Santa Croce di Lecce e l’abate generale celestino fra Iacopo da Lezze (parte seconda)

Giulio Cesare Bedeschini,, San Pietro Celestino, 1613, dall’arcivescovato de L’Aquila (da wikipedia)

 

di Giovanna Falco

 

Santa Croce e la Controriforma

Aver individuato in «Frater Iacobus de Leccio civitate Apuliae, Monachus Ordinis Caelestinorum, Paulo Papae IIII summe carus»[1] l’abate generale della Congregazione celestina dal 1546 al 1549, il cui operato e pensiero è trasmesso dalle sue opere letterarie[2],  è spunto di molteplici riflessioni e di future ricerche atte a riportare in luce verità dimenticate e capire a fondo i messaggi scolpiti sulla facciata della chiesa di Santa Croce in Lecce, realizzata a partire dallo stesso anno, il 1549[3], della pubblicazione di Le cerimonie dei Monaci Celestini di fra Iacopo.

Le riflessioni riguardano in primo luogo l’influenza che ebbe la Controriforma nella progettazione dell’opera, ma anche l’ importanza che all’epoca ebbe la sua realizzazione per la Congregazione celestina.

La progettazione e le prime fasi costruttive della nuova chiesa (1549-1582) sono contemporanee ai lavori del Concilio di Trento (1545-1563).  Così come l’abate generale celestino – sull’onda del rigore necessario a ridare vigore alla Chiesa indebolita dalle “dottrine eretiche” sempre più diffuse, anche in ambito leccese[4] – avverte la necessità di rammentare ai suoi frati le antiche regole della Congregazione tramite la stesura in lingua volgare di Le cerimonie dei Monaci Celestini, così fa esprimere da Gabriele Riccardi lo stesso rigore nell’impianto base della chiesa leccese, atta, tra le altre, a rendere manifesta a tutti i fedeli la dottrina celestina divulgata sotto il controllo del priore della comunità monastica locale. Il rigore voluto da Fra Iacopo è tale da far pensare che nelle primissime fasi l’opera di Riccardi (1549-1582) abbia anticipato le Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae del cardinale Carlo Borromeo[5], in quanto nell’impianto della chiesa si riscontrano gran parte delle indicazioni raccolte nel trattato del Santo. Ci si chiede, dunque, quale fosse all’epoca la rinomanza di Gabriele Riccardi e se oltrepassasse i confini locali, se, quali e quante fonti di ispirazione gli abati generali celestini offrirono all’architetto per poter realizzare il repertorio architettonico e scultoreo presente nella chiesa leccese. È innegabile, ad esempio, la rispondenza tra gli elementi decorativi del monumento funebre di Celestino V di Girolamo Pittoni e alcuni presenti non solo in Santa Croce, ma anche sulle colonne e l’architrave del portale di Santa Maria degli Angeli dei Minimi di San Francesco di Paola in Lecce, realizzato anni prima dallo stesso Riccardi.

Mausoleo di Celestino V

 

La possibilità di  costruire una chiesa di tale imponenza era dovuta, alla ricchezza dell’insediamento leccese – feudatario di Carmiano e Magliano[6]-, all’epoca tra i più ricchi della Congregazione celestina, così come è emerso da Le cerimonie dei Monaci Celestini, ma anche perché il pio luogo era di patronato regio e il  detentore del beneficio ecclesiastico nel 1549, sino al 1577, era Carlo V[7].

La realizzazione dell’opera – il solo insediamento celestino di nuova fabbricazione realizzato almeno sino al 1590[8] -, può essere letta come un’occasione unica per la Congregazione Celestina di trasformare in pietra i precetti tramandati da Celestino V, i dettami in corso di definizione della Controriforma e rendere omaggio a Carlo V in qualità di difensore della Chiesa. Si spiegherebbe così l’opulenza della facciata, non riscontrabile in nessun’altra chiesa celestina, ma anche l’impegno costante degli abati generali che si avvicendarono nel corso della realizzazione delle varie fasi costruttive, come, ad esempio, è intuibile osservando il frontespizio degli Opuscola omnia del Santo pubblicati nel 1640 da frate Celestino Telera[9], dov’è raffigurato Celestino V tra l’Umiltà e la Sapienza, poste nello stesso periodo anche ai lati della facciata leccese.

 

A causa della necessità di essere al passo con i tempi, l’eventuale tributo dei Celestini a Carlo V – già espresso dal potere civico con l’Arco di Trionfo realizzato nel 1548 –  non è più leggibile (sul portale centrale risalente al 1606 Francesco Antonio Zimbalo scolpì lo stemma di Filippo III, all’epoca detentore del beneficio ecclesiastico), a meno che non si vogliano interpretare le sei mensole antropomorfe della balconata, come i nemici della Chiesa sopraffatti dall’imperatore. Alla genuflessione fra Iacopo dedica ben tre capitoli di Le cerimonie dei Monaci Celestini.

Nonostante nel corso del tempo la facciata sia stata sempre più arricchita di nuovi elementi iconografici, derivanti sia dalle vicissitudini storiche, sia da nuove esigenze di carattere dottrinale nel frattempo sviluppatesi, a ben guardare il primitivo messaggio,  rivolto alla popolazione con gli elementi essenziali e agli eruditi con l’esorbitante tripudio di allegorie, è ancora leggibile in facciata (lo è meno all’interno dell’edificio, a causa delle varie trasformazioni avvenute nel corso dei secoli).

