Breve storia del Collegio Argento di Lecce

RELIGIONI AC BONIS ARTIBUS[1].

BREVE STORIA DEL COLLEGIO ARGENTO DI LECCE

di Paolo Vincenti

 

La storia della Compagnia di Gesù a Lecce parte nel 1574 sotto la guida di Padre Bernardino Realino[2]. In quella data, nasce a Lecce la prima Casa Professa gesuitica di Puglia che, divenuta in seguito Collegio, è anche la prima per importanza fra i nove collegi pugliesi[3].  Il Collegio, nato nel 1583, viene annesso alla Chiesa del Gesù[4].

La sede dei Gesuiti sorge sull’antica Chiesa di San Nicolò dei Greci, dove si officiava con rito greco, poi divenuta Chiesa del Buon Consiglio, la cui confraternita, in seguito alla presa di possesso da parte dei gesuiti, si trasferisce in San Giovanni del Malato[5]. La Chiesa del Gesù viene solennemente inaugurata e aperta al culto nel 1577[6], e contiene tele dell’Imperato, di Letizia, Antonio Verrio ed altri notevoli pittori[7]. Il Collegio fu fondato dall’Avv. Raffaele Staivano e realizzato anche grazie alle donazioni di numerosi benefattori provenienti dalle famiglie più agiate di Lecce[8].

Dopo Lecce, i Gesuiti si insediarono a Cerignola nel 1578, dove sorse il primo Collegio di Puglia in ordine di tempo; nel 1583, in concomitanza con quello leccese, nacque il Collegio di Bari; nel 1592 quello di Barletta; nel 1605 fu la volta di Bovino; nel 1611 i Gesuiti giunsero a Molfetta, dove nel 1618 nacque anche il Collegio; nel 1613 fu fondato il Collegio di Monopoli; nel 1617 la Residenza di Taranto, che nel 1624 divenne Collegio; infine, nel 1753 vide la luce il Collegio di Brindisi[9].

Ma, come detto, il Collegium Lupiense fu il più importante del Regno dopo quello di Napoli, e qui furono inviati i migliori professori, luminari nelle loro discipline, quali, uno su tutti, il Beato Carlo Spinola (1564-1622)[10].

All’opera spirituale dei Padri si devono poi la nascita delle Congregazioni mariane, dei Ministeri Apostolici e soprattutto delle Missioni[11]. Il Collegio si trovava all’epoca in quell’edificio che oggi è occupato dal Palazzo di Giustizia. Ivi si insegnavano latino, greco, filosofia, teologia, matematica, e queste materie attiravano l’attenzione della classe più agiata della Terra d’Otranto che inviava a studiare i propri rampolli nel Collegio di Lecce.

Un episodio particolare riguarda la permanenza a Lecce di P. Onofrio Paradiso, che il Barrella definisce “il Realino redivivo di Lecce”[12]. Il suo operato era talmente apprezzato che gli stessi sovrani Carlo IV e Maria Amalia pregarono il Provinciale nel 1757 di voler trasferire P. Paradiso nella Capitale. La richiesta incontrò la ferma opposizione non solo dei suoi confratelli del Collegio ma di tutta la popolazione di Lecce dove Paradiso era ormai tenuto in conto di santo, tanto che i cittadini presidiarono l’entrata del Collegio affinché nessuno della pubblica autorità potesse prelevare il frate e addirittura murarono la porta carraia dell’istituto segregando di fatto il Paradiso all’interno della sua stessa casa[13].

Nel 1767 vi fu la prima espulsione dei Gesuiti dal Regno di Napoli e la loro missione educatrice si arrestò. Il loro istituto passò ai Benedettini, come attesta Sigismondo Castromediano in uno scritto in cui rievoca la storia del prestigioso Liceo Palmieri che egli stesso frequentò e dove, per sua ammissione, trascorse gli anni più belli della propria vita[14].

Dopo la cacciata della Compagnia di Gesù dal Regno di Napoli, i resti mortali di Bernardino Realino vennero trasportati nella Cattedrale leccese e poi, nel 1855, nella chiesa di San Francesco della Scarpa, dopo il ritorno dei Gesuiti a Lecce, chiamati a reggere il Real Collegio San Giuseppe (poi divenuto Liceo Palmieri)[15]. Fu il Re Giuseppe Bonaparte a fondare nel 1807 il Real Collegio e Convitto “San Giuseppe” (intitolato al suo santo onomastico) presso l’istituto dei Missionari di San Vincenzo di Paola, fuori Porta Rugge; questi ultimi furono spostati in altra sede.

Con il ritorno dei Borbone, secondo la narrazione del Castromediano, il Collegio San Giuseppe venne trasferito nell’ex Istituto dei frati di San Francesco d’Assisi, che nel frattempo era divenuto deposito del sale, dopo essere stato caserma e ospedale militare. Nel 1832, ritornati in città i Gesuiti, a loro venne affidata la conduzione del Collegio, per sommo disdoro del Castromediano stesso, il quale aveva in uggia l’ordine gesuitico e non risparmia nella sua opera parole avvelenate nei confronti dei padri. Probabilmente, alla base di questo astio, come spiegano Rossi e Ruggiero, vi doveva essere il fatto che Castromediano ritenesse i Gesuiti collusi con la dinastia dei Borboni che era stata causa delle sue tribolazioni, e inoltre egli addebitava ai padri anche la dispersione dei beni archeologici rinvenuti negli scavi di Rugge e custoditi nel loro Collegio[16].

