Iconografia di S. Lorenzo da Brindisi

di Armando Polito

Nel recentissimo post Lorenzo da Brindisi e la battaglia di Albareale (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/12/04/91499/) proprio all’inizio viene citato il nome di Alberto Del Sordo che in un suo scritto del 1959 ebbe a rilevare come l’iconografia laurenziana rappresenta molto spesso San Lorenzo da Brindisi sul campo di battaglia mentre incoraggia i Cristiani  a combattere contro l’esercito ottomano. Purtroppo non sono riportati gli estremi bibliografici del saggio che, tuttavia, credo sia Il più illustre cittadino di Brindisi, Grafiche Milillo, Bari, 1958 (ristampato per i tipi di Schena a Fasano nel 1989).

Dopo questa precisazione bibliografica della quale attendo conferma dall’autore del post, non intendo certo contestare l’affermazione dell’autore del libro per un motivo semplicissimo: non mi è stato possibile, finora, leggerlo. Avendo, però, nelle mie scorribande in rete messo da parte una cospicua serie di immagini del santo, con l’intento di sfruttarle con un apposito post il 21 luglio p.v., non mi è sembrato fuori luogo anticipare i tempi inserendole  di seguito ad integrazione, spero gradita, del post stesso,

Da Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli,  Gervasi,  tomo XI, 1826 (incisione di G. Morghen)

Da http://www.esbirky.cz/predmet/178249

Da http://depot.lias.be/delivery/DeliveryManagerServlet?dps_pid=IE4885278 

Da http://www.europeana.eu/portal/it/record/92062/BibliographicResource_1000126199225.html

Da http://www.europeana.eu/portal/it/record/92062/BibliographicResource_1000126199232.html

Da https://wellcomeimages.org/indexplus/image/V0033323.html (incisione di G. Baratti; vedi la prima del Morghen)

Da http://www.portraitindex.de/documents/obj/33912388/co-xii-208-139

Da http://www.europeana.eu/portal/it/record/92062/BibliographicResource_1000126199229.html

Da http://www.europeana.eu/portal/it/record/92062/BibliographicResource_1000126146603.html

Da http://www.europeana.eu/portal/it/record/92062/BibliographicResource_1000126199232.html

Da http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000132424

Da http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000172256 

Da Angelo Maria De Rossi, Vita del Ven. P. Lorenzo da Brindisi, Bernabò, Roma, 1710   

Un “bestiario” medievale sulle antiche travi della Cattedrale di Nardò (3)

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particolare di disegni rilevati da Primo Panciroli sulle travature della cattedrale di Nardò

di Marcello Gaballo

 

Le decorazioni e il bestiario medievale

 

Dall’osservazione delle diverse figurazioni è risultato come esse non siano state eseguite casualmente, per soli fini ornamentali, rivelando invece una struttura quanto mai affascinante e ricca di significati. Nel groviglio di immagini, simboli e personaggi, almeno per quanto ci è pervenuto e ci è dato ancora di notare sulle travi superstiti, risaltano motivi zoomorfi e fitomorfi che ebbero una grande diffusione nelle arti medievali, ben rispondenti alle esigenze di un mondo imbevuto di simbolismo, carico di allusioni e di mistero, che fece larghissimo uso della carica espressiva dell’allegoria.

Le nostre figurazioni non possono allora immaginarsi come frutto esclusivo di cultura locale, evidentemente insolite e troppo originali per essere ritenute semplice esercizio di fantasia. Quando si voglia dare un senso a quell’intercalarsi di figure, stemmi, gigli, foglie d’acanto, formelle, archi o ellissi, occorre immaginarli parti di un più grandioso racconto pittorico che doveva conferire particolare suggestione all’edificio.

La spiritualità dei monaci che lo commissionarono e poi custodirono certamente ha dovuto influire sull’artista, monaco o mercenario, indigeno o forestiero, probabilmente siciliano[1].

è possibile che a progettare l’impianto decorativo sia stato lo stesso abate Bartolomeo, visto che “gli abati erano coinvolti in prima persona, non solo come committenti o promotori, nella produzione artistica” e tenendo conto pure che per i benedettini «l’esercizio delle arti rientra negli instrumenta artis spiritualis elencati dalla Regola, è otium laboriosum contro i rischi del taedium»[2].

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particolare di disegni rilevati da Primo Panciroli sulle travature della cattedrale di Nardò

La chiave del linguaggio simbolico racchiuso nelle nostre figurazioni l’abbiamo trovata nei “bestiari”[3], specie di enciclopedie didattico-morali manoscritte che tanta fortuna ebbero nel Medioevo, a partire dal secolo XII, nei quali erano adombrati non solo i vizi e le virtù degli uomini, ma anche i loro rapporti con Dio e con la Chiesa. In essi, così come negli erbari e lapidari, «…tutto si voleva rivestire di significati riposti, desunti, o dalla etimologia dei vocaboli, o dalle particolari proprietà delle cose prese in esame, all’unico scopo di soddisfare l’ossessionante desiderio di ammaestramento morale che pervade l’intera classe dei dotti, siano essi religiosi o semplicemente laici»[4].

«… È “muta predicazione”, secondo la definizione di Pietro il Venerabile, abate di Cluny, e sospinge con la sua bellezza visibile verso l’invisibile»[5]. Non c’è dunque una descrizione fisica degli animali, tra l’altro numerosi sono quelli inesistenti, che invece offrono il pretesto per ricavare da essi un insegnamento morale e scoprirvi precetti della dottrina cristiana e modi per giustamente relazionarsi col Creatore.

Oltre ai testi sacri[6] ebbe un ruolo fondamentale per l’iconografia e iconologia degli animali nell’arte medievale il Physiologus, un trattato di storia naturale moralizzata in quarantotto capitoletti, composto alla fine del II secolo da un ebreo anonimo di Alessandria convertitosi al cristianesimo[7]. Noto in più varianti e traduzioni latine, il trattato conobbe notevole diffusione nel Medioevo, e molte opere successive si rifecero a quello.

In epoca carolingia i testi del Physiologus si arricchirono di particolari estratti da altre opere, specialmente le Etymologiae del vescovo di Siviglia Isidoro (560-636)[8] e l’Hexaemeron di sant’Ambrogio, il commento ai sei giorni della creazione del mondo, preparando così l’apparizione dei bestiari, i cui primi esempi conosciuti risalgono alla prima metà del sec. XII[9].

Dal Physiologus e dai bestiari trasse poi ispirazione l’imponente plastica architettonica delle chiese romaniche e poi gotiche con miriadi di animali apparsi su campanili, absidi, facciate, archi, basi di colonne e capitelli, amboni, stalli, codici. Di tali testimonianze ritroviamo frequentissimi esempi in svariati edifici sacri europei: Cluny, Reichenau, Montecassino, Assisi, Modena, Pisa, Siracusa e Palermo. Anche la Puglia ne è ricchissima e valgano fra tutte le sculture di san Leonardo di Siponto e di san Benedetto a Brindisi, delle cattedrali di Bari, Bitonto, Trani, Troia, Ruvo e Giovinazzo.

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particolare di disegni rilevati da Primo Panciroli sulle travature della cattedrale di Nardò

Ci è piaciuto riprendere un esempio dal Bestiario Moralizzato di Gubbio[10], uno dei tanti, per comprendere quale fosse il modo di descrivere l’animale e quali proprietà gli fossero attribuite.

La descrizione riguarda la manticora, un essere ibrido dal volto umano e col corpo di leone, che è raffigurato anche nelle nostre travi:

 Manticora

Una fera manticora kiamata

pare d’ omo et de bestia concepta,

però k’ a ciascheduno è semegliata

e carne umana desia e afecta.

 

Ane una boce bella e consonata

nella quale ki l’ ode se delecta:

a lo nemico pare semeliata

ke, variando, nell’ anima decepta.

 

Semiglia ad omo per demostramento,

kè, volendo la gente a sè trare,

fasse parere angelo de luce,

 

a bestia k’ è in reo delectamento:

fa ki li crede tanto delectare,

k’ a la dannatione lo conduce.

 

Alla manticora si affiancano diversi altri animali reali o immaginari quali l’Agnus Dei, la colomba, il leone di san Marco, il corvo di san Benedetto, la iena, il leopardo, l’aquila e tanti altri a chiave meno esplicita.

Tra gli animali carnivori prevalgono sicuramente il leone ed il grifone, tra i volatili l’aquila, tra i rettili il serpente ed il basilisco, spesso varianti dell’immagine del drago.

basilisco
basilisco

Il leone, il più forte tra tutti gli animali, nel Medioevo simbolizza la Resurrezione perché, quando i suoi piccoli nascono, giacciono come morti per tre giorni e la vita non entra in loro finchè il padre non aliti sul loro muso: «la voce sonora del leone, ne gli orecchi loro inalzata, non serve che per cavargli dall’ombre, nelle quali si trovavano sopiti, ed obbligargli a svegliarsi, e goder la chiarezza della luce»[11]. è ancora l’Apocalisse ad indicare in questo animale un simbolo di Cristo: «Colui che si chiama Leone della tribù di Giuda e Germoglio di Davide ha vinto la sua battaglia» (Ap 5,5).

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Come altri animali del bestiario esprime esso duplici connotazioni, positive e negative. I leoni stilofori che dovevano ornare il protiro della nostra cattedrale, e di cui non resta più alcuna traccia, o quelli ancora visibili ai lati del portale della chiesa del Carmine, per la loro funzione di custodia e di difesa dell’edificio sacro senz’altro avevano una valenza positiva. Lo stesso non può dirsi quando essi sono associati alla figura del telamone o quando vengono schiacciati da possenti opere in muratura, come si vede in alcuni altari della stessa cattedrale o ancor meglio nel cinquecentesco cenotafio dei duchi Acquaviva nella chiesa di sant’Antonio, chiara allusione del male schiacciato dal bene.

Sugli altri animali, numerosi nelle tavole di cui ci interessiamo, svariate sono anche le figure geometriche, come pure le ricorrenti rappresentazioni in coppia di leoni, grifi e draghi. è evidente, anche dall’osservazione diretta di quanto è sopravvissuto, l’ordine delle figure, che sembrano disposte con logica e si evidenzia una ricerca di eleganza.

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[1] Nell’isola è ampiamente documentata la tradizione artistica di dipingere i soffitti lignei, tra i quali in special modo il soffitto dello Steri di Palermo.

[2] G. Orofino, in Enciclopedia dell’ Arte Medievale, III, 347.

[3] Il termine è stato fatto derivare dalla frase iniziale di un capitolo delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia, di cui si dirà dopo.

[4] De Bernardi, Disegno Storico della Letteratura Italiana, 26.

[5] Orofino, in Enciclopedia dell’ Arte Medievale, III, 348.

