I 150 anni del faro: guardiano di Gallipoli

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di Giuseppe Massari

150esimo anniversario del faro di Gallipoli. Infatti, dalla sua prima accensione sono trascorsi ben 150 anni: e così la città, dal 24 agosto scorso e fino alla fine dell’ anno, dedicherà più di 4 mesi ai festeggiamenti in onore del suo faro.

Un pezzo di storia, tra passato e presente, che illumina la costa ionica regalando panorami suggestivi anche di notte. Il guardiano del litorale, riferimento che ha dato sicurezza a pescatori e non, con la sua “lampada” capace di illuminare sino a 20 miglia marine, da sempre musa ispiratrice di artisti e di scrittori, sarà inondato di ricordi e di celebrazioni. Per ricordare questo importante traguardo, anche noi non vogliamo essere da meno. Lo facciamo affidandoci alla storia, più precisamente alla penna di Enrica Simonetti, autrice di: “Lampi e splendori: Andar per fari lungo le coste del Sud”, Editori Laterza – Banca Carime Gruppo Intesa, Prima edizione, ottobre 2000”. (G.M)

FARO GALLIPOLI

“Gallipoli non è una città sul mare, ma nel mare. E il suo faro ha la stessa identità: poggia su un isolotto brullo e piatto che, visto dalla terraferma mettendosi di spalle alla chiesa della Madonna della Purità, sembra raggiungibile a nuoto, con poche bracciate. La lanterna accesa, di notte, è l’unica luce visibile di un orizzonte che scompare, quasi una seconda luna che si cala nell’acqua, una luna bizzarra che appare e scompare, secondo i ritmi del linguaggio del faro. Tutta l’Isola di S. Andrea, piede della torre bianca, di giorno sembra senza colori. O meglio, cambia la sua “pelle” rubando le tinte del sole, del tramonto e del cielo; apparendo prima gialla, poi rosa e infine, al calare della luce, bluastra. Anche la torre del faro sprofonda in questa sorta di non-colore, con la sua pietra cangiante e magica, pietra porosa salentina che assorbe ogni bagliore trasformando il bianco in oro e riflettendo il calore del sole. Al faro, edificato nel 1865, si arriva solo in barca, sicchè, quando soffia vento forte, le onde ricoperte di spuma rendono difficile l’approdo. La torre sormonta la casa spaziosa che un tempo era abitata dai faristi “isolani”, confinati in questo meraviglioso esilio diviso dalla terraferma di uno scoglio sul quale approdano solo gabbiani e forse per questo chiamato da qualcuno la “roccia dei piccioni”. La vita al faro S. Andrea non è mai stata facile, il mare circonda lo scoglio in ogni anfratto e – per quanto suggestivo – il giro attorno al faro dà subito l’impressione di una visita in un lungo surreale, separato dalla realtà e dalla frenesia della città posta di fronte, a poche remate dalla torre. Due e, a volte, anche tre famiglie di faristi hanno vissuto in questo isolotto durante il secolo scorso, riempiendo di voci e profumi la casa bianca ora disabitata; negli anni Sessanta, i bambini in età scolare presenti al faro erano sette e si pensò di risolvere il problema dei continui e vorticosi spostamenti sulla terraferma con la creazione di una scuola in loco. Nacque così (nei tempi in cui Internet e i possibili sistemi tele-scuola non erano nemmeno una fantasia) un’aula che poteva sembrare un fumetto, circondata solo dal mare, con le mura battute dai venti e risuonanti della buona volontà di una maestra, figlia di pescatori, che veniva accompagnata in barca per le lezioni quotidiane. In alcuni periodi, quando il tempo impediva i collegamenti, l’insegnante restava al faro, negli alloggi di servizio, e concludeva la sua giornata di lavoro tra quei bambini isolati ma felici, cresciuti tra i conigli, i granchi e gli scogli. Uno di questi alunni della scuola al faro ha scelto da anni la sua strada: fa il farista a S. Cataldo, la torre di Bari, dove vive con moglie e figlio. A proposito delle donne dei fari, a questo punto è doveroso aprire una parentesi. Tanto spesso si parla genericamente di famiglie di faristi, ma è importante sottolineare il sacrificio di tante madri e mogli, capaci di organizzare la vita sotto le torri, con le piccole e grandi cose di ogni giorno: dalle conserve preparate in casa per affrontare l’inverno, agli approvvigionamenti misurati e calcolati con precisione. Le donne dei fari sono stae (e sono) attente “comandanti” o provette cambusiere, quasi marinaie senza gradi. Qualcuna confessa di odiare la salsedine che incrosta continuamente i vetri delle case, altre raccontano di essere andate in città e di essersi perse nella terribile confusione della vita “degli altri”. L’Isola di S. Andrea racchiude in sé il fascino del mondo lontano dal resto, tanto che anche la bellezza di Gallipoli assume un’altra ottica, se vista da questo scoglio. Affascina il blocco della città che sprofonda nel mare, acceca lo sguardo – nelle giornate di sole – il giallo ocra della spiaggetta della Purità, con i resti dell’antico fortino, memoria del perenne tentativo di difesa del borgo antico. L’isola del faro, in questo senso, ha sempre fatto da sentinella, un avamposto aperto ai venti e ai tanti attacchi che venivano dal mare: questo scoglio è la prima striscia di terra che appare a chi si avvicini via mare a Gallipoli. Nell’antichità, sono stati in tanti ad abitare successivamente il borgo, la costa sabbiosa e dolce, che affascinò o Messapi, le legioni di Roma e poi fu attaccata da Vandali e Goti e, infine, presa da Saraceni e Normanni. In città le tracce lasciate dai popoli invasori sono in parte visibili, tanto che questo centro del sapore barocco, in cui si tocca il calore della pietra leccese, rivela in molti angoli le sue numerose identità. “Città dentro il mare, circondata dai suoi bastioni come un bambino nella carriola, ha scritto di Gallipoli Cesare Brandi.( Cesare Brandi, Pellegrino di Puglia, Editori Laterza, Bari 1960. N.d.r) E quel mare che si insinua tutto intorno è il liquido amniotico on cui è cresciuta parte importante della civiltà salentina. Proprio il nome del popolo, Sallentini, secondo Varrone, deriva dal mare: Salentini perché avevano fatto amicizia in mare, “in salo”, spiega. E gallipoli, terra di conquiste, conserva l’etimologia greca nel nome romatico di “Città bella” (volgarizzazione di kalè polis ) che, secondo una leggenda, si deve a un amore tragico: quello sbocciato in un principe greco, di ritorno in Salento dopo l’ennesima guerra, per una bellissima fanciulla, la quale si sottrasse a lui scomparendo nel nulla per volere di Venere e in segno di punizione per i tanti massacri compiuti. Il principe, assecondando il volere degli dei, volle alla fine seppellire la sua amata in una terra che prese il nome dalla beltà della ragazza, diventando appunto “città bella”. Un’altra donna, ricordata nel folklore e nelle leggende gallipoline, è la martire santa Cristina, quella che uscì ondenne anche dal supplizio dell’acqua bollente: la notte di ogni 24 luglio, per la sua festa, un corteo di barche – con la caratteristica arrampicata sul palo proteso sul mare – rompe la tranquillità dell’Isola di S. Andrea. Poi,a gara conclusa, le luci si spengono e sull’isolotto torna il silenzio, rotto solo dal fascio di luce del faro e dal saltellare di qualche pesce” (Enrica Simonetti).

Vini DOC Terre del Negroamaro. Salento che cresce, Salento che accoglie

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di Giuseppe Massari

Il Salento, concepito nella sua accezione geografica, storica e territoriale più ampia come Penisola salentina,  comprende l’intera provincia di Lecce, quasi tutta quella di Brindisi e parte di quella di Taranto. Sempre da un punto di vista geografico, rientrano nel territorio della Penisola salentina alcuni comuni della Valle d’Itria: Martina Franca (TA), Alberobello e Locorotondo (BA), Cisternino e Fasano (BR) ed alcuni comuni a Nord di Taranto: CrispianoMassafra.

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In questa vasta area, la produzione vitivinicola, da sempre, ha ricevuto forti impulsi economici e commerciali e anche riconoscimenti a livello internazionale, nazionale e regionale. Forse anche troppi se ci si riferisce alle denominazioni d’origine controllata riconosciute ai vini. Una pletora spalmata, quasi, su ogni paese, eludendo potenzialità territoriali o complessi produttivi più estesi, più storici, più importanti.

In Italia, forse, contravvenendo alle normative europee, le DOC o le DOP sono state elargite, non per motivi strettamente economici, ma elettorali, politici, di convenienza, di opportunità, per una sorta di egoismo o campanilismo così come si costruivano ospedali in ogni città. Di questo fenomeno sono stati interpreti e protagonisti la Puglia e il Salento in particolare.

Basta sfogliare il testo di Donato Antonacci: I vitigni dei vini di Puglia, edito da Adda il 2004, per rendersi conto quante sono state località e interi territori geografici, con i loro vitigni singoli e associati, che hanno chiesto ed ottenuto DOC e Indicazione geografica tipica (IGT). Vale la pena fare l’elenco in ordine alfabetico, sia per quanto riguarda la valorizzazione d’origine che per quella geografica tipica. DOC dei vini di “Alezio”, disciplinare di produzione pubblicato sulla G.U del 26 settembre 1983; DOC dei vini “Brindisi” con disciplinare di produzione del 23 aprile 1980; il 29 gennaio 1977, la G.U. pubblicava il disciplinare di produzione dei vini “Copertino”; ai vini DOC di “Galatina”, il disciplinare di produzione fu concesso con decreto del Ministero del Risorse Agricole, il 24 giugno 1997; sulla G.U del 28 marzo 1997 veniva pubblicato il disciplinare di produzione che riguardava i vini di “Leverano”; con decreto del presidente della Repubblica del 21 dicembre 1988, i vini di “Lizzano” entravano nella grande famiglia DOC; di DOC viene insignito il vino “Martina” o “Martina Franca”.

