in-galatina/

[22]Cfr. P.F. Palumbo,  LibroRosso di Lecce. Liber Rubeus Universitatis Lippiensis, 2 voll. Fasano 1997, vol. I, p. 61. Nella sagrestia del convento francescano era conservato anche «Il dito di San Giacomo Apostolo, che lo tiene in petto, in Statoa di mezzo busto» (B. Da Lama, op. cit., p. 56).

[23] Cfr. Cfr. B.F. Perrone, op. cit., p. 102.

[24] G. C. Infantino, op. cit., pp. 208-9.

[25] B.F. Perrone, op. cit., pp. 130-131.

[26] Da Lama, op. cit., pp. 56-57.

[27] Da Lama, op. cit., pp. 56-57.

[28] M. Paone (a cura di), op. cit., p. 76.

 

L’Arte al tempo del fotoritocco con uno sguardo al Rinascimento. Intervista a Paolo Guido

Gianluca Fedele conversa con l'artista
Gianluca Fedele conversa con l’artista

 

 

di Gianluca Fedele

Ho conosciuto Paolo Guido circa un paio di mesi fa mentre passeggiavo per Lecce. Francesca, la mia ragazza, si è accostata al tavolino dove le stampe raffiguranti alcune opere dell’artista erano in bella mostra e lui, con sarcasmo disinvolto e ironico ci ha invitati a sfogliarle: “non mordono mica!”.

Sono immagini moderne e al tempo stesso pregne di classicismo, qualcosa che sin da subito mi appare come una novità. Prima di avere il tempo di domandare Paolo ci travolge con una infinita valanga di informazioni in merito alle rappresentazioni e all’inusuale tecnica artistica. Ne resto trasportato e al momento dei saluti ci scambiamo i contatti nella promessa di risentirci.

A distanza di qualche mese eccoci qui a chiacchierare nel salotto di casa sua. Anche in questa occasione sono in compagnia di Francesca. Appena giunti in casa si comincia a respirare Arte: ci sono quadri appesi ovunque ma non riconosco in nessuno di essi il tratto di Paolo. Chiedo. Sono opere della madre e del nonno, anch’essi artisti.

Ci accomodiamo nell’ampio salone, lui arrotola una sigaretta e io poggio il registratore sul tavolo.

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D.:

Dunque, Paolo, entrando in questa accogliente abitazione ho appurato immediatamente che l’Arte vibra rumorosamente sulle pareti e nel sangue della tua famiglia. Immagino tu l’abbia dentro come una sorta traccia genetica.

R.:

A parte mio padre, che è un geometra (razionalità pura), altre persone importanti nella mia famiglia hanno contribuito inequivocabilmente a sviluppare, consciamente o meno, la mia creatività; mia madre, come mio nonno prima di lei, ha sempre dipinto e lo ha fatto sino a poco tempo fa.

A loro devo il mio attaccamento alla rappresentazione figurativa.

In questo senso posso dire di possedere un percorso di studi che suffraga solo in parte la mia inclinazione artistica. Ho frequentato il liceo scientifico e dopo mi sono trasferito a Pescara per studiare Architettura. Nonostante gli apprezzabili voti a metà esami ho preferito rientrare a Lecce dove mi sono iscritto all’Accademia dei Beni Culturali facendomene convalidare alcuni. Anche in questo caso non ho terminato l’università, probabilmente perché questi ambienti di studio hanno disatteso le mie iniziali aspettative. Di certo c’è che ho sofferto molto il mondo dell’istruzione, con la sua organizzazione approssimativa nella quale l’individuo è prevaricato dall’istituzione stessa che lo dovrebbe forgiare.

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D.:

In che modo la scuola dovrebbe forgiare l’individuo?

R.:

In realtà esistono già istituti rientranti all’interno della tipologia a cui mi riferisco, scuole che esaltano e affinano le potenzialità del bambino affinché egli crescendo si immetta nel mondo del lavoro dopo avere preventivamente acquisito una certa manualità. È giusto che il ragazzo scelga fisiologicamente il proprio futuro e non gli venga quasi imposto come spesso accade. Ognuno al proprio posto, dico io: se da piccolo hai la passione di fare il calzolaio quel desiderio deve essere incoraggiato e sviluppato perché un giorno tu possa divenire il migliore del mondo.

Più pratica e meno teoria, quindi: l’intelligenza parte dall’abilità delle mani.

 

D.:

Forse azzardo ma credo di cogliere una connessione tra questo pensiero appena espresso e le giovani figure rappresentate nei tuoi quadri. È così?

R.:

Sì, hai colto in maniera esatta. I soggetti che io amo rappresentare sono bambini perché credo siano figure da recuperare. L’infante racchiude in sé una completezza che gli adulti hanno perduto crescendo e questi ultimi cercano di estirpargli a loro volta in un masochistico circolo vizioso.

Il secolo che viviamo ha coniato terminologie precise per circoscrivere questa delicata età: “infanzia” l’hanno chiamata, ne hanno curato i bisogni e fabbricato in poco tutte le strutture per poterla ‘contenere’ (istruzione, pedagogia, pediatria).

Nella maggior parte dei casi, questa attenzione è stata tutt’altro che disinteressata; si è voluto togliere più che dare poiché, quella del “bambino” è una figura confezionata in funzione del suo potenziale da “grande consumatore”.

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D.:

Potremmo dire che al “bambino interiore” non ci ha pensato nessuno?

R.:

A tal proposito a me piace ricordare un passo del Vangelo di Marco dove si narra di un misterioso ragazzino che scappa nudo al momento dell’arresto di Gesù. È un’immagine meravigliosamente evocativa, nella quale ci vedo lo spirito liberato, la parte spirituale che ognuno di noi possiede, quella che non può essere imprigionata in alcun modo… un exemplum da tenere presente nel portare avanti la propria arte.

 

D.:

Per riutilizzare quel termine che tanto mi è piaciuto, quali sono stati gli artisti che hanno “forgiato” la tua fantasia?

R.:

Intanto bisognerebbe capire cosa si considera con l’appellativo di “artista”.

Ho un tenero ricordo di Edoardo De Candia, pittore leccese negli ultimi periodi della sua vita terrena quando viveva emarginato, alienato dalla società.

Poi, tra i grandi maestri rinascimentali, Giorgione e Lorenzo Lotto rappresentano per me un solido riferimento. Mi piace fantasticare che tra le loro opere ce ne siano alcune ancora da scoprire.

E infine, ma non certo per importanza, ti sembrerà bizzarro ma le mie seduzioni artistiche erano anche a strisce. Mi hanno catturato e folgorato infatti i fumetti che leggevo da bambino: dall’intramontabile Topolino passando per Felix e Geppo, e perfino Jacovitti. Insomma, cose molto popolari e vintage. In quest’ultimo elemento si rintraccia certamente una connessione con ciò che faccio.

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D.:

Devo ammettere che conosco veramente poco di questa corrente artistica Pop nella quale ti identificano. Me ne parli?

R.:

La chiamano Pop Surrealism. Quest’arte giustappunto popolare e surreale nasce dal il pittore statunitense Robert Williams, fondatore della rivista-manifesto Juxtapoz. Si è sviluppata nella cultura underground dove fioriscono tra gli altri il graffitismo, i tatoo, il fumetto, ecc.; un’arte, almeno nella sua fase iniziale, non certa da galleria ma da strada. Infatti anche per questa ragione veniva definita “lowbrow art” proprio per evidenziarne lo stacco con quella che si considera “highbrow” e che deteneva quotazioni molto più elevate. Oggi, non è più così poiché opere come quelle di Mark Ryden, Joe Sorren e lo stesso Williams, tra i capostipiti della suddetta corrente, raggiungono prezzi oggettivamente poco accessibili all’uomo della strada.

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D.:

A proposito di grafica computerizzata: che valore ha un’opera realizzata con l’ausilio di PC e software?

R.:

Partiamo col mettere in evidenza che è sempre la creazione, l’idea, ad avere un valore e non il supporto sul quale essa viene espressa, oppure lo strumento con cui si elabora e si sviluppa.

Immagino che se Michelangelo si trovasse tra noi oggi, avendo a disposizione i nostri stessi mezzi, li userebbe tranquillamente come al suo tempo nella fase preparatoria di un dipinto si utilizzavano i cartoni per lo spolvero.

Ognuno nella propria epoca impiega ciò che ha a disposizione ma sempre con un occhio al passato perché non si può solo guardare in avanti, si deve anche necessariamente attingere dalle precedenti scoperte.

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D.:

E come la si gestisce la questione della facile riproducibilità?

R.:

Che un’opera possa essere clonata, per me come artista, non ha rilevante importanza.

Certo è che ci possano essere acquirenti interessati a possedere, diciamo così, il cliché ma questa è solo una questione di prezzo di mercato e di parametri prestabiliti.

Nel mio caso spesso le opere nascono da un progetto realizzato in digitale e così si concretizzano. Ci sono casi in cui questa fase è solo preparatoria terminata la quale le riporto su tela dipingendo con tecniche della tradizione pittorica classica come ad olio. tipiche del ‘500 e ‘600. Ma anche l’incisione a punta metallica (piombo, rame e argento) o la sanguigna sono tecniche che utilizzo con diletto.

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D.:

Le opere in digitale possono essere considerate come serigrafie?

R.:

Il termine esatto è giclée, sono delle stampe di fine art, eseguite con inchiostri Epson su carta d’archivio museale. Realizzazioni importanti che garantiscono un indice alto di durata nel tempo. Chiaramente per tributare prestigio all’opera una tiratura bassa è fondamentale.

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D.:

Il mercato come risponde di fronte a questa innovazione?

R.:

Il ‘mercato’ predilige ancora le opere uniche, meglio se pittoriche. Come per tutti i mutamenti culturali anche l’avvento del digitale ha bisogno del tempo necessario affinché possa essere compreso e accettato da chi acquista arte. Di certo però io non sono il primo né l’unico a muovermi in questa direzione ma al contrario mi trovo in ottima compagnia; per esempio nel 2011 i miei lavori sono stati esposti a Roma presso la Dorothy Circus Gallery durante la mostra “Would you be my Miracle” affianco a quelle del londinese Ray Caesar e della lituana Natalie Shau, due dei maggiori esponenti di questa contemporanea corrente artistica.

 

D.:

Quanto è importante la funzione della galleria per un artista?

R.:

Gli atelier rappresentano un punto di passaggio per l’artista che vuole misurarsi col mercato e ritracciare un proprio spazio all’interno di esso.

Ovviamente ciascun artista racconta la propria esperienza. Io devo molto alla Dorothy Circus Gallery che citavo pocanzi per avermi permesso di uscire fuori dai confini locali e considerare il mondo come piazza di confronto. Una rivista settoriale l’ha recensita recentemente classificandola all’ottantesimo posto di una graduatoria… un bel risultato se consideri che al primo posto vi è il Louvre. Però non disdegno la strada dove torno col mio banchetto sotto braccio ogni volta che ne avverto il bisogno.

 

D.:

Che poi è proprio lì che ci siamo conosciuti. Cosa ti da in più l’esporre per strada?

R.:

Mettendomi per strada appago il personale bisogno di relazionarmi con la gente. È giusto ogni tanto abbassare il tono dell’Arte, per questo immagino sia più giusto di fare delle mostre in luoghi non esattamente deputati all’arte, dove in una mattinata le opere siano alla mercé della gente comune e non di critici esperti… c’è bisogno, oggi, che l’artista non sia dove te lo puoi aspettare, occorre trovare nuovi posti. C’è anche che nei weekend intercetto le famiglie che passeggiando per il centro storico di Lecce si fermano a osservare le stampe economiche che espongo. Assisto persino a scenette divertenti di bambini che vorrebbero avvicinarsi al banchetto e genitori che li trattengono dal farlo. Allora in questi casi un’immagine la regalo ben volentieri.

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D:

Com’è il rapporto tra l’Arte e il territorio?

R.:

Decisamente pessimo! Occorre che rifiorisca e maturi quel senso poetico dell’Arte che pare stia estinguendosi. In questo le istituzioni hanno colpe inespiabili. Bisognerebbe cominciare col ridisegnare le città secondo criteri a misura d’uomo e non solo per finalità economico-cementizie.

Si avverte la mancanza di figure competenti a ricoprire incarichi pubblici e istituzionali; magari, lo dico come esempio e a mo’ di provocazione, bisognerebbe tornare al tempo in cui si diventava professori dell’Accademia per merito acquisito all’interno della bottega.

 

D.:

Ti piacerebbe, come in un film di Woody Allen, tornare indietro nel tempo e vivere in un’epoca più confacente al tuo modo di intendere la società?

R.:

Chi vive bene la propria contemporaneità in qualche modo vive dentro di sé anche altre epoche. Qualcuno sostiene che si possa viaggiare attraverso il tempo. Io credo che lo si possa fare spiritualmente penetrando in questa maniera altri mondi e segnarne le mappe attraverso l’arte.

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D.:

Sono inquieti i mondi che rappresenti?

R.:

L’Arte dovrebbe produrre bellezza intorno ma io non ce ne vedo poi tanta. La situazione che viviamo non è delle più floride e certamente questa inquietudine si riflette e ripercuote nella struttura delle mie composizioni. Cerco di dirmi che l’inquietudine è movimento, una modalità con cui si può uscire dalla stasi… cerco di vederne il lato positivo. Solo i bambini ne sono immuni, custodi quali sono di una naturale purezza.

 

D.:

Si può sperare che l’Arte cambi questa cruda realtà?

R.:

Noi viviamo nell’epoca delle immagini e di esse siamo schiavi. Ho lavorato per alcuni anni nella grafica editoriale e pubblicitaria e credo estremamente nella simbologia e nei messaggi che una determinata raffigurazione può contenere e trasmettere. Bisogna solo cambiare il flusso dell’attenzione affinché sia la bellezza a sovrastare la bruttura del consumismo imperante. Spero di contribuire, con le mie opere, a questo auspicato cambiamento.