[6] Dall’Antico Testamento si ricavano due generi distinti di classificare gli animali. In Genesi 1,20-25 sono divisi a seconda del comportamento e dell’habitat naturale, ma più interessante appare la suddivisione in animali puri e impuri, che è presentata in Levitico 11 e Deuteronomio 14, 3-20 su base moralistica, prima ancor che igienica. Nel Nuovo Testamento viene abolita la distinzione tra animali puri e impuri, mantenendosi però una valenza negativa in chiave demoniaca, come per il serpente. Assumono particolare rilievo l’agnello e la colomba, che con il pesce, assumono estrema importanza nel simbolismo dell’arte cristiana (Enciclopedia dell’ Arte Medievale, II, s.v. “Animali”; Maspero- Granata, Bestiario medievale, Piemme, Casale Monferrato 1999, soprattutto 6 e segg. per la suddivisione in classi degli animali nella Bibbia).

[7] Per la descrizione di alcuni dei bestiari, conservati in Francia e Inghilterra, cf. A. Payne, Medieval Beasts, British Library, London 1990, 12-16; S. Panunzio, Bestiaris, voll. 2, Editorial Barcino, Barcellona 1963, I, 197-210, con ampia bibliografia; F. Zambon (a cura di), Il Fisiologo, Adelphi, Milano 1982, particolarmente 17-32; N. Pice, A proposito dei “bestiari fantastici” delle Cattedrali, in Studi Bitontini, Bitonto 1995, 77-88; F. Mezzalira, Bestie e bestiari, Allemandi, Torino 2001.

[8] Opera in 20 libri, la cui principale fonte fu soprattutto Plinio il Vecchio (c. 23-79 d. C.) per la cui descrizione si rimanda a P. Castelli, Alcuni appunti sulle Etymologiae di Isidoro di Siviglia, in Iconografia di San Benedetto, 355-358.

Nell’opera gli animali vengono divisi in 4 classi: i quadrupedi, che vivono in terra e distinti in animali utili all’uomo e bestie crudeli e feroci; gli uccelli, che vivono nell’aria, pesci, che vivono nell’acqua, e rettili, che strisciano sulla terra.

[9] Una rassegna cronologica delle opere più importanti che affiancarono il Physiologus è riportata in I. Malaxecheverrìa, Bestiario Medieval, Ediciones Siruela, Madrid 1986, XII-XXI, tra le quali la Naturalis Historia di Plinio, il Liber monstruorum de diversis generibus (sec. VI), lo Speculum naturale di Vicenzo de Beauvais (+1264), il bestiario di Filippo e Thaun (XII sec.), il bestiario latino conservato nella biblioteca di Cambridge, quello di Guillaume le Clerc (1210), Il Tesoro di Brunetto Latini (c. 1220-1294), De animalibus di Alberto Magno (c. 1193-1280).

[10] Opera anonima di un italiano del XIV secolo. Contiene sessantaquattro sonetti, ognuno con le diverse proprietà dell’animale da cui si ricava l’insegnamento morale o simbolico.

[11] F. Picinelli, Mondo simbolico formato d’imprese scelte, spiegate, et illustrate, Stamp. Francesco Vigone, Milano 1680, 271.

Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (6/6)

di Armando Polito

È giunto il momento di trarre le conclusioni: la mensola presa in esame simboleggia senz’ombra di dubbio l’Amicizia rivisitata in chiave moderna (vedi motti tradotti), con una raffigurazione sintetica dovuta a motivi tecnici: si fosse trattato di una cariatide e non di una semplice mensola, sarebbe stata certamente più fedele al modello antico.  Da questo punto fermo si dovrà partire qualora si voglia estendere l’indagine ai restanti componenti di questa serie allegorica. E anzitutto, secondo me, l’identificazione successiva dovrebbe riguardare il primo componente della coppia iniziale. Ad intuito direi che proprio questa disposizione a coppie potrebbe tradire una omogeneità tematica, per cui la prima mensola potrebbe anch’essa riferirsi al tema dell’amicizia ed entrambe celebrare l’accoppiata vite e olmo.

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E se la vite non può essere che la seconda figura, chiaramente femminile, la prima sarà l’olmo, chiaramente maschile; un indizio  potrebbe essere ravvisato in quel pezzo di ramo (che in un primo momento, interpretato come un randello, mi ha fatto pensare, in una lettura antitetica della coppia, all’Inimicizia), posato sul cartiglio, sul quale sembra aderire un tralcio che potrebbe essere, stilizzato, di vite, anche se le foglie mi sembrano più vicine proprio a quelle dell’olmo.

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Cosa non darei se fossi in grado di  trasformare tutti questi condizionali in indicativi! Cosa non darei per identificare le restanti figure, anche perché l’impresa appare disperata senza l’aiuto del motto, dettaglio in assenza del quale, onestamente, non sarei giunto alle conclusioni fin qui formulate e, credo, motivate. Eppure, non è azzardato ritenere che l’ingegnere Generoso De Maglie di Carpignano, che tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX trasformò il castello in residenza civile dei Personè (le foto d’epoca in basso, ritrovate nel mio archivio digitale e delle quali, purtroppo, non sono in grado di indicare la fonte, mostrano i lavori in avanzata fase di realizzazione), certamente tenne presente uno o più dei repertori simbologici ricordati. Se questo è accaduto, le ricerche ulteriori non saranno un giocare a mosca cieca …

2

 

E così sono riuscito a chiudere, come avevo iniziato cinque puntate fa, con una banalità. Facile? Sì, ma non quando la cosa, forse, è ricercata …

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/10/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-16/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/11/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-26/

terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/12/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-36/

quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/13/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-46/

quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/19/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-56/

 

Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (5/6)

di Armando Polito

L’iconografia tradizionale si arricchisce di ulteriori riferimenti religiosi cristiani nell’immagine disegnata da Gottofr. Eichler junior facente parte della raccolta pubblicata da Giovanni Giorgio Hertel col titolo Historiae et allegoriae, Ausburg, 1758.

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L’Amicizia ricalca il Ripa (che a sua volta, come abbiamo visto, si era rifatto all’Alciato)  ma l’immagine complessiva conterrebbe secondo la didascalia allusioni alla pacificazione tra i fratelli Giacobbe ed Esaù (Genesi, 33). Io ci vedo pure il cieco ed il paralitico che si aiutano a vicenda (visibili a destra) e, nelle tavola in mano al bambino, le tre Grazie,  dettagli che corrispondono alla penultima ed all’ultima rappresentazione testuale dell’Amicizia nel testo del Ripa e la prima a quella iconografica dell’Alciato dal titolo Mutuum auxilium (Vicendevole aiuto) riprodotta di seguito dalla pag. 16 dell’edizione degli Emblemata, uscita a Parigi per i tipi di Christian Weckel nel 1534.

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Insomma, l’ultima immagine del 1758 sembra riassumere tutti i dettagli delle precedenti rappresentazioni; non manca nemmeno il cuore che aveva fatto la sua comparsa in un repertorio addirittura anteriore a quelli fin qui presi in considerazione: Emblemata di Giovanni Sambuco pubblicato ad Anversa per i tipi di Cristoforo Plantin nel 1564; ne riproduco di seguito  la pag. 16 contenente la scheda Vera amicitia.

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Nonostante questo labirinto di superfetazioni in cui è difficile, anche perché il riferimento alle fonti è piuttosto latitante, distinguere l’autenticodall’inventato1, son riuscito con Holcot ad andare a ritroso nel tempo con certezza fino al XIV secolo e, purtroppo senza riscontri,  al V-VI secolo con Fulgenzio da lui citato.  Per quanto riguarda le raffigurazioni antiche nulla ci è rimasto e per completezza, però, va detto che prima ancora che nel Ripa MORS ET VITA e LONGE ET PROPE sono ricordati anche dal Vasari in Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori, la cui prima edizione uscì a Firenze per i tipi di Torrentino nel 1550 (qui cito dall’edizione Giunti, Firenze, 1568, v. VI, pag. 347): Stravagantemente fu poi l’Amicizia, che dopo loro veniva figurata, percio che questa benche in forma di giovane donna, si vedeva havere di frondi di melagrano, & di Mortella, la nuda testa inghirlandata, con una rozza veste in dosso, in cui si leggeva Mors et vita; & col petto aperto, si che scorgevisi entro il quore si poteva; in cui si vedeva similmente scritto LONGE ET PROPE; portando un secco Olmo in mano da una fresca, & feconda vite abbracciato.

E una conferma temporalmente più vicina a noi si ha pure in quanto si legge in Il Buonarroti, una serie di “quaderni” con articoli di vari autori pubblicati a Roma a cura di Benvenuto Gasparoni  per i tipi della Tipografia delle scienze matematiche e fisiche. Nel quaderno II del Febbraio 1866 in un articoletto a firma del curatore dal titolo La casa di Carlo Lambardo architetto (pagg. 51-53) si legge: … egli (Carlo Lambardo) si fabbricò (a Roma) alcune casette nel rione di Colonna, presso S. Maria in Via. Delle quali una, dove egli si riparava, è ancora in essere, e nell’architrave del portone, scolpito di lettere cave nel traverstino, si legge il suo nome –CAROLUS LAMBARDUS-. Questa, come che piccolina e con pochi ornamenti, sendovi ogni cosa accomodata con arte, e con giudicio, lasciasi guardare con piacere; ed ha due ordini di stanze sopra il basamento, dove da un lato s’apre il portoncino, che volgesi in arco, contrassegnato col n° 50. Sonovi in ciascuno ordine tre finestre, se non che quelle di mezzo sono finte; e nel quadro delle luci si vedono dipinte di buon fresco due figure, tenute in pregio da chi conosce di pittura. Delle quali quella di sotto è fatta per l’Amicizia, che ha nella mano destra un cuore, e si tiene abbracciata con la sinistra ad un albero, cui s’attortiglia una vite, ed una fettuccia le esce dal petto dove è scritto un motto che dice “Longe et prope”.

