Sternatia: un indovinello in griko

di Armando Polito

Sull’origine del griko rinvio per brevità a https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/07/la-grecia-salentina-nellatlante-del-pacelli-1803/, dove il lettore troverà pure notizie su Giuseppe Morosi (1844-1891), il grecista milanese che raccolse leggende, canti, proverbi e indovinelli in griko nella prima sezione della sua pubblicazione Studi sui dialetti greci della Terra d’Otranto, Tipografia editrice salentina, Lecce, 18701.

Il nostro indovinello, proveniente da Sternatia, è a p. 80, da cui lo riproduco in formato immagine.

Ho pensato di ricostruire il testo come sarebbe stato se scritto in greco classico. Tutto scorrevolissimo, (tant’è che non c’è stato neppure bisogno di consultare il relativo vocabolario), meno una parola: icaturi. Nessun aiuto mi ha fornito il Vocabolario dei dialetti salentini (Congedo, Galatina, 1976) di Gerard Rohlfs e nemmeno il Vocabolario griko-italiano di Mauro Cassoni (Argo, Lecce, 1999). Dirò di più: la voce è assente pure nel repertorio lessicale che nel volume del Morosi occupa la seconda parte. A quel punto mi è venuto il sospettoche fossero due parole, trascritte come se si trattasse di una parola composta. Icaturi, perciò, andrebbe diviso in i e caturi. La prima parola (i) corrisponderebbe al greco classico attico εἷ, mentre la seconda (caturi) è voce del verbo griko caturò, questo sì registrato dal Morosi a p. 177, dal Cassoni a p. 120 e dal Rholfs a p. 916 del terzo volume).

Ἒχω μίαν μάνδραν πρόβατα· εἷ κατουρεῖ μία, εἷ κατουροῦσιν ὅλα.

(leggi: Echo mian mandran pròbata: ei caturuei mia, ei caturusin ola; traduzione letterale della trascrizione in greco classico: ho una sola mandria; pecore; dove orina una, dove orinano tutte).

Il dubbio sollevato da icaturi pone il problema dell’attendibilità della fonte orale e della fedeltà della registrazione grafica; quest’ultima oggi è superabile dalle moderne tecniche di registrazione, mentre l’attendibilità della fonte dev’essere oggetto di attento studio da parte del ricercatore che, direttamente, o servendosi di informatori all’altezza,  deve anche saper mettere a suo agio il soggetto-fonte perché non risulti incrinata in un modo o nell’altro la sua spontaneità.

Molto probabilmente anche i pochi che a Sternatia ancora parlano il griko non conoscono questo indovinello; tuttavia sarebbe interessantissimo avere un riscontro positivo e negativo. A distanza di due anni dal volume del Morosi Giuseppe Pitrè pubblicava Studi di poesia popolare, Pedone-Lauriel, Palermo2, dove, a p. 343, citando il Morosi e il testo in griko dell’indovinello, ne riportava la variante siciliana.

Risulta aggiunto un particolare determinante per tentare di risolvere l’indovinello: l’inusitato colore rosso delle pecore. Debbo essere onesto: la mia fervida fantasia, che spesso mi porta a creare ardite metafore (ma capire quelle degli altri è più complicato …), probabilmente non sarebbe bastata a risolvere esattamente l’indovinello e probabilmente mi sarei tormentato invano per più giorni, se l’occhio nel leggere il testo non fosse stato obbligato quasi a leggere pure la soluzione, che nell’immagine precedente ho volontariamente tagliato per non togliere pure a voi il gusto. Niente da fare= Allora eccovi l’immagine prexcedente col dettaglio che avevo omesso.