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Icone, luci d’Oriente. A Lecce, in una interessantissima mostra

E’ stata inaugurata nei giorni scorsi una interessantissima mostra di icone, che val la pena visitare sino al 23 dicembre. Il patrimonio esposto comprende icone, testi liturgici d’epoca, arredi sacri, oreficeria religiosa e medaglie.
Il materiale esposto proviene dal Museo delle Icone e della Tradizione Bizantina di Frascineto, un piccolo centro arbëreshe in provincia di Cosenza, che è senz’altro una realtà culturale di primaria importanza nazionale dal punto di vista artistico e religioso dell’Oriente cristiano. Notevole il valore delle opere esposte e particolarmente delle icone di varie epoche, in gran parte provenienti dalla Russia, Grecia, Bulgaria e Romania.

La mostra “Icone, luci d’Oriente”, ospitata presso la Sala Convegni del vecchio Seminario, è stata organizzata dal Comune di Lecce, Arcidiocesi di Lecce e dalla parrocchia di San Nicola di Mira (Chiesa greca).
Curata dalla prof.ssa Caterina Adduci, responsabile del Museo delle Icone e della Tradizione bizantina di Frascineto, vede la collaborazione dell’esimio prof. Gaetano Passarelli, uno dei più autorevoli studiosi di iconografia bizantina.

Mostra icone, Lecce - 1 dic 2014

mostra icone

Quell’annosa vicenda detta “ex Caserma Massa” di Piazza Tito Schipa a Lecce

s-oronzo
ph Giovanna Falco

di Gianni Ferraris

 

Prosegue l’ormai annosa vicenda detta “Ex Caserma Massa” di Piazza Tito Schipa a Lecce. Un cantiere ormai nel degrado assoluto, abbandonato, con una vera e propria foresta sugli scavi e con reperti all’aria aperta. Il progetto di un’azienda privata in projet financing con il Comune di Lecce prevede la costruzione sul sito di un parcheggio sotterraneo e di edifici commerciali, amministrativi, negozi e abitazioni. Dove ora ci sono scavi aperti prima c’era una caserma militare (Massa, appunto) prima ancora un convento quattrocentesco e la chiesa Santa Maria del Tempio. Nel sito si sa per certo che esisteva un cimitero all’epoca “fuori le mura” dove ci sarebbero stati i resti di due sindaci della città oltre a quelli di frati. Contro la realizzazione del progetto è spontaneamente nato un comitato che chiede la salvaguardia degli scavi, la restituzione del sito alla cittadinanza, la creazione di uno spazio verde al posto di parcheggi e centri commerciali, soprattutto in una realtà in cui i negozi sfitti abbondano. Alla base di tutto ciò c’è una scelta politica precisa, si vuole che il centro città continui ad essere assediato dal traffico o che si vada verso una città vivibile, pedonalizzata, ciclabile? Si vogliono auto in pieno centro o sarebbe meglio fare parcheggi di scambio e servizi navetta? Ne abbiamo parlato con l’avvocato Alessandro Presicce del Comitato per la tutela dell’area archeologica e Caserma Massa.

 

Da chi è composto il comitato?

Il Comitato raduna singoli e associazioni che si battono, nella nostra città, per evitare lo scempio derivante dalla distruzione, nella odierna Piazza T. Schipa, delle fondamenta del quattrocentesco convento e chiesa denominati Santa Maria del Tempio. La completa distruzione centralissimo sito archeologico avverrebbe in conseguenza della realizzazione, in project-financing, di un centro commerciale con parcheggio interrato per 500 posti auto proprio sull’area degli scavi.

 

Come si è mosso il comitato fin’ora?

Abbiamo mobilitato l’opinione pubblica cittadina e lanciato una petizione affinché il sito venga tutelato come si conviene ad un bene culturale. La petizione è stata firmata da molti esponenti del mondo della cultura, accademico, da ambientalisti, associazioni tra cui WWF e Legambiente, Italia Nostra, da cittadini e famiglie sensibili, urbanisti, architetti, insomma dal meglio che la città può esprimere in termini di competenze e di amore per il territorio. Ha firmato anche  il Preside della Facoltà di Beni Culturali dell’Università del Salento, il Difensore Civico della Provincia di Lecce, il suo predecessore on. Bray.

 

Con quali esiti?

Il Comune di Lecce intende tener fede alla convenzione di project-financingsottoscritta nel 2010 con la ditta attuatrice (De Nuzzo Costruzioni) e consentire la realizzazione dell’inutile centro commerciale e parcheggio interrato annesso. Il procedimento autorizzativo appare però viziato in più punti e molti passaggi sono stati omessi o posposti rispetto ad un normale iter da seguirsi quando si interviene in una zona che da 500 anni è occupata da strutture storiche di pregio (cfr: delibera GC n. 4/2013)

 

Immagino ci sia stato un parere della soprintendenza ai beni artistici e culturali. 

La Soprintendenza ha inizialmente concesso un parere preventivo “favorevole con condizioni”, ma le condizioni poste non appaiono in alcun modo rispettate nel progetto proposto dal soggetto attuatore! Ora la Soprintendenza deve esprimersi con un parere definitivo sul progetto approvato dalla Giunta Comunale con la citata delibera di Giunta Comunale 4 del gennaio 2013. 

Diciamo inoltre che il convento e la chiesa di Santa Maria del Tempio furono barbaramente abbattuti nel 1971 dall’Amministrazione Comunale dell’epoca, ma – anche grazie al fatto che il piano-strada del 400 è quasi un metro sotto quello attuale – le fondamenta oggi apparse e indagate dall’Università del Salento presentano un elevato che in alcuni punti arriva ad un metro e “presentano caratteri di organicità, unità e buono stato di conservazione che le rendono intangibili ai sensi del Codice dei Beni Culturali” (Dalle Osservazioni ad Assoggettabilità a VIA, punto 3). 

 

I leccesi hanno memoria storica del sito?

Moltissimi, nonostante il tanto tempo trascorso, ne sono affezionati. Lo ricordano come la zona del Tempio, che è stato, oltre che un convento francescano per 500 anni, anche un luogo dove leccesi e forestieri si sono curati nei secoli scorsi.

Il Soprintendente di Lecce, arch. Canestrini, in un intervento pubblico sulla stampa ha definito il progetto del centro commerciale e parcheggio interrato, un “progetto di scarsa qualità”. Per questo speriamo che la Soprintendenza di Lecce, che ha visto alternarsi in questi anni vari dirigenti, voglia bloccare il dannoso e insensato progetto, che peraltro non rispetta le prescrizioni poste.

Capitale della cultura: il dibattito dopo il verdetto. Debole e confuso il progetto Lecce 2019

s-oronzo

di Vincenzo Cazzato*

Siamo tutti dispiaciuti per la mancata elezione di Lec­ce a Capitale europea del­la cultura 2019, ma qualche sia pur minima riflessione su questo verdetto, al di là della reto­rica e delle frasi fatte, bisogna pur farla. Vivendo parte della set­timana a Roma, ho avuto modo – per mia fortuna? per mia sfortu­na? – di assistere alla penultima audizione della delegazione lecce­se nella sede del MAXXI alla pre­senza della commissione esamina­trice (29 settembre). Confesso il mio imbarazzo nel vedere sul pal­co una rappresentanza all’insegna di “questa è la Lecce che conta”, “questa è la Lecce che ci piace” e nella quale io, cittadino salentino, ho faticato a riconoscermi. L’im­pressione era di avere di fronte non una rappresentanza cittadina, ma una delle tante “lobby” lecce­si che con la cultura hanno poco a che fare; insomma un “consor­zio” che – qualora fosse passata la candidatura – avrebbe gestito, secondo certe logiche, le abbon­danti risorse.

Ma andiamo oltre. L’esposizio­ne è stata a dir poco epocale, quando l’abitato di Lecce è stato genialmente paragonato a un uo­vo al tegamino (proiettato sul ma­xischermo!); o quando è apparsa la scritta “Sine putimu” che non è frase in latino maccheronico, ma la traduzione un po’ pasticciata dell’obamiano “Yes we can”.

Mentre si succedevano gli in­terventi, un dirigente del Ministe­ro mi ha chiesto: “Ma chi sono questi? e di cosa stanno parlan­do?”; e poi un imprenditore salen­tino: “Ma perché mai non c’è al tavolo dei relatori qualcuno che parli di cultura, e soprattutto di Lecce?”.

Si, perché le cose dette poteva­no valere per qualsiasi altra città italiana, senza alcun richiamo alle peculiarità di questa città, famosa nel mondo per essere una Capita­le del Barocco. Quest’ultimo termine l’ho sentito pronunciare ra­ramente e a volte anche a spropo­sito. E lo spazio dato al Barocco nel “bid book” si limita, risibil­mente, a poche righe.

Uno degli errori più clamorosi è stato di non costruire una candi­datura seria partendo dall’identità di questa città, dal Barocco in pri­mis. Invece l’assurdo slogan è sta­to: “Oltre il Barocco, la culla di un sogno nuovo”. E così il sogno si è infranto di fronte a una città come Matera che non ha provato vergogna alcuna a presentarsi per come è.

Agli inizi di questa avventura, sull’onda dell’entusiasmo, mi ero permesso di avanzare alcune pro­poste relative al Barocco ma an­che al paesaggio salentino, temi a cui ho dedicato gran parte dei miei studi. Non essendone stata accolta alcuna, ho pensato bene di farmi da parte.

Passeggiando giorni fa per piazza S. Oronzo ho visto alcuni blocchi di tufo gettati in terra alla rinfusa, come in una discarica. Leggo la didascalia: “Barock ‘nd roll”. Ecco la fine che ha fatto il Barocco! “Ma cosa c’entrano que­sti massi erratici con il Barocco” si saranno chiesti i commissari passeggiando per le vie di una Lecce improbabile, con i negozi e i monumenti aperti a tutte le ore, con gli studenti invitati a di­sertare le lezioni per dare l’imma­gine di una città viva? Un po’ co­me quando, ai tempi delle visite di Mussolini, si allestivano faccia­te posticce e si spostavano le popolazioni.

Durante la preparazione del primo “dossier” avevo offerto la mia disponibilità per redigere una lista di “testimonials” eccellenti, che avrebbero potuto dare forza alla candidatura: studiosi del Barocco di fama internazionale ai quali siamo collegati grazie a una “rete” di Centri di Studio, dall’Eu­ropa all’America Latina, ideata dal prof. Marcello Fagiolo. Avere l’adesione di membri dell’Accade­mia dei Lincei e di professori emeriti di tante università sparse nel mondo avrebbe sicuramente costituito una carta vincente. Mi è stato risposto: “Abbiamo i no­stri canali e le nostre idee”. Può darsi, ma se le idee sono quelle poste in atto, uno slogan di Al Bano a favore di Lecce vale quanto quello di Gianna Nannini a favo­re di Siena: cioè zero. A proposi­to di Centri Studi sul Barocco, della “rete” faceva parte un tem­po anche il Centro Studi di Lec­ce,ma pare sia stato deciso di metterlo “in sonno”: un altro brut­to segnale.

È stata quella di Lecce una candidatura fondata sul nulla, cioè su slogan di significato poco comprensibile. Avranno capito i commissari il significato di paro­le come “profitopia”, “artopia”, “ecotopia”, “esperientopia”, “de­mocratopia”, “polistopia”, “talen­topia”, “edutopia”? La leggerezza va bene, i manifesti con persone saltellanti anche, ma poi ci voglio­no i contenuti. Se i commissari in una fase iniziale hanno chiuso un occhio su questa operazione “di facciata”, con la regia di un bra­vo animatore culturale quale Ai­ran Berg, non lo hanno fatto una seconda volta.

Peggio ancora, Lecce è città dove non si fa più cultura. Manca­no le sedi, soprattutto dopo la situazione di “stand-by” del Museo Castromediano; è vero, dimentica­vo, c’è il Must che avrebbe però dovuto in primo luogo ospitare un Museo sulla storia della città il cui fantasma si aggira ancora per le sue stanze.

lecce piazza duomo

Manca una visione lungimiran­te, una volontà di aprirsi a nuove idee. Ci si continua ancora a di­battere sull’area della Caserma Massa (inserita persino nel “bid book”!) avendo davanti un proget­to indecente sotto il profilo archi­tettonico e urbanistico, indegno della nostra città.

A Lecce le istituzioni non dia­logano: Comune, Provincia, So­printendenza (mai invitata al tavolo di Lecce 2019!), Università. Lecce non ha un buon rapporto con la sua Università: le sedi uni­versitarie sono distribuite secon­do logiche che nulla hanno a che vedere con le reali esigenze degli studenti.

Ho citato l’Università, la mia Università. Anche l’Università ha le sue responsabilità su “Lecce 2019”, avendo privilegiato una vi­sione fondata prevalentemente sul­la progettazione dei processi cul­turali, sull’economia del turismo, sul management delle aziende cul­turali con la conseguente esclusio­ne, di fatto, di non poche forze che avrebbero dato un forte con­tributo (mentre dietro tante scelte di Matera c’è stato l’apporto ben leggibile di Università e uomini di cultura).

Per anni, insegnando Storia dell’architettura, mi sono battuto – unico docente del settore – per far comprendere l’importanza di questa disciplina in una città che possiede un patrimonio storico-artistico inestimabile. Anche dall’in­terno di questa istituzione è parti­ta una campagna ambigua per de­monizzarel’identità prevalente di Lecce.

A conclusione di questa me­moria, il mio pensiero va ai tanti giovani che per mesi hanno sposa­to con entusiasmo questa causa e hanno messo a disposizione le proprie competenze e le proprie idee, sognando un traguardo al quale non si è purtroppo arrivati. Sono questi giovani la vera risor­sa e la faccia più bella di “Lecce 2019”.

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*Professore ordinario di Storia dell’Architettura. Università del Salento

Pubblicato su “Nuovo Quotidiano di Puglia”, 21 ottobre 2014, p. 1.