Sta di fatto che la scuola dei Gesuiti contava sempre nuovi iscritti ed un crescente successo. Infatti il Collegio venne notevolmente ampliato sotto la direzione dei lavori del gesuita Gianbattista Jazzeolla, ingegnere, e nel 1833 solennemente inaugurato[17]. Intervennero quindi i torbidi del 1848.

I Gesuiti, come in tutta la penisola, vennero cacciati anche da Lecce. Infatti, in seguito alla soppressione dei Gesuiti, anche nel capoluogo salentino vi furono disordini fra la cittadinanza. Come informa P. Barrella, nella Rivoluzione del 1848, fra le voci entusiastiche ed i festeggiamenti per la concessione della costituzione da parte del Re Ferdinando II, si insinuavano anche moti di dissenso nei confronti dei Gesuiti: liberali e carbonari chiedevano al Papa Pio IX la soppressione dell’Ordine. Quasi ogni sera, sostiene Barrella, si riunivano “gruppi di tumultuosi e giovinastri sotto le finestre del Collegio di Lecce” che gridavano “Viva Gioberti, morte ai Gesuiti!”[18] La Piazzetta di San Francesco della Scarpa si riempì di guardie nazionali che cercavano di placare gli animi dei manifestanti.

Così come a Napoli, dove il popolo furioso invadeva le scuole, le chiese e i collegi dei Gesuiti, gridando “fuori o sangue!”, a Lecce si crearono disordini e tafferugli, i frati vennero cacciati e dispersi fra Brindisi e Taranto, dove furono ricevuti dal clero regolare ed ospitati in attesa di nuova sistemazione[19]. Nel 1850, con il ristabilimento dell’Ordine, i Gesuiti ritornarono anche a Lecce, dove ripresero la direzione del Collegio di San Giuseppe, con nuovo Rettore, P.Carlo M.Turri[20].

Nel 1852 il Collegio dei Gesuiti venne elevato a Regio Liceo. Alle cattedre di diritto civile e penale, vennero aggiunte quelle di medicina, fisiologia, farmacia, anatomia, e inoltre alla dipendenza del Collegio era una casa rurale, Villa Mellone, nella periferia di Lecce, sede di villeggiatura per le vacanze estive degli studenti[21]. Il Collegio era frequentato da un numero crescente di studenti provenienti dalle più illustri famiglie leccesi.

Dopo l’Unità d’Italia, con la definitiva cacciata dei Gesuiti, il Liceo venne intitolato all’illustre economista leccese Giuseppe Palmieri[22]. La prima collocazione dell’Istituto, nel 1874, era stata il Palazzo Rossi di fronte alla Chiesa di San Matteo: successivamente venne spostato nel Palazzo Lubelli, di fronte alla Chiesa delle Alcantarine. Nel 1884 vi fu la concessione del terreno da parte del Comune di Lecce e nel 1888 iniziarono i lavori di costruzione che terminarono nel 1896[23]. Nicodemo Argento fu il primo Rettore, alternandosi con altri Direttori fino al 1904, anno della sua morte.  P. Giovanni Barrella, che è il principale biografo di Nicodemo Argento, ci fa sapere che egli, nato a Monopoli l’11 febbraio 1832, uomo dottissimo e dotato di preclare virtù (certo infiorettate dal correligionario biografo), dopo varie peregrinazioni fra Francia e Italia, giunse nel 1872 a Lecce, come precettore privato presso la famiglia Bozzi-Corso. Dopo una breve permanenza a Napoli, ritornò nel 1874 a Lecce[24]

In quel tempo, dopo l’espulsione dei Gesuiti del 1860, il Collegio leccese, al pari degli altri, era non più esistente e in tutta la Terra d’Otranto permanevano solo 36 gesuiti senza fissa collocazione. Argento ricostituì l’Istituto, come detto, presso il Palazzo Rossi, e successivamente presso il Palazzo Lubelli di fronte alla Chiesa delle Alcantarine, al quale, con il cresciuto numero dei convittori, venne annesso l’attiguo Palazzo De Marco[25]. Proprio per le mutate esigenze del Collegio, lo stabile in cui esso era allocato si rivelò insufficiente, sicché nel 1884 Padre Argento ebbe a censo dal Comune di Lecce una vasta area fuori dalle mura della città dove erigere un nuovo e più ampio edificio[26].

Nel 1888, dunque, con la posa della prima pietra, iniziarono i lavori e, nonostante le enormi difficoltà economiche incontrate, proseguirono fino al completamento, nel 1896, quando i primi studenti si insediarono nelle nuove classi: era lo stesso anno, come non manca di sottolineare Padre Barrella, della beatificazione di P. Bernardino Realino, alla cui intercessione celeste Barrella attribuisce la realizzazione della nuova struttura[27]. E proprio a Padre Argento si deve, a prezzo di un enorme carico burocratico e grazie ai buoni uffici presso la Santa Sede di Roma, la traslazione dei resti mortali di San Bernardino Realino dalla Chiesa di San Francesco della Scarpa nella chiesetta del nuovo Collegio.