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Siamo nel luglio del 1990 quando la G.U., il 17 di quel mese pubblica il decreto del Presidente della Repubblica firmato il 9 febbraio dello stesso anno, in sostituzione del Dpr del 10 giugno 1969; per il vino “Matino”, il disciplinare di produzione viene emesso il 19 maggio 1971 e pubblicato il 24 luglio dello stesso anno sulla G.U.; DOC per il vino di “Nardò” riconosciuta con Dpr del 6 aprile 1987; la G.U. n. 83 del 28 marzo 1972 pubblica il disciplinare di produzione per i vini di “Ostuni”; al “Primitivo di Manduria” viene riconosciuto il disciplinare di produzione per la DOC, il 30 ottobre 1974; la DOC per il “Salice Salentino” viene assegnata il 6 dicembre 1990, data in cui il Presidente della Repubblica firma il decreto in sostituzione di quello precedente sottoscritto l’8 aprile 1976; ultimi, in ordine alfabetico, i vini “Squinzano”, la cui DOC è stata sancita con il decreto pubblicato sulla G.U. del 31 agosto 1976. Per quanto riguarda la Indicazione geografica tipica dei vini del “Salento”, il decreto sul disciplinare di produzione fu firmato dal ministro delle Risorse agricole il 20 luglio 1996.

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Tanti, troppi frammenti e molta dispersione di forze ed energie. Questo il quadro più o meno completo che delinea la vastità di vini a denominazione controllata, molti dei quali prodotti con le stesse qualità di vitigni , in misura percentuale diversa: maggiore o minore, a seconda della incidenza qualitativa e quantitativa del prodotto da vinificare. Da questo spaccato storico e geografico emerge un dato: la impossibilità di riconoscere la varietà e la bontà del prodotto. La qualità, forse, viene penalizzata o racchiusa nell’ambito dell’orticello campanilistico che non serve né a far crescere il territorio e né la stessa qualità del prodotto.

Nell’ottica di quella che deve essere la globalizzazione intelligente e non selvaggia dei movimentisti arcobaleno; nell’ottica di quella che deve essere la rete solida e solidale, fuori e lontana da certi egoismi, soprattutto nei rapporti commerciali, economici, politici e territoriali, si impone la ricerca di strumenti più idonei per vincere certe sfide, per essere al passo con i tempi, senza restare indietro o guardare come il progresso ci passi davanti senza fermarsi o senza che venga acchiappato. Una delle ipotesi progettuali, una pista su cui lavorare, potrebbe essere quella riferita all’iniziativa Premio Terre del Negroamaro.

Giunta, quest’anno, alla sua ottava edizione, la rassegna di Guagnano, organizzata e promossa unitamente al Gal Terra d’Arneo e destinata ad affermarsi come momento di riflessione e di vetrina per uno sviluppo compatibile con le esigenze del territorio, deve portare ad un solo e vincente risultato: una DOC unica per tutti i vitigni delle Terre del Negroamaro, DOC Terre del Negroamaro. Nel mentre, tra l’altro, ogni anno questa parte nord del Salento è capace di mobilitare attenzioni ed interessi culturali, racchiusi in quella parte di storia conservata nel Museo del Negroamaro.

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Soprattutto, perché questo vitigno ha una sua nobile storia, ripresa proprio da chi scrive e fatta oggetto di un precedente contributo su queste pagine del blog. Una storia secolare di tutto rispetto, di tutto pregio, di notevole interesse e spessore cultuale Perciò, anche per questo, è bene, è un bene per tutti coalizzarsi; unirsi nella rete di un sistema, per fare sistema, per essere forti e competitivi. Non sembri una proposta dirompente, una provocazione estemporanea.

Non suoni penalizzante per chi ritiene di aver acquisito certi privilegi e a questi non vuole rinunciare. Quelle conquiste identitarie, di etichetta, forse, sono state delle forzature. Magari, frutto di imbrogli e di inganni da parte di chi doveva dimostrare di essersi impegnato nell’ambito del proprio collegio elettorale. Per fortuna, il tempo cammina con le gambe di un medico che sana lacerazioni, ferite, divisioni, create, artatamente.

L’evoluzione, oggi, è tale che ci fa capire come il territorio cresce, deve crescere, viene valorizzato nella misura in cui viene identificato nella sua interezza e nella sua essenza e non nel conventicolo rapporto di una comunità costretta, poi, a confrontarsi con altre identità che, invece, galoppano, facendo passi irraggiungibili.

Uscire dalle secche del provincialismo paesano, per trasformare quel prodotto della terra in un vero prodotto nostrano e regionalizzato; nostrano e nazionalizzato. Questo ci insegna la storia e la nascita dei Gal; questo ci ha insegnato e ci insegna la straordinaria esperienza della Taranta. Non più o non solo patrimonio di Melpignano, ma di tutto il Salento, di tutta l’Italia; quella che potrebbe, addirittura, avanzare una formale richiesta per farla inserire e riconoscere quale patrimonio immateriale dell’umanità.

Premio Terre del Negroamaro, a Guagnano

Premio Negroamaro

Premio Terre del Negroamaro, a Guagnano.

Musica, comunicazione e arte per valorizzare il Salento

 di Giuseppe Massari

Ai nastri di partenza, questa sera, l’ottava edizione dell’evento PREMIO TERRE DEL NEGROAMARO, organizzato dal Comune di Guagnano e il Comitato Tecnico Operativo del Progetto, in collaborazione con il GAL Terra d’Arneo e la Pro Loco “ Guagnano ‘93”, con il contributo dell’Unione dei Comuni del Nord Salento ed il patrocinio della Regione Puglia, della Provincia di Lecce, e  il responsabile degli artisti nel percorso enogastronomico Piero Rapanà.  Il premio quest’anno abbraccia la compagna di sensibilizzazione bene consapevole dell’Associazione alla Conquista della vita. L’appuntamento è alle ore 21,00, dalla piazza centrale Maria SS. Del Rosario di Guagnano. Quest’anno l’evento è ancora più ricco di sorprese, gusto e sapori. Sul palco saranno premiati personaggi illustri che hanno dato e danno risalto, soprattutto professionalmente, al nostro Salento o alla Puglia in generale.

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Quest’anno il “Premio Terre del Negroamaro” sarà assegnato ai “Negramaro”, il “Premio Speciale” sarà assegnato alla Guardia Costiera, nel nome del Comandante del Comandante Generale Vincenzo Melone, per aver onorato l’immagine di un popolo accogliente.

Il “Premio Ambasciatore delle Terre del Negroamaro” sarà assegnato alla famiglia Seracca Memmo, titolare dell’Azienda Vinicola Castello Monaci. Il “Premio Terre del Negroamaro allo sport” sarà assegnato al calciatore Ernesto Javier Chevantòn.

Il “Premio Terre del Negroamaro alla comunicazione” sarà assegnato al direttore de “Il Nuovo Quotidiano di Puglia” Claudio Scamardella.

Il “Premio Radici di Negroamaro” sarà conferito all’artista Arianna Greco per aver saputo risaltare l’arte con la maestria, usando i colori del vino, formando un’opera d’arte. Un ringraziamento a tutti i pittori locali per aver fatto conosce il nome di Guagnano nel campo dell’arte, donandoci dei capolavori apprezzati in tutto il mondo. Un ringraziamento speciale ad Amedeo Pasquino, che in qualità di VicePresidente Regionale e Delegato Provinciale dell’Associazione Italiana Sommellier, ha contribuire a valorizzare il nostro Negroamaro nel mondo.

Il “Premio alle Eccellenze per Enti e Istituzioni” sarà assegnato a Pietro Scrimieri, Direttore delle Risorse Umane dell’Acquedotto Pugliese. Poi altri riconoscimenti al GAL Terra d’Arneo.

la conferenza stampa

Ideato e promosso al fine di promuovere la conoscenza della Terra d’Arneo, il concorso vede ogni anno la partecipazione di giornalisti di stampa/web e radio/tv a livello nazionale e internazionale, la cui premiazione avverrà sul palco centrale. Per la categoria “Stampa”, sale sul palco la giornalista Agnese Pellegrini con il suo “Salento. Una Terra tra due mari”. Ad aggiudicarsi il primo premio per la categoria radio/TV è GiaNet Media di Claudio e Francesco Giannetta titolari della web TV InOnda (www.inonda.tv) con il servizio “Arneo…tra terra e mare”. Menzione speciale Giuseppe Massari, giornalista locale che sul web magazine Fondazione Terra d’Otranto, racconta l’intrigante storia dalle sue origini ai giorni nostri del Vino Negroamaro. Il “Premio Speciale Terra d’Arneo” sarà assegnato dal presidente Cosimo Durante.

La cornice musicale sul palco sarà affidata all’Ensemble Terre del Negroamaro diretto dal maestro Fulvio Palese.  Il “Premio speciale La Radio Sale” sarà assegnato al cantautore Mino De Santis. Novità assoluta di questa edizione sarà il “Premio Negroamaro Music Awards”, rivolto ad artisti emergenti, che selezionati attraverso un concorso si esibiranno sul palco durante la serata.