Lecce, da Capitale a città d’Europa nel Mediterraneo

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di Mauro Marino

Direte, è un “ingenuo”, ma io amo Candido, quello ottimista di Voltaire e anche il Candido Munafò di Sciascia e con Candido dico che il problema non è di qualità o meno del Bid Book, o colpa della pioggia che ha rovinato il giorno dell’Eutopia o di Airan Berg o di chissà chi. No, candidamente penso che ciò che è mancata a Lecce 2019 è la spinta della politica, quella dei Big.

C’era per Lecce 2019 uno come l’europarlamentare di lungo corso Gianni Pittella, lucano, fratello del presidente della Regione Basilicata Marcello Pittella, che sogna la Capitale della Cultura Europea per Matera da quando è giunto a Bruxelles nel 1999? No, noi non lo abbiamo avuto! E allora, è andata come è andata. E ancora, se si è potuto sperare nell’autonomia di giudizio della giurati europei, la speranza (la mia), s’è stinta quando, a quelli, si sono aggiunti gli altri di nomina governativa. Poi, mi son tornate all’orecchio le trasmissioni dedicate a Matera da Radio Rai Tre, la voce saputa di Marino Sinibaldi e tutto l’ambaradan che ne consegue e, come Candido, ho pensato: certo, Matera merita di fare la Capitale Europea della Cultura nel 2019, ma anche Lecce e il Salento l’avrebbero degnamente e magnificamente meritato, soprattutto per il grande movimento creativo qui originalmente nato che la Basilicata tutta, certo, non esprime.

Ha vinto comunque il Sud, ma c’è Sud e Sud e noi certo siamo più Sud: quello dei visionari e dei Santi, quello di Candido, degli sciocchi, dell’illusione e della festa. Ma questo, forse, è un altro discorso.

Allora, lasciamo acquietare i clamori, il “giorno dopo” pare sia lungo. Molta l’amarezza per chi ci ha creduto molta anche l’acrimonia di chi non conosce l’esercizio della critica e gode della “sconfitta” affilando “parole” in un autocompiacimento mai propositivo, mai volto al fare… Ma consumare parole non è solo di costoro c’è anche altro da tenere in conto. A questo punto, potremmo pensare di farci invece che Capitale solo e semplicemente “città europea nel Mediterraneo”.

Sedimentare l’esperienza è la chiave di ogni buon progetto, pratica non molto amata da chi è abituato al tutto e subito, al consumare idee sul mercato del “marketing culturale” che immagina i territori come merce da sfruttare per il massimo guadagno senza mai voltare gli occhi per un bilancio, per guardare lo scempio compiuto o la risorsa messa a frutto. Questa volta speriamo che accada: il Salento, Lecce ha necessità di far pausa per prendere le misure del suo “progresso” e per tracciare una mappa dei suoi reali bisogni. Ancora una volta siamo chiamati ad interrogarci sul futuro e lo stop (lo schiaffo) venuto con il “no” per il 2019 è un’opportunità per frenare, per una salutare “revisione” di un processo che, senza soste è in atto dai primi anni Novanta. Credo ce ne sia bisogno, non si può proseguire nel proporre tutto e il contrario di tutto. Armonizzare il paesaggio, la sua natura di Parco, sarebbe il compito di una politica culturale (se abbiamo considerato la cultura traino di sviluppo) che fa politica partendo dalla risorsa territoriale. Mare, campagna, centri storici, risorse creative, queste le qualità da eleggere a guida dell’espansione urbana e delle opere con cui si interviene per dare servizi e per migliorare la nostra vocazione e l’appeal geografico.

Questo non accade. La politica (ma anche le persone) spesso (sempre) son distratte, si appassionano ad un’idea ma dimenticando la coerenza, elemento fondante di qualsiasi atto creativo. Coerenza e costanza operativa occorre per proteggere ciò che oggi è a rischio, ciò che oggi si deprime forzando il futuro. Credete che la lezione (lo schiaffo) servirà per trasformate Lecce e il Salento in ciò che spera di essere? Non serve chiederselo c’è solo da lavorare.

 

Su La Gazzetta del Mezzogiorno di venerdì 24 ottobre 2014

per gentile concessione dell’Autore

Le utopie di Lecce, un capolavoro alla fine del mondo

lecce piazza duomo

di Mariano Maugeri

Il mal di Salento s’insinua anche in chi salentino non è. «Dopo di noi c’è solo l’Albania», scherzano con una battuta gli autoctoni, enunciando più o meno consapevolmente un manifesto di insularità. Una concezione alta di sé che qui coltivavano quando il resto d’Italia confondeva il Salento con il Cilento (la fascia costiera a sud di Salerno), quando pure i bollettini meteorologici indicavano come Puglia meridionale. Ora è, per tutti, il Salento, terra della Taranta, la summa di un’antropologia consegnata al mondo dal saggio “La terra del rimorso”, in cui Ernesto De Martino – quasi a sancire un legame ombelicale con Matera e la Lucania – narrava la singolare mescolanza tra razionalità e magia, l’unione della fascinazione stregonesca con lo spirito religioso da cui è nata la civiltà moderna. Lecce è costruita per stupire. I ricami della natura e quelli del barocco si rincorrono come in un esercizio di stile offerto dai Borboni e da Dio. Due poteri che scelsero di essere rappresentati da un’architettura che ammutolisce.

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La penisola salentina è un oceano di luce, la successione di uliveti piantati sulla terra rossa che precipita nelle acque cristalline dello Jonio e dell’Adriatico. Una terra estrema sempre in cerca di una relazione tra misura e dismisura, miseria e nobiltà, alba e tramonto, che qui distano meno di una giornata di cammino. «Questa è la terra dell’ospitalità» arringa Luciano Barbetta, imprenditore di Nardò con laurea in Sociologia alla guida di un’azienda che confeziona capi per le grandi griffe della moda, da Gucci a Cucinelli.

Alfredo Foresta, architetto, erede di una famiglia di costruttori e inventore con il direttore artistico della candidatura, Airan Berg, della galleria di Eutopia, si spinge più in là e traccia su un foglio di carta le distanze che separano Lecce da Bari, Milano, Istanbul, Atene. Una sorta di rosa dei venti geopolitica dalla quale è nato un oggetto di design, un tavolo di ferro e cristallo, che ribadisce anche ai più distratti il ruolo di una città piantata tra i balcani, il levante e il Mezzogiorno. Racconta Foresta: «Di fronte alle ondate di stranieri che nel corso dei secoli occupavano le nostre terre, avevamo solo due armi di difesa: sorridere o scappare». Foresta è un affabulatore e attinge a piene mani dalla scuola retorica greca e dalla critica serrata a tutte le convenzioni, quelle linguistiche in primis, di cui Carmelo Bene, leccese di Campi Salentina, fu interprete geniale: «Noi non siamo capitale della cultura, ma terra di cultura. Gente che non inventa nulla ma reinventa tutto».

marina di andrano

Non è un caso che reinventare Eutopia sia lo slagan di Lecce e Brindisi 2019, un’altra alleanza per nulla scontata, dopo quella di Perugia-Assisi, con l’incantevole città-hub adriatica che vanta un porto e un aeroporto strategico eletto dalle Nazioni Uniti base operativa per le operazioni in Africa e Medioriente.

Le otto utopie di Lecce si declinano nei laboratori urbani gestiti da gruppi locali sul modello di quello creato da Foresta, popolato di start up e giovani designer che lo frequentano alle ore più impensate del giorno e della notte. Raffaele Parlangeli, capo del dipartimento programmazione strategica del Comune e coordinatore del comitato Lecce 2019, ha ideato un progetto a orologeria che ruota attorno alla smart city e ai fondi europei per il periodo 2014-2020. «La pianificazione marcia secondo i tempi previsti e può contare sulla partecipazione diffusa: cultura e innovazione sono i motori del cambiamento».

Quando si parla di cultura a Lecce è impossibile non imbattersi in Tito Schipa, il tenore dei due mondi al quale è intitolato il conservatorio. Il pianista Francesco Libetta, tra i più raffinati esecutori di Chopin e concertista giramondo, è un cultore della memoria musicale salentina. La sua piccola casa discografica, Nireo, è un catalogo delle voci e dei suoni del novecento: tra le ultime pubblicazioni un cd sui cantanti salentini del ‘900 e sulla tradizione musicale di Nardò. Lecce e il Salento sono l’incubatore di una scuola musicale che occupa un posto di primo piano in Europa, una storia lastricata di successi costretta a fare i conti con la cura dimagrante delle tre orchestre cittadine. L’unica sopravvissuta, precisa Libetta, è «a rischio chiusura». Anche il festival per pianoforte, gemellato con quello di Miami grazie alle relazioni internazionali del maestro leccese, è stato sospeso nel 2009 per mancanza di fondi. «C’è un impoverimento che colpisce i giovani», spiega Libetta.

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Crisi o non crisi, di musica si nutre persino l’anfiteatro romano di piazza Sant’Oronzo, sormontato da palazzotti novecenteschi e razionalisti, una costruzione metafisica simile a un quadro di De Chirico. Su questo sfondo alle 12 di ogni giorno invece dei soliti rintocchi di campane si libera nell’aria la voce possente di Tito Schipa. Un’idea dell’ex sindaco Adriana Poli Bortone, tenuta giustamente in vita dal suo delfino e primo cittadino fittiano, Paolo Perrone, che meriterebbe una replica in molte città italiane. L’architetto Foresta interpreta l’ingresso di Lecce nella short list come un calcio di rigore concesso all’ultimo minuto. L’architetto sa già come andrà calciato. E mima con naturalezza un tiro “a cucchiaio” del celeberrimo repertorio di Francesco Totti.

(per gentile concessione dell’Autore)

di M.Mau. – Il Sole 24 Ore – leggi su http://24o.it/SBuuWX

 

Compatrioti leccesi…

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di Giuseppe Maria Costantini

Ignoro il modo in cui sia stata presentata Lecce alla giuria, so solo che il clima meteorologico della visita in città era avverso e che il filmato ufficiale era infarcito di arcaici luoghi comuni: in primis “IL BAROCCO” e, soprattutto, QUEL BAROCCO quello dei testi scolastici anni ’60.
Quanto affermano tanti leccesi colti e saggi, in merito alle ragioni della “sconfitta” di Lecce, è certamente vero, ma, non è certamente tutto.
È riduttivo fino all’assurdo che Lecce sia letta e classificata quale città barocca, nella ‘classe’ delle città barocche ci sono almeno una trentina di altri centri urbani italiani più barocchi di Lecce; altrettanto, è riduttivo fino all’assurdo che il tasso di cultura di Lecce sia legato agli spettacoli circensi-parrocchiali che le sei città hanno inscenato davanti alla commissione; temo di essere incomprensibile, ma, è riduttivo fino all’assurdo anche misurare il tasso di “capacità di contaminazione culturale di una città” sugli investimenti delle sue amministrazioni in cultura, il numero di teatri istituzionali e posti entro le mura, idem per i cinema.
Tante città italiane possono essere lette e classificate in maniera a sé stante, Lecce è la testa di un insieme urbano diffuso (più o meno la sua provincia) capace di competere, in ogni aspetto culturale, con qualsiasi altra città italiana, di qualsiasi dimensione.
Conoscete le collocazioni geografiche dei giurati, parlo almeno degli italiani? Avete notato la composizione geografica di questo governo? Credete che Lecce, il Salento, la Puglia, in termini macro-economici, culturali, geo-politici, siano confrontabili con Matera? Matera: città incantevole, soprattutto dopo il terremoto dell’Irpinia. Conoscete Gravina? Credete che, nel loro genere, sia meno di Matera?
Non avete qualche dubbio sul senso economico, geopolitico, di un’eventuale scelta di Lecce?
Vittorio Bodini, sublime poeta e buon “pittore”, nella sua comprensione mono-prospettica di Lecce e dei salentini, nel sua ostinazione, tutta artistica, per una proiezione onirica delle sue emozioni sul suo territorio avito, è stato tanto leccese e salentino da non fare affatto una poesia locale, ma, esprimere i sentimenti internazionali di una classe sociale agonizzante: è riduttivo fino all’assurdo che Lecce e la penisola salentina vogliano trovare una propria iconografia di sé nei versi di Bodini, un luogo metaforico.
È in uscita in questi giorni un libro, curato dal mio amico Sergio Ortese, sulla pittura tardo-gotica nel leccese, chi sa che il Leccese è stato un territorio di grande e originale pittura tardo gotica (anche di là da Galatina)? Il nostro territorio ha una variegatura culturale insuperabile, “Lecce” comincerà a vincere quando si conoscerà-riconoscerà e cesserà di vestirsi di luoghi comuni: non tutta l’urbanità del territorio è a Lecce; non tutto il leccese è rurale; non tutto è contadino; non tutto è barocco; non tutto è arido; non tutto è ulivo e muri a secco; non tutto è greco; non tutto fave e cicorie; non tutto pietra a vista; c’è anche tutto il resto, quello “estromesso”.
A mio avviso, l’ultima popstar che aveva almeno intuito una comprensione tridimensionale del territorio leccese è stato Carmelo Bene, stop.

Un’Annunciazione salentina: sarà pure una crosta, ma fino ad un certo punto …

di Armando Polito

Sull’affresco e sulla fabbrica rinvio al pregevolissimo, anche per la documentazione, post di Massimo Negro  (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/21/lecce-masseria-papaleo-li-ove-dimorano-le-fate/), del quale mi son permesso di utilizzare due foto (a cominciare da quella di testa) per qualche riflessione che mi piace esternare e del cui spessore chiedo anticipatamente scusa a chi per preparazione specifica e sensibilità artistica (altro che separazione delle due culture!…) sarebbe più autorizzato di me a dire la sua.