Una forma più arguta e gentile per sottolineare la presunta dabbenaggine della pecora rispetto al proverbio salentino: Ci la prima pecura si mena intra ‘llu puzzu, totte l’addhe la sècutanu (Se la prima pecora si butta nel pozzo, tutte le altre la seguono), usato metaforicamente, per fortuna, per stigmatizzare il spirito di emulazione, purtroppo solo della peggiore umanità …

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1 Integralmente consultabile e scaricabile in https://books.google.it/books?id=J_EGAAAAQAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false

2 Integralmente consultabile e scaricabile in https://books.google.it/books?id=sDD0ljFaHjoC&pg=PA343&dq=Giuseppe+Morosdi&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj93JDaocnbAhXFjiwKHYaOCPsQ6AEIPjAE#v=onepage&q=Giuseppe%20Morosdi&f=false

Gianni De Santis, musicista di Sternatia, uno degli ultimi cantori in griko

de santis

Parole per te

di Diego Rizzo

 

Forse è giusto che il griko venga lasciato morire in pace, a questo punto”.

Così mi disse, una delle ultime volte che andai a fargli visita.

“Perché dici così?”  – Replicai. Era amareggiato, non più arrabbiato come di solito quando si toccava questo tema.

Perché questa lingua era un gigante che affondava i piedi nella terra e che si reggeva in piedi grazie al rapporto tra i parlanti e quella stessa terra che oggi hanno abbandonato”.

“Vabbè, ma ci sono tante cose che si possono ancora fare no? A livello culturale intendo”.

E cosa? Il griko è stato abbandonato, usato solo per reperire finanziamenti e al massimo trattato come un vecchio pezzo morto da museo. Però nessuno ha il coraggio di ammettere certe cose. Nessuno viene a confrontarsi con me, perché sanno che non la spunterebbero e che sarei duro. Poi fanno avere i fondi a chi di griko non ne capisce nulla e alla fine vengono da me per salvare capra e cavoli. Poi naturalmente riconoscimenti e palchi non sono mai per me. Ma lo sai che a me non interessa, mi dispiace solo che maltrattino così questa lingua che sento mia e che mio padre mi ha donato con tanto amore”.

a sinistra Gianni de Santis, a destra suo fratello Rocco. Musicisti di Sternatia,  gli ultimi cantori in griko
a sinistra Gianni de Santis, a destra suo fratello Rocco. Musicisti di Sternatia, gli ultimi cantori in griko

Era così, il mio amico Gianni. Una persona piena di passione per ciò che amava, ma al tempo stesso fiero, orgoglioso, acuto nelle analisi e capace di essere molto duro e diretto.

Con una tristezza infinita devo usare l’imperfetto, era. Era, perché oggi Gianni non c’è più. Ha smesso di soffrire dopo una lunga lotta, senza arrendersi mai, com’era nel suo stile.

E, come tutti i generosi, non è andato via senza prima lasciarci alcuni importanti doni.

“Lòja ja sena”, parole per te, è il titolo di un suo testo in cui utilizzò parole grike che rischiavano di estinguersi.

Mi piace pensare alla sua vita come ad un’immensa canzone in cui ha lasciato tante cose. Testi di una bellezza poetica profonda e rara, quasi visionaria, come Mu fani e Ìtela; parole che sgorgano direttamente dall’anima e dall’amore per il padre, come Echi; opere che hanno fatto ridere a crepapelle e al tempo stesso riflettere come la sua Genesi in dialetto; un romanzo epistolare, Maravà, in cui la storia di un’amicizia senza confini attraversa un mondo che sta scomparendo, che ci ricorda chi eravamo e disegna quei cerchi imprevedibili che la vita a volte è capace di fare.

Chiunque lo abbia conosciuto almeno un po’ sa bene che la lista delle opere artistiche sarebbe assolutamente insufficiente per descrivere la sua eredità. Sì, perché Gianni De Santis, oltre alle opere, ha lasciato un testamento assai più importante: la voglia di sorridere e far sorridere, sempre e comunque; il coraggio di dimostrare il proprio affetto; il dovere morale di dire la verità anche se questo non porta vantaggi personali; la capacità di superare qualsiasi ostacolo grazie all’amore che si porta dentro.