Osservando il prospetto di Santa Croce si notano immediatamente gli elementi fondamentali che informano chi si appresta ad entrare in chiesa, sia nella partizione orizzontale (i due ordini e il fastigio), sia in quella verticale (corrispondente alla navata maggiore e alle due laterali). Dopo aver  letto De invocazione, venerazione et reliquiis sanctorum et sacris imaginibus stilata nella XXV sessione del Concilio di Trento del dicembre 1563, si capisce cosa vuole indicare ai fedeli: la chiesa di Santa Croce, in sintesi, è un luogo dove grazie all’insegnamento dei frati celestini, i fedeli hanno la possibilità di dare tributo e venerare in modo corretto Cristo, la Vergine madre di Dio e tutti i santi.

 

Note

[1] D. A. Wion, Lignum Vitae, Ornamentum, & Decus Ecclesiae, in quinque libros divisus, Venezia 1595, p. 99.

[2] Cfr. I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, Bologna 1549; Il modello di Martino Lutero, Venezia 1555; De necessitate et utilitate crucis humanae vitae libellus, Roma 1556.

[3] Gli storici che hanno studiato la chiesa riportano al 1549 la posa della prima pietra del pio edificio. Le vicende storiche ed architettoniche di Santa Croce ormai sono note, anche se si spera in una revisione unitaria di quelle che circolano nei siti divulgativi sul web. La bibliografia è vastissima  e in continuo aggiornamento, è impossibile indicarla tutta, ma è innegabile affermare che chiunque abbia condotto ricerche  sul monumento perlomeno negli ultimi vent’anni, apportando nuovi significativi contributi, ha consultato, tra gli altri, i testi a seguire: C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979); M. Calvesi, M. Manieri Elia, Architettura barocca a Lecce e in Terra di Puglia, Roma 1971; M. Paone (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina 1974; M. Fagiolo – V. Cazzato, Le città nella storia d’Italia. Lecce, Roma-Bari 1984-88; M. Manieri Elia, Barocco Leccese, Milano 1989; A. Cassiano, V. Cazzato, Santa Croce a Lecce. Storia e restauri, Galatina 1997.

[4] Alla luce degli scritti di fra Iacopo, potrebbe essere approfondito il ruolo che ebbero i celestini leccesi nel contrastare le “dottrine eretiche”, da confrontare sia con quello degli altri ordini religiosi già presenti in città, sia con quello degli ordini appositamente fondati, a partire dai frati Cappuccini, che nel 1533 fondarono presso Rugge il primo insediamento della loro Provincia di Puglia (cui si aggiunse nel 1553 il ricovero di San Sebastiano e nel 1570 il convento di Santa Maria dell’Alto), e in seguito dai Gesuiti (che si stanziarono  nel 1574)  cui dal 1588 si aggiunsero Fatebenefratelli e Teatini.

[5] Cfr. C. Borromeo, Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae, Milano 1577. Le Instructiones sono già state prese in considerazione, nell’ambito della storia dell’architettura leccese, da Francesco Del Sole (Cfr. F. Del Sole, Fenomenologia del Barocco leccese. Un delicato compromesso fra Controriforma e Riforma cattolica, in Bollettino Telematico dell’Arte, 25 luglio 2021, n. 916.

[6] Cfr. M.E. Petrelli, Palazzo dei Celestini a Carmiano: memorie di barocco e tabacco, in fondazioneterradotranto.it, 14.06.2018.

[7] Il trecentesco complesso celestino di Santa Croce, fondato dal conte Gualtieri VI di Brienne, sorgeva vicino al castello medievale. Quando nel 1537 si decise di ingrandire la struttura militare e allargare lo spiazzo antistante, furono dismessi assieme alla cappella regia della Trinità, ricostruita a spese della Regia Corte nel 1562, e alle cappelle di patronato regio di San Leonardo Confessore e Santi Giacomo e Filippo (Cfr G.C. Infantino. Lecce sacra, Lecce 1634, a cura di M. Cazzato, Lecce 2022, pp. 182-83).

[8] Affermazione che si evince confrontando gli elenchi dei monasteri celestini pubblicati nel 1549 (Cfr. I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini… cit.) e nel 1590 (Cfr. Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, Bologna  1590).

[9] Cfr. C. Telera, S. Petri Caelestini PP.V. Opuscola Omnia, Napoli 1640. Strenuo difensore di Celestino V, frate Celestino Telera di Manfredonia fu abate generale della Congregazione dal 1660 al 1664. Oltre agli opuscoli di Pietro da Morrone, scrisse le Historie sagre degli huomini illustri della Congregazione de’ Celestini, pubblicato a Bologna nel 1648. Alla sua morte, avvenuta nel 1670, l’abate generale Matteo da Napoli fece erigere in suo onore un monumento.

 

Per la prima parte vedi qui:

Santa Croce di Lecce e l’abate generale celestino fra Iacopo da Lezze (parte prima) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Palazzo dei Celestini a Carmiano: memorie di barocco e tabacco

Fig.1. La facciata

 

di Maria Elena Petrelli

La storia di una comunità è inestricabilmente legata ai suoi luoghi ed ogni luogo può restituire al presente i frammenti di un’identità collettiva in costante ridefinizione. Ciò che siamo stati non ci dice tutto su ciò che saremo ma è certamente il punto da cui partire per costruire le basi del nostro futuro. From roots to routes. Dalle radici sotterranee alle strade da percorrere. Dalle memorie già scritte alle storie ancora da scrivere.