Lo stesso curatore ci fa sapere che l’architetto morì nel 1620 e, a scoraggiare l’eventuale tentazione che possa cogliere qualche lettore, magari romano,  di individuare questa casa, in nota 1 (la riporto integralmente perché contiene la denuncia di un fenomeno che continua ai nostri giorni) a pag. 53 ecco l’infausto presago messaggio:  Affrettisi chi volesse vedere questa casa del lambardo ancora in piedi, poiché fra pochi giorni sarà atterrata, a quanto si può fare giudicio dal vederla disabitata e lavorarvi dentro i muratori. O quando ci torremo noi questo vitupero da dosso, di distruggere quelle cose, che fanno il grido e la fama della città nostra? La quale non solo di storiche memorie va onorata e degna sopra molte, ma veramente si può dire che dal lato delle arti, sia la scuola e l’esempio del mondo. Se non che continuandoci in questo mal giuoco, non passeranno molte diecine di anni, che a così famos città, non rimarrà che il lustro del nome. Dove qui non mi posso ritenere di ricordare cosa, che mi ha fatto fremere di sdegno: dico del mal governo e del guato che di questi dì si è fatto del palazzetto Amici, già Strozzi, in Banchi Vecchi, delle più belle architetture di Jacopo Sansovino;  dove è stata appiccicata al primo piano una ribalda loggia che lo difforma, e scarpellato di oltre due dita, per racconciarlo, il bugnato rustico del basamento, che ne ha perduto di maestà e di bellezza tanto, che questo solo basterebbe a far testimonio della nostra ignoranza e della nostra ignavia. Ma non intendiamo con queste parole recar onta a quel nobile Signore  che lo fece ristaurare, e vi ebbe bonissima intenzione; se non ch’egli fu mal servito.

(CONTINUA)

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/10/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-16/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/11/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-26/

terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/12/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-36/

quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/13/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-46/

sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/20/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-66/

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1 Non a caso la prima edizione dell’opera del Ripa (1593), di cui si è sopra riprodotto il frontespizio, reca il titolo Iconologia overo descrittione dell’immagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi da Cesare Ripa Perugino, mentre quello dell’edizione uscita a Roma nel 1603 per i tipi di Lepido Facii è Iconologia overo descrittione dell’immagini universali cavate dall’antichità, & di propria inventione, trovate, et dichiarate da Cesare Ripa Perugino, Cavaliere dei Santi Mauritio & Lazaro

Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (4/6)

di Armando Polito

Volendo andare a ritroso nel tempo va aggiunto che il Ripa nello scrivere la scheda relativa all’Amicizia si rifece pure a quanto aveva scritto Robert Holcot (XIV secolo) nel suo In librum sapientiae regis Salomonis praelectiones CCXIII (cito dall’edizione del 1586, s. e., s. l., pag. 731):

Pictura amoris sive amicitia MORALITAS XXVI. Narrat Fulgentius in quodam libro de gestis Romanorum: quòd Romani verum amorem sive veram amicitiam hoc modo descripserunt, scilicet: quod imago amoris vel amicitia depicta erat instar iuvenis cuisdam valdè pulchri, induti habitu viridi. Facies eius et caput discooperta erant sive nudata, et in fronte ipsius erat hoc scriptum: HYEMS ET AESTAS. Erat latus eius apertum, ita ut videretur cor, in quo scripta erant haec verba: LONGE ET PROPE. Et in fimbria vestimenti eius erat scriptum: MORS ET VITA. Similiter ista imago habebat pedes nudos, etc. SEQUITUR MYTHOLOGIAE EXPOSITIO. Ista imago quae depicta erat ad similitudinem hominis iuvenis, in signum: quod verus amor & sincera amicitia non potest diu latere in corde, sed sese extendit in opere exterius: iuxta illud Gregorij: Probatio dilectionis, est exhibitio operis. Erant scripta, hyems & aestas: id est, adversitas & prosperitas, in signum: quod veri amici secreta cordis invicem debent intimare, & necessitates quaslibet alter alteri ostendere: et ideò scriptum est in corde, longè & propè, in signum: quod amicus tantundem diligendus est quando distat, ac si prope existeret. In fimbria scriptum erat, Mors & Vita, in signum: quod verus amor & sincera amicitia senescere non debet, & per consequens in necessitate non deficere, sed semper iuvenescere, & aeque stabilis esse in principio & in fine. Ista imago habebat caput, & faciem discoopertam, in signum: quod verus amor & sincera amicitia non potest diu latere in corde, sed sese extendit in opere exterius: iuxta illud iuxta illud Gregorij: Probatio dilectionis, est exhibitio operis. Erant scripta, hyems & aestas: id est, adversitas & prosperitas, in signum: quod veri amici secreta cordis invicem debent intimare, & necessitates quaslibet alter alteri ostendere: et ideò scriptum est in corde, longè & propè, in signum: quod amicus tantundem diligendus est quando distat, ac si prope existeret. In fimbria scriptum erat, Mors & Vita, in signum: quod verus amor & amicus sincerus debet esse perseverans non solùm in vita praesenti, sed etiam in morte, quae per fimbriam designatur. Item vestis viridis indicat amicitiam semper debere esse recentem & suavem, nulla que temporis diuturnitate tepescentem, & instar hederae sempere virescere, etc. per omnia tempora & loca inseparabiliter amico adhaerere, etc.

Il testo presenta la ripetizione, probabilmente per errore nella trascrizione dal manoscritto, di un lungo periodo. Ne fornisco la traduzione fedele anche perché tale errore non comporta nessuna conseguenza ai fini della nostra ricerca: Rappresentazione dell’amore o amicizia MORALITÀ XXVI. Narra Fulgenzio in un libro sui fatti dei Romani che i Romani descrissero il vero amore o la vera amicizia in questo modo, cioè che l’immagine dell’amore o dell’amicizia era rappresentata a guisa di un giovene molto bello, che indossava una veste verde. Il suo volto e il capo erano scoperti o nudi e sulla sua fronte c’era questa scritta: HYEMS ET AESTAS. Il suo fianco era aperto così che si vedeva il cuore sul quale erano scritte queste parole: LONGE ET PROPE. E sull’orlo della sua veste era scritto: MORS ET VITA. Inoltre questa immagine aveva i piedi nudi, etc. SEGUE L’ESPOSIZIONE DELLA MITOLOGIA. Questa immagine che era rappresentata a somiglianza di giovane uomo simboleggiava che il vero amore e la sincera amicizia non possono a lungo nascondersi nel cuore, ma si mostrano esteriormente in concreto, secondo quel famoso concetto di Gregorio: Prova dell’amore è l’esibizione del concreto1. Era scritto hyems et aestas, cioè avversità e prosperità, a simboleggiare che i veri amici debbono  vicendevolmente comunicare i segreti del cuore e l’uno mostrare all’altro ogni bisogno; e perciò è scritto sul cuore longe et prope , a simboleggiare che l’amico deve essere amato allo stesso modo quando è lontano e quando è vicino. Sull’orlo era scritto mors et vita a simboleggiare che il vero amore e la sincera amicizia non debbono invecchiare, e di conseguenza non venir meno nel bisogno ma sempre ringiovanire ed essere ugualmente stabile all’inizio e alla fine. Questa immagine aveva la testa e il volto scoperti a simboleggiare che il vero amore e la sincera amicizia non possono a lungo nascondersi nel cuore, ma si manifestano esteriormente in concreto, secondo quel famoso concetto di Gregorio: Prova dell’amore è l’esibizione del concreto1. Era scritto hyems et aestas, cioè avversità e prosperità, a simboleggiare che i veri amici debbono  vicendevolmente comunicare i segreti del cuore e l’uno mostrare all’altro ogni bisogno; e perciò è scritto sul cuore longe et prope , a simboleggiare che l’amico deve essere amato allo stesso modo quando è lontano e quando è vicino. Sull’orlo era scritto mors et vita a simboleggiare che il vero amore e l’amico sincero devono essere perseveranti non solo nella vita presente ma anche nella morte, che è simboleggiata dall’orlo della veste. Inoltre la veste verde indica che l’amicizia deve essere sempre vigorosa e dolce, non intiepidita dal trascorre del tempo e sempre verdeggiante come l’edera e per ogni tempo e luogo essere unita inseparabilmente all’amico etc.

L’etc. che chiude il passo  di Holcot ci autorizza a supporre che lo scolastico dominicano inglese abbia, più che parafrasato, quasi citato (difficile dire se a memoria o meno) Fulgenzio. L’indicazione estremamente generica in quodam libro de gestis Romanorum e il tema trattato mi hanno fatto immediatamente pensare al Mythologiarum libri tres di Fabio Planciade Fulgenzio (V-VI secolo), ma un controllo ha evidenziato nel libro non solo l’assenza del brano in questione ma anche di qualsiasi trattazione del tema dell’amore o dell’amicizia.

E se, ad ogni modo, Holcot si rifece a Fulgenzio, per quanto riguarda la rappresentazione tutte le tavole successive al Ripa si mossero sulla sua scia. Ecco, per esempio, di seguito quella tratta da Jean Baptiste Boudard, Iconologie, Carmignani, Parma, 1759.

1

 

Va pure detto che il motto HYEMS ET AESTAS, che in tutti gli autori fin qui citati è riferito all’amicizia, è un nesso già presente come simbolo dell’alternarsi delle stagioni della vita (perciò MORS ET VITA ne appare una sorta di integrazione) in Marco Terenzio Varrone (I secolo a. C.), De lingua latina, V, 10: … omne corpus, ubi nimius ardor aut humor, aut interit aut, si manet, sterile. Cui testis aestas et hiems, quod in altera aer ardet et spica aret, in altera natura ad nascenda cum imbre et frigore luctare non volt et potius ver expectat. Igitur causa nascendi duplex: ignis et aqua ( … ogni corpo quando c’è eccessivo calore o umidità o muore o, se sopravvive, è sterile. Ne sono prova l’estate e l’inverno, poiché nell’una l’aria è calda e la spiga si dissecca, nell’altro la natura non vuole lottare con la pioggia e con il freddo e aspetta piuttosto la primavera, Dunque duplice è la causa del nascere: il fuoco e l’acqua).

Andando ancora più a ritroso nel tempo esso è presente nel libro della Genesi, 8, 22, il cui testo nella vulgata suona così: Cunctis diebus terrae, sementis et messis,  frigus et aestus, aestas et hiems, dies et nox non requiescent (In tutti i giorni della Terra il freddo e il caldo, l’estate e l’inveno, la notte e il giorno non verranno meno). Mi ha sorpreso scoprire che a suo tempo la Chiesa respinse l’interpretazione teologica di Emanuel Swedemborg che in Arcana coelestia (1749-1756; la citazione che segue è tratta dall’edizione uscita a Tubingen nel 1833, v. I, pag. 392) scrive: Et aestas et hiems’: quod significent statum hominis regenerati quoad nova ejus voluntaria quorum vices se habent sicut aestas et hiems, constare potest ab illis quae de frigore et aestu dicta sunt; vices regenerandorum assimilantur frigori et aestui, sed vices regeneratorum aestati et hiemi: quod de regenerando ibi actum, hic autem de regenerato, constat inde quod ibi primo loco ‘frigus’ nominetur et secundo ‘aestus’; hic autem primo loco ‘aestas’ et secundo ‘hiems’; causa est quia homo qui regeneratur, incipit a frigore, hoc est, a nulla fide et charitate, at cum regeneratus est, tunc incipit a charitate (“Et aestas et hiems”: poiché significherebbero lo stato dell’uomo rigenerato finché è possibile che le nuove volontà il cui corso procede come l’estate e l’inverno risultino da ciò che è stato detto sul freddo e sul caldo; le vicende dei rigenerandi sono assimilate al freddo e al caldo, ma le vicende dei rigenerati all’estate e all’inverno: ciò che lì è avvenuto del rigenerando, qui (avviene) del rigenerato; risulta perciò che lì in primo luogo è nominato il freddo e in secondo il caldo, qui in primo luogo l’estate e in secondo l’inverno; la causa è che l’uomo che viene rigenerato comincia dal freddo, cioè da nessuna fede e carità, ma, quando si è rigenerato allora comincia dalla carità).