Gianni non era abituato a chiedere, non gli piaceva e in questo l’ho sempre compreso, ma oggi, per amor suo, farò diversamente: chiedo a tutti i salentini di non lasciar morire quella lingua a cui ha dedicato la sua vita e la sua arte.

Vi chiedo di ascoltare, leggere e capire. Vi chiedo di seguire il suo esempio.

Chi può e vuole, faccia tutto questo.

Chi può e non vuole, perché mai ha voluto, abbia almeno la compiacenza di tacere.

 

“Árimo isù pu stei                                        Chissà tu dove sei

Linnàci p’en astrèi                                        Lumino che non luccica

Ce s’an lumèra anàtti to pensièri”               Ma come fuoco accendi i miei pensieri

de santis2

La Pasquetta di Sternatia

di Armando Polito

Coincide con la festa della Madonna degli Angeli, che cade il primo giovedì dopo Pasqua. Solo chi non rispetta le tradizioni altrui potrebbe definirla una Pasquetta a scoppio ritardato. Io nel mio piccolo mi permetto di ricordarla a modo mio presentandovi una poesia sul tema: I Pascarèddha  di Cesare De Santis1, tratta dalla raccolta in griko ce meni statti … e resta cenere2, Amaltea edizioni, Castrignano dei Greci, 2001, pagg. 40-42.

 

Tutta la poesia di questo autore è frutto della contaminazione  operata da un autodidatta che sentiva istintivamente il fascino dell’antico dialetto ed ebbe occasione di intuire  i suoi profondi legami col presente grazie all’incontro con un gruppo di greci provenienti da Corfù ed emigrati, come lui, in Germania. Per questo la sua lingua è, come vedremo, un misto di griko, neogreco e voci dialettali di origine neolatina. Insomma, una globalizzazione linguistica ante litteram, molto più nobile, mi permetto di affermarlo ad alta voce, di quella attualmente in atto, collage senz’anima proprio perché non solo le manca l’esperienza e la sofferenza della storia, ma risulta asservita in modo preponderante e prevaricante all’espressione di esigenze puramente materiali.

Per rendere meno complicata la vita al lettore ho riportato, strofa per strofa,  nella prima colonna il testo e la traduzione dell’autore, nella seconda, tutto di mio, il corrispondente testo in greco classico (ho lasciato tal quali, evidenziandole in corsivo, le parole di origine neolatina; i puntini, invece indicano le parole intraducibili nel greco classico), la pronuncia e in calce le note di commento.

 

Sternatia, chiesa di Santa Maria degli Angeli (immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Chiesa_Santa_Maria_degli_Angeli_Sternatia.jpg)
Sternatia, chiesa di Santa Maria degli Angeli (immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Chiesa_Santa_Maria_degli_Angeli_Sternatia.jpg)

 

 

 

 

 

 

 

 

Sternatia, chiesa di Santa Maria degli Angeli (immagine tratta da http://www.wherewewalked.info/feasts/04-April/Easter_Thurs.htm)
Sternatia, chiesa di Santa Maria degli Angeli (immagine tratta da http://www.wherewewalked.info/feasts/04-April/Easter_Thurs.htm)

 

 

 

immagine tratta da http://www.fiverooms.it/pasqua-a-lecce/
immagine tratta da http://www.fiverooms.it/pasqua-a-lecce/

Alla fine di questo viaggio qualcuno, probabilmente, sarà curioso  di conoscere il mio giudizio su questa poesia. Al di là di quanto ho puntualizzato nelle note e al di là dei dettagli descrittivi che ad una lettura superficiale potrebbero sembrare un po’ troppo ingenui e scontati, rimane la testimonianza documentaria e documentata (intendo dire in qualche modo registrata, in questo caso stampata), preziosa per quella entità potente, profonda ma al tempo stesso labilissima che è il dialetto, nei confronti del quale ancora oggi si continua ad assumere uno stupido atteggiamento, se non di disprezzo, di schifiltosa supponenza. Solo rimuovendo questo pregiudizio, in cui ha svolto un ruolo millenario la psicologia (non mi riferisco alla scienza) non disgiunta, e ti pareva!, dall’economia, sarà possibile evitare a qualsiasi lingua la sorte che inesorabilmente le spetta quando non viene usata: la morte.