Carmiano è un piccolo comune in provincia di Lecce che da anni sembra in attesa di una svolta. Tra i tesori che i giovani carmianesi hanno ereditato dal passato ci sono fotografie sbiadite di una chiesa cinquecentesca demolita negli anni ’60 del secolo scorso e la facciata decadente di un palazzo baronale abitato per tre secoli e mezzo dai Padri Celestini. Il destino di questo palazzo sembra essere stato ormai decretato da una sentenza non scritta: per anni l’indifferenza e la rassegnazione hanno relegato questo bene architettonico, il cui valore è stato riconosciuto anche dalla Soprintendenza per i Beni Ambientali, Artistici e Storici della Puglia, ai margini della strada provinciale per Lecce, percorsa ogni giorno da moltissimi cittadini inconsapevoli.

Recuperare la storia di questo edificio significa ridare senso ai luoghi che abitiamo, assumendo consapevolezza di ciò che ci circonda e restituendo al presente l’importanza che indubbiamente questo luogo ha rappresentato nel corso dei secoli per l’intera comunità locale.

Fig.2. Una delle due statue della facciata

 

I Celestini giunsero a Lecce nel 1353 per volontà del conte di Lecce e duca di Atene Gualtieri VI di Brienne e furono dotati di un consistente patrimonio immobiliare[1]. Segno tangibile del loro passaggio sono le opere leccesi di Santa Croce e del monumentale palazzo adiacente, oggi sede della Prefettura e dell’Amministrazione Provinciale. Nel 1448 i Celestini acquistarono i feudi di Carmiano e Magliano dal principe Giovanni Antonio Orsini Del Balzo, figlio della regina Maria d’Enghein, come testimonia l’atto rogato il 29 settembre di quell’anno dal notaio Adamo Argenteriis di Lecce[2].

lo stemma dei Celestini sulla facciata

 

Occorre precisare che, a partire dal XV secolo, la frantumata geografia feudale in Terra d’Otranto fu caratterizzata da una marcata precarietà del possesso: tale instabilità nel mercato della terra era stata causata dal diffuso sistema della compravendita che rendeva precaria la presenza delle famiglie nobili nei vari feudi; l’investimento signorile era stato per molte casate un modo per consolidare la propria ascesa sociale oltre che lo strumento per collocare e valorizzare le fortune economiche[3]. Questo fenomeno di precarietà non toccò la feudalità ecclesiastica che non si lasciò coinvolgere dalla compravendita feudale e non rimase implicata nella crisi che aveva invece investito l’antica nobiltà laica[4]. La durata della titolarità signorile per le istituzioni religiose non ebbe alcuna interruzione temporale, terminando il suo ciclo vitale con le leggi francesi del 1806 che sancirono l’abolizione della feudalità nel Regno di Napoli; i Celestini di Santa Croce sono un esempio evidente di questa tendenza, in quanto rimasero i signori del feudo di Carmiano e Magliano sino al 1807[5].

È chiaro che, nel corso di quasi quattro secoli, tra Lecce e Carmiano venne ad instaurarsi un intreccio di rapporti molto stretto, riconducibile non solo al semplice esercizio del governo feudale ma riguardante anche la vita interna dell’istituzione religiosa.

Fig.4

 

La presenza della baronia celestiniana lasciò il segno nella storia di Carmiano e Magliano non soltanto sui luoghi ma anche sul carattere e sul vissuto religioso della comunità: il monaco celestino veniva guardato sempre con rispetto e con timore in quanto da un lato celebrava gli uffici divini e dall’altro si occupava di riscuotere le decime, amministrare la giustizia e dettare le regole del comportamento civile. L’amministrazione ecclesiastica non si differenziava da quella degli altri baroni feudali tuttavia, in alcuni casi, i Celestini si dimostrarono sensibili alle necessità della popolazione, spesso infatti permisero concessioni enfiteutiche di case e terre, credito per i proprietari, affitto di beni rustici e arrendamento di introiti: ciò che veniva raccolto con le entrate feudali tornava in parte agli stessi contribuenti sotto forma di finanziamenti[6]. Effettuando un bilancio complessivo della loro permanenza feudale a Carmiano, è certamente innegabile il contributo apportato dai Padri allo sviluppo locale e alla formazione morale della comunità.

lo stemma dell’ordine religioso nell’interno della chiesa di Carmiano

 

Uno dei primi obiettivi perseguiti dal monastero fu quello di far crescere l’impianto urbanistico del casale e di sostenere attivamente il popolamento del territorio, fatto che avrebbe certamente incrementato il gettito decimale. Le circostanze storiche furono favorevoli a tale iniziativa poiché la pressante minaccia turca sul litorale salentino per tutto il XV e XVI secolo favorì la concentrazione demografica verso l’interno della provincia[7]. Secondo alcuni studi, fu proprio con la presenza strutturata dei Celestini che le due comunità di Carmiano e Magliano acquistarono la piena configurazione di universitas civium, sebbene non si escluda, già nel periodo precedente, l’esistenza dei due insediamenti umani non ancora solidi perché minacciati dalla presenza dei lupi e non in grado di avviare lavori di dissodamento della foresta circostante[8].