Ciò avvenne nel 1896 e insieme ai resti di Padre Realino vennero traslati quelli del Beato P. Onofrio Paradiso[28]. Dopo alcuni Rettori che si avvicendarono alla guida del Collegio, Argento riprese la direzione nel 1903, quando il Collegio versava in uno stato di crisi, dalla quale egli prontamente lo risollevò. Dopo la sua morte, nel 1906, per volontà dei suoi confratelli, gli venne eretta nel Collegio una lapide, inaugurata in pompa magna dal Vescovo Mons. Trama e dalle autorità cittadine, con grande concorso di amici ed ex studenti e colleghi dell’Argento e con la lettura di un discorso commemorativo da parte del prof. Gianferrante Tanzi[29].

Alcuni anni dopo, nel 1915, per volere dei professori Brizio De Santis, che era stato allievo dell’Argento al Regio Liceo San Giuseppe, e Carmelo Franco, che ne sostennero le spese, venne eretto, nell’atrio dell’istituto, un busto in bronzo, opera pregevolissima dell’esimio scultore Antonio Bortone, posizionato su un piedistallo in pietra di Trani, sul quale si legge: “A Nicodemo Argento Gli alunni e gli ammiratori 1915”[30].

Nel 1908 la scuola venne trasformata in Seminario Interdiocesano divenendo il Primo seminario regionale Pugliese[31], Così il Collegio Argento venne chiuso per fare spazio al grandioso progetto voluto dal Papa Pio X[32].

Il primo Rettore fu P. Guglielmo Celebrano, cui seguì nel 1909 P. Arturo Donnarumma e nel 1912 P. Luigi Tullo[33]. Nel 1911 il Seminario Regionale Pugliese venne trasformato in Università teologica[34].

Allo scoppio della guerra, nella quale perse la vita, sul Monte San Michele, P. Pietro Giannuzzi, cappellano del Seminario Regionale Pugliese, primo dei cappellani militari morti sul campo[35], l’Istituto venne requisito e divenne Ospedale Contumaciale delle Regia Marina, fino al 1920, quando riprese le sue funzioni[36]. Le attività del collegio nel frattempo si trasferirono a Molfetta[37]. In quegli anni, la terribile epidemia di spagnola, che si diffuse a Lecce, in particolare nel 1918, non risparmiò nemmeno il Collegio Argento[38].  Dopo la guerra, le attività dell’Argento ripresero più fiorenti che mai fino a giungere ad un grande successo di iscrizioni nell’anno 1924, importante anche per una fausta ricorrenza per i Gesuiti leccesi.

Infatti, in quell’anno, nell’occasione del cinquantenario dell’Istituto, venne scoperta una lapide dedicata a tutti i caduti in guerra ex alunni del Collegio, come riportato da tutti gli organi di stampa dell’epoca. Purtroppo la targa venne poi rimossa e di essa si è persa ogni traccia. Molto probabilmente anche questa targa era opera dell’illustre scultore Bortone ma, essendo irreperibile, non se ne può trovare conferma. In quella solenne occasione, la salma di Padre Argento, grazie all’opera infaticabile del Rettore Barrella, venne traslata dal Cimitero di Lecce alla Cappella dell’Istituto e fu anche inaugurato il busto del fondatore, opera di Antonio Bortone, e nel locale d’ingresso fu apposta una targa ricordo con il testo di Brizio De Santis, Preside dell’Istituto Tecnico di Lecce e che già era stato allievo dell’Argento presso il Regio Liceo San Giuseppe[39]. La salma del Padre Argento venne tumulata ai piedi dell’altare dove erano custoditi anche i resti di Bernardino Realino, il santo tanto amato e venerato dall’Argento.

La cerimonia, presieduta dal Vescovo Mons. Trama, vide una folla immensa di partecipanti, insieme alle autorità cittadine di Lecce e di Monopoli: nella cittadina barese, patria dell’Argento, venne anche collocato un suo ritratto nell’Aula consigliare del Municipio e a lui venne intitolata la stradina dove sorgeva la sua casa natale; nel contempo a Lecce gli fu intitolata una piazza[40]. Nel 1930 il Regio Liceo Argento venne parificato. Nel 1947 un’altra tappa importante fu la canonizzazione del fondatore Padre Realino, con la consegna delle chiavi della città al Santo. L’Istituto venne acquistato dalla Provincia di Lecce che vi realizzò le sedi della Biblioteca Provinciale “Nicola Bernardini” – la cui prima dotazione fu proprio quella proveniente dalla biblioteca dei Gesuiti -, e del Museo Provinciale “Sigismondo Castromediano”[41].

 

Note

[1] È il motto che campeggia tuttora sulle mura dell’ex Collegio Argento, lo stesso che si trova anche nel più importante Collegio Romano. Si veda: Ilaria Morali, Religioni ac bonis artibus: l’“apostolato scientifico” dei gesuiti in Cina,  in Pianeta Galileo 2009, a cura di Alberto Peruzzi, Regione Toscana, Firenze, 2010, pp. 399-415.