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1 Sternatia, 1920-Milano, 1986.

2 Già il titolo preannuncia la struttura dell’opera: l’autore ha corredato ogni poesia della sua traduzione in italiano.  Anticipando quello che farò per I Pascarèddha dico subito che in greco classico ce meni statti … sarebbe stato καὶ μένει στακτή (leggi: cai mènei stactè). Chiedo scusa a chi conosce il griko, il greco classico,  quello bizantino e il neogreco (fortunati da cui ho tutto da imparare), ma il taglio divulgativo di questo post mi obbliga a registrare la pronuncia di ogni parola greca che vi compare perché a nessun lettore sia preclusa la possibilità di comprendere più o meno agevolmente le pur modeste osservazioni che farò. Sorvolando qui su ce meni, il cui rapporto col greco classico è evidente, mi soffermo su statti per dire solo che la differenza d’accento è dovuta al fatto che la voce non deriva dal classico stactè, aggettivo verbale di στάζω (leggi stazo)=stillare, che alla lettera significa stillato e che con valore sostantivato indica anche la liscivia (dettaglio, come fra pochissimo vedremo, importantissimo); statti deriva dal neogreco στάχτη (leggi stachte) che significa cenere e che non è altro che il classico stactè che ha cambiato accento e registrato uno slittamento di significato per metonimia, cioè dall’effetto (liscivia) alla causa (cenere).

Kalinifta: cantare l’amore in Griko

s. valentino

Quando mi è stato chiesto di scegliere dei versi per il giorno di San Valentino ho subito pensato a questo componimento classico di Vito Domenico Palumbo, accompagnato spesso con note celebri a tutti i salentini. In esso vi è, mi pare, l’amore nella sua massima espressione, l’amore che si vive in struggente silenzio, l’amore che non parla all’amata, se non apparentemente, parlando malinconicamente a se stesso, nell’oscurità notturna, mentre si avvia, mentre si allontana per non tornare più, come fa questa splendida lingua che va ormai perdendosi, il Griko salentino.

Ti en glicèa tusi nifta, ti en orria
c’evò e’ pplonno pensèonta s’esena
c’ettumpi’ sti ffenestrassu, agapimu,
tis kardi’ammu su nifto ti ppena.

Evo’ panta s’esena penseo,
jatì sena, fsichìmmu, gapò
ce pu pao, pu sirno, pu steo
sti kkardìa panta sena vastò.

C’esù mai de’ m’agàpise, òria-mu,
‘e ssu pònise mai puss’ emèna;
mai cìtt’oria chili-su ‘en ènifse
na mu pì loja agapi vloimèna!

T’asteràcia pu panu me vlepune
ce m’o fengo krifi’zzun nomèna
ce jelù ce mu lèune: ston ànemo
ta traùdia pelìs, ì chchamèna.

Kalinìfta! Se finno ce feo,
plàja esù ti ‘vò pirta prikò,
ma pu pao, pu sirno, pu steo
sti kkardìa panta sena vastò

Gli echi della Magna Grecia e di Bisanzio nell’antologia dedicata al più antico dialetto del Salento

Recensione pubblicata sul Sole 24 ore del lavoro di Brizio Montinaro, Canti di pianto e d’amore dell’antico Salento, Bompiani, Milano 1994-2001.