Quando i Celestini decisero di costruire la propria residenza baronale a Carmiano scelsero una zona distante da quella del primo nucleo abitativo, stanziandosi nell’immediata periferia del paese, lungo un’importante arteria di comunicazione con la città di Lecce, la cosiddetta via dell’Osanna[9]. La scelta non fu affatto casuale poiché veniva in questo modo facilitato il trasporto delle merci come olio, grano e vino verso i depositi, inoltre la posizione era anche ideale per raggiungere facilmente la comunità di Magliano, anch’essa sotto la giurisdizione feudale dei Padri[10].

Fig.6

 

Secondo alcune ipotesi, il palazzo baronale venne ampliato e rimodernato da parte dei Celestini nel corso del tempo a partire da un nucleo preesistente[11]. La facciata del monastero venne iniziata nel 1659, come dimostra un’iscrizione, oramai non più visibile, incisa sul cornicione del semiprospetto inferiore e, secondo quanto riportato da un’altra iscrizione incisa sull’estremità opposta, essa venne terminata nel 1695[12]. Molto probabilmente contribuì alla costruzione della facciata anche il famoso architetto del barocco leccese Giuseppe Zimbalo che nel 1667 era certamente a servizio dei Celestini[13].

Fig.7

 

Lo Zimbalo era nato a Lecce nel 1620 da Sigismondo e Lucrezia Lecciso, forse originaria di Carmiano; grazie agli insegnamenti dello zio paterno Francesc’Antonio e di Cesare Penna, egli venne qualificato, all’età di soli diciotto anni, come «mastro scoltore di pietra» mentre lavorava già da tempo alla chiesa e al convento delle Carmelitane Scalze[14]. Giuseppe nel 1644 sposò Vittoria Indricci proprio nel casale di Carmiano dove risiedette con certezza documentaria a partire dal 1656, quando acquistò «una casa terranea scoverta, con l’uso per l’uscita alla curte sita dentro Carmiano nel luogo detto volgarmente del trappeto vecchio»[15].

Quasi sicuramente appartengono allo Zimbalo le due statue lapidee presenti nelle nicchie che affiancano il portale cinquecentesco del palazzo baronale (figg.1, 2). Nonostante l’avanzato stato di degrado delle statue e la bassa qualità della pietra utilizzata nella costruzione, è possibile evidenziare una somiglianza con le due figure dalle folte capigliature poste sulla facciata della chiesa di Santa Croce a Lecce, quest’ultima opera indubbia dello Zimbalo: si tratta delle virtù dell’Umiltà e della Sapienza, caratterizzanti l’ordine monastico dei Celestini[16]. Alla metà degli anni cinquanta del ‘600 appartengono anche l’altare maggiore, che tuttavia nella configurazione attuale mostra un certo rimaneggiamento, e il portale, entrambi appartenenti alla chiesa dell’Immacolata, il primo edificio di Carmiano in cui è possibile notare la presenza di alcuni elementi formali tipici del linguaggio zimbalesco. Gli interventi operati dallo Zimbalo in questa chiesa suburbana sono testimonianza del processo di integrazione che l’architetto visse all’interno della comunità locale. Il prestigio attribuitogli non derivava soltanto dai rapporti molto stretti che egli aveva instaurato con i “baroni” locali ma soprattutto dal ruolo di primo piano che egli aveva ormai assunto sulla scena artistica provinciale[17]. Il legame che lo Zimbalo aveva instaurato con la comunità di Carmiano rimase molto forte come testimonia un episodio del 1668: di fronte all’usurpazione di una strada pubblica da parte di due sacerdoti, si decise di ricorrere alla Regia Udienza ma, poiché l’Università di Carmiano si trovava oppressa da debiti e vessazioni, fu proprio Giuseppe Zimbalo a rendersi disponibile per il pagamento di tutte le spese a sostegno della causa fino alla sentenza definitiva[18].

Fig.8

 

Per questa importante presenza dello Zimbalo a Carmiano, possiamo affermare che Palazzo dei Celestini fu anche un cenacolo culturale, all’interno del quale l’architetto attinse le grandi conoscenze teologiche e concettuali che ispirarono la sua arte barocca.

Fig.9

 

Il palazzo baronale di Carmiano si erge con imponenza e questo grazie alle sue ragguardevoli dimensioni pari a 45,50 metri di lunghezza e 13 metri di altezza. Alla seconda metà del XVI secolo è riconducibile l’insegna della Santa Croce al centro del portale catalano-durazzesco: tale datazione viene ipotizzata per la presenza dei nastri laterali, utilizzati in quel periodo nella decorazione degli scudi gentilizi ecclesiastici; anche la cornice del portale è interrotta alla sommità per far posto allo stesso stemma[19] (fig. 3).

Una porta – che risulta più bassa rispetto alle altre della facciata e, dunque, presumibilmente più antica – immette all’interno di una chiesetta dedicata a San Donato, ormai spoglia del corredo religioso ma ricca ancora di un altare fregiato da stucchi e marmi di vario colore (fig. 4). All’interno di questa cappella erano precedentemente collocate due opere dei primi decenni del Seicento, attribuibili a Paolo Finoglio: La Madonna di Loreto e santi, tela dell’altare maggiore, e L’incoronazione di S. Carlo Borromeo[20].