[2] Su San Bernardino Realino (1530-1616), esiste una vasta bibliografia. Fra le fonti più antiche: Giulio Cesare Infantino, Lecce sacra, Lecce, Tip. Pietro Micheli, 1634, pp. 162-176; Vita del Padre Bernardino Realino da Carpi della Compagnia di Gesù composta dal P. Giacomo Fuligatti della medesima Compagnia, Viterbo, 1644; Menologio di pie memorie di alcuni Religiosi della Compagnia di Gesù, raccolte dal P. Giuseppe Antonio Patrignani della medesima Compagnia e distribuite per quei giorni dell’anno ne’ quali morirono, dall’anno 1538 fino all’anno 1728, v. III, Venezia, Tip. Nicolò Pezzana, 1730, passim; Vita del Venerabile Padre Bernardino Realino della Compagnia di Gesù scritta dal P. Giuseppe Boero della medesima Compagnia, Postulatore della causa, Roma, Tip. Bernardo Morini, 1852; Cenni biografici del Venerabile Padre Bernardino Realino scritti dal suo concittadino Isidoro Maini, Modena, Tip. Immacolata Concezione, 1869; Compendio della vita del V.P. Bernardino Realino d. C[ompagnia] d[i] G[esù] apostolo della città di Lecce, scritto dal P. Giuseppe Broia della medesima Compagnia, Lecce, Tip. Fratelli Spacciante, 1892; Ettore Venturi, Storia della vita del Beato Bernardino Realino: sacerdote professo della Compagnia di Gesù, scritta e illustrata dal P. Ettore Venturi della medesima Compagnia, Roma, Tipografia Befani, 1895; Vincenzo Dente, Un santo educatore e letterato gesuita, in «La civiltà cattolica», n. LXXXII, 1931, pp. 21-36 e 209-225; Giuseppe Germier S.J., San Bernardino Realino, Firenze, Libreria editrice Fiorentina 1942, p. 408; Pietro Tacchi Venturi, Mario Scaduto, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, v. III, L’epoca di Giacomo Laínez, il governo (1556-1565), Roma, 1964, p. 293. La fonte più recente è Defensor Civitatis Modernità di padre Bernardino Realino Magistrato, Gesuita e Santo. Atti del Convegno Internazionale di Studi a quattrocento anni dalla morte (1616-2016), Lecce, 13-15 ottobre 2016, a cura di Luisa Cosi e Mario Spedicato, Società Storia Patria-Sezione di Lecce, Lecce, Grifo Editore, 2017.

[3] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù nelle Puglie 1574-1767, a cura dell’Istituto Argento di Lecce, Lecce, Tipografia Salentina, 1941, p.17.

[4] Sul Collegio di Lecce: Francesco Schinosi, Istoria della Compagnia di Gesù appartenente al Regno di Napoli descritta da Francesco Schinosi della medesima Compagnia, parte prima, libro IV, Napoli, Stamperia Michele Luigi Mutio, 1706, pp. 283-291.

[5]Giulio Cesare Infantino, Lecce sacra cit., pp.217-218.

[6] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù nelle Puglie cit., p.23.

[7] Ivi, p.26.

[8] P. Giovanni Barrella, Un grande educatore. Vita aneddotica del P. Nicodemo Argento S.I. 1832-1905 con rapidi cenni sul Collegio da lui fondato in Lecce 1874-1950, pubblicata in occasione del LXXV della fondazione del Collegio stesso, Lecce, Tip. Scorrano, 1951, p.70.

[9] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù nelle Puglie cit., p.15.

[10] Ivi, p.24. Sullo Spinola, si vedano: Vita del P. Carlo Spinola della Compagnia di Giesù morto per la Santa Fede nel Giappone del p. Fabio Ambrosio Spinola dell’istessa Compagnia all’Illustriss. e Reverendiss. Signore, e Padron Colendissimo, Monsignor Prospero Spinola Digniss. Vicelegato di Bologna, In Roma e in Bologna, per Clemente Ferroni, 1628; Daniele Frison, The office of procurator through the letters of Carlo Spinola S.J., in «Bulletin of Portuguese – Japanese Studies», vol. 20, giugno, Universidade Nova de Lisboa, Portugal, 2010, pp. 9-70; Idem, ‘La piu difficile, e la piu disastrosa via, che mai fino allora niun altro’ Carlo Spinola and his attempts to get to the Indias, in «Revista de Cultura», Instituto Cultural do Governo da Regiao Administrativa Especial de Macau, 44, 2013, pp.88-109.

[11] Ivi, pp.67-79.

[12] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù cit., p.70.

[13] Ivi, p.77.  Sul Paradiso si veda: Salvatore Bini, Onofrio Paradiso-Apostolo del Salento, Salerno, Ed. Arci Postiglione, 2011.

[14] Sigismondo Castromediano, La commissione conservatrice dei Monumenti storici e di Belle Arti di Terra d’Otranto al Consiglio Provinciale Relazione per gli anni 1874-1875 del Duca Sigismondo Castromediano, Lecce, Tip. Salentina, 1876, pp.14-16.

[15] P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.23.

[16] Aa. Vv., Il gabinetto di fisica del Collegio Argento, I Gesuiti e l’insegnamento scientifico a Lecce. Spunti per una storia, a cura di Arcangelo Rossi e Livio Ruggiero, Lecce, Edizioni Grifo, 1998, p.16.

[17] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù cit., p.109.

[18] P. Giovanni Barrella, Un episodio del 1848 a Lecce. La cacciata dei Gesuiti (da Mss.inediti), Lecce, Tip. Giurdignano, 1923, p.7.

[19] Ivi, p.13.