Mi viene il sospetto che quest’interpretazione non piacque per partito preso, dal momento che questo genio poliedrico (si cimentò con ottimi risultati nelle più svariate discipline: dalla matematica alla chimica, dall’anatomia alla filosofia, dalla musicologia all’omeopatia) fu uno dei precursori dello spiritismo …

 

(CONTINUA)

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/10/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-16/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/11/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-26/

terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/12/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-36/

quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/19/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-56/

sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/20/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-66/

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1 L’atto concreto di cui parla Gregorio (Homiliarium in Evangelia, I, XX) è l’elemosina:  Sed etsi fructum proprium ulmus non habet, portare tamen vitem cum fructu solet, quia et saeculares viri intra sanctam Ecclesiam, quamvis spiritalium virtutum dona non habeant, dum tamen sanctos viros donis spiritalibus plenos sua largitate sustentant, quid aliud quam vitem cum botris portant? (Ma sebbene l’olmo non abbia un proprio frutto suole tuttavia reggere la vite col frutto, perché anche i laici nella santa Chiesa, sebbene non abbiano il dono delle virtù spirituali, mentre sostentano tuttavia con la loro generosità i santi uomini pieni di doni spirituali, che altro sorreggono se non la vite con i grappoli?).

È evidente che Gregorio si è rifatto alla seconda similitudine de Il pastore di Erma.

6 dicembre. San Nicola. Tre affreschi del santo di Myra nella cattedrale di Nardò

Cattedrale di Nardò, particolare di uno degli affreschi ritraenti san Nicola

di Marcello Gaballo

Tra le sorprese che la cattedrale di Nardò riserva possono senz’altro comprendersi i numerosi affreschi, per lo più quattrocenteschi, alloggiati sulle semicolonne e sulle facce dei due ordini di pilastri a base rettangolare della navata centrale, oltre che sulle pareti laterali delle due navate.

Tutti di buon livello qualitativo, qualcuno anche ottimo, sono stati descritti in più riprese dal De Giorgi, dalla Gelao e da Micali. In occasione dell’Anno Santo Giubilare del 2000, in una pubblicazione su Cesare Maccari e sui dipinti della cattedrale neritina, ebbi modo di trattarne anche io, integrando con ricerche archivistiche e notizie inedite desunte da protocolli notarili.

Da quel lavoro estrapolo gli affreschi che ritraggono il santo di Myra, ben tre, riproponendoli in occasione della festività che ricordiamo oggi in questo spazio.

Cominciamo dal primo, che si osserva sul secondo pilastro della navata sinistra (per chi entra), presumibilmente della fine del XIV secolo-inizi XV. E’ allocato sul lato settentrionale e lo ridenominai San Nicola tra Gesù e la Vergine. Ridipinto a tempera dopo la metà del XV secolo, il santo appare benedicente more graecorum, secondo lo schema bizantino. Ritratto frontalmente e a figura intera, veste tunica bianca, felonion rosso, omoforion bianco nerocrociato e tiene nella mano sinistra un Vangelo decorato con gemme. Appeso alla vita si intravede parte del fazzoletto (epigonation). In alto, a sinistra, la Madre di Dio porge il pallio, mentre all’ opposto il Cristo, anch’ esso a figura intera, porge al santo il Vangelo.

Le iniziali latine sono scritte in caratteri gotici; nel terzo inferiore sono graffite diverse iscrizioni greche ed ebraiche. Inquadra il tutto una cornice di color corallo, complementare all’ azzurro dello sfondo. Misura m. 2,48×0,80 e lo stato di conservazione è discreto.

Sul terzo pilastro, sempre della navata sinistra, è ritratto ancora un San Nicola, anche questo, come il precedente, della fine del secolo XIII, ridipinto a tempera nel secolo successivo.

La pittura è la meglio conservata rispetto alle altre del medesimo pilastro. Ritrae il santo frontalmente, a figura intera, inquadrato in un arco trilobato, in piedi sullo sfondo azzurro, con camice bianco e piviale (felonion)[1] rosso, stola (omoforion) nerocrociata, guanti bianchi, con la mano sinistra impugnante il pastorale. La testa è circondata da un’aureola raggiata gialla, mentre nella parte superiore, all’altezza della spalla, si legge il nome del Santo (NICOLAUS) e si ripete uno stemma nobiliare, rovinato in più punti e con parte degli smalti originari mutati nelle ridipinture[2].

Anticamente dotata di altare proprio, la cappella era sub titulo di S. Nicola il dipinto era alloggiato sempre nella navata sinistra, ma in luogo diverso dall’attuale.

Poco distante, in corrispondenza della base del campanile, vi è il trittico, recentemente restaurato, con S. Maria Maddalena orante, la Beata Vergine col Bambino e un terzo affresco con S. Nicola. Quest’ ultimo, in posizione frontale assisa, su sfondo scuro, benedicente alla greca, è vestito con camice bianco e solito felonion rosso, omoforion e guanti bianchi, sostenente con la mano sinistra un libro, poggiato sul ginocchio sinistro, su cui si legge Ecce sa/ cerdos/ magnus/ qui in di/ ebus su/ is placuit/ Deo et/ inventus.

Il volto è incorniciato dai capelli bianchi e dalla barba corta a riccioli. L’ affresco, di m. 2×0,80, è incorniciato da una banda gialla dipinta e mostra diverse scrostature, graffiti ed incisioni.

Iconografia sacra a Manduria: spunti di riflessione

di Nicola Morrone

Nel 2002 fu pubblicato un volume di importanza fondamentale per la conoscenza del patrimonio artistico locale, vale a dire “Iconografia Sacra a Manduria”, curato da M.Guastella. Da questo imponente lavoro ormai non si potra’ prescindere , ogni qualvolta si vorranno ricostruire le vicende della produzione pittorica manduriana , magari apportando precisazioni e integrazioni alle informazioni ivi contenute. Con la pubblicazione del predetto volume, in ogni caso, la gran parte del patrimonio iconografico sacro “culto” del territorio di Manduria puo’ dirsi catalogato.Esiste pero’ un’altra produzione pittorica, che si è sviluppata parallelamente rispetto a quella “culta”, di qualità più o meno sostenuta, di collocazione prevalentemente urbana. Essa è precisamente la produzione definita”popolare”, di qualità nel complesso inferiore, e di collocazione prevalentemente rurale. Siamo dell’idea che anche questa produzione, pure quantitativamente minore rispetto a quella della città, meriti di essere catalogata con criteri scientifici. Ci riferiamo a tutta quella serie di dipinti (a fresco, a secco, a tempera su rame) collocati nelle edicole e nelle cappelle votive, la gran parte rurali, ma qualcuna anche urbana, alcune delle quali , pur nell’ambito di una compagine artistica comunemente definita”popolare”, sorprendono per il grado di elaborazione mostrato. E’ venuto quindi il tempo, dopo la pubblicazione della ” Iconografia sacra”, di rendere nota anche la “Iconografia sacra popolare” relativa al nostro territorio. Non si tratterà di un lavoro impegnativo quanto quell’altro, data, lo ripetiamo, la esiguità numerica delle testimonianze pittoriche “popolari” sparse tra la città e il contado, e comunque la ricerca si potra’ avvalere di alcuni strumenti preparatori, quali i volumi di B. Perretti (“Testimonianze cristiane nel territorio rurale di Manduria”, Manduria 2000) e di R.G.Coco (“Manduria tra Taranto e Capo d’Otranto. Etimo, mito e storia del territorio“, Manduria 2009). Alle indicazioni fornite in queste due opere , utili anche a meglio precisare l’ubicazione dei monumenti, per lo più votivi, che ospitano i manufatti pittorici (collocati spesso nei pressi delle vie di comunicazione principali della campagna) si dovrà aggiungere solo il lavoro di catalogazione vero e proprio, che preciserà soggetto, datazione, tecnica d’esecuzione e misure delle pitture e del monumento che le ospita.

Per quanto riguarda la datazione, sappiamo che la gran parte delle edicole superstiti e relativi dipinti risalgono a non prima del sec. XIX, epoca a partire dalla quale vi fu una vera e propria proliferazione di queste piccole ma significative testimonianze d’arte e, soprattutto, di fede. Gli autori sono, naturalmente, anonimi, nè è dato in qualche modo ricostruire la loro identità attraverso testimonianze scritte o orali. Ci si potrebbe però chiedere quale sia la necessità di realizzare un lavoro di catalogazione scientifica di questo patrimonio pittorico. Rispondiamo che si tratta non solo di una necessità meramente conoscitiva; non si tratta, cioè, solo di avere un’idea piu’ precisa della portata, qualità e quantità di questo patrimonio ritenuto comunemente “minore” o addirittura “minimo” rispetto alla contemporanea produzione pittorica “culta”, qualitativamente sostenuta, che rappresenta giustamente il vanto dell’arte locale. Le ragioni di un simile, auspicabile, anzi doveroso lavoro si giustificano con l’importanza intrinseca di questo piccolo patrimonio di cultura figurativa, per più motivi alternativo rispetto a quello dell’area urbana.

L’importanza della pittura manduriana definita “popolare” è essenzialmente di ordine storico, estetico e antropologico. Importanza storica, perchè le immagini sacre di fattura popolare sono un documento di una cultura figurativa che per lunghi secoli si è evoluta parallelamnete rispetto a quella colta e ufficiale. Lungi dall’essere frutto di “spontanea”ispirazione, anche la tradizione figurativa popolare ha avuto una sua tradizione tecnica e di contenuti, chiaramente non più ricostruibile per l’assoluta mancanza di testimonianze documentarie che nessuno, verosimilmente, si è mai preoccupato di produrre, proprio per la perifericità di questa cultura pittorica. Importanza estetica, perchè le immagini sacre popolari rappresentano un universo che si è evoluto con caratteri iconografici e formali propri, sempre facilmente distinguibili, e non certo riducibili (come di solito ritengono gli storici dell’arte) a copie più o meno fedeli di prodotti “colti”.