Un eroico lamento cuore della <gricità>

di Dario Del Corno

A Calimera, un’amena cittadina della Terra d’Otranto che porta nel suo stesso nome il gentile augurio di una “buona giornata”, l’alloro è detto dafni. Così, secondo il mito, si chiamava la ninfa amata da Apollo, che per sfuggire al dio si tramutò nella pianta che incorona i poeti. Per entrambi i nomi, non si tratta di un prestito isolato dall’idioma greco. A Calimera, come in alcuni paesi circostanti ed in altri della Calabria, sopravvive un’isola linguistica dove si parla il <<grico>>, un dialetto che presenta una sostanziale affinità con la lingua della vicina Grecia.

Le tracce di questa derivazione si perdono addietro nel tempo: il Salento fu uno degli approdi privilegiati dagli antichissimi colonizzatori, che tradussero nel nome stesso di Magna Grecia la nostalgia della patria abbandonata e l’ammirazione per il nuovo territorio della loro vita.

Ma la penisola salentina fu anche uno degli epicentri più tenaci della dominazione di Bisanzio in Italia; e ancora nel XIII secolo D. C. i poeti bizantini di Terra d’Otranto, raccolti in una bella antologia da Marcello Gigante (Galatina, 1985), testimoniano la vitalità di una letteratura, che di fronte all’espansione della lingua romanza intendeva rimanere fedele ai modi di una lunga tradizione.
Si discute fra i dotti se il <<grico>> risalga a quei lontani albori della Grecità italica, o se le sue origini vadano piuttosto accostate all’epoca di Bisanzio e alla sua lingua. Per entrambe le ipotesi militano buoni argomenti; ma forse non è necessario ricorrere a una tanto drastica alternativa.

I bizantini sovrapposero un nuovo impulso a una cultura che non aveva mai smarrito il senso della remota ascendenza ellenica, e che proprio per tale

Libri/ Dizionario Griko – Italiano e Italiano – Griko

di Franco Corlianò

Il dizionario, introdotto da circa 50 pagine di Note Grammaticali, è di facile consultazione per tutti, perché non richiede competenze professionali o grande scolarizzazione per essere usato. E’ ricco di frasi, convenevoli, aneddoti, proverbi e modi di dire in lingua grika, comunemente usati dalla nostra gente, che ancora ama comunicare e pensare in griko.

Non è un semplice elenco di parole con la rispettiva traduzione. Compaiono i generi per i sostantivi e gli aggettivi, il paradigma dei verbi e le forme verbali dei tempi per i verbi irregolari. Esiste una ricchezza lessicale ed una minuziosa traduzione dei sinonimi, rincorsa con caparbia indagine tra persone anziane, in parte oggi ormai scomparse, nei vari paesi della Grecìa Salentina.

Si può tranquillamente affermare, senza peccare di superbia, che quest’opera si distingue dalle altre opere analoghe di passata e di recente pubblicazione, perché, soprattutto nella parte griko – italiano, riporta la prima persona dei verbi irregolari nei tempi che richiedono una radice diversa dal presente.

Esempio: “ éfa “ (io mangiai), aoristo di  “ tròo “  (io mangio).

L’abbondanza di tali chiarificazioni facilita, perciò, la consultazione e l’apprendimento della lingua anche a chi non ha dimestichezza con la struttura

Kalinifta: cantare l’amore in Griko

di Pier Paolo Tarsi

 

Quando mi è stato chiesto di scegliere dei versi per il giorno di San Valentino ho subito pensato a questo componimento classico di Vito Domenico Palumbo, accompagnato spesso con note celebri a tutti i salentini. In esso vi è, mi pare, l’amore nella sua massima espressione, l’amore che si vive in struggente silenzio, l’amore che non parla all’amata, se non apparentemente, parlando malinconicamente a se stesso, nell’oscurità notturna, mentre si avvia, mentre si allontana per non tornare più, come fa questa splendida lingua che va ormai perdendosi, il Griko salentino.

Ti en glicèa tusi nifta, ti en orria
c’evò e’ pplonno pensèonta s’esena
c’ettumpi’ sti ffenestrassu, agapimu,
tis kardi’ammu su nifto ti ppena.