Quello dell’Annunciazione è certamente uno dei temi religiosi più trattati in pittura e, proprio per questo, molto pericoloso, nel senso che è difficile per qualsiasi artista inventarsi qualcosa di nuovo e resistere all’influsso, magari inconscio, dei predecessori. Qui l’anonimo autore ha dribblato secondo me brillantemente l’ostacolo e, pur senza essere un Raffaello, è riuscito a trasmettere un messaggio di speranza (cos’è in fondo l’Annunciazione se non questo?) sfruttando un tema antico con un linguaggio che certamente è legato, come vedremo, alla visione del mondo predominante nei suoi tempi; ma proprio da questa mediazione nasce quel palpito di sentire universale che accomuna espressioni artistiche lontane nel tempo e nello spazio. Insomma, non c’è futuro trascurando il passato ed il presente; altro che con la cultura non si mangia!, affermazione blasfema, oltre che idiota, in nome della quale si tenta di giustificare tutto, cementificazione, cattedrali nel deserto ed opere incompiute comprese!

Riporto l’episodio biblico nella narrazione di Luca (I, 26-38):

Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo.

L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?».

Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Ho volutamente immesso nel testo tre spazi perché chi legge comprenda più facilmente come le battute presenti nelle tre sezioni così create si adattino perfettamente ed indifferentemente, singolarmente prese, a ciò che si vede nell’affresco, anche se quelle della terza sezione sembrano, direi volutamente, più calzanti (in realtà è l’inverso: è l’artista che le ha rese più calzanti al testo e non credo che ci sia casualità in questa sottolineatura definitiva). Che sotto questo punto di vista il nostro anonimo pittore abbia superato l’esame a pieni voti mi pare evidente dando una rapida scorsa a termini di confronto famosi.

Giotto (1267 c.-1337), Cappella degli Scrovegni, Padova
Giotto (1267 c.-1337), Cappella degli Scrovegni, Padova
Beato Angelico (1395 c.-1455), Museo del Prado, Madrid (dettaglio)
Beato Angelico (1395 c.-1455), Museo del Prado, Madrid (dettaglio)
Pinturicchio (1452 c-1513) Cappella Baglioni in Santa Maria Maggiore, Spello
Pinturicchio (1452 c-1513) Cappella Baglioni in Santa Maria Maggiore, Spello
Lorenzo Lotto (1480/1557), Pinacoteca comunale, Recanati
Lorenzo Lotto (1480/1557), Pinacoteca comunale, Recanati
Carracci (1555-1619), Chiesa di S. Domenico, Bologna
Carracci (1555-1619), Chiesa di S. Domenico, Bologna

In estrema sintesi possiamo dire che il tema attraverso tre secoli di pittura presenta un progressivo affievolirsi di alcuni dettagli legati al concetto del divino (secondo me l’acme di tale processo è raggiunto dal Lotto con la presenza del gatto il cui  dinamismo non è da meno di quello degli altri due protagonisti), sicché in Carracci, rispetto al quale il nostro anonimo, come vedremo, è contemporaneo, la tonalità scura  fa quasi confondere le ali dell’Angelo con le nuvole, mentre l’aureola è assente in lui e nella Vergine, anche se in quest’ultima sembra sfumare e confondersi con il cappuccio del manto.

Il nostro anonimo si spinge oltre: la Vergine che appare è di fatto una dama rinascimentale e l’Angelo (in cui la tonalità scura delle ali ha la stessa funzione già vista nel Lotto e nel Carracci ma l’esito appare poco felice perché troppo contrastante col chiaro dello sfondo) è quasi un paggio, cui non manca neppure la nota “sexy” dello spacco che scopre una gamba, mentre entrambi i piedi, di rozza fattura come la mano sinistra della Vergine, appaiono congelati in una posizione che forse nelle intenzioni dell’autore doveva evocare una sorta di atterraggio. Da notare ancora che l’Angelo impugna il giglio non con la sinistra ma con la destra, scelta obbligata a causa della conformazione della porzione di parete a disposizione. La colomba è nella stessa posizione della tela del Carracci, al quale per la composizione della scena l’anonimo potrebbe essersi ispirato.

Ne vien fuori, al di là dei limiti formali evidenziati (… forma non s’accorda/molte fiate all’intenzion de l’arte…), una rappresentazione tutta laica (stavo per dire pagana) del tema ma, secondo me, l’essenza universale del messaggio rimane intatta, anche se  questa rappresentazione, agli occhi di chi si attiene ai canoni consueti, potrebbe sembrare blasfema e dissacrante.

Una conferma a questa lettura mi pare che la dia il contesto: l’affresco lì dove si trova (non credo la collocazione sia stata casuale) è come una pala d’altare; solo  che per guardarla bisogna levare lo sguardo più in alto del solito. Ed ecco entrare in scena un secondo componente del contesto: la scala.

Essa nel suo duplice percorso diventa metafora dell’uomo composto di corpo e animo (anche anima, per chi ci crede) sospeso, perciò, tra terra e cielo (anche in senso metaforico, sempre per chi ci crede): salendo è improbabile che ci sia una sosta su qualche gradino e che ci si giri a contemplare l’affresco, mentre una volta giunti in vetta è naturale che lo sguardo vi si posi e  che la retta immaginaria che unisce ortogonalmente lo sguardo all’affresco rappresenti il frutto dell’avvenuta ascesa.

Nel percorso inverso lo sguardo può in qualsiasi momento (attenzione a non cadere! …) rivolgersi all’affresco ma quella linea da ortogonale diventerà sempre più obliqua finché, giunti sugli ultimi gradini tornerà perpendicolare … alla porta: siamo tornati, in tutti i sensi, a terra e il cielo metaforico è lontano, anzi non è più visibile, mentre basta varcare la soglia per contemplare quello reale …

Molto probabilmente al di sotto della lunetta contenente l’affresco vi era un’apertura, in seguito murata, con la funzione di illuminarlo dal basso,  oppure un secondo affresco trafugato chissà quando.

Che gli affreschi fossero due (il mancante di sapore più terreno rispetto al superstite?) o uno, è certo che il committente doveva avere una cultura raffinata e che l’anonimo pittore eseguì fedelmente le sue direttive che, senza rinnegare il passato, erano perfettamente in linea con la temperie del tardo Cinquecento.

E, a proposito di date, quella che appare in basso a destra e che di seguito riproduco in dettaglio mi pare essere il 1585 e non il 1518, come altri (http://www.salogentis.it/2012/05/23/il-ninfeo-delle-fate-nella-masseria-papaleo/) ha creduto di leggere.

Per concludere: anche una presunta (fra l’altro da me!) crosta del passato può avere un valore incommensurabile.

Un timelapse per Lecce Capitale della Cultura 2019

Lecce360 è lieta di presentare un originale  TIMELAPSE di Lecce ideato e realizzato da Roberto Leone con la collaborazione di  Marco Spedicato. Un piacevole tributo alla nostra bellissima città che concorre  a diventare Capitale della Cultura 2019.

http://www.lecce360.com/lecce-2019-citta-candidata-capitale-europea-della-cultura

Festeggiare sant’Oronzo mangiando in suo onore un galletto di primo canto

CIVILTA’ CONTADINA DI  FINE OTTOCENTO

NNU JADDHRUZZU PI’ SSANTU RONZU

 

PER LA FESTIVITA’ DI SANT’ORONZO I CONTADINI REGALAVANO AL LORO PADRONE UN GALLETTO DI PRIMO CANTO

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

L’uso leccese di festeggiare sant’Oronzo mangiando in suo onore un galletto di primo canto, traeva origini da un’antica leggenda secondo la quale il Santo – consacrato vescovo personalmente dagli apostoli Pietro e Paolo – aveva  celebrato la sua elezione sgozzando un gallo ai piedi di san Pietro, che da poco approdato sulla costa di Bevagna dimorava nella macchia d’Arneo. Un gesto altamente simbolico in quanto, rifacendosi al racconto evangelico, cioè alla valenza di rimprovero che il canto di un gallo nel pretorio di Gerusalemme aveva avuto nei confronti di san Pietro, con l’uccisione della bestia il neo Vescovo aveva voluto attestare la vittoria spirituale del Principe degli Apostoli, ormai così forte nella fede da non avere bisogno di svegliarini.

Partendo da tali presupposti ne conseguiva che, ammazzando il pollo in onore di sant’Oronzo, in definitiva si recava tributo a san Pietro, ed era proprio in virtù di questa coordinata di approccio che l’usanza, nata in ambito cittadino, aveva messo radici anche nelle campagne, dove, però, le originarie intenzioni puramente laudative avevano sviluppato significanti a pretto interesse categoriale.

I contadini si facevano sì dovere di allevare uno o più galletti per il 26 di agosto, ma solo per farne un  presente al signor padrone, mai nell’intento di regalarlo a un loro pari o, meno che meno, per usufruirne personalmente; e questo anche quando particolari situazioni (buone condizioni economiche,

Lecce plagiata

di Armando Polito

 

Quella riprodotta è la tavola 81 a corredo del testo di Audot padre L’Italia, la Sicilia, le Isole Eolie, l’Isola d’Elba, la Sardegna, Malta, l’isola di Calipso, ecc., Pomba, Torino, 1835, tomo II (http://books.google.it/books?id=4AOTJjM-9YUC&pg=PP2&dq=audot+padre&hl=it&sa=X&ei=eUfKU9TZJ-S9ygP_poCYAw&ved=0CCgQ6AEwAA#v=onepage&q=audot%20padre&f=false); la tavola, insieme con quelle di Brindisi, Bari, Taranto ed Otranto è inserita tra le pp. 216-217.1

Fuori campo in basso a sinistra si legge  Aubert del(ineavit) & sc(ulpsit) e al centro  Audot éd(iteur); perciò, anche se a proposito di questa tavola viene citato di solito soltanto il nome di Audot, cioè dell’editore, per dare a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quel chi è di Dio, bisognerebbe aggiungere che Aubert ne fu il disegnatore e l’incisore.2  Da notare, quasi a sottolineare il marchio tipografico, éd(iteur) in francese contrapposto al latino [del(ineavit) et sc(ulpsit)] che accompagna Aubert.

La tavola che segue, di anonimo, è tratta dal n. 18, anno II, del settimanale Poliorama pittoresco, anno II, n. 18 del 13 dicembre, 1837, p. 141, Napoli.

 

Quest’altra tavola, invece, è tratta dalla rivista settimanale  L’omnibus Pittoresco, Napoli, anno I, n. 50 del 23 febbraio 1839, pag. 415 (http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AMIL0132098_184488&teca=MagTeca+-+ICCU).

Fuori campo in basso a destra qui si legge Segoni inc(ìdit). Incìdit (incise) è sinonimo dello sculpsit della tavola precedente. Ad uno sguardo sommario le due stampe sembrano identiche, ma, soffermatomi su alcuni dettagli …

…, potrei affermare, usando il linguaggio matematico, che S (cioé Segoni) = A (cioè Aubert) – DA (cioè i dettagli evidenziati in A) + DS (cioè i dettagli evidenziati in B).

Con l’immagine precedente ho dato la soluzione di un esempio di quel gioco enigmistico che si chiama Scopri le differenze e mi chiedo quanti lettori in più avrei avuto se avessi dato al post proprio questo titolo, nonostante Lecce plagiata sia uno di quelli che, come si dice in gergo, tira … (e tiratura ha o non ha lo stesso etimo?).

Poi mi pongo una domanda molto più seria: se Vincenzo Segoni3 si mostra così bravo da ricalcare quasi perfettamente l’incisione dell’Aubert, supponendo che mai abbia potuto disporre del rame originale, che gli costava dar vita ad una tavola tutta sua? E chi mai potrebbe credere che la scelta dello stesso punto di osservazione possa essere dovuto, guarda caso, al caso, mentre alcuni elementi della composizione (per esempio, in basso al centro, il gruppo dei sei personaggi) sembrano ricalcati?

E pensare che essa veniva pubblicata su una rivista della quale  Benedetto Croce nella sua nota n. 3 (p. 191) alle lezioni di Francesco De Sanctis raccolte dal Torraca (La letteratura italiana nel secolo XIX. Scuola liberale-scuola democratica, Morano, Napoli, 1902) ebbe a dire: le illustrazioni sono, per quei tempi, assai buone.  Ma come faceva il buon Benedetto ad accorgersi di un furto (peraltro molto diffuso nelle carte geografiche in epoca in cui certamente la rappresentazione del territorio non era legato ai sistemi di rilevamento odierni che non possono che dare un esito univoco da cui scaturisce l’assoluta sovrapponibilità, scala a parte, almeno dei profili delle coste) avvenuto prima, in tempi, quali erano i suoi, in cui la diffusione delle pubblicazioni, soprattutto di quelle di taglio scientifico, era limitata, l’unica rete esistente era quella da pesca e il nesso motore di ricerca non compariva neppure tra i romanzi di fantascienza?

Chi pensa che il vizietto della scopiazzatura si sia fermato al 1839 si sbaglia e basta attendere la pubblicazione di un’opera prestigiosa, cioè, di Attilio Zuccagni-Orlandini,  l’Atlante illustrativo, ossia raccolta dei principali monumenti italiani antichi, del medio evo e moderni e di alcune vedute pittoriche, Presso gli Editori, Firenze, 1845; dal secondo volume è tratta la tavola che segue (a differenza delle altre non reca firma di sorta), sulla quale il lettore si potrà esercitare nel gioco enigmistico prima ricordato.

Prima, però, che la caccia continui. mi pare doveroso presentare la tavola che cronologicamente, almeno fino ad ora, si pone al primo posto e, quindi al momento è la più attendibile candidata ad essere considerata come modello da cui non avrebbero potuto prescindere tutte quelle a lei successive.

Appartiene  al Viaggio pittorico nel regno delle due Sicilie, di Domenico Cuciniello e Lorenzo Bianchi, opera in tre volumi pubblicata in proprio a Napoli dal 1830 al 18334.

Fuori campo a destra il nome degli editori ed a sinistra quello dell’incisore, Federico Wenzel, che fu attivo a Napoli dal 1827 al 1850.

___________

1 La prima edizione (http://books.google.it/books?id=1TgLAAAAYAAJ&printsec=frontcover&dq=l%27italie+la+sicile+les+iles+eoliennes&hl=it&sa=X&ei=qhfNU5nmFKmo4gSO4oDAAw&ved=0CDkQ6AEwAg#v=onepage&q=l’italie%20la%20sicile%20les%20iles%20eoliennes&f=false) era uscita in francese a Parigi un anno prima per i tipi di Audot figlio (Louis Eustache, 1783-1870).