Lungo le strade saranno allestiti stand enogastronomici, dove degustare le prelibatezze della tradizione culinaria salentina abbinata ai grandi vini delle cantine che aderiscono alla manifestazione. A chiudere la serata sul palco è sempre la musica d’autore italiana con il concerto finale del grande artista Fabio Concato.

ottava edizione - premio terre del negroamaro

Premio Giornalistico Terre del Negroamaro al nostro sito e al nostro collaboratore Giuseppe Massari

Premio Negroamaro

Al nostro sito web magazine Fondazione Terra d’Otranto (www.fondazioneterradotranto.it) e al nostro collaboratore, Giuseppe Massari, la giuria del “Premio Giornalistico Terre del Negroamaro”, concorso ideato e promosso dal GAL Terra d’Arneo , giunto alla sua quarta edizione, ha ritenuto il servizio “Negroamaro, la parola alla storia”, pubblicato, in due parti, nel corso del mese di giugno scorso, “meritevole di menzione speciale per l’approfondimento sul tema del negroamaro; che racconta l’intrigante storia del vino negroamaro dando lustro ad un evento importante per il nostro territorio”.

Questo non può che essere motivo di sano e legittimo orgoglio. Pugliese e salentino. Gratificazione per il continuo e diuturno lavoro per affermare e confermare l’autenticità di una terra storica, antica, bella, verace, generosa e genuina. Ricca di prodotti legati alla intrinsecità del vasto territorio in cui messapi, greci e bizantini hanno saputo ridestare l’amore, l’interesse, costruendo, edificando ed innestando tradizioni, gusti e sapori. L’autenticità delle sponde dei due mari che si incrociano e si intersecano sul cammino verso quell’Oriente dal quale è stato tratto il respiro, l’anima e il cuore delle pitture murali bizantineggianti presenti nella cornice del Salento sacro, mistico e profetico.

La manifestazione di premiazione si svolgerà venerdì prossimo, 19 agosto, in piazza Maria SS. Del Rosario, nel centro storico di Guagnano , alle ore 21.00, nell’ambito dell’ottava edizione “Premio Terre del Negroamaro”, in quello che è diventato un appuntamento fisso e da non perdere nel mese di agosto; organizzata dall’amministrazione comunale guagnanese, guidata dal sindaco Fernando Leone, dal Comitato Tecnico Operativo del Progetto, in collaborazione con il GAL Terra d’Arneo e la Pro Loco ” Guagnano ’93”, con il contributo dell’Unione dei Comuni del Nord Salento, il patrocinio della Regione Puglia, della Provincia di Lecce, e dell’Università del Salento. A salire sul palco dei premiati anche la giornalista Agnese Pellegrini, vincitrice della categoria stampa con un redazionale dal titolo “Salento. Una Terra tra i due mari”, pubblicato sulla rivista BenEssere del Gruppo St Pauls International.

Una descrizione accurata che non esclude nessuno dei comuni del comprensorio ed accompagna il lettore alla scoperta di un territorio che ha molto da offrire in tutte le stagioni.

L’attenzione è ferma soprattutto sul turismo culturale e religioso, tema caro alla Pellegrini che già aveva approfondito in un altro redazionale, pubblicato anch’esso sulla stampa nazionale, e focalizzato soprattutto sulla figura di San Giuseppe da Copertino, il Santo dei voli ed altri santuari minori presenti in Terra d’Arneo.

Per la categoria radio/tv, ad aggiudicarsi il primo premio è GiaNet Media di Claudio e Francesco Giannetta, titolari della web tv InOnda (www.inonda.tv), con il servizio “Arneo… tra terra e mare”. Un occhio attento e curioso dietro la telecamera percorre tutta la Terra d’Arneo, dalla costa all’entroterra, regalando scorci inaspettati e paesaggi mozzafiato che esprimono la bellezza e la generosità del territorio.

Prevista anche la consegna del “Premio Speciale Terra d’Arneo” a due personaggi che, a vario titolo, si occupano della promozione e della crescita del nostro territorio. Si tratta del giornalista Michele Peragine, Presidente dell’Associazione Giornalisti Agroalimentare della Regione Puglia nonché giornalista RAI, e dell’ Ammiraglio Ispettore Vincenzo Melone, Comandante generale del corpo delle Capitanerie di porto: il primo per l’attenzione riservata al nostro territorio soprattutto per il comparto agricolo ed agroalimentare, il secondo per l’opera svolta a salvaguardia del patrimonio costiero e del mare e per la sensibilità sociale a favore dell’accoglienza.

I vincitori riceveranno un premio speciale offerto dalla gioielleria Tondo di Leverano e un paniere di prodotti locali come sintesi di tradizione, cultura e identità della Terra d’Arneo. “Soprattutto quest’anno la nostra partecipazione al Premio Terre del Negroamaro e l’impegno a portare avanti la nuova edizione del premio giornalistico rappresenta la volontà di dare continuità al lavoro intrapreso negli anni precedenti ed arricchirlo di contributi importanti in vista della nuova programmazione che è alle porte, spiega il Presidente del GAL Cosimo Durante.

Ancora una volta il nostro obiettivo sarà quello di promuovere il territorio con azioni in linea con l’identità dei luoghi e che diano particolare attenzione al comparto dell’agroalimentare e del turismo in collegamento con gli eventi e le iniziative che animano la Terra d’Arneo”.

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Gran botto di vini del Salento a Radici del Sud

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di Giuseppe Massari

 

Sono ottanta i vini premiati alla XI edizione del concorso internazionale di Radici che vede protagonista il Sud Italia. Una edizione da record quella del 2016: sono stati 432 i vini in concorso, 183 le aziende partecipanti (23 produttori siciliani, 18 produttori calabresi, 16 produttori lucani, 32 produttori campani e 94 produttori pugliesi). La giuria composta da giornalisti stranieri e da buyer provenienti da 13 Paesi (esteri (Svezia, Finlandia, Norvegia, Danimarca, Gran Bretagna, Olanda, USA, Canada, Giappone, Lituania, India, Polonia e Brasile) e da operatori e stampa nazionale, hanno decretato i migliori vini da vitigni autoctoni iscritti alla competizione. Nella rosa salita sul podio ci sono quest’anno anche i vini spumanti, nuova categoria inserita che completa il panorama enologico del Meridione. In tutta la kermesse, buon piazzamento dei vini salentini. In una tribuna d’onore non potevano mancare vini d’eccellenza.

Andiamo con ordine, iniziando dai primitivi. Secondo i buyer, i premiati sono stati quelli della Varvaglione Vigne e Vini di Manduria, con il loro consolidato Papale Linea oro 2013 e il Primitivo Manduria Dop dell’Antica Masseria Jorche.

Buon piazzamento per alcuni Negro amaro. Secondo i giornalisti, il primo posto è stato assegnato alla Cupertinum Antica Cantina del Salento 1935, con il suo Copertino Rosso Doc Riserva 2008; il secondo posto se lo è visto assegnato la Cantina Bonsegna con il Danze della Contessa 2014, Nardò Doc. Di tutt’altro tenore il giudizio dei buyer, che hanno concentrato la loro attenzione su: Vecchio Sogno 2014, Salento IGP, prodotto dalla Tenuta Giustini; Posta Piana 2014 Puglia IGP, Cantine Paradiso, ex aequo con 2 Nerio 2013, Nardò Doc, della Schola Sarmenti.

Nella categoria dei rosati del Sud, ancora il Salento protagonista. I giornalisti hanno decretato il terzo posto a Le Rotaie 2015, Valle d’Itria IGP, i Pastini. I componenti la giuria dei buyer hanno riservato due dei tre premi previsti a Cardone, con il suo Nausica 2015, Salento IGP e Trullo di Pezza con Speziale 2015, Salento IGP.   Per i Misto bianchi del Sud, i buyer hanno ritenuto premiare, tra l’altro, Palmento Costanzo con il Malvasia Bianca 2015, Salento IGP.

Per concludere e festeggiare il trionfo della Puglia e del Salento, considerato che tra i vini e vitigni premiati vi sono stati anche gli Spumanti rosati prodotti in Puglia, stappiamo alcune di queste bottiglie, come hanno consigliatogli esperti. Il Leggiadro Rosato del Consorzio Produttori Vini Manduria, che per i giornalisti ha meritato un secondo posto, per i buyer, invece, il primo.

Negro amaro, la parola alla storia (II^ parte)

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di Giuseppe Massari

Per continuare e completare l’analisi e la ricerca storica sul Negro amaro, si deve sempre partire e considerare quanto scritto dal professore Michele Vitagliano nel testo: “Storia del vino in Puglia”, Editori Laterza, Bari 1985. Scrive, infatti, l’illustre accademico: “Alla fine del secolo XIX la provincia di Lecce, detta anche Terra d’Otranto si estendeva su tutto il territorio che oggi comprende anche le province di Brindisi e di Taranto, occupava una superficie di 685.205 ettari di cui 659.688 destinati a produzione agraria e forestale. Questa provincia, producendosi in essa mediamente oltre 1.500.000 hl di vino, era la terza del regno per importanza vitivinicola essendo preceduta da quella di Alessandria e di Bari. Anche allora il vitigno maggiormente coltivato, fra le uve nere, era il Negrl amaro, seguito in ordine d’importanza, dal Cuccipannello, noto pure con i nomi corrotti di Cuccimanniello, Zuzumaniello, Sussumaniello nelle varie zone della Puglia, dalla Malvasia nera, dal Nero dolce, dal Primitivo, dall’Uva di Troia, dallo Zagarese, dall’Aleatico, ecc…”

Avendo precisato, in precedenza, quale era la zona interprovinciale, quella che, in sostanza, è stata e tutt’ora viene definita, denominata e riconosciuta con il nome di Penisola salentina, è su questa che deve concentrarsi l’attenzione per definire, nei dettagli, le zone di produzione del Negro amaro. Per continuare il viaggio nel tempo di ieri, confermato, per certi aspetti, anche nella contemporaneità dei tempi attuali, con alcune piccole varianti, considerando, soprattutto, le condizioni ambientali del Salento, iniziando da Brindisi, secondo Vitagliano, il territorio brindisino interessato al Negro amaro può essere suddiviso in 7 zone. “la prima zona, grosso modo, comprende il tenimento di Brindisi estendendosi a nord fino alla stazione di S. Vito dei Normanni, a ovest, includendo parte del tenimento di Mesagne, e a sud, parte del comune di Tuturano.