Nell’atrio del palazzo è presente un affresco che rappresenta la glorificazione dell’ordine Benedettino: vi sono dipinti quattro tondi disposti simmetricamente e collegati a quello centrale rappresentante lo stemma della Santa Croce sorretto da due angeli; questo è sormontato da una corona reale, dal mitra e dalla pastorale e ciò indica che il palazzo era posto sotto la giurisdizione della massima autorità dei Celestini presenti in Terra d’Otranto[21] (fig. 5).

Il primo dei quattro tondi circostanti raffigura la vegliarda immagine di San Benedetto seduto sul trono abaziale e circondato dai suoi seguaci ai quali mostra il libro della Regola come l’unica strada da seguire per poter raggiungere il cielo[22]. Nell’altro tondo troviamo la raffigurazione di Santa Scolastica in abiti monacali che nella mano regge il pastorale; sopra il suo capo compare una colomba che si dirige verso il cielo e tale simbologia si riferisce ad un episodio miracoloso: San Benedetto, fratello della santa, nel momento della morte di lei vide l’anima della sorella raggiungere il paradiso sotto forma di colomba[23] (fig. 6). Nel terzo tondo campeggia una delle prime immagini raffigurate in Italia di Santa Gertrude, la quale, a differenza dell’iconografia tradizionale, non indossa gli abiti cistercensi ma è rappresentata come una monaca benedettina. In questo dipinto Santa Gertrude appare inginocchiata e con lo sguardo rivolto al cielo; accanto a lei è possibile notare un tavolino su cui poggia una clessidra e un crocifisso[24] (fig. 7). Infine, nel quarto tondo è raffigurata l’immagine di San Celestino che, in abiti pontificali, è intento a compiere il famoso e coraggioso gesto del rifiuto: il volto sembra segnato dalla sofferenza ma nello stesso tempo il gesto di allontanare la tiara pontificia mostra una grande risolutezza e forza spirituale[25]. A compensare la staticità dei medaglioni troviamo gli affreschi circostanti caratterizzati da un movimento di nastri annodati ad un anello che svolazzano nell’aria ed anche la raffigurazione dinamica di cinquantadue angeli che si affannano a tirare corde cariche di fiori e di frutta e a reggere simboli di potere, come ad esempio una corona regale (figg. 8, 9); due di questi angeli, posizionati nella lunetta interna al di sopra del portone dell’atrio, sorreggono anche un cartiglio contenente un’iscrizione latina, dove la data del 1688 indica probabilmente l’anno in cui venne affrescato l’atrio[26] (fig. 10). Il dipinto nel suo complesso vuole dimostrare la continuità tra passato e presente e nello stesso tempo esaltare la storia dell’Ordine: dalla raffigurazione dei fondatori, San Benedetto e Santa Scolastica, si passa a quella dei rinnovatori e mistici, San Celestino e Santa Gertrude, ma è la presenza della nuova comunità dei Padri Celestini a garantire la continuità con la grandezza dei vecchi tempi: la rievocazione del passato è nello stesso tempo celebrazione del presente[27].

Fig.10

 

In una stanza adiacente alla cappella di San Donato compare sul muro un altro affresco che riproduce la Madonna del Riposo, conosciuta anche come Maria col Bambino dormiente, in cui il sonno del fanciullo diventa metafora della sua futura morte (fig. 11).

Nell’affresco, oggi in pessime condizioni, la figura della Madonna è profondamente umanizzata, lontana da una forma di esaltazione eroica ed idealizzante, infatti viene raffigurata come una madre qualunque che cerca di far addormentare il figlio con dolcezza[28]. Tuttavia, un velo di malinconia traspare dal suo volto: Maria tiene in braccio quel bambino come se volesse difenderlo dal mondo, proteggendolo da un destino inevitabile; lei sa bene che non potrà mai essere una madre come le altre e che quel figlio prezioso, tenuto stretto tra le braccia, non è soltanto suo ma appartiene al mondo.

Nel soggiorno, che è la stanza più danneggiata, troviamo la presenza di un camino decorato con due putti che reggono una cornice ellittica; le loro membra sembrano bloccate ma questa staticità delle figure contrasta con il fluttuante drappeggio che cade alle loro spalle[29] (fig. 12).

Fig.12

 

Il chiostro, che appartiene al nucleo più recente dell’edificio, è dominato da un pozzo del XVII secolo decorato con grande fastosità barocca. Il pozzo è formato da quattro colonne sormontate ciascuna da un capitello ionico. Al di sopra dei capitelli, presi a due a due, è posizionata una balaustra scanalata in pietra leccese (figg. 13, 14).

Fig.13

 

Fig.14

 

Il pozzo era, inoltre, sormontato da un blocco superiore contenente due stemmi: sul lato nord quello della Santa Croce, recante la data del 1627, e sul lato sud un’insegna con tre figure – la fascia, le rose e la stella – (fig. 15); oggi il pozzo si presenta privo di tale blocco in seguito ad un furto avvenuto nel 1991. Presso il lato sud del cortile è possibile individuale la presenza di un portale, ora murato, affiancato da una colombaia a muro[30] (fig. 16).

Fig.15

 

Fig.16

 

Infine, il piano superiore del palazzo comprende una serie di stanze comunicanti con un ampio e luminoso salone ricoperto da stucchi eleganti che incorniciano le porte di accesso ed alcuni riquadri ormai spogli di tele (fig. 17).