[20] Nicola Bernardini, Lecce nel 1848: figure, documenti ed episodi della rivoluzione, Lecce, Tip. Bortone, 1913 p.499.

[21] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù cit., p.111.

[22] Sigismondo Castromediano, La commissione conservatrice dei Monumenti storici e di Belle Arti di Terra d’Otranto cit., p.16.

[23] Valentino De Luca, “Stringiamoci a coorte siam pronti alla morte l’Italia chiamò”. La Prima guerra mondiale nei monumenti e nelle epigrafi di Lecce, Galatina, Editrice Salentina, 2015, p.64.

[24]  P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.11.

[25] Ivi, p.13.

[26] Ivi, p.14.

[27] Ivi, p.22.

[28] Ivi, p.26.

[29] Ivi, p.69.  Il Discorso letto dal Prof. Cav. Gianferrante Tanzi nella cerimonia dello scoprimento della lapide viene pubblicato da Giovanni Barrella, in La figura del P. Nicodemo Argento, Lecce, Tip. Editrice Salentina Fr.lli Spacciante, 1906, pp.5-16, in cui è pubblicato anche 25 giugno 1906, un discorso informale tenuto da Cosimo De Giorgi a mensa: Ivi, pp.17-20.

[30] Ivi, pp.69 -70.

[31] Teodoro Pellegrino, Il Primo seminario regionale Pugliese a Lecce, in “Il popolo del Salento”, 18 febbraio 1955, riportato da Valentino De Luca in Lecce negli anni della Grande Guerra, Galatina, Editrice Salentina, 2019, p.79.

[32] Salvatore Palese, Ugento – Santa Maria di Leuca, in Storia delle Chiese di Puglia, a cura di S. Palese e L.M. De Palma, Ecumenica Editrice, Bari 2008, p. 356: «Il rinnovamento del clero fu originato pure dalla formazione dei giovani chierici nel nuovo seminario regionale che Pio X aveva voluto a Lecce nel 1908 e affidato ai Gesuiti e trasferito a Molfetta nel 1915».

[33] P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.76.

[34] Aa. Vv., Il gabinetto di fisica del Collegio Argento, I Gesuiti e l’insegnamento scientifico a Lecce cit.,  p.11.

[35]P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.76. Sull’esperienza dei cappellani militari, si vedano: F. Lovison, I cappellani militari nell’Europa in guerra, Relazione al Convegno di giovedì 16 ottobre 2014, Pontificio Comitato di Scienze Storiche, Roma, 2014; R. Morozzo Della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti soldato, Studium, Roma, 1980.  Su Mons. Angelo Bartolomasi, primo Vescovo militare italiano: N. Bartolomasi, Mons. Angelo Bartolomasi. Vescovo dei soldati d’Italia, vol. I, Il Vescovo del Carso e di Trieste liberata, edito a cura dell’Opera Mons. Bartolomasi, Roma 1966; con specifico riferimento alla partecipazione del clero pugliese e salentino: Salvatore Palese-Ercole Morciano, Preti del Novecento nel Mezzogiorno d’Italia. Repertorio biografico del clero della Diocesi di Ugento-S. Maria di Leuca, Galatina, Congedo, 2013, passim; V. Robles, Vescovi, clero e popolo di Puglia durante la grande guerra, in La Chiesa barese e la Prima Guerra Mondiale (Per la storia della Chiesa di Bari-Bitonto n. 31), a cura di Salvatore Palese, Bari, Edipuglia, 2016, pp.11-81; Ercole Morciano, La “Grande Guerra” nelle carte dell’archivio Storico Diocesano di Ugento, in «Bollettino Diocesano S. Maria de Finibus Terrae Atti ufficiali e attività pastorali della Diocesi di Ugento – S. M. di Leuca»,  a cura di Mons. Salvatore Palese, a. LXXXI – n. 2, Luglio-Dicembre 2018, pp.788-823, in particolare I cappellani militari, pp.791-794.

[36] Si vedano: P. Giovanni Barrella, P. Nicodemo Argento S.J. e il suo “Istituto” nel primo cinquantenario dalla fondazione dell’ “Istituto Argento” 1874-1924, Lecce, Tip. Lit. Vincenzo Masciullo, 1924; Pietro Marti, Il Collegio Argento, in «Il Salento. Almanacco illustrato», 1933 e Valentino De Luca, “Stringiamoci a coorte siam pronti alla morte l’Italia chiamò” cit., p.64.

[37] Valentino De Luca, Lecce cit., p.80.

[38]P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.79.

[39] Valentino De Luca, Stringiamoci a coorte cit., pp.61-64.

[40]P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.87.

[41] Valentino De Luca, Stringiamoci a coorte cit., p.64.

 

Giuseppe Palmieri sull’agricoltura e la pastorizia del Tavoliere del Settecento

di Michele Eugenio Di Carlo*

Il salentino Giuseppe Palmieri (Martignano, 5 maggio 1721 – Napoli, 30 gennaio 1793), illustre membro della nobiltà del Regno, è chiamato nel 1787 da Acton a far parte del Supremo Consiglio delle Finanze, dove ha modo di proporre incisivamente le sue idee a supporto di un’agricoltura libera da «ostacoli e intralci alla produzione e alla distribuzione dei beni», mediante leggi riformatrici che «eliminino monopoli e abusi, migliorino l’istruzione dei proprietari stessi»[1].