Museo del Negroamaro Guagnano
Museo del Negroamaro Guagnano

 

La seconda zona, a sud-ovest della precedente, comprende il rimanente territorio dei comuni di Mesagne e di Tuturano e si estende fino a nord di S. Pietro Vernotico.

La terza, la quarta e la quinta zona includono i comuni al confine con la provincia di Lecce; più precisamente la terza zona comprende il comune di Torchiarolo il più orientale verso il mare Adriatico, la quarta zona comprende gran parte del comune di S. Pietro Vernotico, la quinta Cellino S. Marco. S. Donaci e parte del comune di S. Pancrazio.

La sesta zona comprende il comune di Latiano. Infine la settima ed ultima zona comprende parte del comune di San Pancrazio e i tenimenti di Erchie, Torre S. Susanna, Oria e Francavilla Fontana; è la zona più occidentale del Brindisino e confina per gran parte con il Tarantino”.

Museo del Negro amaro Guagnano
Museo del Negroamaro Guagnano

 

Spostandosi più a sud, nel cuore del Leccese, dove il Negro amaro, in base alle sue caratteristiche organolettiche e chimiche, ha ricevuto maggiore investimento produttivo, sempre secondo lo studio, la ricerca e la pubblicazione del professore Vitagliano, le zone di incidenza sono 8. “la prima zona, immediatamente a sud del confine con il Brindisino, è la zona di Squinzano, il centro più importante, e interessa, oltre che la parte sud di questo comune, la part nord è investita ad oliveto, Campi Salentina, Villa Baldassarri e Guagnano.

La seconda zona, ad occidente della precedente, anch’essa confinante con il Brindisino, è quella di Salice Salentino che abbraccia i comuni di Salice, Novoli, Veglie, Carmiano, Arnesano e Monteroni.

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La terza zona ha per capitale Copertino e comprende il comune di Leverano e parte del tenimento di Nardò.

La quarta zona è costituita dal territorio amministrativo di Nardò.

La quinta zona corrisponde a quella che ha per centro più importante Galatina e comprende anche i limitrofi comuni di Cutrofiano, Galatone Aradeo, Sogliano, Neviano e Seclì.

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La sesta zona è quella di Gallipoli; comprende anche i comuni di Alezio, Tuglie e S. Nicola.

La settima zona è quella di Matino o del basso Leccese; comprende oltre il comune che le dà il nome, Collepasso, Parabita e Casarano.

Infine l’ottava ed ultima zona vitivinicola del Leccese è quella di Melissano; comprende i territori comunali, oltre che di Melissano. Di Taviano, Alliste, Racale ed Ugento”. Così, sommariamente, quanto riportato, oltre trent’anni da Vitagliano nel suo volume.

GRAPPOLO DI NEGRO AMARO

Forse, attualmente, alcune cose sono cambiate; alcune realtà sono state stravolte o connotate da altre peculiarità vitivinicole. Intento di questo scritto era fermare il tempo, se così è possibile esprimersi, per focalizzare, storicamente la vita di un prodotto, di questo prodotto derivante dall’uva, identità di una terra, intesa come territorio vasto. Giusto, però, per completare l’orizzonte di partenza e di arrivo su questo argomento, è bene fare riferimento ad un’altra pubblicazione, più recente rispetto a quella usata fin’ora.

Si tratta di: “I vitigni dei vini di Puglia”, di Donato Antonacci, Adda Editore, Bari 2004. Nella seconda parte del testo di Antonacci, quello relativo alle schede descrittive dei vitigni e dei vini di Puglia, a proposito del Negro amaro, l’autore lo riconosce e lo identifica sotto due specie: Negro amare precoce, Negro amaro cannellino, riportando quello che, già nel 1999, Antonio Calò aveva scritto, dopo analisi e attenti studi sulla viticoltura italiana.

“Nel 1994, nell’ambito del programma di miglioramento genetico della viticoltura del Salento condotto dall’Istituto Sperimentale per la viticoltura, è stato individuato. In un vigneto di Negro amaro, un ceppo che presentava un evidente anticipo dell’invaiatura e della maturazione rispetto agli altri ceppi del vigneto”.

negramaro

In conclusione, “possiede una precocità di maturazione talmente marcata (di almeno 20 giorni) da influenzare in modo decisamente positivo anche la componente chimica dell’uva al momento della raccolta” La cosa importante e da non sottovalutare è proprio la preminenza economica e distribuzione geografica. di questa variante di prodotto. Secondo l’Istituto per la Viticoltura in Puglia e precisamente nel Salento, questo vitigno” è iscritto fra i vitigni idonei alla coltivazione in tutte le province pugliesi ad eccezione di Foggia”.

 

La prima parte può leggersi qui:

Negro amaro, la parola alla storia

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/04/negro-amaro-la-parola-alla-storia/

Negro amaro, la parola alla storia

FOGLIE DI NEGRO AMARO

di Giuseppe Massari

 

L’amore sconfinato, intimo, sanguigno, quasi endemico; affettuoso, supportato da una fede razionale, convinta e sincera per il Salento mi porta sempre a rispolverare ricordi, memorie, documenti, testi, studi ed approfondimenti sulla sua vita, sugli sviluppi crescenti di interesse geografico, naturalistico, economico, agricolo, ambientale, storico e culturale. A questo patrimonio indiscusso appartiene un segno di vita e di benessere che è la viticoltura, proprio qui, dove il frutto prelibato degli dei è il Negro amaro. Un vitigno che, allevato nel Salento, produce vino conosciuto ed apprezzato da molti.

Purtroppo, però, come scrisse Michele Vitagliano, Ordinario di Industrie Agrarie, Università degli Studi di Bari, nel suo “Storia del vino in Puglia”, editore Laterza, Bari 1985, “non esistono elementi di sorta circa la sua origine ed epoca in cui inizia ad essere coltivato; tuttavia può affermarsi con buona sicurezza che la sua coltivazione ascende almeno all’epoca della colonizzazione greca, nell’VIII- VII secolo a .C. Ciò scaturisce dal suo nome che deriva dal greco mauros che, come è noto, significa “nero” e dal latino niger. Pertanto entrambi i termini del nome del vitigno stanno ad indicare, in due lingue diverse, un vitigno a frutto nero e non un vitigno ad uva nera e a sapore amaro, come potrebbe supporsi a prima vista”.

Fin qui la descrizione fatta da Vitagliano. Quello che, però, è interessante leggere, scorrendo il succitato volume, sono i vari giudizi espressi da persone di cultura, esperti nel settore vitivinicolo e di ampelografi, cioè coloro che studiano, identificano e classificano le varietà dei vitigni attraverso schede che descrivono le caratteristiche dei vari organi della pianta nel corso delle diverse fasi di crescita.

Uno fra questi fu Giuseppe De Rovasenda, che nel 1887, con la pubblicazione: “Saggio di una Ampelografia Universale”, Ermanno Loescher, Roma-Torino-Firenze 1887”, a proposito del nostro prodotto, così si esprimeva: “E’ vitigno pugliese; è anche chiamato Lacrima a Novoli. Un po’ troppo tardivo per l’Italia settentrionale ma fertile”.

apice di Negro amaro
apice di Negro amaro

 

Girolamo Molon, chiamato, nel 1890, a coprire la cattedra di Coltivazioni Speciali presso la R. Scuola Superiore di Agricoltura (poi Facoltà di Agraria) di Milano dove si era laureato appena otto anni prima, nel corso della sua pubblicazione: “Ampelografia. Descrizione Delle Migliori Varietà Di Viti Per Uve da Vino, Da Tavola, Porta-Innesti e Produttori Diretti”, Ulderico Hoepli, Editore Libraio della Real Casa, Milano, 1906, riferendosi alle province leccesi, tarantine, baresi e brindisine, dove sinonimi del Negro amaro erano Albese (Campi Salentina, Guagnano), Abruzzese (Valenzano, in provincia di Bari) e Lagrima (Squinzano, Montemesola, comune in provincia di Taranto, Terlizzi, nel barese, Torchiarolo e Latiano nel brindisino), così lo descrive: “E’ l’uva più diffusa in provincia di Lecce, ed ivi è pregiata assai, perché si crede non vi sia altra uva che, in ragione di peso e volume, dia tanto mosto.

GRAPPOLO DI NEGRO AMARO

Frojo ha notato che ottimi sono i vini nei quali entri in tutto o in massima parte; ed unita alla Malvasia nera, ne può dare ancora migliori. Glucosio 26,66%; acidità 0,41%. Frojo segna per le Puglie una maturità fra il 25 settembre ed il 10 ottobre, e buona resistenza alla siccità ed alle piogge. Si usa tenerla a ceppata bassa, senza sostegno, con potatura corta; preferisce terreni calcarei argillosi. Da noi, a Casignolo, questa vite vegeta bene ed è robusta e produttiva; ma l’uva matura assai male. Foglie piuttosto grandi, quinquelobate, con dentatura irregolare; seni superiori grandi e molto profondi, chiusi o semichiusi; seni inferiori meno pronunciati; seno peziolare aperto; pagina inferiore con tomento abbondante, lanoso, bianchiccio; picciuolo; pressocchè lungo come la nervatura mediana, con colorazione rossastra, che lo ricopre su tutta la lunghezza ed invade anche la prima porzione delle nervature nella pagina inferiore; bordo della foglia colorato d’autunno in rosso. Grappolo medio , o anche spesso sopra la media, di forma conica, a peduncolo un po’ corto, ma molto grosso, rossastro; peduncoletti di media lunghezza, un po’ sottili, a cercine piccolo; acini di media grandezza, ellissoidi, compatti, di colore nero-rossastro o anche solo rossastro, pruinosi, a buccia un po’ grossa e polpa acida. Da noi matura nella 4^ epoca. La Lagrima di Squinzano è uva nel leccese che dobbiamo credere eguale al Negro amaro”.