Fig. 17

 

Come accennato precedentemente, i Padri Celestini furono spodestati del loro feudo nel 1807 e alcuni di loro trovarono ospitalità a Carmiano nella dimora attigua alla chiesa dell’Immacolata, dove vissero in eremitaggio. Alla loro morte furono sepolti nella stessa chiesa, dove esistono ancora le loro tombe[31].

Con la fine della feudalità si svilupparono nuove forme contrattuali di conduzione della terra ed ebbe avvio la diffusione della piccola proprietà contadina che contribuì alla crescita economica e sociale della popolazione[32]. A Carmiano la presenza dei monaci aveva anche inciso sull’indole della cittadinanza, alimentando la diffusione di sentimenti come rassegnazione distaccata e accettazione apatica della realtà: la fine della feudalità contribuì a scuotere la popolazione, risvegliando le coscienze e indirizzandole al raggiungimento di nuovi traguardi di libertà[33].

In seguito alla cacciata dei Celestini e alla soppressione degli ordini religiosi possidenti e mendicanti[34], il palazzo baronale seguì il destino dei feudi di Carmiano e Magliano che, in un primo momento, vennero affittati a privati per poi essere messi in vendita con un’asta pubblica.

Il palazzo venne acquistato nel 1832 da Luigi Giusso, negoziante di origini genovesi che domiciliava a Napoli, per poi essere venduto alla fine del’800 alla famiglia Foscarini che lo utilizzò come residenza fino ai primi anni del ‘900, modificandone sensibilmente gli ambienti nel corso del tempo[35]. Infine, il palazzo venne acquistato nel 1931 dalla famiglia Portaccio di Lecce che riunificò lo stabile, adibendolo a locale di essicazione e di deposito di tabacco[36] (fig. 18).

Fig.18

 

Non era insolito che locali di grandi dimensioni, appartenuti agli ordini religiosi soppressi, vedessero cambiare la loro destinazione d’uso originaria: anche i conventi di San Domenico intra moenia ed extra moenia di Lecce, ad esempio, vennero riutilizzati, il primo, come Regia Manifattura dei Tabacchi e, il secondo, come mattatoio, poi come stabilimento vinicolo ed infine come Consorzio Agrario provinciale[37].

La prima licenza di coltivazione del tabacco fu rilasciata ai coniugi Portaccio nel 1929 quando l’ex palazzo baronale divenne “magazzino generale”, all’interno del quale avvenivano tutte le diverse fasi di produzione del tabacco. Come scrive Antonio Monte:

Fig.19

 

Negli 11 ambienti del piano terra erano ubicati la caldaia, i depositi delle casse e del tabacco sciolto, il vano scala e il monta carichi; nei 23 vani del primo piano vi erano le stufe, i depositi delle casse, del tabacco in colli e degli attrezzi, gli spogliatoi, la sala di allattamento, la caldaia della stufa a legna, le latrine, il vano scala e il monta carichi. Mentre nella nuova costruzione di recente realizzazione, collocata al secondo piano, erano ubicati un grande ambiente dove avveniva la lavorazione delle foglie, il corpo scala e il monta carichi[38].

Fig.20

 

Nel magazzino lavoravano circa 130 persone tra tabacchine e operai che seguivano il seguente orario di lavoro giornaliero: dalle 7.30 alle 15.30 nel periodo invernale e dalle 7.00 alle 15.00 durante il periodo estivo[39]. In quelle stesse stanze affrescate che un tempo avevano ospitato abati ed artisti, era possibile ora sentire l’odore acre del tabacco che rendeva amare le mani infaticabili delle lavoratrici. Molto probabilmente quegli ambienti – dove erano echeggiati, nel corso dei secoli, gli inni sommessi degli abati, le discussioni importanti di amministratori ed intellettuali, ma anche i segreti di giovani contesse – venivano adesso riempiti col fruscio logorante delle foglie di tabacco e con il canto disperato delle tabacchine. Costoro ebbero una funzione fondamentale nel processo di emancipazione della donna, affermandosi come ceto sociale produttivo nel corso del Novecento: il loro ruolo era duplice poiché si occupavano sia di produrre ricchezza per l’intera società salentina, in quanto il tabacco levantino era destinato al mercato mondiale, sia di procurare risorse per la sopravvivenza della propria famiglia. Tuttavia, a Carmiano, come nel resto del Salento, il lavoro delle tabacchine restava un lavoro stagionale mal pagato.

Il magazzino di Carmiano rimase attivo fino al 1974-75 quando finì la lavorazione e lo stabile chiuse definitivamente. In questo periodo vennero apportate delle modifiche architettoniche che servirono ad adattare l’ex residenza baronale dei Celestini ad una fabbrica di tabacco[40]. Ancora oggi all’interno dell’edificio è possibile notare la presenza di macchine ed attrezzature per la lavorazione del tabacco che necessiterebbero di essere pulite e restaurate in quanto rappresentano un’importante documentazione di storia locale (figg. 19, 20). Nel 1991 il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali dichiarò l’immobile d’interesse particolarmente importante ai fini della Legge n.1089 (1° giugno 1938), per via dell’attività produttiva che era stata svolta al suo interno per oltre cinquant’anni[41].