2 L’assenza del nome accanto ad Aubert unitamente al fatto che spesso quest’arte si tramandava di padre in figlio non rende agevole l’identificazione e la collocazione cronologica del nostro.  Debbo ancora una volta ringraziare la Biblioteca Nazionale di Francia che mi ha permesso di giungere alle conclusioni che mi accingo ad esporre non senza essere partito dai dati. E i dati in questo caso sono costituiti dalle stampe, custodite appunto in Francia, recanti la firma Aubert.

Un primo gruppo è costituito dai due ritratti in basso riprodotti e tratti, rispettivamente da http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8414484n.r=aubert.langEN e da http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84145981.r=aubert.langEN

La prima stampa è, come si legge, il ritratto di F. J. Talma acteur du Theatre Français & Pensionnaire de S. M. I & R.; a sinistra: Hollier del(ineavi)t, a destra Aubert sourd-muet  sculp(si)t. Il soggetto rappresentato visse dal 1763 al 1826, il che ci consente di poter collocare con buona approssimazione la data di esecuzione del ritratto nell’ultimo decennio del secolo XVIII.

La seconda raffigura M.lle Duchénois Actrice du Theatre Français & Pensionnaire de S. M. I & R. In basso a sinistra, esattamente come nel precedente, Hollier del(ineavi)t, a destra Aubert sourd-muet  sculp(si)t.

Sourd-muet fa parte integrante del cognome, quasi fosse uno pseudonimo, comunque un segno distintivo; per saperne di più su questo Aubert sordomuto sono preziose le informazioni che si ricavano da Ferdinand Berthier, L’abbé Sicard, Douniol & c., Parigi, 1873, p. 135: Parmi les artistes qui, de leur coté, lui ont payé leur tribut, nommons avec orgueil le sourd-muet Aubert, collaborateur, pendant de longues années, du célèbre Desnoyers, qui a gravé son portrait (Tra gli artisti che dal canto loro gli [all’abate Roche-Ambroise- Cucurron Aubert, 1742-1822, autore, tra l’altro di Cours d’instruction d’un sourd-muet de naissance, Le Clere, Parigi,1800 e Traité des signes pour l’instruction des sourds-muets, Stamperia dell’Istituzione dei sordomuti, Parigi,1808] hanno pagato il loro tributo, ricordiamo con orgoglio il sordomuto Aubert, collaboratore nel corso di lunghi anni del celebre Desnoyers, che ha stampato il suo ritratto).

Di seguito il ritratto dell’abate fatto da Aubert sourd-muet, tratto da http://www.cndp.fr/mnemo/web/affiche_photo.php?idp=53352&idn=2105017&w_fenetre=1900&h_fenetre=1032

Ometto di riportare il dettaglio relativo al nome dell’incisore perché è assolutamente identico ai due precedenti.

Del secondo gruppo fanno parte:

 http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8409703h.r=aubert.langEN

Didascalia: Louis Dauphin de France né à Versailles le 4 Septembre 1729. A sinistra: Peint par N. Le Sueur; a destra: Gravé par M. Aubert. Il soggetto rappresentato visse dal 1729 al 1765, la scena si riferisce al suo matrimonio e Michel Aubert nacque forse nel 1700 ma morì certamente nel 1757. Molto probabilmente, quindi, l’esecuzione è da collocare proprio intorno al 1757 e, comunque, Michel Aubert visse prima dell’Aubert sourd-muet, anche se non mi è stato possibile ricostruire i probabili rapporti di parentela.

Lo stesso soggetto è nella stampa che segue (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b6940001c.r=aubert.langEN).

Didascalia:  Louis Dauphin de France; all’interno della stampa a sinistra De la Tour pinxit,  a destra: M. Aubert Sculpsit.

Ancora dello stesso autore (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8401757k.r=aubert.langEN):

Didascalia: Concino Concini Maréchal d’Ancre né au Comté de Penna en Toscane, vint en France l’an 1600. Fu tuè le 24 Avril 1617. A sinistra AK(?) Pinxit, a destra M. Aubert sculp(sit).

Ancora dello stesso autore (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84097431.r=aubert.langEN):

Didascalia: Marie Joseph de Saxe Dauphine de France née à Dresde le u Novembre 1731; a sinistra De la Tour Pinxit, a destra M. Aubert Sculp(sit).

Ancora un ritratto (http://bibliotheque-numerique.inha.fr/collection/3027-carle-van-mander/):

Didascalia: Van-Mander; a sinistra C. Eisen d(elineavit), a destra M. Aubert S(culpsi)t. Charles Eisen visse dal 1720 al 1778. Il soggetto raffigurato è il pittore fiammingo Karel  Van Mander vissuto dal 1548 al 1606.

Il terzo gruppo è costituito da una sola stampa (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b6954074s/f1.zoom.r=aubert.langEN):

Didascalia: Vue de l’Elysée Bourbon prise de l’intérieur du jardin; a sinistra: Couvoisier del(ineavi)t, a destra Aubert fils sc(ulpsi)t.

Siamo al quarto gruppo (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b85311817.r=jean+aubert.langEN):

Didascalia: Claude Gillot de Langres peintre ord(inai)re du Roy en son Academie de Peinture et Sculpture; a sinistra C. Gillot Pinx(it), a destra J. Aubert Sculp(sit). Di Jean Aubert è incerta la data di nascita, morì nel 1741.

Passiamo al quinto ed ultimo gruppo (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8414094n.r=aubert.langEN):

Didascalia: Vue de la cascade de Briars; a sinistra Fortier aqua forti, a destra Aubert sculp(sit). Claude François Fortier visse dal 1775 al 1835.

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8414092t.r=aubert.langEN:

Didascalia: Vue de S.te Hélène et de James-Town; a sinistra: Fortier aqua forti, a destra Aubert sculp(sit).

I temi dominanti o esclusivi (ritratto o paesaggio) in questo o quel gruppo, considerazioni di carattere cronologico e, infine, l’assoluta corrispondenza grafica del nome dell’incisore tra il dettaglio della tavola di Lecce

15  e quelle dell’ultimo gruppo 

mi inducono a pensare che si tratti dello stesso incisore e, tenendo conto che anche il disegnatore (Fortier) è lo stesso è plausibile ascriverne l’esecuzione agli inizi del XIX secolo. L’edizione francese nel frontespizio recita recuillis et publiés par Audot père (raccolti e pubblicati da Audot padre).

Se così fosse la tavola dovrebbe rappresentare la piazza così com’era proprio al principio del XIX secolo). Da notare che delle due statue di Carlo II a cavallo (evidenziate dall’ellisse rossa) presenti nella tavola del Pacichelli (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/), in basso riprodotta, non è visibile (nelle nostre il campo è più ristretto) quella con annessa fontana.

Nella foto d’epoca che segue il “ricovero” di una delle statue all’interno del Sedile.

3 Sono sue due delle tavole (la IV e la VII, in basso riprodotte) del testo di botanica Plantae rariores di G. Gussone uscito a Napoli per i tipi della Stamperia Reale nel 1826 in due volumi (uno di testo, l’altro con le tavole; per quest’ultimo, che ci interessa più da vicino: http://books.google.it/books?id=VcMZAAAAYAAJ&printsec=frontcover&dq=gussone+plantae+rariores&hl=it&sa=X&ei=myDNU-DGGMXMygPuy4GoAw&ved=0CCsQ6AEwAjgU#v=onepage&q=gussone%20plantae%20rariores&f=false).

Il Segoni fece parte pure della schiera di disegnatori che con le loro tavole corredarono Le antichità di Ercolano esposte edite a Napoli  dalla Stamperia Reale in 8 volumi (versione digitale in http://katalog.ub.uni-heidelberg.de/cgi-bin/search.cgi?sprache=GER&query=le%20antichit%C3%A0%20di%20Ercolano%20esposte&fsubmit=ok&quelle=homepage) dal 1757 al 1792. Di lui sono le tavole XI, XXVa, XXVb e LX del IV volume uscito nel 1765 e la V del V uscito nel 1767, di seguito riprodotte. Dato il numero veramente irrisorio delle sue tavole rispetto ad altri disegnatori posso affermare senz’ombra di smentita che di quel gruppo non costituì certo un elemento di punta. Nel Manuale del forestiero in Napoli uscito per i tipi di Bobel e Bemporad a Napoli nel 1845 nell’elenco degli incisori con il relativo recapito a pag. 131 si legge: Segoni Vincenzo Gradini S. Spirito 52.

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Chiudo con un problema, anzi un’indagine  irrisolta non per colpa mia.

A pag. 537 del testo Le peintre-graveur italien di Alexandre De Vesme, uscito nel 1905 per i tipi di Allegretti a Milano, nel catalogo delle opere di Carlo Porporati (1741-1816) la scheda n. 39 reca la seguente informazione:

Son riuscito a trovare la prima incisione del soggetto fatta da J. G. Wille nel 1774 su disegno del figlio Pierre Alexandre (immagine seguente tratta da  http://purl.pt/5495/3/).

 Vana è stata, purtroppo, ogni ricerca di quelle del Segoni e del Valperga. Confido nell’aiuto di qualche lettore più fortunato di me, perché una comparazione sarebbe estremamente interessante anche per poter eventualmente capire meglio le deviazioni del Segoni rispetto all’Aubert nella stampa di Lecce, da cui tutto è partito.

Una sponsorizzazione femminile dell’anfiteatro di Rudiae nella travagliata storia di una fantomatica epigrafe (CIL IX, 21)? (Prima parte)

di Armando Polito

immagine tratta da http://www.leccesette.it/archivio/img_archivio1682013151042.jpg
immagine tratta da http://www.leccesette.it/archivio/img_archivio1682013151042.jpg

 

Prima che le risultanze archeologiche ne dessero conferma, l’unica notizia  sull’esistenza di un anfiteatro a Rudiae era quella lasciataci da Girolamo Marciano (1571-1628) nella sua Descrizione, origine e successi della provincia d’Otranto uscita postuma a Napoli per i tipi della Stamperia dell’Iride nel 1855, dove, a pag. 502, si legge: Io ho visto e letto un instrumento mostratomi dal curiosissimo Francesco Antonio De Giorgio mio amico, nel quale si legge che l’anno 1211 a 10 di dicembre Gaita moglie di Orazio Ruggiero di Rudia dimorante in Lecce donò un pajo di case al monastero di S. Niccolò e Cataldo. Dal quale si raccoglie che sebbene la città di Rudia fu distrutta l’anno 1147 da Guglielmo il Malo, tuttavia insino al detto anno 1211, e forse più se ne mantennero in piedi gli avanzi, dappoichè gli abitatori non si ridussero totalmente dentro la città di Lecce. Delle reliquie di questa città oggi non si vede altro che rottami di pietre ed il sito dell’anfiteatro, in cui non sono molti anni fa fu ritrovato un marmo, che oggi si conserva in casa del signor D. Vittorio Prioli1 in Lecce con questa iscrizione:

OTTACILLA M. F. SECUNDILLA

       AMPHITEATRUM

Non si legge altro che questo nel marmo, non essendo intero, ma in molte parti spezzato.

Da quanto appena riportato risulta che l’epigrafe era viva e vegeta fino a buona parte della prima metà del secolo XVII e che il suo rinvenimento, a Rudiae, doveva essere avvenuto presumibilmente (altrimenti, come intendere non sono molti anni fa?) nella seconda metà del secolo XVI2.

Pellegrino Scardino, Discorso intorno l’antichità e sito della città di Lecce, Stamperia G. C. Ventura, Bari, 1607, pag. 12: Fuori della Città presso le mura, in un luogo, dove oggi si vede il convento dei Frati Scalzi di San Francesco, era a’ tempi passati l’Anfiteatro per gli spettacoli del Popolo, del quale, benche oggi nessuna parte ne sia in piedi, nientedimeno fra le cose guaste, e rovinate ne appariscono alcuni segni. Acquista di ciò fede al vero un Marmo ritrovato fra gli edifici sotterranei con inscrittione che comincia OTTACILLA M. F. SECUNDILLA/AMPHITEATRUM non si legge più di questo nel Marmo, non essendo intero; ma in molte parti spezzato e lacero, mercè degli anni che a lungo andare rodono a guisa di tarlo ogni cosa.  Conservava gli anni a dietro questo picciolo Marmo nel suo leggiadretto Museo, degno di vedersi per la varietà dei libri e di molte cose antiche, il signor Ottavio Scalfo, medico e filosofo singolarissimo, la cui acerba ed immatura morte oscurò in buona parte non solo la gloria delle Muse, ma tolse ancora al Mondo la maniera dei più nobili e cortesi costumi. Oggi, fra la compagnia d’altri marmi si vede ricoverato dal signor Vittorio de Priuli, gentiluomo Leccese, sottile investigatore delle cose antiche, il quale, infiammato di ogni virtuoso pensiero, si rende huomo singolare in ogni maniera di alto e liberale mestiere.  

Nonostante l’ambiguità di edifici sotterranei lo Scardino collega senza esitazione il marmo all’anfiteatro di Lecce e in più ci fornisce la notizia che il marmo era stato custodito prima da Ottavio Scalfo3 e poi, confermando il Marciano, da Vittorio Prioli.