Evo’ panta s’esena penseo,
jatì sena, fsichìmmu, gapò
ce pu pao, pu sirno, pu steo
sti kkardìa panta sena vastò.

C’esù mai de’ m’agàpise, òria-mu,
‘e ssu pònise mai puss’ emèna;
mai cìtt’oria chili-su ‘en ènifse
na mu pì loja agapi vloimèna!

T’asteràcia pu panu me vlepune
ce m’o fengo krifi’zzun nomèna
ce jelù ce mu lèune: ston ànemo
ta traùdia pelìs, ì chchamèna.

Kalinìfta! Se finno ce feo,
plàja esù ti ‘vò pirta prikò,
ma pu pao, pu sirno, pu steo
sti kkardìa panta sena vastò

Cutrofiano/ Pasqua e i canti popolari salentini religiosi

a cura di Giuseppe Cesari

L’associazione culturale musicale “CARDISANTI” in collaborazione con “CARPE DIEM” E “AMICI DEL KARAOKE” propone, Domenica 10 Aprile a Cutrofiano nel santuario delle opere Antoniane alle ore 20:00 il concerto “QUANTU PATIU NOSTRO SIGNORE”, una serie di canti popolari salentini religiosi non liturgici sui temi della Passione di Cristo, una delle più alte espressioni della poesia popolare in musica.

Nei tempi in cui la liturgia era in latino, i vecchi cantori hanno voluto partecipare ai riti religiosi con canti, alcuni dei quali in dialetto.

Questo lavoro nasce dal bisogno di far conoscere il senso religioso e i contenuti narrativi di questo antico momento di vita religiosa e sociale della comunità salentina.

Il concerto, eseguito con gli strumenti della tradizione salentina, ha una durata di circa 75 minuti e si articola nel seguente programma:

Accanto ai canti tradizionali più noti del ciclo pasquale salentino, “La Passione” e “Santu Lazzaru” sono riproposti dei motivi legati alla liturgia ufficiale, ma ormai non più eseguiti da molti anni.  Se si pensa  al profondo radicamento del ciclo liturgico della passione e resurrezione di Cristo, si può avere un’idea, sia pure approssimativa, della popolarità di cui godevano questi canti.

“Fedeli una preghiera” era il canto che accompagnava la processione del Venerdì santo o Processione dei misteri. Era eseguito dal coro delle “verginelle in nero” che seguivano il simulacro di Cristo, accompagnato naturalmente dalla “banda”. Composto di sole tre strofe con un linguaggio piuttosto semplice, ma molto toccante, che ben si fonde con la melodia. E’ sempre stato considerato un canto salentino e, secondo una tradizione da verificare, composto da persona del luogo.

Questo canto fu abbandonato probabilmente nel dopoguerra e sostituito con due più lunghi e articolati “Oh fieri flagelli” e “Gesù mio con dure funi”. La sostituzione non corrisponde solo a un’esigenza di ammodernamento, ma rappresenta una svolta nella pratica liturgica locale, più fedele ai dettami della curia rispetto al passato, con meno cedimenti alle tradizioni locali e all’iniziativa dei laici. Questo si nota soprattutto nella cerimonia che concludeva il ciclo, cioè la messa pasquale, che si celebrava la mattina del sabato e che comprendeva un momento molto spettacolare, e anche rischioso, che era il “volo del panno”, con l’apparizione quasi istantanea del Cristo risorto, nel diradarsi del fumo prodotto appositamente. Questa rappresentazione, sempre osteggiata dai parroci, fu motivo di forti tensioni con parte della popolazione che sfociarono in una protesta clamorosa, che comportò la chiusura temporanea della chiesa di Cutrofiano. Solo nel dopoguerra la tradizione fu abbandonata e la cerimonia spostata alla mezzanotte. Il problema non riguardò comunque la processione del Venerdì santo, che fu sempre seguitissima, sempre con il coro delle vergini in nero che eseguivano i due nuovi canti.