FRONTESPIZIO LIBRO DI MOLON

Solo qualche anno dopo, anche Pierre Viala e Victor Marmorel, nel tomo settimo di “Ampélographie”, Masson et C., Editeurs, Paris 1909, si limitano a scrivere: “è un vitigno italiano molto diffuso nella provincia di Lecce; fogli quinquelobate, con seni superiori molto profondi, molto tormentose sulla pagina inferiore; grappolo medio, conico; acini medi, ellissoidali, serrati di un nero matto”.

Giovanni Dalmasso, allievo di Girolamo Molon, molto più recentemente, in una tornata vicentina dell’Accademia Italiana della Vite e del Vino, in Atti Acc. Ital. Vite e Vino, 1934-35, VIII, 1956, dopo aver fatto riferimento all’esistenza, in provincia di Lecce, del suddetto vitigno e dopo aver elencato i sinonimi impiegati nelle varie zone di produzione (Albese, Abruzzese, Jonico, Mangiaverde e, impropriamente, Lagrima), così lo descrive: “Tralci robusti, di color cannella chiaro. Germogli tormentosi verdi. Foglie quinquelobate, piuttosto grandi, con seni superiori profondi, chiusi; inferiori meno pronunciati; seno peziolare aperto, pagina inferiore con tormento abbondante, bianchiccio, dentatura acuta, picciolo rossastro. E foglie d’autunno hanno i bordi rossastri. Grappoli medi o più, conici, compatti, con peduncolo corto e grosso, rossastro; acini medi, ellissoidi, di colore nero-rossastro, pruinosi, con buccia un po’ grossa, coriacea; polpa sugosa, dolce ma un po’ acidula. Maturazione di terza epoca. E’ un buon vitigno, molto produttivo, che resiste bene tanto alla siccità che alle piogge ed alle brinate; e bene anche nelle malattie crittogamiche. Vuole potatura corta e povera (tipicamente viene allevato ad alberello). Ha buona affinità d’innesto. Preferisce terreni calcarei-argillosi. Dà vino da taglio potenti, che, se ottenuti da terre rosse, sono di sapore quasi neutro, armonici, suscettibili anche di divenire, con l’invecchiamento, dei buoni vini superiori. Nei terreni alluvionali invece prendono facilmente sapore terroso. Possono anche migliorare se uniti a Malvasia nera”. Un viaggio, probabilmente, tra conferme, descrizioni omogenee e non discostanti e né difformi, ma pur sempre valide da riprendere, soprattutto, perché sottratte dalla polvere dell’oblio o, peggio ancora, della scarsa conoscenza ed esistenza; soprattutto, perché dimostrano una continuità storica di interesse e di valorizzazione del territorio salentino.

FOGLIA DI NEGRO AMARO
foglia di Negro amaro

Successivamente agli studi sinora riportati e ad integrazione di quelli fatti da Dalmasso, ve ne sono stati altri, intorno agli anni 60, per conto del Ministero dell’Agricoltura e Foreste, redatti dagli ampelografi Del Gaudio e Panzera. I due sostengono nella pubblicazione: “Negro amaro”, in Principali vitigni da vino coltivati in Italia – Volume I, Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, 1960 che: “il Negro amaro ha ottima vigoria, produzione abbondante e costante (65-70q/ha); posizione del 1°germoglio fruttifero al 2° nodo; numero medio di infiorescenze per germoglio 2-3; buona resistenza all’oidio, alla peronospora, alle brinate; scarsa alla muffa grigia. La sua uva sola o mescolata con Malvasia nera serve per la produzione di vini da taglio o da mezzo taglio. Da solo dà vino di intenso colore rosso granato, schiuma viva, gusto fine, pieno, gradevolmente amarognolo, rotondo a seconda dei terreni e località, in genere asciutto. Si ottiene un discreto vino da pasto dalle uve coltivate in collina non elevata, però, per la imperfetta maturazione, dà vini un po’ agri; meglio se mescolati in giusta proporzione con uve bianche; invecchiato, il vino anziché acquistare pregi diviene ordinario”.

Separatamente, solo Panzera, in una precedente pubblicazione: “Atti Accademia Italiana Vite e Vino, Siena 1959, XI, 62”, esprimendo un parere sul vino, scrive: “Ottimo vino da pasto, di colore rosso rubino intenso con riflessi violacei, di odore vinoso con profumo più o meno spiccato e gradevole, armonico, asciutto, giustamente tannico ed acido, a leggero retrogusto amarognolo, abbastanza di corpo, robusto; si presta egregiamente all’invecchiamento. Dalla fermentazione in bianco del mosto, ricavato per leggera torchiatura dell’uva pigiata, si ottiene il vino rosato, asciutto, alcolico, spesso frizzante, suscettibile di rapido invecchiamento” .

GRAPPOLO DI NEGRO AMARO 2

Il viaggio finisce qui. Forse, sono state riportate e scritte cose ovvie. Per imparare, approfondire e conoscere, nulla è ovvio. Nulla è scontato. Non si finisce mai di apprendere, anche se si torna spesso su cose lette e rilette, trite e ritrite. Ogni novità ed originalità sta nell’avvicinarsi a fruitori nuovi, diversi; sta nell’avvicinare una materia, un prodotto a gente sempre nuova, pronta ad arricchire il proprio armamentario culturale; a proiettarsi in quel mare di saggezza che è la terra con i suoi contadini; che è il Salento, terra generosa, terra madre, accogliente, aperta ma tutta da scoprire, da amare sempre, comunque e ovunque, sperando che la selvaggia malvagità umana non faccia la sua parte distruttrice, cancellando il suo passato, le sue migliori tradizioni e civiltà, senza aver costruito il suo futuro; senza aver trasmesso le radici per ogni futuro, per ogni speranza di crescita, di vivibilità, di visibilità, di identità e di appartenenza.

Bandiere Blu 2016. Il mare del Salento è sempre più blu

 

Torre dell'Orso, Melendugno
Torre dell’Orso, Melendugno

 

di Giuseppe Massari

Castro, Otranto, Melendugno e Salve hanno ricevuto per il 2016 l’ambito riconoscimento assegnato dalla Fondazione Europea per l’Educazione Ambientale. Il Programma Bandiera Blu, comunque, premia tutte quelle località marine che si sono impegnate nella promozione del territorio a salvaguardia dell’ambiente, secondo criteri di assegnazione che vanno dalla qualità delle acque di balneazione, alla depurazione di quelle reflue, passando per la facile accessibilità alle marine fino alla gestione dei rifiuti.

Veterana della classifica da oltre un decennio, Otranto si riconferma come uno dei borghi marini più attrattivi del Salento, un riconoscimento che il sindaco Luciano Cariddi commenta così: È la conferma di un lavoro portato avanti da tutta la città. Posso dire però che non ci sentiamo appagati: c’è ancora molto da fare nel settore dei rifiuti, ad esempio. Un ambito in cui l’amministrazione può agire fino a un certo punto, poi tocca ad altri enti .

BAIA DI PUNTA DELLA SUINA, GALLIPOLI, PUGLIA

Stessa soddisfazione aleggia intorno alle parole del sindaco di Melendugno Marco Potì, che è gonfio di orgoglio per il premio ottenuto dalle marine di Torre dell’Orso, Roca e San Foca, le quali possono vantare di aver conquistato, contemporaneamente, la Bandiera Blu, le Cinque Vele e la Bandiera Verde.

Anche Castro non nasconde la sua soddisfazione per la gratificazione alla propria qualità nei servizi.

Ma il Salento nel suo insieme, inteso come penisola salentina, comprensiva delle province di Brindisi e Taranto, può vantare analoghi riconoscimenti per le spiagge e le marine di Fasano, Ostuni e Carovigno e per Ginosa e Castellaneta.

Nove comuni in tutto, su gli 11 pugliesi, tra i quali Polignano a Mare (nona bandiera consecutiva), l’unico in provincia di Bari, e Margherita di Savoia, comune solitario nella Barletta-Andria-Trani.

Grotta della Zinzulusa, Castro
Grotta della Zinzulusa, Castro

In definitiva, la Puglia alza le sue 11 bandiere conquistate l’anno scorso. Con una sola eccezione e un avvicendamento: esce Monopoli ed entra Carovigno. L’auspicio, per il prossimo anno, è che i vessilli aumentino e che la Puglia si confermi nel suo primato di qualità balneare e balneabile.

Porto Selvaggio, perla del Salento, gradito e consigliato da The Telegraph

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di Giuseppe Massari

I consigli di viaggio proposti dall’autorevole quotidiano inglese The Telegraph, che indica 21 destinazioni italiane, tra le quali il parco di Porto Selvaggio-Palude del Capitano di Nardò, che mantiene alta la bandiera della Puglia, insieme al Gargano, non sono da sottovalutare, considerato che, questo territorio, fortunatamente e coraggiosamente, è stato preservato da scempi urbanistici, dalle colate di cementificazioni che ne avrebbero deturpato la bellezza, lo splendore, l’originalità e la ricchezza paesaggistica, storica, culturale ed ambientale.