Il fascino che esercitano queste immagini apparentemente “senza tempo” è indubbio, proprio data la loro permanente carica di “primitivismo”. Questo patrimonio artistico, inoltre, si pone spesso in aspra opposizione, sul piano estetico, rispetto a quello “colto”, elaborato, formalmente più “evoluto”. Importanza antropologica, perchè le immagini popolari sono specchio non solo di un diverso modo di realizzare visivamente un dato tema iconografico, ma sottendono anche (come ha puntualmente sottolineato l’antropologo A. M. Cirese) una vera e propria concezione del mondo, se non addirittura un’ideologia, degne di essere studiate al pari di quelle espressione delle classi dominanti .Tutta la produzione pittorica popolare, quindi anche quella a soggetto sacro, oltre che avere un valore prevalentemente collettivo, si caratterizza sul piano formale per alcune costanti, in particolare per lo schematismo rappresentativo, per la stilizzazione che semplifica forme e tratti, per l’espressività caratterizzata da atteggiamenti fissi, per l’assenza di profondità spaziale e la mancanza di dettagli anatomici precisi, per l’assenza di valori chiaroscurali. Sul piano sociale, essa si sviluppa in un ambito di artigianato domestico e si tramanda nelle zone più periferiche e subalterne. Inoltre (riprendendo ancora una fondamentale osservazione di un noto studioso) una caratteristica costante che identifica il prodotto figurativo popolare è la riproposizione dei motivi. Cioè, ciò che caratterizza in prima istanza un manufatto pittorico popolare (come anche un prodotto poetico-letterario popolare) è ”la ripetizione, talora variata, di un modello, e il cui ideale non sta tanto nella novità del messaggio, quanto invece nella capacità, talora vertiginosa, di restare saldi all’interno di un sistema e di operare variazioni interne che sfruttano tutte le possibilità logiche del sistema stesso” (A. M. Cirese).

In seno a questo ampio patrimonio figurativo, che, come già detto, dobbiamo doverosamente riscoprire e scientificamente catalogare, saremo comunque sempre in grado di distinguere il singolo prodotto, la singola mano del pittore- contadino che, pur avendo maturato la sua esperienza nell’ambito della vasta koinè artistica che definiamo “popolare”, lascia il segno della sua individualità, ma sempre in ossequioso rispetto del modello.

 

VALENTINA ANTONUCCI – Contributi alla storia dell’arte sacra nella diocesi di Lecce: riflessi di una strategia controriformistica nella produzione pittorica

Abstract

 

Il saggio esplora il rapporto tra i primi vescovi post-tridentini di Lecce e la promozione dell’arte sacra nella diocesi. Pur mancando indicazioni in tal senso negli atti sinodali superstiti, è possibile che ci sia stata una politica di applicazione all’arte dei dettami controriformistici, di cui sono state strumento le committenze dirette del vescovo. Una vera e propria strategia delle immagini si riesce a individuare solo a partire dalla prima metà del ‘600, con il vescovo Pappacoda, ma già nelle epoche precedenti sia i vescovi che gli ordini religiosi mostrano un particolare fervore nel riaffermare l’uso delle immagini sacre per l’educazione religiosa dei fedeli. Occasioni di un’espressione artistica rinnovata, in linea con l’uso didattico delle immagini sacre, sono state soprattutto le diverse rappresentazioni della Madonna, fulcro del culto controriformistico, ma anche le raffigurazioni di Carlo Borromeo e quelle delle Anime del Purgatorio, così come immagini allegoriche del trionfo degli Ordini religiosi riformati, in particolare della Compagnia di Gesù. L’arco cronologico preso in esame va dalla metà del XVI alla fine del XVII secolo.

 

 

ENGLISH

 

This essay explores the relation between first post-Tridentine bishops of Lecce and promotion of sacred art in the diocese. Even without such evidence in surviving acts of the Synod, it is possible there was a policy of applying Counter-Reformation dictates to art, of which the direct commissions of Bishop were instrument. We cannot find a real strategy of images until first half of ‘600, with Bishop Pappacoda but even in previous eras both bishops and religious order , show a special fervor in reaffirming use of sacred images to help religious education of believers. Several opportunities for renovated artistic expression, in accordance with educational use of religious images, were mainly various representations of the Virgin, focus of Counter-Reformation worship, but also representations of Carlo Borromeo and Anime del Purgatorio, as well as allegorical images of reformed religious orders triumph , especially Compagnia di Gesù Order. surveyed chronological period goes from the mid of sixteenth to late seventeenth century.

 

Riemerge un Sant’Onofrio tra gli affreschi medievali della Cattedrale di Nardò

 

Un Sant’Onofrio tra le iconae depictae della Cattedrale di Nardò.

Il santo eremita egiziano riemerge nel corso degli ultimi restauri

di Marcello Gaballo

Non si può che plaudire la determinazione e la costanza con le quali don Giuliano Santantonio, parroco della Cattedrale di Nardò, ha dato impulso – da oltre un anno a questa parte – ai lavori di restauro degli affreschi dell’Ecclesia Mater neritina. I recenti interventi, effettuati dai restauratori Januaria Guarini e Gaetano Martignano, hanno restituito al loro antico splendore gli affreschi raffiguranti il san Bernardino da Siena[1] su uno dei pilastri della navata sinistra, il Cristo alla Colonna sul lato destro del presbiterio, e il meraviglioso trittico con san Nicola, la Vergine col Bambino e la Maddalena, conservato nella navata sinistra, in corrispondenza della base del campanile.

Attualmente il paziente lavoro di recupero sta interessando alcune porzioni di affresco collocate sulla parete meridionale della Cattedrale, in direzione della piazza principale della città. Uno di questi affreschi (l’ultimo in ordine di restauro) occupa lo spazio della parete destra compreso tra la cappella di San Michele Arcangelo e la porta laterale.

Posto sull’originario muro perimetrale, il dipinto ha suscitato particolare interesse per il soggetto rappresentato, finora inedito, reso tuttavia quasi illeggibile sia per le cadute di colore, sia per uno strato d’intonaco con tracce di affreschi che lo ricopre nella zona intermedia. In aggiunta a questo, l’affresco reca danni evidenti anche a causa delle manomissioni subìte dal tempio nel corso dei secoli, soprattutto durante l’episcopato di mons. Fabio Fornari (1583-1596); periodo al quale risale la demolizione di numerosi altari – alcuni dei quali collocati in ogni angolo e a ridosso dei pilastri – e con essi la distruzione delle iconae depictae che li ornavano, poi riemerse in buona parte a fine Ottocento, durante i lavori di restauro finalizzati a rimuovere le strutture settecentesche realizzate da Ferdinando Sanfelice.

L’affresco in oggetto ritrae un santo olosomo, in piedi con le mani giunte, inserito in una cornice lineare ocra su una campitura blu. Il soggetto – raffigurato nudo, con il capo circondato da un nimbo giallo – esibisce una folta barba e una lunga e fluente capigliatura. Meglio leggibili gli arti inferiori, ugualmente privi di indumenti e caratterizzati dalla presenza di tre steli di un elemento vegetale (forse una palma) che, dai piedi, si innalzano fino alle cosce del santo, culminando in tre ampie foglie.

Ai lati della figura si intravedono alcuni caratteri di una duplice iscrizione disposta in senso verticale, all’altezza del volto: a destra si legge “[…] F […] YS”;  a sinistra la sola lettera “S”.

Il riquadro con l’effigie del santo era originariamente accostato ad una seconda riquadratura (all’interno della quale sopravvivono pochi brani), come si evince da una porzione di cornice ornata da girali vegetali, che sovrasta entrambi i riquadri.

La perizia degli operatori ha restituito un’interessante iconografia che si presta a diversi spunti di riflessione sui quali è utile soffermarsi. La nudità del soggetto farebbe pensare ad un santo anacoreta, vissuto nel deserto sull’esempio di san Giovanni Battista e del profeta Elia, i cui attributi iconografici, assenti nell’affresco neritino, autorizzano ad escluderli da un’ipotesi interpretativa.

Le poche lettere sopravvissute e soprattutto l’irsutismo della figura[2] permettono di identificarvi sant’Onofrio, un eremita vissuto nel V secolo che, per oltre settant’anni, si ritirò in solitudine nel deserto, nutrendosi di erbe e riposando nelle grotte presenti attorno al suo eremo di Calidiomea, il luogo dei palmizi. La leggenda narra che, quando i suoi abiti diventarono lisi al punto da ridursi a pochi brandelli, il Signore fece crescere su tutto il corpo del santo un abbondante pelo, per proteggerlo dalla rigidità del clima, mentre un angelo, ogni giorno, si recava da lui per portargli del pane come unico alimento.

Le vicende del santo anacoreta furono narrate da Pafnuzio, un monaco vissuto nel V secolo in Egitto, che lo incontrò più volte e ne scrisse nella Vita greca, asserendo che l’eremita morì l’11 giugno (anche se il santo è celebrato il 12 giugno nei sinassari bizantini)[3].

Alla luce di questi pochi elementi, l’iscrizione potrebbe dunque essere completata e letta come “[ONO]F[R]YS”; più ardua, invece, l’interpretazione dell’apparentemente singola lettera “S”, che potrebbe essere la lettera finale di Onofrius o di Sanctus.

Riuscire a decifrare il significato di questi caratteri è, dunque, di estrema importanza ai fini dell’esatta datazione dell’affresco che, in ogni caso, merita uno studio approfondito da parte degli specialisti di arte medievale e bizantina, sia per la comparazione di questo con i restanti affreschi, sia per una migliore definizione dell’intero ciclo pittorico.

L’identificazione del santo egiziano rimanda ad un inusuale culto neritino nel Medioevo, del quale non si conosce nulla, sebbene l’eremita fosse ben noto nel Salento, considerata l’esistenza di numerose altre sue rappresentazioni in questa terra, tra le quali si citano quelle di Santa Maria di Cerrate a Squinzano (in cui era dipinto su uno degli archivolti nella chiesa), dell’abbazia di San Mauro sul litorale ionico (dove l’anacoreta è affrescato sull’intradosso di uno degli archi), nella basilica di Castro[4]. Più celebre il bel sant’Onofrio dipinto nella chiesa galatinese di Santa Caterina, dov’è raffigurato con i canonici attributi iconografici che lo caratterizzeranno nel corso dei secoli[5].

s. onofrio

Alla luce di questo importante rinvenimento e dei numerosi affreschi tuttora conservati nel massimo edificio religioso neritino, ci si augura che la sensibilità del sacerdote – evidentemente supportata da generosi offerenti – possa proseguire nella meritoria opera di recupero di queste importanti testimonianze pittoriche, anche in vista dell’eccezionale evento che ricorrerà il prossimo 2013, quando la Diocesi di Nardò celebrerà il secentenario dell’istituzione della cattedra episcopale (11 gennaio 1413) ad opera di papa Giovanni XXIII (il pontefice scismatico Baldassarre Cossa), il quale nominò primo vescovo l’abate Giovanni de Epifanis.