Saverio Russo spiega chiaramente i passaggi attraverso i quali Palmieri giunge a concludere che l’arretratezza agricola del Tavoliere sia da attribuire al sistema della Regia Dogana, estraendo dai Pensieri economici, pubblicati nel 1789, il seguente passo: «L’agricoltura non può migliorare del suo stato durante il sistema del Tavoliere. Non può eseguire la coltivazione al tempo che conviene […] ma deve aspettare il termine prescritto»[2], e dal testo Della ricchezza nazionale, pubblicato più tardi nel 1792, la seguente locuzione che, ponendo fine a riflessioni ed incertezze, non ammette più ripensamenti:

«… è fuor di ogni dubbio, che la pastorizia Pugliese offendi l’agricoltura; anche se non si vuole rinunciare all’uso della ragione, ed all’aumento della ricchezza nazionale, bisogna sbandire questa barbara pratica intieramente dal Regno[3]».

Le drastiche conclusioni a cui giunge Palmieri sono abbondantemente spiegate nel capo III del testo citato, dedicato al tema della ricchezza derivante dalla pastorizia. Per l’economista la pastorizia transumante del Tavoliere è una «pastorizia barbara», praticata da «popoli rozzi», che ha reso un «delitto il coltivar la terra», che ha «dichiarato la guerra all’agricoltura», che può esistere solo dove vi siano vaste aree desertiche o laddove «non si vogliono né uomini, né agricoltura, e si desidera convertire in un deserto il paese».

E tale è il Tavoliere sul finire del Settecento: un deserto privo di alberi con corsi d’acqua non regolamentati che finiscono per produrre paludi e stagni, cagione di malattie malariche che deprimono una già scarsa popolazione.

Per avvalorare le proprie tesi Palmieri ricorre ad esempi di «nazioni culte» in cui pastorizia e agricoltura non sono in antinomia, l’una contrapposta all’altra. Solo per rimanere nella penisola italica, l’autore cita le lane prodotte a Padova – nettamente superiori per qualità e prezzo a quelle pugliesi, prodotte da pecore che vivono in maniera stanziale in campi coltivati –, a dimostrazione che «dove non si cerca, che l’utile, il privare un terreno delle ricche produzioni dell’agricoltura per ottenere le più scarse della pastorizia, rappresenta una condotta strana, in cui non si ravvisa segno alcuno di ragione».

Se si vuole che la pastorizia diventi nel regno di Napoli un settore economico vitale occorre «distruggere Tavoliere, Doganelle e Stucchi», liberandola da vincoli, divieti, impedimenti: «Sia libero a chiunque il vivere da Tartaro: non s’impedisca, non si vieti; ma non si ajuti, non s’inviti, non si comandi».

Tra l’altro, anche in Puglia, nella provincia di Bari e in Terra d’ Otranto, le pecore vivono all’occorrenza al coperto in ricoveri. A Palmieri sembra inutile continuare a sprecare tempo ed energie per dimostrare una verità così evidente: «la pastorizia barbara non può recare che danno, e minorare la ricchezza di una nazione culta»[4].

Per Di Cicco «il profilo della Dogana e del Tavoliere», che balza fuori dalle pagine della sua meritatamente famosa Memoria[5], è icasticamente conforme al vero. Lo stesso Di Cicco, ne Il problema della Dogana delle pecore nella seconda metà del XVIII secolo, sintetizzerà perfettamente le riflessioni e i quesiti posti da Palmieri:

«Perché difendere la pastorizia del Tavoliere, quando essa, conti alla mano, rende meno di quella esercitata altrove? Perché ritenere aprioristicamente che nel Tavoliere niente altro che il gregge possa trovare mezzi di sussistenza, quando tutto il sistema della Dogana congiura contro ogni tentativo innovatore? Perché, infine, allo scopo di giustificare il favore concesso alla transumanza sul demanio armentizio, chiamare in causa la pretesa necessità di provvedere ai bisogni degli abruzzesi, quando è noto che questi, se fossero liberi di poter scegliere, dirigerebbero i loro animali ad altri pascoli, e scendono nel Tavoliere solo perché costretti dalla legge?»[6].

  • Socio ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia

 

1 F. DIAZ, Politici e ideologi, in Letteratura italiana, cit., pp. 300-301.

2 G. PALMIERI, Pensieri economici relativi al Regno di Napoli, Napoli, 1789, p. 108; cit. tratta da S. RUSSO, Abruzzesi e pugliesi: la ragion pastorale e la ragione agricola, in «Mélange de l’école française de Rome, Moyen age – Temps modernes», tome 100, 1988, n. 2, p. 932.

3 G. PALMIERI, Della ricchezza nazionale, Napoli, 1792, p. 107; cit. tratta da S. RUSSO, ibidem.

4 Cfr. G. PALMIERI, Della ricchezza nazionale, cit., pp. 101-107.

5 G. PALMIERI, Memoria sul Tavoliere di Puglia, in Raccolta di memorie e di ragionamenti sul Tavoliere di Puglia, Napoli 1831, pp. 89-119.

[6] P. DI CICCO, Il problema della Dogana delle pecore nella seconda metà del XVIII secolo, cit., pp. 67-68.