La Passione (i Passiuna tu cristu) è una composizione lunghissima in greco salentino, che racconta in forma molto dettagliata, i vari momenti della passione di Cristo. Al canto, eseguito a più voci, si accompagnava una complessa gestualità che rivelava il carattere di sacra rappresentazione dalle origini certamente antichissime. La nostra interpretazione utilizza una traduzione del testo in dialetto locale eseguita dal prof. Giovanni Leuzzi.

Anche il Santu Lazzaru ha tutti i caratteri della sacra rappresentazione, ma riporta solo alcuni episodi della vita di Cristo fino al tradimento di Giuda e alla cattura. Sembra più legato alla parte occidentale della penisola salentina, dove più precoce è stato il distacco dalla cultura e dalla lingua grika. La tonalità originaria, in minore, da alla composizione un tono piuttosto triste e drammatico.

Esiste una versione in maggiore tradizionale di Cutrofiano, noi eseguiremo il canto nelle due tonalità.

Piangi Maria rappresenta il racconto della passione di Cristo visto però attraverso gli occhi della madre, e questo gli conferisce un tono straziante. Sembra un canto composto in italiano e poi adattato al dialetto, con numerose varianti nei diversi paesi.

Nel programma abbiamo voluto inserire un canto del 1970 di Fabrizio De Andrè dal titolo tre madri pubblicato nell’album “la Buona Novella” il testo racconta le riflessioni e i sentimenti strettamente umani delle tre mamme che piangevano i rispettivi figli sotto le tre Croci.

 

Curriculum  del gruppo Cardisanti  

 Siamo un’associazione musicale costituita da artisti e musicisti salentini con sede a Cutrofiano, paese della Grècia Salentina.

Da oltre dieci anni ci occupiamo di ricerca, studio e riproposizione in pubblico sia di canzoni e musiche divenute ormai dei classici della tradizione musical popolare salentina, sia di melodie quasi scomparse dalla scena, sia di brani inediti legati alla tradizione…

CARDISANTI è il nome dialettale salentino dei cardi campestri, infestanti, presenti da sempre nelle nostre campagne. Abbiamo deciso di chiamarci CARDISANTI perché metaforicamente ci identifichiamo in molte loro caratteristiche: pizzicano, sono difficili da estirpare a causa delle loro profonde radici pronte sempre a rigermogliare e hanno un particolare modo di riprodursi, conducono il proprio seme spinto dal vento tramite “l’angialeddhru” a germogliare nei posti più impensati…

Siamo nati sulla scia dei grandi vecchi cantori del nostro paese. Elementi del gruppo sono anche UCCIO CASARANO, cantore storico della tradizione musicale salentina, che con il suo organetto, insieme a Uccio Bandello scomparso undici anni fa, Uccio Aloisi, scomparso nello scorso ottobre, e Giovanni Vantaggiato era membro dello storico gruppo “gli Ucci” e LINA BANDELLO, figlia di Uccio Bandello, sicuramente il più grande cantore salentino, cui sono state dedicate varie edizioni della “Notte della taranta”. Alcuni antropologi hanno definito Lina l’unico autentico cantore vivente oggi nel Salento, avendo ereditato la passione per la musica dal padre, da cui ha imparato testi e melodie che continua a proporre in pubblico.

E’ uscito a fine 2910 il nostro primo cd ufficiale intitolato “PE’ L’AMORE TOU” nel quale oltre al meglio della musica tradizionale salentina sono contenuti anche cinque brani scritti da noi.

Numerosi video dei nostri concerti sono presenti su vari siti internet (couture, Salentovideo, ecc).

 

Per informazioni prendere contatto con:

Giuseppe Cesari cell 3396384239   mail: peppe.gabri@libero.it

Enzo Polimeno cell 3271221193

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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