di Armando Polito
Se il presente e il passato propriamente detti hanno forme in tutto parallele a quelle italiane, il presente e il passato continuato se ne differenziano totalmente.
Diciamo, intanto, che in italiano il presente ed il passato continuato sono forme perifrastiche costituite dal presente o imperfetto del verbo stare+il gerundio del verbo principale, sicché per il verbo fare la prima persona singolare del presente indicativo continuato è sto facendo e del passato continuato stavo facendo.
In italiano, dunque, il secondo componente è il verbo principale coniugato al gerundio.
Le forme corrispondenti in neretino sono sta ffazzu per il presente continuato e sta ffacìa per il passato, sempre continuato.
Nel neretino, dunque, il primo componente (sta) è fisso nell’uno e nell’altro nesso, il secondo è il verbo principale al presente (ffazzu) o all’imperfetto (ffacìa). Che sta sia invariabile lo dimostrano, per esempio, tutte le altre persone (sta ffaci/sta ffacìì; sta fface/sta ffacìa; sta ffacìmu/sta facìamu; sta facìti/sta facìi; sta fannu/sta ffacìanu). Insomma, una situazione inversa rispetto all’italiano, in cui fisso rimane il secondo componente, cioè il gerundio.
Come spiegare lo sta neretino?
Una prima ipotesi mi porterebbe a supporre che nel nesso sia sottinteso un che; e qui le cose si complicano perché questo che potrebbe avere un valore dichiarativo e conferire a sta un valore impersonale (lo stesso che il verbo avere assume nel francese il y a tradotto con c’è): come se in italiano dicessi: (la situazione) sta (in modo che) faccio.
Una seconda ipotesi mi spingerebbe ad attribuire al che (sempre sottinteso) un valore dichiarativo soggettivo, come se in italiano dicessi: (il fatto che) faccio sta.
Mi si potrebbe obiettare: nell’uso normale la terza persona singolare del presente indicativo di stare a Nardo è stàe. Ma sta si usa nel Leccese ad Aradeo, Galatina, Taviano e nel Brindisino a Brindisi e Mesagne; la forma, perciò, potrebbe essere stata importata o adattata al costrutto particolare.
Quanto alle due ipotesi: sarà che ne sono il padre, ma non ho una particolare preferenza né per l’una né per l’altra.
È tempo, dopo il passato e il presente, di pensare al futuro. Questo non esiste, almeno nella forma organica dell’italiano. Il neretino, invece, si serve del presente propriamente detto o di quello progressivo, di cui si è appena parlato, con l’aggiunta di un avverbio (questo sì semanticamente proiettato nel futuro): crai fazzu lu pane (alla lettera: domani faccio il pane) oppure crai sta ffazzu lu pane (domani farò il pane: alla lettera: domani sto facendo il pane); un’altra tecnica di formazione prevede l’uso del verbo abbìre (=avere) con connessa idea del dovere: àggiu ffare=ho (da) fare.
Nei fenomeni oggi passati in rassegna è il presente, comunque a farla da padrona, comparendo come verbo della proposizione principale in tutti gli esempi riportati. È da vedere in questo una nota psicologica di esorcizzazione di un triste, come il nostro lo è per certi aspetti, passato (e in questo un fenomeno parallelo, sia pure con trasposizione temporale opposta, al passato continuato sarebbe l’uso, per la verità non molto frequente a Nardò, del passato remoto invece del passato prossimo) e come anticipazione scaramantica di un futuro che, per defizione, è incerto? La risposta la lascio all’esperto di psicolinguistica.