 


[1] Sul san Bernardino da Siena si veda la relativa scheda di restauro pubblicata su “Il delfino e la mezzaluna”, a. I, n. 1 (luglio 2012), pp. 146-148. Cfr. inoltre R. Poso, La cultura del restauro pittorico in Puglia nella seconda metà del XIX secolo, in Storia del restauro dei dipinti a Napoli e nel Regno nel XIX secolo, Atti del Convengo Internazionale di Studi (Napoli, 14-16 novembre 1999), a cura di M.I. Catalano e G. Prisco, volume speciale 2003 del “Bollettino d’Arte”, pp. 273-286.

[2] Con tale aspetto “santu ‘Nufriu u pilusu” è raffigurato nella Cappella Palatina di Palermo, dov’è annoverato tra i comprotettori della città ed oggetto di un culto molto intenso. Come riferisce il Pitrè, il santo era anticamente invocato da parte delle fanciulle in cerca di marito, diversamente da quelle salentine che, invece, rivolgevano le loro preci a san Nicola di Myra.

[3] Su sant’Onofrio cfr. A. Borrelli, in http://www.santiebeati.it/dettaglio/56850; M.C. Celletti, Sant’Onofrio, in Bibliotheca Sanctorum, Roma 1967, IX, coll. 1187-1099.

[4] Mi comunica a tal proposito l’amico Emanuele Ciullo: “il S. Onofrio della basilica bizantina di Castro è stato rinvenuto nel corso dei recenti restauri cui è andata soggetta la basilica, che è la chiesa cattedrale di Castro, è una figura stante ubicata nel sottarco dell’arcone centrale della navata destra (l’unica porzione in elevato dell’edificio) al centro di altre due figure per complessivi sei santi (tre da un lato e tre dall’altro, il disegno è perfettamente “>speculare) divisi da una fascia a fregio vegetale al centro dell’arco. La figura naturalmente è completamente nuda e ha il nome iscritto affianco. Datazione incerta (X-XI?)”.

Ringrazio per la segnalazione l’altro amico Angelo Micello.

[5] Qui il santo, barbuto e con fluente capigliatura che ricopre buona parte del corpo, si appoggia con la mano sinistra su un bastone che termina in una croce a “T” (Tau) nella parte superiore; con la mano destra stringe un singolare rosario, i cui grani (circa 35), di colore marrone, sembrerebbero ghiande. Ai piedi del santo una corona rammenta agli astanti la rinuncia di Onofrio alla sua probabile stirpe regale e, comunque, alla gloria terrena, in favore di quella celeste attraverso l’eremitaggio.

Lecce e gli strumenti della Passione di Cristo: araldica religiosa e reliquie

 

 

testi e foto di Giovanna Falco

 

Osservando la facciata della chiesa del Gesù, nota anche come del Buon Consiglio in via Francesco Rubichi a Lecce[1], si può notare come i dodici bassorilievi che decorano il fregio di coronamento dell’ordine superiore rappresentano i simboli della Passione di Cristo. Il fregio, ispirato all’ordine dorico, è costituito da tredici triglifi solcati non da tre, ma da cinque scanalature (probabile riferimento alle Cinque Piaghe di Cristo: le ferite al costato, nelle mani e nei piedi) e da dodici metope dove sono simbolicamente ritratte le scene salienti della Passione di Cristo, riprese dal Vangelo di Marco.

Con il prezioso contributo di Giovanni Lacorte sono riuscita a individuare i dodici simboli: Due palme (entrata in Gerusalemme); vessillo con la scritta SPQR e fusti d’albero sullo sfondo (arresto di Gesù); braccio con un sacchetto e una campana sullo sfondo (i trenta denari di Giuda); due profili di uomo (il bacio di Giuda); il gallo (Pietro rinnega Gesù); corona e canne incrociate (scherno dei soldati);

Il delfino e la mezzaluna (quinta ed ultima parte)

di Armando Polito

Se di numismatica non sono un esperto, di araldica, poi, sono totalmente digiuno, ma, avendo all’inizio lanciato un sasso contro i titoli nobiliari, non intendo certo nascondere la mano ma passarla, com’è doveroso, a chi sull’argomento ne sa e vorrà integrare la trattazione parlando dei numerosi stemmi familiari in cui il delfino è componente essenziale (ma in araldica, so solo questo, anche il più piccolo dei componenti secondari ha il suo significato e, dunque, la sua importanza).

Tornando al nostro simbolo si dirà: accontentiamoci pure, nell’attesa,  di quanto fino ad ora si è detto del delfino; ma la mezzaluna che tiene in bocca? Qui per fortuna la risposta non è complicata: si tratta di un elemento aggiunto dopo la cacciata dei Turchi (popolazione di cui la mezzaluna costituisce uno dei simboli)  ad opera di Alfonso d’Aragona, duca di Calabria e figlio di Ferdinando I di Aragona, re di Napoli, nel 1481. Elemento aggiunto, si diceva, sulla cui storia pregressa voglio spendere qualche parola lasciando parlare, come al solito, le fonti.

Preliminarmente, però, va detto che lo stesso termine mezzaluna è improprio, anche se si è imposto. Infatti si tratta di un quarto di luna, nel nostro caso crescente. Crescente, da solo, è voce astronomica e definisce l’aspetto falcato che la Luna (crescente lunare) e i pianeti Mercurio e Venere assumono nei giorni che precedono o seguono quello in cui si trovano in congiunzione con la Terra e col Sole (giorno che, per la Luna, è detto novilunio); crescente, sempre da solo, in araldica (chiedo scusa ai competenti ma la mia intrusione si limita a questa precisazione) è il nome generico della mezzaluna ed è accompagnato da vari attributi ad indicare la sua posizione nello scudo: montante (quando ha le corna volte verso l’alto; volto, quando ha le corna che guardano il fianco destro dello scudo; rivoltato, quando le corna guardano il fianco sinistro; rovesciato, quando sono volte verso la punta dello scudo; volto in banda o in sbarra, quando guardano l’angolo superiore destro o sinistro; in cuore, quando tre crescenti sono addossati nel centro; irregolari quando tre o più sono accostati in posizione diversa; frontato o addossato, quando due crescenti si mostrano le corna o il dorso; figurato (raro) quando mostra occhi, bocca e naso umani.

Per evitare l’equivoco di crescente basta il vecchio detto: gobba a levante luna calante, gobba a ponente luna crescente.

E passiamo a qualcosa di molto più antico.

Stefano Bizantino, un grammatico vissuto probabilmente nel V secolo d. C., nella sua opera Ethnikà (traduco dal testo originale curato da Augusto Meineke  Stephani Byzantii ethnicorum quae supersunt, Greimer, Berlino, 1849, pagg. 178-179; pure il testo in parentesi quadre e non in corsivo è mio) così scrive: Il porto di Bisanzio si chiama anche Bosporio [in greco Bospòrion27); gli abitanti lo chiamano cambiando una lettera (in greco paragrammatìzontes) Fosforio28 (in greco Fosfòrion), da quando gli scrittori di cose patrie hanno tramandato un altro racconto mitico di Bisanzio, secondo il quale mentre [siamo nel 340 a. C.] Filippo il Macedone assediava Bisanzio e aveva già fatto scavare nel corso dell’assedio un passaggio nascosto [in pratica, una galleria], quando gli scavatori cominciavano a rientrare dal loro lavoro in gran segreto, Ecate29 diventando luminosa fece come se di notte si fossero accese torce per i cittadini che così dopo aver messo in fuga gli assedianti chiamarono il luogo Fosforio.

La testimonianza di Stefano, che, peraltro, fa riferimento a fonti generiche (scrittori di storie patrie), rimane poco più che una leggenda. Tuttavia va detto che Fosfòrion in un’iscrizione (Inscriptiones Graecae, Berlino, 11, 2, 203B 74) del  III secolo a. C. si chiamava il sigillo con l’immagine di Artemide portatrice di torcia nonché, in un’altra (Supplementum Epigraphicum Graecum, Leiden, 4, 446,17) del III-II secolo a. C. e in un papiro del IV secolo d. C. (Griechische Papyrus der Landesbibliothek zu Strassburg, 9, 8) il suo santuario. Fosfòrion è derivato dall’aggettivo fòsforos/on (composto da fos=luce+fero=portare)=che porta luce, che dà luce,  secondo una tecnica di formazione collaudata, la stessa, per esempio, che ha portato alla formazione di Pallàdion (statuetta di Pallade, ma anche sede del tribunale dei giudici di appello, gli efeti, ad Atene) dal tema Pallàd– di Pallàs/Pallàdos=Pallade); artemìdion (dittamo) dal tema Artèmid– di Àrtemis/Artèmidos=Artemide), etc. etc. La leggenda, perciò, potrebbe, come spesso succede, contenere riferimenti involontari (per motivi cronologici) ad un culto successivo che potrebbe aver lasciato traccia in alcune monete di Bisanzio (in basso un esemplare)…

tetradracma di Antioco VIII (115-113 a. c.).  Nel retto: testa con diadema;  nel verso: Giove con crescente sulla testa e stella a 8 punte in mano; legenda: BASILEOS ANTIOCHOY EPIPHANOYS (Dell’illustre re Antioco).

…e di Roma:

1)

denario di Gneo Cornelio Sisena (118-117 a. C. circa). Nel retto testa di Roma con elmo attico alato; legenda SISENA, ROMA e X (simbolo dei 10 assi).  Nel verso Giove su quadriga verso destra tiene con la sinistra lo scettro e le redini e con la destra si accinge a scagliare il fulmine; quasi ai due estremi  in alto una stella e ancora più im alto al centro la testa radiata del Sole e un crescente lunare; in basso il gigante anguipede con il fulmine nella mano destra e con la sinistra alzata; legenda: CN CORNEL L F (le lettere NE sono in monogramma). Qui Gneo Cornelio celebra le vittorie orientali del suo antenato L. Cornelio Scipione contro Antioco re di Siria.

2)

denario di Manlio Aquilio (109-108 a. C.). Nel retto il Sole raggiante e legenda X (vedi moneta precedente). Nel rovescio Luna sulla biga verso destra; in alto un crescente e tre stelle, in basso una stella; legenda: MN (in monogramma),  AQU(ILIUS) e ROM(A).

3)

denario di Aulo Postumio Albinus (96 a. C.). Nel retto testa laureata di Apollo, a sinistra una stella; legenda R e X (vedi moneta precedente). Nel verso i Dioscuri abbeverano i cavalli; in alro un crescente e due stelle; legenda: A ALBINU (S) (AL in monogramma).