36 imprese ultra-centenarie della provincia di Lecce

Sviluppo del Mezzogiorno: 36 stimoli dal Salento

 

di Francesco Lenoci*

 

 

150 anni di Storia delle Camere di Commercio d’Italia, tra cui la Camera di Commercio di Lecce, a sostegno delle imprese . . .

36 Imprese ultra-centenarie della provincia di Lecce, tra cui una Banca, iscritte nel Registro  Nazionale delle Imprese Storiche di Unioncamere . . .

Cosa posso, preliminarmente, aggiungere io a quanto già detto dal Presidente della Camera di Commercio di Lecce Alfredo Prete e dal Presidente di Unioncamere Ferruccio Dardanello, che  mi hanno preceduto sul palcoscenico dello stupendo Teatro Paisiello, che illumina l’incantevole via Giuseppe Palmieri di Lecce?

Posso citare una meravigliosa frase di un grande musicista e compositore d’orchestra, Gustav Mahler: “Tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco”.

Fuoco . . .  L’Italia per ripartire non ha tanto bisogno di un decreto “Salva Italia”, di un decreto “Cresci Italia”. Il nostro Paese ha, soprattutto, bisogno di ravvivare quel fuoco. Ha, soprattutto, bisogno di riprendere a sognare e di realizzare quei sogni.

L’ho scritto tante volte nei giorni scorsi sulle bacheche di Facebook con riguardo a questo Evento, lo ribadisco oggi 18 aprile 2012 da Lecce:

“Se non si sogna. . . . non si progetta.

E se non si progetta. . . .non si realizza”.

Sognare, progettare, realizzare . . .  è la conditio sine qua non per uscire dalla crisi. La crisi. . .  La crisi che stiamo vivendo (rectius: subendo):

  • è una crisi  che, anche se ha preso le mosse dal sistema finanziario, non

Piazzetta Giosué Carducci a Lecce: luogo di cultura e vandalismo

Lecce, piazzetta Giosuè Carducci (ph Giovanna Falco)

di Giovanna Falco

 

Da le vie, da le piazze glorïose, / Ove, come del maggio ilare a i dí / Boschi di querce e cespiti di rose, / La libera de’ padri arte fiorí;

Questi versi di Carducci calzano a pennello con le vicende recenti e passate della piazza di Lecce dedicatagli nel 1904[1]:

 

le piazze glorïose: è pregno di storia questo larghetto su cui, sin dal XIII secolo, si affacciava il Convento di San Francesco d’Assisi, spiazzo la cui toponomastica ne sintetizza la storia: largo dei Gesuiti (1832), piazzetta degli Studi (1871), piazzetta Giosuè Carducci (1904);

Boschi di querce: richiama una delle figure nello stemma civico di Lecce;

cespiti di rose: Ilias Miahm è il venditore di rose aggredito nei pressi della piazzetta;

La libera de’ padri arte fiorí: è questo un luogo d’istruzione, che, dal 1816 al1960, ha formato generazioni di giovani leccesi.

L’ignobile aggressione a Ilias Miahm, avvenuta il quattro novembre nei pressi della piazzetta, ha scatenato una ridda di reazioni contrastanti, ben evidenziate dalla stampa nell’ultimo mese: se da una parte si è potuto assistere al flash mob antirazziale in piazza Sant’Oronzo[2] e ascoltare le critiche costruttive di Gerard Depardieu[3] e di tutti coloro che sono avvezzi a proporre e non a disporre, dall’altra si è assistito alla richiesta di far chiudere lo spiazzo, azione che causerebbe la conseguente migrazione in altro spazio dei maleducati che insozzano la piazza e le sue vicinanze, con la conseguente preclusione ad accedervi delle persone che la rispettano e la amano, anche nelle ore serali. Nel frattempo si sono intensificati i controlli delle forze dell’ordine. Ben venga! Da molto tempo gli esasperati residenti della zona, segnalano i disagi causati dal non saper convivere[4], sino ad ora, però, sono state pochissime o nulle le azioni mirate a far rispettare questo slargo[5].

Chi maltratta piazza Giosuè Carducci è consapevole di offendere, non solo i residenti della zona, ma anche un’istituzione fondamentale di Lecce e

L’economia civile di Giuseppe Palmieri

di Tommaso Manzillo

La difficile fase congiunturale che stanno attraversando i mercati finanziari di tutto il mondo sono, certamente, la dimostrazione dell’imperfezione del meccanismo economico del mercato. Quello che oggi si avverte in questa pesante fase economica è il senso di vuoto e di smarrimento che pervade l’uomo, i giovani, le famiglie, le imprese stesse, la paura piuttosto che la speranza per il futuro, l’ansia del domani che sta salendo dalle fasce più deboli della popolazione verso il ceto medio, in un’azione di trascinamento verso il basso, lungo sentieri incerti ed impervi. Questo perché l’uomo stesso pone al centro del suo operare soltanto il benessere materiale, come unico obiettivo, in una logica di puro tornaconto personale.

La ricerca esclusiva dell’avere – avrebbe detto Paolo VI nella Populorum Progressio (1967) – diventa così un ostacolo alla crescita dell’essere e si oppone alla sua vera grandezza: per le nazioni come per le persone, l’avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale”.