Giulio Cesare Infantino (1581-1636), Lecce sacra, Micheli, Lecce, 1634 (cito dall’edizione anastatica Forni, Sala Bolognese,1979, p. 213): Fuori le mura della Città di Lecce, e propriamente nel Parco, è l’antica, e Regia Cappella di S. Giacomo Apostolo, Protettore delle Spagne: la qual Cappella in questi ultimi anni, cioè nel 1610 fù conceduta insieme con un giardino, e parte delle stanze a’ Padri Scalzi di San francesco, i quali hoggi vi dimorano, havendo dato buon principio alla fabrica de’ loro Chiostri. E Cappella assai divota, massime dapoi che i detti Padri vi vennero ad habitare, per essere molto assidui alle confessioni, & altre loro religiose osservanze. Quivi era ne’ tempi antichi un’Amfiteatro per gli spettacoli del popolo, del quale benche hoggi niuna parte ne comparisca, pure frà le cose guaste, e rovinate ne compariscono alcuni segni. Testimonio ne fa un marmo antico, ritrovato sotterra, se ben spezzato, e lacero,che gli anni à dietro conservava appresso di sé con molt’altre cose antiche, degne da vedersi, Ottavio Scalfo Medico in questa Città, e Filosofo singolarissimo, honor di questa Provincia: hoggi si conserva in casa di Giovanna Paladini che fù moglie di     D. Vittorio Prioli, gentil’huomo Leccese, Conte Palatino, & à suoi tempi diligente investigatore delle cose antiche, il cui principio è questo

Ho riportato in formato grafico il resto del testo4 riguardante proprio la nostra epigrafe perché il lettore comprenda più agevolmente come la questione, già complicata di per sé, deve fare i conti con problemi accessori. Un esempio per tutti: quell’Amphiteatrum riportato in tal modo fa pensare che fosse leggibile (da chi?) solo la A e che il resto fosse integrazione (di chi?). In più compare un RE. P. R. che, come vedremo nella prossima puntata, non è presente nella trascrizione del CIL.

Giovan Battista Pacichelli (1634-1695), Il regno di Napoli in prospettiva, Parrino, Napoli, 1703, v. II, pag.. 167 e 168: Accenna Livio, che Lecce, detta ancor Licia, e Lupia, doppo il dominio de’ Salentini, ubbidì al Senato di Roma, e Colonia de’ Romani la testifica Plinio, & un Marmo ritrovato nelle rovine della distrutta Rudia l’autentica.

C. Claudio C. T. M. N. Neroni Cos./ob rem felicissime in Piceno adversus Poenorum/ducem Asdrubalem gestam Sen. Pop.& militum/statio Lupien. A. H. P.5

 [Lecce] esperimentò le vicende della fortuna con l’altre Città distrutte dal re Guglielmo il Malo l’anno 1147, come nota Antonello Coniger nella sua Cronica6 , assieme con la sua Compagna Rudia fabricate ad un tempo dal sudetto Malennio, che per somministrarsi scambievolmente i soccorsi, le congiunse con una strada sotterranea7 , che anche ritiene il nome di Malenniana e se ne scorgono alcuni vestiggi.

Trascurando l’ultimo autore che, fra l’altro, crea un po’ di confusione mettendo in campo l’epigrafe rudina di cui mi sono occupato non molto tempo fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/01/lepigrafe-di-rudie-ovvero-cil-ix-23-un-maquillage-ben-riuscito-pero/), un bilancio potrebbe così essere stilato: non sappiamo se la testimonianza del Marciano fosse stata già redatta alla data di pubblicazione del lavoro dello Scardino, ma anche se così non fosse stato è da presumere che un umanista del calibro del Marciano abbia trascritto de visu il testo dell’epigrafe ed è difficile immaginare che si sia inventato la contestualizzazione del reperto che, comunque, risulta, come s’è visto, meno generica di quella dello Scardino. Quando, poi, all’assenza o ai dubbi di contestualizzazione si aggiunge pure la scomparsa del reperto, la frittata è fatta.  Così passano i secoli e le memorie spesso sono costrette ad intrecciare le loro nebulosità  non per colpa loro ma degli uomini. Ѐ il caso della nostra epigrafe che, nel frattempo dimenticata e pure fisicamente perduta, ritorna in auge nel 1938 quando, durante la risistemazione dell’anfiteatro di Lecce (Lupiae), venne rinvenuta un’iscrizione oggi, anch’essa, scomparsa:

TRAIANI

IMP III CO

PATRE LIBE

Da allora la costruzione dell’anfiteatro di Lecce, che prima quasi concordemente era stata attribuita ad Adriano, fu da parecchi studiosi attribuita a Traiano. Ci fu pure chi si spinse oltre: G. Paladini8 e R. Bartoccinila considerarono in relazione con la nostra. L’operazione apparve arbitraria già al Susini (Fonti per la storia greca e romana del Salento, Tipografia della S.T. E. B., Bologna, 1962, p. 107) e M. Bernardini (La Rudiae salentina, Editrice salentina, Lecce, 1955, pp. 37-38) dal canto suo rivendicò la probabile provenienza rudina della nostra epigrafe; anche a me pare un’operazione discutibile sul piano metodologico ma alla resa dei conti inaccettabile perché non tiene in alcun conto la testimonianza del Marciano nella quale più chiara non poteva essere la contrapposizione tra Lupiae e Rudiae, tanto più che il brano citato fa parte del capitolo XXIII che ha per titolo Della città di Rudia, sua origine e distruzione. Tuttavia, per onestà intellettuale e prima che qualcuno me lo faccia presente, debbo dire che il lavoro del Marciano fu pubblicato, come s’è detto, postumo con aggiunte del filosofo e medico Domenico Tommaso Albanese di Oria (1638-1685), come recita il frontespizio; secondo me è piuttosto improbabile che una delle aggiunte abbia riguardato, integralmente e pesantemente, proprio questo capitolo.

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/09/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-seconda-ed-ultima-parte/

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1 Nelle immagini sottostanti uno scorcio dell’omonima via, Palazzo Prioli al civico 42 (settembre 2011; oggi, dopo il restauro, è sede del resort Mantatelurè)  e il dettaglio dello stemma della famiglia Prioli.

 

Vittorio Prioli, appartenente ad una famiglia di origini venete, fu una delle figure di spicco della cultura leccese tra XVI e XVII secolo. Fu sindaco nel 1593; il suo nome compare più volte negli atti del processo di beatificazione del gesuita Bernardino Realino di Lecce (Sacra rituum congregatione Eminentissimo et Reverendissimo Domino  Cardinali Pedicini relatore Neapolitana seu Lyciensis beatificationis et canonizationis venerandi servi Dei Bernardini Realini Sacerdotis Professi Societatis Jesu, Summarium super virtutibus, Tipografia della Reverendissima camera apostolica, Roma, 1828, passim) come donante di una cassa di cipresso foderata di tela d’oro in cui fu trasferito il gesuita a due mesi dalla morte avvenuta, appunto, il 2 luglio 1616. Egli  era sicuramente vivo alla data del 1627 perché nel catasto di Monopoli di quell’anno, carta 489 v.,  Giovanni di Francesco Palmieri risulta debitore di ducati 233, 1, 13 nei confronti del monastero di San Giovanni Evangelista  di Lecce e di ducati 116, 3, 6 a don Vittorio Prioli della stessa città).

Per le sue mani potrebbe essere passato, oltre alla nostra epigrafe, anche il manoscritto delle Cronache di Antonello Coniger (Ferdinando Galiani, Del dialetto napoletano, Mazzola-Vocola, Napoli, 1779, p. 109: … si conserva ms. presso del Signor Conte D. Vittorio Prioli; per motivi temporali dovrebbe trattarsi di un discendente del nostro).

E proprio nelle  Cronache del Coniger all’anno 1511 si legge: In questo anno alo primo de maggio fo morto mio fratello Gio. Francisco Coniger, & per non haver fillij lecitimi ho successo io Antonello Coniger, & alla Baronia. In questo anno alle 29 di Maggio lo dì della Sensa (?) venne uno Corsaro de Turchi cum dui barcie, una Galera e cinq. fusti  in San Cataldo pigliò la Turre per forza, amazò tutti trovati dentro, mise foco a magazeni, & pigliò più di cento butti pieni di Oglio di Citatini di Lecce, tra li quali Messer Vittorio de prioli ncinde ebbe cinquanta, & cinq. Molto probabilmente il Vittorio de prioli qui nominato era il nonno del nostro.

C’è da pensare che mai il Prioli sospettò che l’iscrizione da lui custodita potesse riferirsi all’anfiteatro di Rudiae leccese, se è attendibile quanto afferma Jacopo Antonio Ferrari (1507-1587) nell’ Apologia  paradossica (Mazzei, Lecce, 1707; cito dalla seconda edizione, stesso editore, stesso luogo, del 1728, p. 141) : Rodia è quella che scrisse Strabone d’essere situata meno di diece miglia lontana da Brindisi, le cui vestigie essendo per molti secoli a pochissimi note, per trovarsi tra la terra di Misagne ed il Castello di Latiano, li signori Claudio Francone Signore di detto Castello di Latiano, e ‘l Signor Vittorio Prioli suo affine nostri Patrizj Leccesi dottissimi, essendo insieme andati a ritrovare tra quei boschi di olive, che ora l’hanno coverte, l’hanno parimente vedute, e chiaritisi d’essere quella, per ritenere quel deserto luogo il suo antico nome di Rodia presso de’ popoli vicini e de’ pastori, che là pascono la loro gregge.

Un’altra notizia sugli interessi antiquari del nostro è contenuta in Girolamo Marciano, op. cit., p. 28: Si conserva un marmo di queste antiche lettere [messapiche] nella città di Lecce in casa del chiarissimo e diligentissimo investigatore delle memorie antiche dott. Vittorio Prioli con una sottoscrizione di suo zio dott. Scipione De Monti, dal quale furono ritrovate in un antico muro della città di Lecce, e dal medesimo con diligenza conservata.  

Per le mani del Prioli dovette passare anche un manoscritto realizzato appositamente per lui; esso sarà oggetto di studio in un prossimo post ispiratomi da una segnalazione di Giovanna Falco, che qui pubblicamente ringrazio.

2  Non  riesco a capire, anche per l’esplicito riferimento al Marciano nella stessa edizione da me utilizzata per la citazione,  la datazione proposta da Mariagrazia Bianchini in Diritto e società nel mondo romano, 1. Atti di un incontro di studio, Pavia, 21 aprile 1988, New Press, Como, 1988, pag. 83, nota 40: Si ha notizia che l’iscrizione (CIL IX, 21), rinvenuta a Rudiae sulla fine del XIV secolo nel “sito dell’Anfiteatro” (vd. G. MARCIANO, Descrizione, origine e successi della terra d’Otranto, Napoli, 1855, 502) …

3 Una scheda dedicata ad un Ottavio Scalfi, letterato, poeta, dedito agli studi filosofici e medici nato a Galatina è presente nel Dizionario Biografico degli Uomini Illustri di Terra d’Otranto di Francesco Casotti, Luigi De Simone, Sigismondo Castromediano e Luigi Maggiulli, Lacaita, Manduria e Roma, 1999; essendo vissuto dal 1539 al 1612 sarà stato un omonimo parente del nostro per il quale lo Scardino parla di morte acerba ed immatura. Quest’ultima non può essere considerata neppure una formula di cortesia a sottolineare il fatto che sempre acerba e prematura è la morte di un uomo di grande levatura, perché l’Ottavio della nostra scheda era ancora in vita quando (1607) uscì il lavoro dello Scardino. Non è da escludere, tuttavia, che la data di morte nella scheda sia da correggere in 1602, anche perché il resto della stessa così prosegue: Riunì in un museo privato varie antichità della provincia che dopo la sua morte passò nelle mani del Conte Vittorio de Priuli. Nella bibliografia che correda la scheda è citato il testo Galatina letterata di Alessandro Tommaso Arcudi, uscito per i tipi di Giovan Battista Cilie a Genova nel 1709, testo chiaramente utilizzato nella compilazione della scheda ed al quale, perciò, è ascrivibile l’errore, se di errore  si tratta, prima ipotizzato. D’altra parte non dovrebbe essere l’unico se alla fine della trattazione della vita di Ottavio Scalfo (pp. 130-131) l’Arcudi, che all’inizio aveva indicato come data di nascita il 1539, scrive:  Nella quale città [Lecce] sodisfece al comune tributo della natura nel 1612 all’età di 65 anni.

4 Ringrazio la signora Giovanna Falco (la stessa di prima …) per avermi segnalato la testimonianza dell’Infantino ed avermi fornito la copia fotostatica del brano riguardante l’argomento.

5 Questa iscrizione non è registrata nel CIL (a suo tempo il Mommsen la giudicò falsa). Il Pacichelli molto probabilmente la trae dal Marciano (op. cit., pag. 520) che scrive:  E così anche si legge in alcuni marmi, come in uno ritrovato secondo il Ferraris (non si tratta di Antonio De Ferrariis più noto come il Galateo, ma di Iacopo Antonio Ferrari che nella sua Apologia paradossica, Mazzei, Lecce, 1707,  la riporta così: C CLAVDIO C. F. M. N./NERONI COS./OB REM FELICISSIME IN PICENO/ADVERSVS POENORVM DVCEM/ASDRVBALEM GESTAM , SEN./POP. ET MILITVM STATIO LVPIENS./A. H. P.) tra le rovine di Rugge, città distrutta a sé convicina, che dice così:

C. Claudio C. T. M. N. Neroni Cos. ob rem felicissime/in Piceno adversus Poenorum/ducem Asdrubalem /gestam Sen. Pop.& militum statio Lupien. A. H. P.

Da notare come i tre testi differiscono nella disposizione delle linee.

6 A voler essere precisi nel Coniger si legge: 1157 Rugieri Duca di Calabria primo genito de Re Gullielmo per non li haver voluto dare obedienza la Cità di lecce, e tutte le altre Terre del Duca di Athena, & Conte de lecce; ne ad Re Rogieri, ne a Re Gullielmo suo padre, per retrovarse in Francia detto Duca di Athena, venne in campo ad Lecce cum molto esercito dove la tenne assediata anni tre, infine la pilliao per tradimento chi fe lo Camberlingo, entrò dentro, el Duca di Calabria ditto Rogieri jettao le mura, & tutte le case atterra reservato quell l’adomandao di gratia, & a lui li fe talliare la testa, pillao tutte altre terre, & fe jettare case, & mure chi erano del Duca de Athena, como ad Rugge, Balisu, Vste, & Colomito, & fe bandoZenerale, che nisciuno possa fare case in ditta Cità, & Terre se non alte da terra una canna & mezza al più, e le porte fossino senza archi, & quelle de legname ad stantoli, & questo che le casamente alte chi erano in Lecce li fero …. Essendo dentro che non da faci.

