di Alfredo Romano
Quando nel 1965 la mia famiglia emigrò a Civita Castellana per la coltivazione del tabacco, per 10 lunghi anni conducemmo una vita di fatica e di disagi in terra “straniera”. Eppure, malgrado tutto, ci fu una cosa che riuscì a mitigare il nostro esilio: la cucina di mia madre Lucia. Cucina salentina per intenderci, quando ancora non andava di moda. Mamma con niente ti approntava dei piatti il cui profumo faceva svenire chiunque si trovasse dalle parti del nostro casale di campagna. Tutto ciò che passava per le sue mani: carni, pesci, verdure, legumi, ecc., si trasformava in una leccornia da leccarsi le dita. Prendete la cosa apparentemente più semplice, il sugo di pomodoro. Bene, per quanti sughi in vita mia abbia assaggiato a destra e a manca, quello di mia madre “parlava alla storia”, tanto per usare un’espressione di mio padre Giovanni. Non per niente quando a Collemeto arrivava il vescovo in visita pastorale, don Salvatore a volte chiamava volentieri mia madre per un pranzo degno della circostanza.
C’era addirittura un cugino di Collemeto che ogni anno, quando alla fine d’agosto rientrava in Germania, dove gestiva un ristorante, si premurava di far incetta di pesce a Gallipoli, cautelandolo con del ghiaccio, e, anziché prendere la direzione dell’Adriatica per il Brennero, si dirigeva sulla Bari-Napoli per Civita Castellana. Il motivo?: farsi cucinare la zuppa di pesce da mia madre. Era un cuoco mio cugino, ma per la zuppa di mia madre sarebbe andato in capo al mondo.
Per non dire dei miei amici che, quando si trovavano a pranzo a casa mia, scoprivano sapori e piatti così particolari che speravano sempre di tornarci. Si può ben dire che la nostra cucina salentina sia stata motivo di scambio culturale con la gente del luogo.
Ecco, debbo dire che quando mamma era indaffarata in cucina, io ero lì curioso e osservavo, rubavo, per così dire, i “segreti” della sua arte. Intanto imparai a fare col ferro squadrato li maccarruni fatti ‘ccasa, li pizzarieddhi e le sagne nturcinate e quindi il sugo di pomodoro, i legumi alla pignata, le verdure che dovevano uscire dall’acqua tise tise (un po’ durette) e cotte a pentola scoperta (se mputtanìscianu senò, diceva mamma). E poi gli arrosti alla brace (specialista qui era papà Giovanni), li pampasciuni, le ulìe sotta sale, le lumache (marruchi e cozze pinte, giacché qui sono rarissime le municeddhe), le cicureddhe, le paparine, li zzanguni, le rape creste, li fungi, gli umidi di carne e di pesce, le cozze di mare ripiene, le fritture, lu stanatu te patate, l’ove e li pummitori schiattarisciati, li gnumarieddhi, detti anche mboijcàte o nturcinieddhi, li purceddhuzzi, le carteddhate, le pittule cu lu cottu, eccetera eccetera.
Ma arrivò il momento in cui i miei genitori decisero di tornare a Collemeto (ormai noi figli eravamo economicamente indipendenti) e, con mamma, se ne partirono anche i suoi bei manicaretti. Ma, fortunatamente, avevo fatto in tempo a ereditare qualcosa che per me è valso più di mille palazzi: il “mestiere” di cucinare. Sicché la mia tavola è sempre stata circondata da amici, e, se c’è una cosa che più di tutti manda in solluchero i commensali che cos’è?: li gnumarieddhi! Forse è il piatto più caratteristico del Salento da offrire a un ospite. Per prepararlo, però, ci vuole tempo e… fortuna.
La fortuna è quella di abitare da 30 anni e più in una vecchia casa di