Oggi, possiamo dire che è una perla del Salento.

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Portoselvaggio, altrimenti definita “l’oasi più bella del Salento”, negli ultimi anni è stata già al centro di attenzioni, di considerazioni; in vetta alle classifiche più prestigiose. Sia a livello giornalistico che di tour operators, nazionali ed internazionali, tanto da diventare affollata meta estiva per le sue acque cristalline e fresche ma, anche come luogo d’attrazione culturale per la presenza di siti archeologici tra i quali la Grotta del Cavallo, “santuario della preistoria” e Serra Cicora.

La grotta del Cavallo ha restituito numerosi reperti legati all’Uomo di Neanderthal (resti macellati di animali, da cui il nome della grotta, manufatti di pietra, ecc.); nella grotta sono state rinvenute le testimonianze di una cultura, l’Uluzziano.

portoselvaggio (ph Marcello Gaballo)

L’importanza archeologica di Serra Cicora, invece, consiste nella presenza di una frequentazione del primo neolitico a ceramica impressa, seguita da uno stanziamento di neolitico recente – finale a ceramica Serra d’Alto e Diana. A quest’ultimo (V millennio a.C.) si deve l’impianto di una vera e propria necropoli che ha restituito finora circa venti individui, alcuni dei quali in strutture megalitiche che anticipano una tipologia ritenuta fino a ieri molto più recente.

Il Parco, possiamo dire che la fa da padrone. Esteso per oltre 1.000 ettari, riunifica in un’unica area il parco naturale attrezzato già istituito nel 1980 e l’area naturale protetta della Palude del Capitano, già classificata dalla L.R. 19/97. Con la Legge Regionale n. 21/1980, nella zona compresa fra la Torre dell’Alto e quella di Uluzzo, è stato istituito il Parco Naturale attrezzato di Porto Selvaggio, che ha evitato la cementificazione, prospettata dai numerosi progetti di lottizzazione già presentati e contro cui la popolazione locale si è coraggiosamente battuta.

Italy, Apulia, Salento, Porto Selvaggio natural reserve, the bay
Italy, Apulia, Salento, Porto Selvaggio natural reserve, the bay

 

La zona sottoposta a tutela copre una superficie di 424 ettari e ospita ambienti costieri tipici dell’area mediterranea. Dagli anni ‘50 si è aggiunta, poi, per effetto del rimboschimento operato dal Corpo Forestale dello Stato, una cospicua colonia di pini d’Aleppo, pianta pioniera che attecchisce perfettamente su questi terreni aridi e rocciosi. La pineta scende fino al mare e regala un’ombra profumata di resina a chi cerca un riparo alla calura estiva. La piccola insenatura di Porto Selvaggio è costituita da ciottoli e scogli bassi, che spesso tendono a formare piccole cavità che sembrano delle grotte. L’acqua cristallina permette di vedere, anche ad occhio nudo, gli splendidi fondali popolati da pesci e alghe multicolore.

Meraviglia, stupore e consenso, per la scelta dell’organo d’informazione inglese, sono stati espressi dal presidente del Gal Terre d’Arneo, Cosimo Durante. “Siamo tutti orgogliosi di questa nomina, come cittadini pugliesi oltre che salentini e di Terra d’arneo. Evidentemente si tratta di un risultato frutto dell’attuazione di principi di tutela che hanno permesso di preservare un luogo di così forte bellezza e, parallelamente, un lavoro congiunto che mette assieme attività di promozione a cura dell’ente parco competente, della civica amministrazione e della nostra agenzia di sviluppo locale, GAL Terra d’Arneo. Nella presentazione del comprensorio di Terra d’Arneo, difatti, il parco di Porto Selvaggio è uno dei nostri punti di forza per presentare il complesso sistema ambientale e culturale del comprensorio”.

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Artis Puglia: nuovo modello di sviluppo turistico

portoselvaggio (ph Marcello Gaballo)

In Puglia si fa strada un nuovo modello di sviluppo turistico per far crescere il Salento. Artis Puglia ha unito pubblico e privato. Per promuovere il territorio su scala internazionale creato l’asse Salento-Turchia.

di Giuseppe Massari

Artis Puglia unisce e rappresenta una condivisione d’intenti ben precisa: far crescere il Salento. Per questo si sono messi insieme per fare rete differenti soggetti impegnati nella filiera turistica: più di cento società, associazioni economiche, Università, enti di ricerca, enti pubblici. Artis Puglia svilupperà nuovi progetti per promuovere il territorio su scala internazionale. Il primo è stato avviato con la Turchia. Parte così la nuova stagione delle progettualità del GAL Terra d’Arneo nell’ambito del Piano di Sviluppo Regionale Puglia 2014/2020 di recente approvazione. Con le forze del lavoro, della produzione, dell’economia, lunedì 8 febbraio si è svolto l’incontro a Veglie, per sottoscrivere accordi di collaborazione reciproca con i responsabili del Governo Turco in visita, oltre che in Italia, anche in altri Paesi Europei tra cui Germania e Olanda, per avviare rapporti di cooperazione e individuare misure, progetti e iniziative, soprattutto, nel settore turistico. La firma dell’accordoè avvenuto alla presenza dei membri del T.C. Ministry of National Education General Directorate of Vocational and Technical Education nelle persone di Mrs.  Sennur Cetin, Mr. Levent Tolay, Mr. Tuncay Yelboga, Mr. Ozgür Nurdogan, Mr. Abdulnasır Bulak, Mr. Onder Bulut.

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Cripta della Favana in provincia di Lecce

La scelta effettuata dall’Agenzia Nazionale Turca Erasmus e dal Governo Centrale Turco per la Formazione ricade sul Salento in virtù dei rapporti già consolidati con Associazione IRIS, ente di formazione accreditato alla Regione Puglia, e per suo tramite con il GAL Terra d’Arneo. “I temi alla base dell’accordo riguardano il settore della cooperazione internazionale e della formazione professionale ad indirizzo turistico, Cosimo Durante, Presidente del GAL Terra d’Arneo. L’idea è quella di definire una rete di professionalità turistiche a vantaggio dei territori aderenti che parta dal Mediterraneo e che arrivi fino al Nord Europa.
Negli anni passati il Gal Terra d’Arneo si è impegnato a valorizzazione e far crescere il proprio territorio dal punto di vista turistico ed enogastronomico. Sono state create e rimesse a nuovo molte strutture ricettive nel Salento e potenziato la rete di aziende operanti sul proprio territorio che comprende nove comuni: Campi Salentina, Carmiano, Copertino, Guagnano, Leverano, Nardò, Porto Cesareo, Salice Salentino, Veglie. Importante il sostegno ad attività e produzioni riguardanti i settori agroalimentare, artigianale, turistico-ricettivo e dei servizi culturali, ambientali e di utilità sociale, nell’interesse del territorio salentino e del turismo. “Un turismo capace di attrarre, intelligente, all’avanguardia”, ha aggiunto Cosimo Durante. “Un turismo di arte e di partecipazione, di condivisione e di forza. Un turismo capace di rinnovarsi nel solco della tradizione, del rispetto e del recupero dei beni materiali ed immateriali”.

 

Valorizzare il turismo della storia e delle tradizioni

Artis Puglia Torre Sant'Isidoro

Nardò, Torre Sant’Isidoro

Il turismo della storia pugliese e salentina è anche quella fatta di briganti che vissero queste terre; del recupero identitario delle proprie radici professionali come la valorizzazione dei calcinari e della calce per la pulizia bianca delle abitazioni. Ora, con Artis Puglia e l’accordo sottoscritto si è fatto un ulteriore passo decisivo per migliorare la propria vocazione turistica di questo territorio. Un accordo di respiro internazionale per rilanciare in scenari più ampi il Salento e le sue peculiarità.
La ragione di questo nuovo impegno, possiamo dire, affonda le sue radici storiche in quella parte di territorio in cui, un tempo, i turchi, venivano temuti, combattuti; le popolazioni cercavano di difendersi da quelli che erano ritenuti assalitori, predatori, pronti solo ad attaccare, portando morte e distruzione. Non a caso, come è facile leggere nelle guide turistiche prodotte, pubblicate e diffuse in si legge che: “la zona è ricca di Torri costiere, edificate per l’avvistamento delle navi turche in avvicinamento nel periodo dall’800 al 1400 d.C. Le torri più piccole sono di origine federiciana, mentre le più grandi furono fatte edificare da Carlo V. Le torri sono progettate e costruite per essere una in vista dell’altra e per garantire il massimo controllo del territorio. Ma come funzionava il sistema d’allarme contro i Turchi? Nelle torri vivevano dalle 2 alle 3 persone con compiti diversi, i cavallari e le vedette. Le vedette controllavano l’orizzonte dal punto più alto delle costruzioni. Appena scorgevano delle navi nemiche mandavano segnali d’allarme alle altre torri e alle Masserie fortificate nell’entroterra attraverso la luce delle torce o il suono di campanelle. Dalle torri, quindi, partivano i cavallari che, al grido “Mamma li Turchi”, avvisavano i paesi interni e i presidi di soldati presenti nei castelli di Gallipoli, Copertino, Otranto, Lecce, ecc”…

Oggi, la storia, si capovolge e si ripete, per certi aspetti. Torna ma in maniera positiva. La Turchia diventa alleata. I nemici di un tempo, diventano i migliori alleati.