7 Già il Galateo nel De situ Iapygiae aveva scritto:  Duas urbes idem populus habitat, ut de Neapoli dicunt, & Palepoli; quin etiam inter ipsas fama est subterraneas fuisse specus, per quas mutua auxilia sibi invicem cum opus erat, praestabant. Inter has urbes minus quam duorum millium passuum spatium interiacet. Rhudiae, seu Rhodeae, & a Stephano Ρόδαι, seu Rui, per literam I vocalem, sive per j literam consonantem crasso quodam, ut mos est, regionis sono Rugae dicuntur: unde Lupiarum porta, & quarta pars urbis, quam Pittacion Graeco nomine appellant, Rhudiarum dicuntuur. Hae penitus interiere, ut vix cognoscas quo loco fuerint, tantum nomen restat inane … harum aedificia tempus obruit, & rusticus antiquitatum omnium eversor eversat aggeres. Alicubi murorum cernuntur sepulchra innumera fictilibus vasculis, & ossibus plena. Huius urbis nomen & fama apud complures homines, ut & ipsa, cecidit; nunc tota aut feritur, aut oleis consita est …(Lo stesso popolo abita due città [Lecce e Rudie], come dicono di Napoli e di Palopoli; anzi si dice che tra le stesse ci siano state cavità sotterranee attraverso le quali si davano aiuto l’un l’altra all’occorrenza. Tra queste città c’è uno spazio di meno di due miglia. Si dice Rudie o Rodee, e secondo Stefano Ρόδαι [leggi Ròdai], o Rui, Rute per mezzo della i vocale o della consonante in un  suono grossolano  della regione, com’è costume; perciò la porta di Lecce e il quartiere della città che con parola greca chiamano pittagio sono dette di Rudie. Essa è completamente perduta, sicché a stento riconosceresti in quale luogo si trovasse e ne resta solo il vuoto nome …  il tempo ha sotterrato i suoi edifici e il contadino distruttore di ogni antichità rivolta i terrapieni. In qualche luogo si scorgono innumerevoli sepolcri in muratura pieni di piccoli vasi di terracotta e ossa. Il nome e la fama di questa città presso molti uomini, come essa stessa, decadde; ora viene tutta vandalizzata o coltivata ad oliveto …).

8 Guida storica ed artistica della città di Lecce, 1952. L’autore giunge alla conclusione che Otacilla Secundina eresse la fabbrica di Lecce sotto Traiano.

9 All’epoca della scoperta dell’anfiteatro (1929) il Bartoccini era sopraintendente e la primitiva attribuzione della costruzione ad Adriano porta la sua firma (Il teatro romano di Lecce, estratto da  Dioniso, XIII, 1, 1935) anche se era stato Cosimo De Giorgi (Lecce sotterranea, Stabilimento tipografico Giurdignano, Lecce, 1907, pp. 193-197) il primo ad ipotizzarlo. Dopo la scoperta del 1838, però, il Bartoccini, considerando la nuova epigrafe integrazione della nostra, attribuì a Traiano l’edificazione della fabbrica (Apud Susini, op. cit, p. 107) e a Otacilia Secundilla solo il ruolo di intermediaria nella sovvenzione.

Euippa: il passaggio dal complimento alla calunnia è breve …

di Armando Polito

 

A differenza di altri miei post, quello recente su Euippa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/07/euippa-la-fantomatica-regina-di-lecce/), che pure toccava molte note dolenti reali o da me presunte, ha registrato un solo commento trasmessomi tramite facebook e da me letto per puro caso dall’autore delle foto, Pietro Barrecchia, che, per chi non lo sapesse, è stato mio alunno.

Riporto, violando volontariamente la riservatezza per la seconda volta …, la parte del suo messaggio che può avere un qualche interesse comune.

Mi scrive Pietro: ” … Una sola cosa mi sorprende. Pensavo che ricamasse di più sull’etimologia di Euippa. Secondo lei potrebbe trattarsi di un appellativo dato alla rappresentata, essendo probabilmente una bella donna? Tipo un modo antico, gentile e greco, anticipatario del romano “Ah bona!”. In fondo potrebbe essere tradotto con bella cavalla! Non crede? A questo punto penserà: ” Ma ione ci aggiu prodottu?“.

Ho gradito, naturalmente, tutto il messaggio, ma in modo particolare la parte finale con la sua autoironia, ingrediente che nella vita per me è già sostanza ma che qui assume connotati ancora più profondi perché mi fa capire che qualcosa di buono, sia pure in quantità non industriale (anche se l’artigianato, almeno per me, è meglio dell’industria …), ho lasciato nell’esercizio della professione non … più antica, ma certamente più bella del mondo.

Confesso che pure a me era venuta immediatamente in mente l’idea della bella cavalla ma mi ero ripromesso di non parteciparla per non essere accusato di quel maschilismo al cui rischio mi esponeva  l’ultimo (in realtà il più importante) posto riservato nella trattazione alla regina leccese, per cui mi ero rifugiato nella dimestichezza col cavallo che dei Messapi le fonti ci hanno tramandato1. Prima della decisione definitiva, però, avevo fatto un’indagine in tal senso, i cui risultati, a questo punto, mi pare doveroso esporre.

Se Euippa non è di origine deaggettivale ma denominale bisognerebbe immaginare che l’avverbio εὖ (leggi eu) abbia assunto un valore aggettivale rispetto ad un sostantivo *ἵππα (leggi ippa) o *ἵππη (leggi ippe). Li ho scritti entrambi con l’asterisco perché in greco è attestato, come nome comune, solo ἵππος (leggi ippos), usato tanto per il maschile che per il femminile; unico segno distintivo l’articolo (leggi o) per il maschile (ὁ  ἵππος=il cavallo) e l’articolo (leggi e) per il femminile. Ci aspetteremmo, perciò, che ἡ ἵππος significasse la cavalla. Proprio questo, che dovrebbe essere il significato di partenza, non è attestato, cosa che non succede con i significati traslati: da quello collettivo (la cavalleria2), a quello dispregiativo (donna di facili costumi3), ad epiteto di Ecate, su cui debbo spendere qualche parola in più.

L’epiteto è attestato in Porfirio di Tiro (III-IV secolo d. C.), De abstinentia, IV, 16: Καὶ θεοὺς δὲ τούτους δημιουργοὺς οὕτω προσηγόρευσαν· τὴν μὲν Ἄρτεμιν λύκαιναν, τὸν δὲ Ἥλιον σαῦρον, λέοντα, δράκοντα, ἱέρακα, τὴν δ’Ἑκάτην ἵππον, ταῦρον, λέαιναν, κύνα (E hanno chiamato così questi dei creatori: Artemide lupa, il Sole lucertola, leone, serpente, sparviero, Ecate cavalla, toro, leonessa, cagna).

Dal contesto è indubbio che ogni epiteto divino è in relazione con i pregi di ciascun animale. Si sa, poi, che nel passaggio dal mondo pagano a quello cristiano molti di questi animali per lungo tempo nei bestiari medioevali ebbero una posizione ambigua (lo stesso animale poteva simboleggiare una virtù o un vizio), terreno che preparò, poi, fra l’altro, i significati legati alla sfera sessuale di vacca, lupa, cavalla, troia e chi più ne ha più ne metta. Ricordo che un altro epiteto di Ecate era Τριοδῖτις (leggi Triodìtis=venerata nei trivi) e che la sua omologa romana era Trivia (protettrice della prostituzione sacra). Nell’iconografia Ecate è spesso rappresentata con tre teste (cane, serpente e cavallo) e con una torcia in mano (era una divinità psicopompa e la torcia le serviva per accompagnare anche i vivi nel regno dei morti).

Detto questo, ritengo utile ribadire, nonostante alcuni si siano spinti, partendo dalla prostituzione rituale che veniva praticata in apposite edicole in prossimità di crocicchi, a tal punto da collegare la torcia con i moderni fuochi con cui le passeggiatrici cercano di mitigare il freddo della notte (!), che nulla autorizza ad attribuire a cavalla l’interpretazione maliziosa che trova il suo peggior acme maschilista nella locuzione correre la cavallina o nella voce neretina spuddhitrina, per la quale chi ne ha voglia può approfondire in https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/08/22/il-centauro-e-la-spuddhitrina/.

Ho detto prima che ἵππα o ἵππη come nomi comuni non sono attestati, ma come nomi propri sì.

Antipatro di Sidone (II secolo a. C.), Antologia Palatina, VI, 276: Ἡ πολύϑριξ οὔλας ἀνεδήσατο παρϑένος Ἵππη/χαίτας, εὐώδη σμηκομένα κρόταφον·/ἤδη γάρ οἱ ἐπῆλθε γάμου τέλος· αἱ δ’ἐπὶ κουρῇ/μίτραι παρθενίας αἰνέομεν χάριτας./Ἄρτεμι, σῇ δ’ἰότητι γάμος θ’ἅμα καὶ γένος εἴη/τῇ Λυκομηδείου παιδὶ λιπαστραγάλῃ (La vergine Ippe dalla folta chioma ha legato i ricci capelli dopo essersi profumato le tempie; infatti  è giunto ormai il tempo delle nozze e noi bende poste sull’acconciatura lodiamo le grazie virginali. O Artemide, grazie a te ci siano nello stesso tempo nozze e prole per la figlia di Licomedido che ha finito di giocare con gli ossicini).

Detto che gli ossicini sono gli astragali, strumento dell’omonimo gioco (vedi in https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/23/quando-il-rohlfs-inciampo-in-un-sassolino-del-salento/), mi pare che il brano sia un omaggio alla semplice grazia della ragazza, un tributo puro all’autentica bellezza (che si nutre sempre di qualcosa che travalica, pur non escludendola a priori, la semplice carnalità), che qui esclude totalmente qualsiasi implicazione di natura erotica.

Proclo (V secolo d. C.)  ) nel suo Commento al Timeo di Platone II, 124 C-D (cito dall’edizione a cura di Chr. Schneider, Trewendt, Bratislava, 1847, pp. 292-293): Ἡ γὰρ Ἵππα τοῦ παντὸς οὗσα ψυχὴ καὶ οὕτω κεκλημένη παρὰ τῷ θεολόγῳ τάχα μὲν ὅτι καὶ ἐν ἀκμαιοτάταις κινήσεσιν ἐννοήσεις αὐτῆς οὐσίωνται, τάχα  δὲ καὶ διὰ τὴν ὀξυτάτην τοῦ παντὸς ϕορὰν, ἧς ἐστίν αἰτία, λίκιον ἐπὶ τῆς κεφαλῆς θεμένη καὶ δράκωντι αὐτὸ περιστρέψασα τὸ κραδιαῖον ὑποδέχεται Διόνυσον (Ippa, che era l’anima di ogni cosa e che era chiamata così da chi degli dei se ne intendeva probabilmente perché i suoi pensieri si realizzano in opportunissimi movimenti, forse anche per la splendido movimento di tutto, di cui è causa, tenendo sulla testa una benda e dopo aver attorcigliato lo stesso ramo di fico ad un serpente, accoglie Dioniso).

Va detto che questo brano ci è giunto con un numero notevole di varianti e di probabili interpolazioni che, però, non intaccano minimamente la sostanza: Ippa è una ninfa e la doppia etimologia del nome fornita, sia pure in forma dubitativa, da Proclo esclude, secondo me, qualsiasi interpretazione maliziosa che pure, la devozione della ninfa a Dioniso, dio della sfrenatezza, avrebbe potuto propiziare.

Ritornando per l’ultima volta all’avverbio εὖ va detto che esso costantemente entra solo nella formazione di aggettivi, come in εὔπους (leggi èupus)=dal piede agile (e non piede agile). Attenzione a non farsi trarre in inganno da sostantivi come εὐθανασία (leggi euthanasia)=facile (o dolce) morte! Infatti questa voce non nasce dalla fusione di εὖ e di un θανασία che in greco non esiste, ma è derivato dall’aggettivo εὔθάνατος (leggi euthànatos)= di bella morte (e non bella morte), composto da εὖ e θάνατος=morte. Lo stesso processo costantemente si ripete in tutti i sostantivi che hanno εὖ come primo componente. Ne consegue che il nome della nostra eroina per significare bella cavalla  avrebbe dovuto sviluppare una probabile forma, (derivata dall’aggettivo εὔιπποςΕὐίππίη o Εὐίππία. D’altra parte, chi si sognerebbe di interpretare bel cavallo l’omerico Εὔιππος citato nel post madre?  

E, infine, un riferimento all’etimologia appena indicata è presente in Vicolo Cavallerizza, non a caso vicinissimo a Via Euippa.

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1 Ne approfitto per aggiungere altre testimonianze correlate omesse per brevità nel post-madre:

Polibio (II sec. a. C.), Historiae, II, 24, 10-12: Καταγραφαὶ δ᾽ ἀνηνέχθησαν᷾ Λατίνων μὲν ὀκτακισμύριοι πεζοί, πεντακισχίλιοι δ᾽ ἱππεῖς, Σαυνιτῶν δὲ πεζοὶ μὲν ἑπτακισμύριοι, μετὰ δὲ τούτων ἱππεῖς ἑπτακισχίλιοι, καὶ μὴν Ἰαπύγων καὶ Μεσσαπίων συνάμφω πεζῶν μὲν πέντε μυριάδες, ἱππεῖς δὲ μύριοι σὺν ἑξακισχιλίοις, Λευκανῶν δὲ πεζοὶ μὲν τρισμύριοι, τρισχίλιοι δ᾽ ἱππεῖς, Μαρσῶν δὲ καὶ Μαρρουκίνων καὶ Φερεντάνων, ἔτι δ᾽ Οὐεστίνων πεζοὶ μὲν δισμύριοι, τετρακισχίλιοι δ᾽ ἱππεῖς (Furono redatte le liste: di Latini  ottantamila fanti e cinquemila cavalieri; di Sanniti settantamila fanti e settemila cavalieri; di Iapigi e Messapi  insieme cinquantamila fanti e sedicimila cavalieri; di Lucani trentamila fanti e tremila cavalieri; di Marsi, Marrucini e Frentani e pure Vestini ventimila fanti e quattromila cavalieri).