Come uscirne fuori. Occorre umanizzare l’economia e, prima ancora, umanizzare l’uomo stesso, ossia, fargli scoprire la sua dignità perduta, ridando fiducia in se stesso, facendolo uscire fuori dalle sacche dell’individualismo e del relativismo in cui, quest’arido capitalismo, lo ha fatto precipitare. La ricchezza materiale in cui oggi vive, molto spesso, può essere un sintomo di povertà umana e morale, lasciando spazio al proprio “io”, figlio di quella inclinazione egoistica smithiana, oltre che del marginalismo economico che

Anche quando gli altri alberi perdono l’onore delle loro fronde, l'ulivo ci consola e ci assicura che la natura vive ancora

Campagna salentina (ph Gianpiero Colomba)
Campagna salentina (ph Gianpiero Colomba)

di Gianpiero Colomba

 

… l’ulivo adorna i soli luoghi prediletti della natura

ed abborre le contrade attristate da lungo inverno…

 simbolo della pace, sempre verde,

anche quando gli altri alberi perdono l’onore delle loro fronde,

ci consola e ci assicura, che la natura vive ancora…

(Giuseppe Ceva Grimaldi, 1818)

 

Siamo veramente certi che le questioni ambientali/ecologiche riguardino esclusivamente l’attualità?! Per qualcuno la risposta può sembrare ovvia. Vale la pena, però, ricordare “dove” eravamo e cosa stiamo lasciando in eredità. L’epoca che stiamo vivendo è sicuramente eccezionale per il livello globale raggiunto dalla crescita, ma anche per l’inquinamento degli agro ecosistemi e per l’utilizzo massivo di energie fossili non rinnovabili.

Le società preindustriali erano più attente agli effetti che un determinato intervento antropico aveva sul territorio, di quanto il senso comune oggi possa immaginare, anche tra chi ha a cuore il paesaggio e la sua tutela. E il paesaggio del Salento sono le “pagghiare”, i muretti a secco, i mandorli e i ficheti, ma soprattutto l’Olivo, che da secoli vigila e protegge.

Autori coevi, studiosi dell’olivo e semplici amanti del paesaggio salentino hanno denunciato in passato quanto l’uomo stesse danneggiando la natura o, semplicemente, hanno evidenziato la bellezza, il significato “culturale” e l’utilità economica delle risorse del territorio.

Giuseppe Palmieri già nel 1853, attento ai temi tanto cari alla moderna “Environmental History”, facendo riferimento alla relazione tra la Natura e l’Uomo, così scriveva:

“ (…) E’ folle intrapresa il voler tutto in ogni paese. Bisogna e giova prender di mira il più utile. Si ottiene il tutto, cangiando il superfluo col mancante. La natura, che vuol tenerci uniti per gli legami de’ bisogni vicendevoli, ha assegnato ad ogni regione un’attitudine particolare a certe produzioni e a

Il marchese di Martignano Giuseppe Palmieri (1721 – 1793)


di Tommaso Manzillo

Nel preparare un breve contributo sul tema dell’economia salentina, la mia ricerca è penetrata fino agli albori del pensiero economico liberale, per conoscere un illustre protagonista del Settecento salentino, il marchese di Martignano, Giuseppe Palmieri (1721 – 1793).

Fu discepolo, possiamo dire, di Antonio Genovesi (1713 – 1769), titolare della cattedra napoletana di economia politica (la prima in Europa), che diede un grande impulso agli studi economici del tempo, con proposte di riforme per favorire la produttività.

Giancarlo Vallone, nell’Introduzione al libro di Manzillo e Lattarulo (2010) afferma che “Genovesi e Palmieri, uno di queste parti, avevano ben avvertito la necessità, di orientare il sistema dei poteri sul sistema della proprietà, secondo il modello inglese e, per quel che riguarda le tecniche agricole, anche francese”.

Alfiere in un reggimento del re di Napoli, primo tenente e maggiore col rango di tenente-colonnello nel reggimento di Calabria, si distinse negli studi delle leggi e coltivò la pratica del foro. Incaricato dell’amministrazione generale delle dogane in provincia d’Otranto, dimostrò intelligenza, rettitudine e

Antonio De Viti De Marco. Una storia degna di memoria

di Tommaso Manzillo

Dovrebbe pazientare il lettore se si insiste con un ulteriore approfondimento su Antonio De Viti De Marco, ma lo spessore culturale, economico e politico dell’uomo impone un altro contributo su una figura storica grandiosa. Per gli addetti ai lavori, per gli amanti della scoperta e della ricerca, cercare di capire meglio il marchese di Casamassella è sempre appagante, pieno di sorprese, e riempie l’animo di grande soddisfazione e orgoglio per aver saputo portare il Salento nel mondo. Si, nel mondo. Perché la sua fama si estese presso i più grandi economisti americani, tedeschi, inglesi, oltre agli italiani Vilfredo Pareto, Maffeo Pantaleoni, Luigi Einaudi ed altri.

L’uomo che approntò la nuova scienza delle finanze viene dal Salento ed è Antonio De Viti De Marco. Sarebbe l’ora di iniziare anche a parlare, oltre che di federalismo fiscale, anche di federalismo culturale. Ce lo chiedono i protagonisti più grandi di ogni particolare territorio, che molto spesso rimangono oscurati dalla Storia, lontani dalle aule scolastiche ed univesitarie, dopo aver offerto decisivi contributi nel panorama culturale, storico, politico, economico e sociale. E il Salento, soprattutto Galatina, hanno una lunga schiera

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