4)

denario di Lucio Titurio Sabino (89 a. C.). Nel retto testa di Tito Tazio; legenda SABIN  A PV. Nel verso  il supplizio di Tarpea.  È evidente come Titurio intende collegare la sua origine sabina con il più famoso rappresentante di quella popolazione.

5)

denario di Lucrezio Trio (76 a. C.). Nel retto testa di Giove con corona radiata. Nel verso crescente fra sette stelle; legenda TRIO L LUCRETI.

6)

aureo di Publio Clodio (42 a. C.). Nel retto testa radiata del Sole, dietro la faretra. Nel verso: crescente fra cinque stelle. Legenda: P CLODIVS  M F.

A qualche lettore più fantasioso le due ultime monete (in particolare la seconda) avranno fatto ricordare qualcosa venuto di recente alla ribalta della cronaca politica: il Movimento cinque stelle; ma anche, probabilmente,  il simbolo che campeggia nelle bandiere di molti stati islamici, tra cui la Turchia.

Non è un caso che io abbia citato questo stato e riprodotto la sua bandiera, perché furono proprio i Turchi ad adottare questo simbolo (usuale nel mondo bizantino e, come dalla numismatica si è visto mostrare, non estraneo nemmeno al mondo romano in seguito a contatti di natura, forse e tanto per cambiare, prevalentemente militare) nel 1453, quando completarono la loro espansione in quel mondo con la conquista di Costantinopoli, l’antica Bisanzio.

Potrei chiudere, come spesso amo fare, in modo leggero e un po’ dissacratore dicendo che qualche fanatico islamico odierà forse il nostro utilizzo del suo simbolo e che nemmeno noi occidentali abbiamo la coscienza pulita quando oggi, per non parlare di un passato remoto e recente, mascheriamo, col pretesto  di esportare la democrazia ed il connesso (solo teoricamente, purtroppo…) rispetto dei diritti umani, altri appetiti molto, molto meno nobili, comunque ignobili almeno quanto quelli che spinsero alcuni secoli fa i predatori di quel mondo sulle coste del nostro; sicché oggi quel simbolo antico potrebbe tranquillamente essere utilizzato per simboleggiare una realtà storica opposta in cui la difesa è stata soppiantata, con cavillose e nostre… giustificazioni, dall’offesa.

Susciterò magari un vespaio di rabbiose osservazioni (forse, ancora una volta mi illudo e, invece, morirò senza aver risolto questo dubbio: pochi mi contraddicono perché non sanno che dire, oppure, più verosimilmente, perché con me e con le mie posizioni non vale perdere neppure un attimo?) ma il sigillo di questo scritto è amaro: meglio un fanatico islamico conoscitore della storia che un occidentale ignorante e schiavo del ventre, convinto che la mezzaluna che ha in bocca il delfino sia l’attrezzo da cucina…

Alla neonata fondazione il compito nobilmente ambizioso di ridimensionare, almeno, questo desolante quadro e di essere una piccola, grande tessera di quel mosaico sempre in fieri e che, come ho detto all’inizio, al di là di sensazioni epidermiche transitorie, è alla base dell’amore nelle sue molteplici forme: la conoscenza.

______

27 Forma sostantivata dell’aggettivo Bospòrios/Bospòrion=del Bosforo, che è da Bòsporos=Bosforo.

28 Il verbo paragrammatìzo in greco significa cambiare lettera per scherzo o per emendamento. Non c’è ombra di dubbio che qui non si tratta del primo  caso (con gli dei era meglio non scherzare…) ma piuttosto di una fattispecie del secondo, perfettamente inquadrabile nel fenomeno della paretimologia o etimologia popolare.

29 Divinità psicopompa (guida delle anime dei defunti verso il regno dei morti), veniva anche associata in alcuni casi ai cicli lunari, insieme con altre divinità come Diana/Artemide, e Selene/Luna. Superfluo far notare come nel simbolo dell’Islam la luna appare in fase crescente e se il lettore avrà la pazienza di andare alla serie di immagini che aprono la prima parte potrà constatare come questo dettaglio appaia fedelmente conservato nell’obelisco e come invece negli altri, a partire da quello della provincia e dal militare che sono coevi, la rotazione subita dal delfino ha finito per far apparire la luna come calante.

PER LE PARTI PRECEDENTI:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/12/il-delfino-e-la-mezzaluna-seconda-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/14/il-delfino-e-la-mezzaluna-terza-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/18/il-delfino-e-la-mezzaluna-quarta-parte/

Vedi pure: http://www.fondazioneterradotranto.it/tag/sigismondo-castromediano/

 

Il delfino e la mezzaluna (quarta parte)

di Armando Polito

Per dovere di completezza va ricordato anche uno sfruttamento “laico” del delfino che compare in molte marche tipografiche dei secoli XVI-XVII, che qui distinguo in due gruppi a seconda della loro composizione riportandone solo alcuni esemplari:

1)  La Fortuna: una donna in mare è sorretta da un delfino e tiene con le mani una vela gonfiata dal vento.

2) Delfino avvinghiato ad un’ancora.

Il primo, destinato anche a restare il più famoso, ad adottare questa marca, conservata poi tal quale dal figlio Paolo, fu Aldo Manuzio.

Il lettore ricorderà che nella nota 10 della terza parte avevo lasciato in sospeso la questione dell’accostamento fatto dal Piccinelli tra il delfino e l’ancora. È giunto il momento di dire come effettivamente stanno le cose. Tutto nasce dall’incontro tra Aldo Manuzio (1449-1515) ed Erasmo da Rotterdam (1466/1469-1536) il quale nei suoi Adagia pubblicati da Aldo nel 1508,  dopo aver riportato la testimonianza di Gellio relativa ad Augusto da me citata nella stessa nota 10,  trae una prima conclusione: Che il medesimo detto (lo spèude bradèos che Gellio ci ha tramandato esser caro ad Augusto) sia piaciuto a Tito Vespasiano si deduce facilmente dalle sue antichissime monete, una delle quali d’argento mi mostrò Aldo Manuzio uomo benemerito di ogni antichità, moneta di fattura antica e chiaramente romana, che diceva essergli stata mandata in dono da Pietro Bembo, patrizio veneto, giovane non solo erudito tra i primi ma anche diligentissimo investigatore di antichità letterarie. La moneta era fatta così: da una parte presenta il volto di Tito Vespasiano con un’iscrizione, dall’altra un’ancora la cui parte centrale o timone è abbracciata da un delfino avviluppatovi intorno. Che poi questo simbolo null’altro voglia significare che il detto spèude bradèos di Augusto ne offrono indizio le testimonianze dei geroglifici24.

Dopo essersi dilungato sul valore simbolico dei geroglifici ed aver ricordato certe rappresentazioni egizie di serpenti avviluppati e con la coda in bocca da interpretare come il trascorrere ciclico del tempo, Erasmo così continua: In primo luogo il cerchio, poi l’ancora la cui parte centrale il delfino abbraccia col suo corpo avviluppato; il cerchio poiché non è delimitato da nessun confine, allude all’eternità del tempo; l’ancora, poiché tiene ferma, lega a sé e blocca la nave, indica la lentezza. Il delfino, del quale nessun animale è più veloce o più pericoloso per l’impeto, esprime l’idea della velocità. Tutto questo, se sapete cogliere le connessioni, darà origine  ad un motto di questo tipo: aèi spèude bradèos, cioé semper festina lente (affrettati sempre lentamente)25.

Poi, dopo aver sciolto l’apparente contraddittorietà dell’ossimoro, così conclude:  E così questo motto spèude bradèos appare partito fin dagli stessi misteri dell’antica filosofia, per cui fu avocato a sé da due dei più lodati imperatori, cosicché all’uno funse da proverbio, all’altro da stemma. Ora ha trovato in Aldo Manuzio il suo terzo erede26.

In tutto ciò, secondo me, l’unica cosa certa è l’esistenza della moneta di Tito Vespasiano (79-81 d. C.) di cui parla Erasmo.

Con il delfino e l’ancora nel verso, a quanto ne so, furono coniati  un aureo (in basso)

e diversi denarii e molto probabilmente, con un pizzico di fortuna,  tra quelli di seguito riportati uno corrisponderà proprio a quello mostrato ad Erasmo.

Tutto il resto mi pare un’abile operazione di marketing ante litteram per il lancio della marca editoriale Aldo Manuzio, perché il dato iniziale (Gellio) non fa una piega, è forzato, invece, il trasferimento di quel dato a Tito Vespasiano  e perciò, quanto meno, molto discutibili  tutte le ipotesi interpretative connesse da quello derivate.

C’è pure da osservare che nella monetazione romana il delfino, l’ancora, il tridente di Nettuno appaiono da soli o associati come elementi, per lo più,  di una rappresentazione celebrativa di una vittoria navale o di una semplice competenza nello stesso settore, collocata di regola nel verso, anche se alcuni di loro in qualche caso sono presenti nel dritto. Le immagini che seguono, disposte in ordine cronologico per meglio seguire l’evoluzione del fenomeno,  vogliono provare quanto appena asserito:

1) 

asse (209-208 a. C.). Nel dritto testa laureata di Giano, nel rovescio prua di nave con ancora e legenda ROMA. Qui l’ancora appare come un semplice accessorio della nave.

2)

denario di Sesto Giulio Cesare (129 a. C.). Nel dritto testa di Roma a destra, con elmo attico alato; a sinistra verso il basso  un’ancora a destra verso il basso il simbolo dei sedici assi.  Nel rovescio Venere, su biga in movimento verso destra, tiene le redini con la sinistra e una frusta con la destra mentre alle sue spalle Cupido  la incorona; legenda: SEX  IULI  CAISAR  ROMA.

3) 

denario di Varrone e Pompeo Magno (49 a. C.) per il quale vedi la moneta successiva. Nel dritto testa di Iuppiter terminalis con legenda VARRO PRO Q. Nel verso uno scettro tra un delfino e un’aquila, con legenda MAGN PRO COS.

4)

denario (44-43 a. C.) di Nasidio, generale navale di Pompeo Magno la cui testa, il tridente ed il delfino compaiono nel dritto con leggenda NEPTUNI. Nel verso quattro triremi disposte in combattimento, con leggenda Q.NASIDIUS.  La legenda precedente sottintende filius sicché l’intero nesso significa figlio di Nettuno.Se ai nostri tempi c’è ancora chi è disposto a sborsare somme ingenti per esibire titolo nobiliare o, ancor meglio, un diploma o una laurea, perché meravigliarsi se nell’antica Roma c’era chi pretendeva di avere addirittura origine divina? Ecco cosa scrive, però Plinio più di un secolo dopo (Naturalis historia, IX, 55) su questo personaggio:  Siculo bello, ambulante in litore Augusto, piscis e mari ad pedes eius exsiliit; quo argumento vetes respondere, Neptunum patrem adoptante tum sibi Sexto Pompeio (tanta erat navalis rei gloria), sub pedibus Caesaris futuros qui maria tempore illo tenerent (Durante la guerra di Sicilia, mentre Augusto passeggiava sulla spiaggia un pesce saltò dal mare ai suoi piedi; in base all’accaduto gli indovini dichiararono che, poiché Sesto Pompeo si era adottato come padre Nettuno, tanta era la gloria della vittoria navale, sarebbero finiti ai piedi di Cesare  coloro che in quel tempo dominavano i mari).