Festo (II secolo d. C.), frammento del De verborum significatione tramandatoci nell’epitome che dell’opera fece Paolo Diacono nel secolo VIII  d. C.: Multis autem gentibus equum hostiarum numero haberi testimonio sunt Lacedaemoni, qui in monte Taygeto equum ventis immolant, ibidemque adolent, ut eorum flatu cinis eius per finis quam latissime differatur. Et sallentini, apud quos Menzanae Iovi dicatus vivus conicitur in ignem (Che poi il cavallo presso molte genti sia tenuto nel novero delle vittime sacrificali lo testimoniano gli Spartani che sul monte Taigeto immolano un cavallo ai venti e lì lo bruciano in modo che col loro soffio la sua cenere si sparga quanto più ampiamente è possibile per i territori. E i Salentini, presso i quali un cavallo consacrato a Giove Menzana viene gettato vivo nel fuoco).

2 Eschilo (VI-V secolo a. C.), Persiani, v. 302; Erodoto (V secolo a. C.), Storie, I, 80, 2; etc., etc.

3 Eliano (I-II secolo d. C.), De natura animalium, IV, 11: Μόνας ἀκούω τῶν τὰς ἵππους καὶ κυούσας ὑπομένειν τὴν τῶν ἀῤῥένων μίξιν· εἶναι γὰρ λαγνιστάτας· διὰ ταῦτα τοι καὶ τῶν γυναικῶν τὰς ἀκολάστους ὐπὸ τῶν σεμνοτέρως αὐτὰς εὐθυνόντων καλεῖσθαι ἵππους (Vengo a sapere che le cavalle sole tra gli animali anche se sono incinte accettano l’accoppiamento con i maschi e che sono infatti le più lascive; che certamente anche per questo le più dissolute delle donne sono chiamate cavalle da coloro che le biasimano in modo piuttosto delicato).

Lascio immaginare quali sarebbero gli epiteti meno delicati. Riporto cosa, a proposito di questo significato di ἡ ἵππος, quello che qualsiasi studente di liceo classico trova in un vocabolario greco antico-italiano, se ancora si usa e lo si sa usare. Nel Rocci si legge: “cavalla, donna scostumata”; nel Montanari: “fig. di donna dissoluta, vacca, troia”. Ho citato fedelmente, scelte grafiche dei caratteri comprese; il lettore noterà la maggiore crudezza di linguaggio del più recente Montanari, cosa che è nello stesso tempo spia dell’evoluzione del linguaggio ma anche dei costumi. C’è, infatti, una bella differenza tra donna scostumata da una parte e troia, vacca dall’altra, slittati nell’uso corrente dal significato di donna dissoluta a quello di prostituta. Ancora un passo ed anche chi è affetta da ninfomania verrà bollata come prostituta, nonostante non ci sia in ballo il denaro o un qualsiasi compenso e nonostante la prostituta, non sia tale per semplice piacere. Che sia un ragionamento maschilista credo sia fuor di dubbio e il brano di Eliano nel tratto finale con quel σεμνοτέρως (=in modo piuttosto delicato) dimostra pure quanto esso sia datato, anche se per trovare il limite estremo bisognerebbe, molto probabilmente, risalire ad Adamo …

Canti devozionali della Passione di Cristo a Lecce

noisiamolecce2019

a cura dell’Ufficio Pubbliche Relazioni – Conservatorio di Lecce

 

CONCERTO DELLA PASSIONE NELLA TRADIZIONE SALENTINA

“VIA CRUCIS” di SERAFINO MARINOSCI

Lecce – Chiesa di San Matteo

MARTEDÌ 15 APRILE 2014 ORE 20:30

 

GIACOMO LEONE Tenore

EMILY DE SALVE Baritono

CORO DI VOCI BIANCHE “SULL’ALI DEL CANTO”

TINA PATAVIA Maestro del Coro

ORCHESTRA DI FIATI DEL CONSERVATORIO “TITO SCHIPA”

FRANCESCO MUOLO  Direttore

 

Proseguono gli appuntamenti con la musica di alto livello accademico promossi dal Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce. Il nuovo incontro, che si terrà nella magnifica chiesa barocca di S. Matteo in Lecce, martedì 15 aprile 2014 alle ore 20.30, in sintonia con lo spirito e i riti della settimana santa, è affidato alle cure dei giovani talenti Giacomo Leone (tenore) ed Emily De Salve (baritono), affiancati dal Coro di voci bianche “Sull’ali del canto”, preparato dal M° Tina Patavia, e sostenuti dall’Orchestra di Fiati del Conservatorio, per la direzione del M° Francesco Muolo.

15 Aprile

Dedicato al recupero e alla riproposizione dei canti devozionali della Passione di Cristo nella tradizione salentina, il concerto è incentrato sulla “Via Crucis” di Padre Serafino Marinosci e su alcune musiche religiose di tradizione orale legate al Venerdì Santo, espressioni culturali che resistendo al tempo e alle mode ci consegnano l’essenza del divenire umano.

«Tomba che chiudi in seno/ il mio Signor già morto/ finch’Ei non sia risorto/ non partirò da te:/ no! Alla spietata morte/ allor dirò con gloria:/ dov’è la tua vittoria/ dov’è dimmi dov’è!». Al canto di questi versi di Metastasio, Marinosci affidò l’accompagnamento di Gesù al sepolcro «nuovo scavato nella roccia», come narrato nell’ultima stazione della struggente “Via Crucis” composta dal frate minore pugliese intorno al 1895, quale meditazione musicale di alcuni episodi della Passione di Cristo lungo la via dolorosa che separò il Pretorio di Pilato dal Calvario.

Padre Serafino Marinosci (Francavilla Fontana, 1869-Napoli, 1919) mostrò sin dalla tenera età una forte passione per la religione e per l’arte. Frequentò il convento di Santa Maria della Croce in Francavilla Fontana (Br), dove si accostò alla musica grazie agli insegnamenti del maestro Trisolini per l’organo e del maestro Sarago per il violino. Restato orfano d’entrambi i genitori, si diede alla vita monastica entrando nel convento di Galatone (Le) dei Frati Minori Alcantarini, e fu per sempre padre Serafino della Purità. Riprese gli studi musicali a Taranto, dove compose il mottetto “Alla Vergine Desolata” (1894) e la struggente “Via Crucis” per due tenori e basso, con accompagnamento di pianoforte o harmonium. Passato al convento di San Giacomo in Lecce frequentò il corso di armonia col maestro Cazzella, musicista emerito già allievo di Donizetti, e si dedicò alla composizione di Litanie, Messe e Tantum ergo. Quando il 3 marzo 1895 eseguì per la prima volta la sua “Via Crucis” nella monumentale Basilica di Santa Croce in Lecce, la stampa salentina vaticinò che la fama del fraticello avrebbe varcato i confini della natia provincia con quei motivi originali e ispirati che manifestano la purezza e la squisitezza del sentimento religioso del suo autore. Trasferito nel 1899 nel convento di San Pasquale a Chiaia in Napoli, frequentò il Conservatorio di San Pietro a Majella, compiendo studi appassionati e severi di contrappunto e fuga. Acquisita una non comune erudizione scientifico-estetica nella sublime arte dei suoni, con i maestri Oronzo Scarano, Nicola D’Arienzo e Paolo Serrao, Padre Serafino compose oltre quaranta opere, alcune delle quali restano esempi di genialità e dottrina, come la meravigliosa “Missa pro pace” e la “Messa di reque” a due voci eguali (1908). La morte lo colse a Napoli il 21 novembre 1919 mentre istrumentava la “Messa pastorale”.

 

Il CORO DI VOCI BIANCHE “Sull’ali del canto” del Conservatorio “T. Schipa” di Lecce è nato per espresso desiderio del Direttore M° Pierluigi Camicia nell’anno 2008, e affidato per la realizzazione alla professoressa Tina Patavia, la quale con grande entusiasmo e passione ne ha curato la nascita e l’ulteriore crescita. Il Coro è formato per lo più da bambini delle scuole elementari e medie del territorio scelti al fine di educarli all’utilizzo del canto e della musica. In alcune occasioni il Maestro del coro ha ritenuto opportuno affiancare ai piccoli alcuni brillanti allievi delle classi di Canto del Conservatorio in formazione di Coro Misto. L’attività tutta ha acquistato maggior prestigio avvalendosi inoltre della collaborazione artistica della professoressa Francesca Mammana, valente e poliedrica musicista. Nel corso degli anni il Coro ha partecipato a numerose manifestazioni pubbliche sul territorio pugliese, con grandi consensi di pubblico. Tuttora continua la sua attività con l’approvazione del Consiglio Accademico e dell’attuale direttore M° Salvatore Stefanelli.

 

EMILY DE SALVE, baritono, intraprende lo studio del Canto Lirico nel 2002 sotto la guida del soprano Maria Mazzotta, nella vocalità di sopranista con la tecnica del falsetto rinforzato. Nel 2009 il cambiamento. Dopo l’ammissione al Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce, sotto la guida del M° Maurizio Picconi, scopre la voce baritonale con ottimi risultati. Ha frequentato Masterclass con Giovanna Lomazzi, Astrea Amaduzzi e Mattia Peli. Frequenta il 5° anno di Canto Lirico presso il “Tito Schipa” di Lecce e svolge attività concertistica come solista e corista. In un’audizione a Venezia ha vinto il ruolo di Miss Magen nell’opera “Magen Zeit” del compositore Gabriele Cosmi che debutterà ad ottobre 2014 per il 58° Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia, diretto da Ivan Fedele.

 

GIACOMO LEONE, tenore lirico, nasce a San Pietro Vernotico nel 1988. Sin dagli anni del Liceo Classico inizia a studiare Canto Lirico e dopo il diploma intraprende la carriera universitaria laureandosi in Scienze dei Beni Musicali presso l’Università del Salento. Nel 2009 entra a far parte del Coro stabile dell’Università e dal 2012 è allievo del corso di canto del Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce. Frequenta Masterclass con docenti del calibro di E. Dundekova e E. Erlingsdotter. Il 5 aprile 2013 è comparsa nell’opera “800. L’assedio di Otranto” del M° F. Libetta, messa in scena presso i Cantieri Teatrali Koreja di Lecce e, al contempo, si esibisce in Galà lirici tenutisi nel capoluogo leccese.

 

FRANCESCO MUOLO ha iniziato giovanissimo lo studio della musica seguendo i corsi di Pianoforte e Canto e diplomandosi brillantemente in Musica Corale e Direzione di Coro, Strumentazione per Banda, Direzione d’Orchestra, Composizione. È, inoltre, laureato, con il massimo dei voti, lode e menzione speciale in Discipline Musicali presso il Conservatorio “Niccolò Piccini” di Bari. Ha frequentato i corsi di Composizione Polifonica con i maestri D. Bartolucci e V. Miserachs e di Canto Gregoriano con B. Baroffio presso l’Istituto Pontificio di Musica Sacra nella Città del Vaticano. Partecipa a numerosi corsi di Direzione d’Orchestra con importanti maestri quali: B. Aprea, H. Samale a Roma e Duarte a Molfetta (Ba). A Orvieto, presso il Teatro “Mancinelli”, frequenta la scuola di Direzione d’Orchestra di B. Rigacci ed è scelto quale migliore corsista per la direzione dell’opera “Il Tabarro” di G. Puccini. Ha diretto, inoltre, diverse Formazioni Sinfoniche e Liriche, tra cui l’Orchestra della Provincia di Bari. Ha diretto nella città di Bari l’opera “L’elisir d’amore” di G. Donizetti nell’ambito delle esercitazioni della classe di Direzione d’Orchestra riscotendo importanti e concordi favori. Ha fondato e diretto l’Orchestra da Camera “G. Insanguine” di Monopoli riscoprendo i tesori della musica settecentesca ottenendo numerosi consensi di critica e di pubblico. Ha diretto i maggiori complessi bandistici pugliesi quali: “Gennaro ed Ernesto Abbate” di Squinzano (Le), Città di Noci (Ba), Filarmonica Salicese di Salice Salentina (Le). Alterna all’attività direttoriale anche quella di compositore. Ha al suo attivo diverse composizioni che spaziano dal genere sacro (messe e mottetti) a quello lirico-sinfonico e a quello per orchestra di fiati. Un suo brano, dal titolo “Il circo” per Symphonic Band, è stato eseguito nel maggio del 2007 presso il Palazzo dei Celestini, sede della Prefettura di Lecce, in occasione della Festa della Polizia. La sua operetta “Ghetonia”, su libretto di G. Palasciano, è stata scelta come il lavoro più rappresentativo della cultura italiana, in particolare della cultura salentina, in un progetto Interreg tra Provincia di Brindisi e Prefettura di Corfù, e rappresentata, in collaborazione con l’Orchestra del Conservatorio “T. Schipa” di Lecce, in diversi teatri pugliesi ottenendo lusinghieri risultati. Su richiesta del comitato “Un cordone per la vita” ha musicato per soprano e orchestra la poesia “Il gelsomino notturno” di G. Pascoli, brano eseguito nell’ottobre del 2008 al Teatro Politeama Greco di Lecce in occasione di una serata di solidarietà a favore della citata associazione con unanimi consensi. È autore, inoltre, di diversi testi didattici editi da case editrici pugliesi: “Vivere in” di Monopoli e “Papageno” di Bari. Attualmente frequenta l’Accademia di S. Cecilia a Roma e si perfeziona in Composizione con il M° Luciano Pelosi. È docente di Strumentazione e Composizione per orchestra di fiati per banda presso il Conservatorio “T. Schipa” di Lecce.

 

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