 

Le fascine di San Marzano di San Giuseppe (Taranto)

Falò a San Marzano. Questa e le altre foto sono tratte dal sito della Pro Loco di San Marzano

Le fascine di San Marzano di San Giuseppe: il fascino di una festa antica, ma sempre viva nel suggestivo mondo di una comunità albanofona

di Giuseppe Massari

A San Marzano di San Giuseppe, piccolo centro cittadino della provincia di Taranto, la festa patronale, in onore del santo falegname di Nazareth, è vissuta ancora oggi come un appuntamento corale importantissimo che si esprime essenzialmente con i riti devozionali della processione delle legna, dell’esposizione delle tavolate e delle “ mattre” e della benedizione del pane, chiamato di S. Giuseppe.

Questi antichi riti risalgono, almeno nelle forme vigenti, da una data importante e storica che è entrata nella vita di questa comunità. Era il 7 settembre del 1866 quando il sindaco di San Marzano, Francesco Cavallo, deliberò che al nome del paese fosse aggiunto il suffisso “San Giuseppe “ esprimendo con questo atto la volontà unanime dei concittadini che tributavano al Santo solenni festeggiamenti con una devozione antichissima.

Un’immagine storica delle fascine di San Marzano

Infatti il culto a San Giuseppe risale, nella comunità albanofona  di San Marzano, già al XVII secolo, portato dalla madrepatria dai profughi albanesi, di rito greco-ortodosso, che qui si stabilirono nella prima metà del 1500. Ed è appunto da quella data che S. Giuseppe, già protettore della famiglia, dei

Le fascine di San Marzano di San Giuseppe (Taranto)

Falò a San Marzano. Questa e le altre foto sono tratte dal sito della Pro Loco di San Marzano

Le fascine di San Marzano di San Giuseppe: il fascino di una festa antica, ma sempre viva nel suggestivo mondo di una comunità albanofona

di Giuseppe Massari

A San Marzano di San Giuseppe, piccolo centro cittadino della provincia di Taranto, la festa patronale, in onore del santo falegname di Nazareth, è vissuta ancora oggi come un appuntamento corale importantissimo che si esprime essenzialmente con i riti devozionali della processione delle legna, dell’esposizione delle tavolate e delle “ mattre” e della benedizione del pane, chiamato di S. Giuseppe.

Questi antichi riti risalgono, almeno nelle forme vigenti, da una data importante e storica che è entrata nella vita di questa comunità. Era il 7 settembre del 1866 quando il sindaco di San Marzano, Francesco Cavallo, deliberò che al nome del paese fosse aggiunto il suffisso “San Giuseppe “ esprimendo con questo atto la volontà unanime dei concittadini che tributavano al Santo solenni festeggiamenti con una devozione antichissima.

Un’immagine storica delle fascine di San Marzano

Infatti il culto a San Giuseppe risale, nella comunità albanofona  di San Marzano, già al XVII secolo, portato dalla madrepatria dai profughi albanesi, di rito greco-ortodosso, che qui si stabilirono nella prima metà del 1500. Ed è appunto da quella data che S. Giuseppe, già protettore della famiglia, dei

Musei diocesani pugliesi scrigni di ricchezze

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di Giuseppe Massari

Nel panorama culturale pugliese ci sono delle testimonianze e delle realtà che non si può fare a meno di visitare. Tra i tanti doni naturali che la Puglia possiede, e che ha gratuitamente ricevuto in dono,  ci sono quelli costruiti da mani esperte ed umane. Sono immagini sacre, quadri, sculture di santi, reliquiari, paramenti ed arredi sacri. Un corredo enorme che costruisce e ricostruisce la storia della Chiesa pugliese. Che fa da cornice e da sfondo ad una storia scritta, ma non sufficientemente conosciuta. Un bagaglio culturale di enorme spessore, interesse e bellezza attraverso il quale si sono cimentati pittori e artisti di fama mondiale, ripercorrendo in lungo e in largo la sacralità, la spiritualità, la fede della nostra regione.

Questi ricchi contenitori di arte ed espressività, intonati e sintonizzati con le corde del cuore, sono i molteplici musei diocesani sparsi dal nord al sud della Puglia.

Ma in realtà quanti sono? In una prima ricostruzione, fatta alcuni anni fa, dalla Commissione per la cultura della Conferenza episcopale pugliese,  e sfociata in una pubblicazione che ha visto la luce circa cinque anni fa,  “Guida dei Musei diocesani di Puglia”, essi assomano ad un numero pari a 17. Va detto subito che sono fra i più importanti e i più ricchi per contenuti di oggetti espositivi. A questo elenco vanno aggiunti quelli definiti ecclesiatici, cioè sempre di proprietà della Chiesa, ma più, per quanto riguarda la gestione, di natura privata o privatistica.

Tutti, comunque, in ugual misura, contribuiscono ad integrare il già vasto patrimonio architettonico delle nostre chiese romaniche, gotiche e barocche.

Tutti questi cimeli, uniti indissolubilmente alle storie di ogni singola cattedrale o chiesa locale, sono il miglior viatico, il migliore mezzo per portare la Puglia oltre i suoi limitrofi e lontani confini. Essi svolgono una funzione turistica di indubbio valore, se è vero, come è vero, che la sete del sapere e del conoscere non può non passare attraverso le bellezze che racchiudono il sacro, il divino, il trascendente, il culto, la fede, la tradizione, la specificità di un messaggio autentico e non artefatto, in mezzo al confusionismo moderno o della modernizzazione dissacrante, blasfema ed iconoclasta.

Nell’economia di questi tesori viventi vanno aggiunti i cassetti della memoria spolverata o impolverata degli Archivi. Altre miniere di ricchezza di documenti, di racconti particolari, curiosi, metodici, puntuali dello svolgimento della vita della Chiesa, con gli atti ufficiali dei molteplici vescovi che hanno abitato le sedi episcopali. La vita dei Capitoli cattedrale. Le particolarità raccontate dei vari personaggi storici, che hanno contribuito a scrivere ogni fetta e parte di storia locale. Forse, con l’eccezione e la dovuta distinzione, però, va evidenziato come i musei, per la loro capacità di farsi guardare e ammirare sono mete ambite da molti.

Gli archivi, sono luoghi di studio, riservati a pochi, a cultori, ad appassionati di ricerche, e, quindi, meno esposti ai visitatori occasionali e di passaggio. Ma gli uni e gli altri non differiscono dall’ essere punti centrali d’incontro e di partenza per lo studio di ogni realtà particolare. Gli uni e gli altri insieme per assolvere a quella funzione di supporto propagandistico e promozionale del nostro territorio.

Non potendo elencare tutti i tesori contenuti nelle strutture museali diocesane, quanto meno, ci è sembrato opportuno, riportare, grazie all’ausilio di un recente studio, elaborato attraverso una Tesi di Licenza in Museologia, curata dal giovane Giorgio Gasparre e discussa presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, presso la Città del Vaticano, nell’Anno accademico 2004 – 2005, l’elenco aggiornato di tutti i musei che insistono nelle varie diocesi pugliesi.

 

 

Provincia di Lecce

Ÿ         Museo Diocesano d’ arte sacra dell’ Arcidiocesi di Lecce: Comune: Lecce- Diocesi: Lecce- Sede: Palazzo del seminario, piazza Duomo- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Otranto: Comune: Otranto- Diocesi: Otranto- Sede: palazzo Lopez, piazza della Basilica- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro. 

Ÿ         Museo Diocesano di Gallipoli: Comune: Gallipoli- Diocesi: Nardò-Gallipoli- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a pagamento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Ugento: Comune: Ugento- Diocesi: Ugento- Santa Maria di Leuca- Sede: Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

 

Provincia di Brindisi

Ÿ         Museo Diocesano “Giovanni Tarantini”: Comune: Brindisi- Diocesi: Brindisi- Ostuni- Sede: chiostro del Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In allestimento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Oria: Comune: Oria- Diocesi: Oria- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a richiesta. 

 

Provincia di Taranto

Ÿ         Museo Diocesano di Taranto: Comune: Taranto- Diocesi: Taranto- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra-Proprietà: diocesano. Prossima apertura.

Ÿ         Museo Diocesano di Castellaneta: Comune: Castellaneta- Diocesi: Castellaneta- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Provincia di Bari

Ÿ         Museo Diocesano della Basilica Cattedrale di Bari: Comune: Bari- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Arcivescovado- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano: Pinacoteca Mons. A. Marena e Lapidario romanico: Comune: Bitonto- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Capitolare della Cattedrale di Gravina di Puglia: Comune: Gravina di Puglia- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Seminario Vecchio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: Capitolo della Cattedrale di Gravina di Puglia- Aperto, offerta libera.

Ÿ         Museo Diocesano della Cattedrale di Altamura: Comune: Altamura- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Matronei della Cattedrale- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Ÿ         Museo Diocesano di Monopoli: Comune: Monopoli- Diocesi: Conversano- Monopoli- Sede: Ex Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Bisceglie: Comune: Bisceglie- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Provincia di Barletta- Andria- Trani

Ÿ         Museo Diocesano di Trani: Comune: Trani- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: piazza Duomo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso.

 

Provincia di Foggia

Ÿ         Museo Diocesano di Foggia: Comune: Foggia- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Chiesa dell’ Annunciata- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Ÿ         Museo Diocesano di Bovino: Comune: Bovino- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Castello di Bovino- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di San Severo: Comune: San Severo- Diocesi: San Severo- Sede: ambiente ipogeo di via vico freddo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di Lucera: Comune: Lucera- Diocesi: Lucera- Troia- Sede: Episcopio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano del tesoro della Cattedrale di Troia: Comune: Troia- Diocesi: Lucera- Troia- Tipologia: artistico- arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Le foto a corredo di questo articolo riprendono alcuni dei beni esposti nel Museo Diocesano di Gallipoli

Giuseppe Massari e Liborio Romano: due modi di fare l’Italia unita

 

Giuseppe Massari e Liborio Romano: due modi di fare l’Italia unita.