 

Come abbiamo dimostrato attraverso questa breve trattazione, il palazzo baronale è stato nel corso dei secoli un luogo centrale per la comunità di Carmiano: durante la baronia celestiniana rappresentò il luogo cardine dell’amministrazione feudale e fu anche cenacolo culturale di grande rilievo, soprattutto per la presenza di intellettuali e artisti del calibro di Giuseppe Zimbalo; successivamente assunse un notevole ruolo socio-economico, diventando la fabbrica di tabacco più importante del paese e radunando al suo interno un grande numero di operai e tabacchine. Questo palazzo, dunque, ha accompagnato la nascita e lo sviluppo di una comunità, partecipando al destino amaro della sua popolazione e diventando espressione di un cammino faticoso e contraddittorio verso il presente.

Di fronte a queste certezze storiche e constatando l’attuale stato di abbandono e decadenza in cui versa Palazzo dei Celestini, vogliamo oggi interrogarci provocatoriamente sul futuro: questo luogo può ancora essere un centro di aggregazione sociale e culturale attorno a cui radunare la comunità? La risposta a questa domanda dipende soltanto dalle scelte che avremo il coraggio di compiere.

Oggi la ristrutturazione di questo luogo è quanto mai urgente e necessaria: senza un intervento tempestivo, le tracce della storia di una comunità saranno smarrite per sempre. Non si tratta di perdere semplicemente un pezzo importante della nostra memoria, il rischio è quello di sprecare un’opportunità sociale, economica e culturale per le generazioni future.

Gli affreschi di un palazzo, l’odore del tabacco, il legame con l’evoluzione artistica del barocco leccese sono tutti frammenti organici di una stessa storia che le nostre coscienze civili non potranno continuare a rinnegare per lungo tempo.

From roots to routes: sta a noi adesso scegliere la rotta giusta.

Appendice fotografica

 

Bibliografia

A. Caputo, Il ciclo di vita di una baronia ecclesiastica, I, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008.

M. Cazzato, L’abate e l’architetto. Giuseppe Zimbalo (1620-1710) e i Celestini di S. Croce tra Lecce e Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità salentina in epoca moderna. Carmiano tra XV e XIX secolo, Galatina (Le), Congedo editore, 1991, pp. 313-334.

M. De Luca, Il Palazzo dei Celestini a Carmiano: un’emergenza architettonica in disuso, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 77-91.

S. Macchia, Sul sito del Palazzo baronale dei Celestini, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 63-76.

A.Monte, Tra storia feudale e archeologia industriale. Il Palazzo-fabbrica per la lavorazione del tabacco, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 137-148.

A.R. Pati, Le epigrafi latine di Carmiano, Tipografia Schirinzi, Carmiano, 2005.

G.Paticchia, Carmiano e Magliano. Compendio di storia patria, Galatina (Le), Libri Mitos, 2000.

M. Spedicato, Feudalità, crisi finanziaria e potere locale a Carmiano tra XVI e XVIII secolo, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità salentina in epoca moderna. Carmiano tra XV e XIX secolo, Galatina (Le), Congedo editore, 1991, pp. 97-122.

M. Spedicato, La signoria dei Celestini di S. Croce di Lecce nel feudo di Carmiano e Magliano (secc. XV-XIX), in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 19-61.

R. Trianni, Da residenza baronale a luogo di produzione. La storia di Palazzo dei Celestini dalla soppressione napoleonica ai primi del ‘900, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 93-136.

A. Vetrugno, L’arte in «Regola». Il programma iconografico del Palazzo dei Celestini di Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 155-174.

 

La maggior parte delle foto in appendice è stata gentilmente messa a disposizione da Antonio Vadacca.

Note

[1] A. Caputo, Il ciclo di vita di una baronia ecclesiastica, I, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, p. 13.

[2] Ivi, p. 103. Tuttavia, di questo atto, segnalato solo all’inizio del XVII secolo, non è stata ancora trovata alcuna traccia: in mancanza di documenti certi, è lecito presumere che non si trattò di un vero e proprio acquisto ma di una forma surrettizia di donazione effettuata in merito ad accordi precedenti e/o per disposizione di Maria d’Enghein. Cfr. M. Spedicato, La signoria dei Celestini di S. Croce di Lecce nel feudo di Carmiano e Magliano (secc. XV-XIX), in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce…cit., p. 26.

[3] A. Caputo, op. cit., pp. 9-10.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, pp. 155-157.

[7] M. Spedicato, Feudalità, crisi finanziaria e potere locale a Carmiano tra XVI e XVIII secolo, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità salentina in epoca moderna. Carmiano tra XV e XIX secolo, Galatina (Le), Congedo editore, 1991, p. 98.

[8] M. Spedicato, La signoria dei Celestini di S. Croce…cit., pp. 19, 25.

[9] M. Spedicato, Feudalità, crisi finanziaria…cit., p. 104.

[10] S. Macchia, Sul sito del Palazzo baronale dei Celestini, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p.70.

[11] M. De Luca, Il Palazzo dei Celestini a Carmiano: un’emergenza architettonica in disuso, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p. 77.

[12] M. Cazzato, L’abate e l’architetto. Giuseppe Zimbalo (1620-1710) e i Celestini di S. Croce tra Lecce e Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità…cit., p. 323.

[13] Ibidem.

[14] Ivi, p. 313.

[15] Ivi, p. 318.

[16] Ivi, pp. 324-325.

[17] Ibidem.

[18] Ivi, p. 327.

[19] M. De Luca, op. cit., p. 81.