5)

quinario di Marco Giunio Bruto (43-42 a. C.). Nel dritto testa della Libertà con legenda LEIBERTAS. Nel rovescio ancora e punta di prua di nave in posizione incrociata.

6)

denario di Pompeo Magno (42-40 a. C.). Nel dritto testa di Nettuno con un tridente in spalla e legenda MAG PIVS IMP ITER. Nel rovescio trofeo navale con corazza, elmo con tridente, prua di nave a sinistra, aplustre a destra. Sotto due mostri marini (Scilla e Cariddi) e un’ancora come sostegno; legenda: PRAEF CLAS ET [ORAE  MAR IT EX S C].

7)

asse (data incerta ma comunque posteriore al 31 a. C.) di M. Agrippa la cui testa appare nel dritto con la corona navalis o rostrata, onorificenza concessagli da Augusto per la vittoria ad Azio (31 a. C.) contro la flotta di Antonio; legenda: M. AGRIPPA L. F. COS. III. Nel rovescio Nettuno si volge a destra reggendo il tridente con la sinistra e tenendo nella destra un piccolo delfino; legenda: S C.

Dagli esempi addotti si direbbe che il delfino, l’ancora e il tridente esprimano significati politico-religiosi più che morali.

Ed è un caso che tutti e tre (il delfino avvinto al tridente), compaiano in un galerus  (sorta di piccolo scudo per il quale è stata avanzata anche l’ipotesi di una funzione votiva) rinvenuto il 10 gennaio 1767 a Pompei nella Scuola dei gladiatori (divenuta nel mondo, con il recente crollo, il simbolo della seconda rovina della città…) e custodito nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli?

Non sapremo mai, comunque, se l’idea di sfruttare il delfino e l’ancora vespasianei con l’aggiunta del motto festìna lente balenò prima nella mente di Aldo oppure in quella di Erasmo.  Forse ci giunsero di comune accordo dopo una serie di incontri aziendali…e non è da escludersi che ci sia stato pure lo zampino del Bembo, che faceva parte, con Erasmo,  dell’Accademia Aldina fondata dal Manuzio nel 1494. Sulla questione c’è da dire, infine, che nella marca tipografica del Manuzio mai compare il motto in questione che fu solo citato da Aldo nella dedica della sua edizione del 1498 delle opere latine di Angelo Poliziano.

Certo è che il delfino e l’ancora (in alcuni casi con la presenza del motto) continuarono ad essere usati da tanti altri tipografi…

Il motto della marca di Ruffinelli (mediato dal Manuzio) fu adottato, forse in modo più appropriato, anche dall’editore Bartolomeo Sermartelli (attivo a Firenze dal 1571al 1630): infatti lì è una tartaruga che in mare sorregge con il guscio una vela spiegata al vento recante un giglio araldico  (in basso le marche del 1609-1625 e del 1571-1630):

Molto originale, perché esula dai due schemi e ripropone il mito di Arione, è la marca di Johannes Oporinus risalente al 1558:

E poteva mancare nel genere letterario degli emblemata cioè di quelle opere,  che tanto successo ebbero a partire dal XVI secolo, di carattere moraleggiante, sostanzialmente costituite da tavole il cui titolo in latino era un motto ed il cui testo in versi, pure essi latini, commentava l’immagine centrale? Un solo esempio per tutti, proprio quello che si riallaccia strettamente a quanto poco prima è stato riportato sul Manuzio. Dagli Emblemata di Jean-Jacques Boissard usciti nel 1584 riproduco e commento la tavola n. 56.

Il titolo Nec temere nec segniter (Nè troppo presto né troppo tardi) esprime lo stesso concetto del Festina lente. In basso due distici elegiaci:  Dum rem suscipies quamcumque gerendam/consilium hinc mulier suggeret, inde senex./Coepta morae impatiens festina, ait, impiger. At tu/lente, inquit, propera, tardus hic, illa levis (Mentre intraprenderai qualsiasi cosa da fare, una donna da una parte, un vecchio dall’altra ti suggeriranno un consiglio. Dice questi lento:  – Ma tu affrettati lentamente! -. Dice quella leggera: – Svelto, impaziente dell’indugio, affretta il lavoro cominciato! -).

(continua)

______

24 Iam vero dictum idem Tito Vespasiano placuisse, ex antiquissimis illius numismatis facile colligitur: quorum unum Aldus Manutius, vir de omni antiquitate praeclare meritus, spectandum exhibuit argenteum, veteris, planeque Romanae scalpturae, quod sibi dono missum  aiebat a Petro Bembo, patritio veneto, iuvene cum inter primos erudito, tum omnis literariae antiquitatis  diligentissimo pervestigatore. Numismatis character erat huiusmodi: altera ex parte faciem Titi Vespasiani cum inscriptione praefert, ex altera anchoram,cuius medium ceu temonem Delphin obvolutus complectitur. Id autem symboli nihil aliud sibi velle, quam illud Augusti Caesaris dictum spèude bradèos, indicio sunt  monimenta literarum hieroglyphicarum.

25 Primo loco circulus, deinde anchora, quam mediam delphinus obtorto corpore circumplectitur: circulus  quoniam nullum finitur termino, sempiternum innuit tempus; anchora, quoniam navim remoratur, et alligat, sistitque, tarditatem indicat. Delphinus, quod hoc nullum animal celerius, aut impetu perniciore, velocitatem exprimit; quae, si scite connectas, efficiente huiusmodi sententiam aèi speude bradèos, cioè semper festina lente.

26 Itaque dictum hoc spèude bradèos, ex ipsis usque priscae philosophiae mysteriis profectum apparet, unde adscitum est a duobus omnium laudatissimis imperatoribus, ita ut alteri adagionis esset locus, alteri insignium vice. Nunc vero in Aldum Manutium Romanum, ceu tertium heredem, devenit.

PER LE ALTRE PARTI:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/12/il-delfino-e-la-mezzaluna-seconda-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/14/il-delfino-e-la-mezzaluna-terza-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/27/il-delfino-e-la-mezzaluna-quinta-ed-ultima-parte/

Vedi pure: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/30/il-delfino-stizzoso-dellantico-stemma-di-terra-dotranto/

 

Il delfino e la mezzaluna (terza parte)

di Armando Polito

Non c’è da meravigliarsi, inoltre,  se le prerogative di salvatore del delfino, (che diventa metafora di vìrtù divine e dell’uomo (in riferimento a quest’ultimo, come spesso succede nella simbologia di ogni tempo, anche di vizi) e di salvatrice dell’ancora (che nella forma ricorda, oltretutto, la croce che, però, all’inizio non venne usata in quanto all’epoca era il principale strumento di tortura e di esecuzione capitale) siano state fatte proprie anche dalla religione cristiana fin dai primi tempi del suo avvento. Oltretutto il delfino è un pesce e, com’è noto proprio il pesce costituisce il simbolo originario di questa religione perché la parola greca ιχθúς, che significa, appunto, pesce è anche acronimo di Ιεσοúς Κριστòσ Θεοú Υιòς Σωτήρ (Gesù Cristo figlio di Dio salvatore). I graffiti che seguono furono tracciati a Roma sulla via Ardeatina nella catacomba di Domitilla (nel primo secolo vissero due Domitille, una moglie, l’altra nipote del console Flavio Clemente, quest’ultima venerata come martire nel IV secolo). E sorprende che l’ancora, anche se attribuirle una precisa datazione è pressoché impossibile, compaia, sia pure avviluppata da un delfino, nelle monete di Tito Flavio Vespasiano, cioé di un appartenente, più o meno coevo, alla stessa gens, cosa di cui si parlerà in seguito.

Fondamentale, per chi voglia accostarsi all’argomento con particolare riferimento ai motti che in epoca successiva accompagnarono il delfino, è Mondo simbolico formato di imprese scelte, spiegate, et illustrate con sentenze , ed erudizioni Sacre, e Profane di Filippo Picinelli, Vigone, Milano, 1680 (presente nella biblioteca A. Vergari di Nardò; l’immagine sottostante si riferisce ad un’edizione del 1653).

L’intero libro VI è dedicato ai pesci e il suo XVII capitolo (pagg. 321-324) al delfino. Mi limiterò a citare fedelmente, anche nella punteggiatura oggi discutibile, col mio commento nelle relative

Una mostra per descrivere il culto di S. Irene a Lecce

Sant’Irene Lupiensium patronae: il culto al femminile

a cura di Danilo Ammassari

Le vicende della vita di S. Irene, secondo le fonti scritte, risultano essere un intreccio di vari racconti e tradizioni tra Oriente e Occidente.

La prima attestazione è il Menologio di Basilio II, databile al X sec. d.C., in cui è narrata la Passio della Santa senza alcuna indicazione dei luoghi e dei tempi della sua vita terrena.

Le voci della Bibliotheca Sanctorum riportano versioni discordanti sulla figura di S. Irene, in particolare una di questa si riferisce alle tre sorelle Agape, Chione e Irene, sante martiri di Tessalonica, le cui vicende sarebbero ambientate sotto Diocleziano nel 304 d.C.

Una seconda voce, che riprende il Menologio, si riferisce, genericamente, ad una S. Irene venerata a Lecce figlia di un signorotto di nome Licinio, che preoccupato per la sua bellezza la rinchiuse, all’età di sei anni, in una torre insieme a tredici ancelle. Convertitasi al Cristianesimo ricevette il battesimo da S. Timoteo, discepolo di S. Paolo e ripudiò gli idoli pagani donati dal padre. Questi, infuriato, la fece legare ad un cavallo imbizzarrito per darle la morte; ma mentre ella si salvò, il padre morì in seguito ad un morso alla mano ricevuto dal cavallo. Irene ottenne la sua resurrezione, cosa che indusse i genitori, nonché tremila pagani, alla conversione.

Dopo varie vicissitudini, avendo rifiutato l’apostasia, la Santa venne suppliziata e subì il martirio mediante la decapitazione.

Le linee fondamentali della vita della Santa sono ripercorse successivamente all’interno del Breviarium Liciense (1527?), nella Historia della Vita,

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