[20] Ivi, pp. 84-85.

[21] Ibidem. Bisogna anche ricordare che questo palazzo godeva dell’immunità ecclesiastica: chiunque fosse ospitato in esso passava sotto la tutela dell’abate di S. Croce.

[22] A. R. Pati, Le epigrafi latine di Carmiano, Tipografia Schirinzi, Carmiano, 2005, pp. 49-53.

[23] M. De Luca, op. cit., pp. 86-88.

[24] Ibidem.

[25] Ibidem.

[26] M. Cazzato, op. cit., p. 323.

[27] P. A. Vetrugno, L’arte in «Regola». Il programma iconografico del Palazzo dei Celestini di Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p. 166.

[28] Ivi, p. 165.

[29] M. De Luca, op. cit., p. 83.

[30] Ivi, p. 84.

[31] G. Paticchia, Carmiano e Magliano. Compendio di storia patria, Galatina (Le), Libri Mitos, 2000, p. 40.

[32] A. Caputo, op. cit., pp.155-157.

[33] Ibidem.

[34] La soppressione degli ordini religiosi nel Regno di Napoli avvenne ad opera di Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat con ripetuti decreti, il primo emesso il 2 luglio 1806, poi il 13 febbraio 1807, il 12 gennaio 1808 fino a quello del 7 agosto 1809. Cfr. A. R. Trianni, Da residenza baronale a luogo di produzione. La storia di Palazzo dei Celestini dalla soppressione napoleonica ai primi del ‘900, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p. 93.

[35] Ivi, passim.

[36] Ivi, pp. 104-105.

[37] A. Monte, Tra storia feudale e archeologia industriale. Il Palazzo-fabbrica per la lavorazione del tabacco, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., pp. 146-147.

[38] Ibidem.

[39] Ibidem.

[40] Ibidem.

[41] Ivi, p. 148.

Qui il link per poter votare Palazzo dei Celestini sul sito del Fai: https://www.fondoambiente.it/luoghi/palazzo-celestini?ldc

Santa Croce in Lecce, emblema del barocco

di Teodoro De Cesare

Santa Croce è il monumento simbolo del barocco leccese, è l’edificio che incarna lo spirito artistico dell’architettura nel Salento. La chiesa è famosa per la decorazione ricca e sfarzosa della sua facciata, in particolar modo nella parte superiore.

Non è una chiesa barocca edificata ex novo, essa è stata infatti edificata in epoche precedenti. Si pensa che la sua origine possa risalire addirittura al XIV secolo: i gigli intorno al rosone centrale dovrebbero rappresentare i gigli donati dalla corona di Francia alla popolazione e alla prosperità dei celestini. Quei gigli, dunque, sarebbero un richiamo alla prima fondazione, all’epoca in cui Gualtieri VI di Brienne era conte di Lecce, il quale richiese al vescovo, per conto dei padri celestini, di lasciar ad essi una chiesa di proprietà del vescovo stesso. Il conte volle che la chiesa fosse intitolata a “Santa Maria Annuntiata” e a “San Leonardo confessore”, ma poiché la chiesa era già conosciuta con il nome di Santa Croce, a livello popolare rimase questa titolazione . Gualtieri morì nel 1356 e i lavori furono interrotti; i documenti scarseggiano su una possibile prosecuzione del’opera.

È certo che la chiesa fu nuovamente sottoposta a lavori di costruzione a partire dal 1549 su sollecitazione dei padri celestini. Qui comincia la storia della chiesa che arriverà agli anni della conclusione barocca nella facciata. La ricostruzione della chiesa di santa Croce, dunque, ebbe luogo a partire dal 1549 grazie all’architetto Gabriele Riccardi che ne predispose il progetto. Egli creò la struttura della basilica e compì anche la parte inferiore della facciata, di equilibrio classico e con richiami all’architettura romanica nella cornice ad archetti ciechi. La parete è divisa da sei colonne con capitelli zoomorfi ed è sormontata da un fregio di ispirazione classica. Nel 1606, per opera di Francesco Antonio Zimbalo, si aggiunsero una sorta di protiro a colonne binate su plinti e i due portali laterali. La parte superiore fu eseguita da Cesare Penna e Giuseppe Zimbalo intorno al 1646. Essa si poggia su una balconata sostenuta da cariatidi zoomorfe o simboliche, la balaustra è composta da 13 putti recanti emblemi. Il grande rosone centrale risente della tradizione romanica ed è circondato da una ricchissima cornice; quattro colonne hanno una decorazione fantasiosa; a queste si affianca il fregio, le cui lettere infrascate caratterizzano il nome dell’abate committente, don Matteo Napolitano ; due colonne sorreggono le statue di san Pietro Celestino e san Benedetto. Tutto è unito da una resa plastica di sfrenata fantasia e libertà inventiva, senza per questo risultare troppo ridondante ed eccessivamente abbondante, infatti la struttura risulta, nella sua ricchezza, semplice e chiara. Questa leggerezza nella ricchezza è dovuta sicuramente alla pietra leccese, facile da lavorare, di un colore chiaro che rende vivace la composizione. Queste brevi notizie ci fanno comprendere che solo la vicenda costruttiva della facciata occupa uno spazio temporale di circa cento anni.

 

(continua…)

L’articolo è stato pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°6. Verrà riproposto su Spigolature Salentina in più fasi.

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