Nico Perrone: L’agente segreto di Cavour

 

di Vittorio Zacchino

Il nome di Giuseppe  Massari (1821-1884) si lega ad una inchiesta sul brigantaggio nel Mezzogiorno e al resoconto della medesima  in Puglia e nel Salento nel corso del sanguinoso 1863. Nel primo quinquennio post–unitario (1861-1865) si era registrato l’avvelenamento dei rapporti tra chiesa e stato, e di quelli tra clero retrivo e cittadini, l’imbarbarimento del vivere civile, il moltiplicarsi di grassazioni brigantesche nei boschi dell’Arneo e nelle macchie del Basso Salento tra Supersano e Calimera.

Le bande di Pizzichicchio, dello Sturno, del Venneri, avevano sfidato la Guardia Nazionale,  protette dal basso clero e da molti nostalgici, giungendo a uccidere il vicesindaco di Taviano Generoso Previtero e il prete don Marino Manco di Melissano.

L’inchiesta del moderato Massari, nonostante conclusioni di forte valenza sociale, era stata pressoché elusa dal governo di Torino che aveva continuato a considerare il brigantaggio meridionale appena un episodio da relegare nelle cronache criminali e da espellere dalla storia dell’unificazione italiana (Doria). Tanto che il parlamento nell’agosto 1863 aveva approvato la legge Pica che affidava la repressione del brigantaggio alle autorità militari  e puniva la resistenza armata con la fucilazione immediata. Migliaia di contadini meridionali furono spietatamente  giustiziati .

Nico Perrone nel suo recente libro L’Agente Segreto di Cavour. Giuseppe Massari e il mistero del diario mutilato (Palomar 2011) biografa un Massari concreto il quale, condannato a morte dal Borbone nel 1848, era esulato a Torino, per essere poi eletto deputato a Bari nelle elezioni del 1861, quindi segretario di Cavour. Al fianco del premier torinese il tarantino Massari aveva partecipato ad incontri politici importantissimi verbalizzandone i colloqui, spesso svolgendo  incarichi e missioni segrete di carattere unitario per conto del Conte. In questo agile e scorrevole libretto Perrone ci dà una sobria biografia riprendendo alcuni dei leit motiv del precedente libro L’Inventore del trasformismo. Liborio Romano strumento di Cavour per la conquista di Napoli (Rubbettino 2009). In buona misura le due opere sono complementari tra di loro e gettano nuova luce sul periodo cruciale Giugno-Settembre 1860, quello che coincide con l’Unificazione e il passaggio del Regno delle Due Sicilie dalla dinastia dei Borbone a quella dei Savoia.

Torna in campo nel libretto di Perrone il presunto tradimento di Romano, il più discusso personaggio dell’Ottocento meridionale, a danno di Francesco II, dove il Massari  discreto o reticente del Diario salta a piè pari il periodo 24 marzo – 18 settembre 1860, calandovi l’oblio assoluto, per una qualche presunta forma di riguardo, secondo  l’autore, all’improbo conterraneo.

Si deve mettere nel conto il fatto che Cavour non aveva perdonato a Romano di avergli preferito il guerrigliero repubblicano Giuseppe Garibaldi  e di aver  snobbato, se non tradito, il suo piano di conquista e di annessione armata delle Due Sicilie alla monarchia sabauda, tramite la  sollevazione  della popolazione di Napoli affidata a Romano. Dal canto suo il ppòppeto Romano, non meno fine politico, aveva pensato bene di dover risparmiare al Mezzogiorno l’umiliazione della conquista.

Quanto al diario massariano, non pare possa parlarsi di mistero, a proposito di pagine letteralmente recise a vantaggio di qualcuno. Di chi? Perrone crede  a beneficio di don Liborio che secondo lui, dopo l’Unificazione, non valeva un bel niente, e per questo gli avrebbe fatto lo sconto di tacere sulla sua condotta di  trasformista e traditore. Una valutazione che è poco convincente sul piano storico.  Intanto perché Romano era temutissimo per il suo trionfo elettorale in otto collegi, e naturalmente  mal visto da quasi tutti i colleghi meridionali, i cosiddetti consorti devoti a Cavour e all’accogliente Torino.

Dal mio modesto punto di vista ritengo, invece, che il silenzio del diario sia stata operazione messa a punto proprio da Massari, l’unico che potesse  programmarla per compiacere al proprio principale, il quale non ne sarebbe uscito affatto bene se si fosse venuto a sapere degli intrighi  segreti con Romano. Altro che mutilazione per riguardo  a  don Liborio!  La risposta  ce la dà  l’interpellanza “scenica” che  lo stesso Massari, di concerto col suo capo, fece alla Camera, il 2 aprile 1861, intorno all’amministrazione delle province meridionali, sollevando la questione morale e sottolineando la mancanza di probità politica dell’uomo più suffragato d’Italia che si era prorogato al ministero.

A Perrone tuttavia va riconosciuto  il merito di averci offerto due ritratti contrapposti  di politici  meridionali del risorgimento: l’uno del trasformista Romano, la testa migliore dell’ex reame il quale, grazie al successo  in otto collegi alle politiche del 1861, si veniva proponendo come il più rappresentativo deputato meridionale, e in prospettiva futura come il capo di un temibile partito del Mezzogiorno. L’altro del devoto  burocrate “consorte” Giuseppe Massari, funzionario onesto ma conformista gravitante nell’orbita del grande Cavour, convertito come tanti altri meridionali ad una visione  sabauda, italiana, e vagamente europea. Alleggerita certo delle angosce,  tensioni, amarezze di chi, come  il conterraneo di Patù, tendeva a guardare più oltre ad una Italia federalistica e rispettosa delle autonomie  amministrative  del Mezzogiorno, e soprattutto pensosa delle sue drammatiche  condizioni.

Si intravede in ogni caso in questa pagine un’Italietta di comodo, che cinicamente sacrificava i problemi del Sud al processo unitario nazionale, per poi eluderli e rinviarli all’infinito. La quale Italietta non avrebbe mai potuto onorare, ieri e oggi, un <<traditore>> della risma del meridionalista  Romano. E tanto peggio per lui, se la storia lo avrebbe cementato nell’oblio. Come Sergio Reggianì nel film Il giorno della Civetta tratto da  Sciascia. Cancellandolo dal Diario, Massari si era dato probabilmente il medesimo obiettivo.

In ogni caso il lavoro di Perrone serve a dimostrare ancora una volta, attraverso il confronto tra queste due diverse posizioni di patrioti salentini, che la fortuna di un meridionale di solito non riesce ad emergere se non venga adeguatamente benedetta e sponsorizzata da qualche mammasantissima. Magari di oltre Po.

 

(pubblicato su Presenza Taurisanese – Marzo 2012) 

 

Francesco Guarini, pittore barocco di grande prestigio, a Gravina in Puglia

 

Gravina, chiesa di Santa Maria del Suffragio

 Gravina. Chi si è ricordato di Francesco Guarini?

 

di Giuseppe Massari

Quando, spesso, mi capita di leggere Gravina in Puglia, accompagnato da una dicitura distintiva come città d’arte, mi trovo sempre a disagio. Perché quell’attribuzione, non originale, ma generica, significa tutto e non significa niente. Non è un motivo d’identità specifico, perché ogni città può esserlo e lo è per le quantità di  scrigni e tesori di storia, arte e cultura che possiede, conserva e fa fruire. Ma è ancora di più inutile quando, quella specie di distintivo, non viene neanche utilizzato al massimo. Si da il caso che, il 19 gennaio 1611, in quel di Solofra, nascesse un certo Francesco Guarini, divenuto pittore barocco di grande prestigio, di grande fama e di grande pregio artistico, se è vero, come la maggior parte dei critici d’arte sostiene, che fu un seguace e un allievo del Caravaggio. Costui, giunse a Gravina con gli Orsini essendo loro protetto, proseguendo una florida attività lavorativa per la famiglia e le varie chiese del territorio, diventando una figura determinante per la pittura del Seicento a Gravina.

Gravina, Madonna col Bambino di Francesco Guarini

 

La quasi totalità dei suoi biografi concorda che la sua morte sia  avvenuta nel 1651 a Gravina, il 23 novembre,  ad appena quarant’anni, anche se non vi sono, purtroppo, tracce che lo confermino, nel senso che non risulta esserci un monumento funebre, un cenotafio, sia pure una lapide che ne indichi il luogo, anche se non è escluso che le sue spoglie mortali possano trovarsi e riposare nella chiesa di Santa Maria del Suffragio (Purgatorio) a Gravina, cioè nella cappella funeraria degli Orsini, visto che furono loro a chiamarlo in città e ad ospitarlo, riservandogli fastose esequie in occasione della prematura scomparsa. I suoi resti, dunque, potrebbero trovarsi in quel luogo dove, alle spalle dell’altare maggiore, trionfa e troneggia uno dei più riusciti capolavori dell’artista: la Madonna del Suffragio con le anime del purgatorio.

Presso la Fondazione Ettore Pomarici Santomasi, a Gravina in Puglia,  vi sono altre due tele: la Madonna col Bambino e la disputa di Gesù con i dottori nel tempio.

Spiace dover ricordare che altre opere, della sua fiorentissima attività, realizzate presso il palazzo ducale degli Orsini, siano andate disperse, nel senso che non si sa dove possono essere state trasferite e allocate. Se formano collezioni d’arte di alcuni privati o sono esposte in gallerie d’arte, sempre di privati cultori e collezionisti, poiché non vi sono tracce o testimonianze di una presenza in alcuni musei nazionali ed internazionali.

Molti capolavori di questo importantissimo e famosissimo pittore si conservano a Solofra, Napoli e Roma, città dove egli visse lavorò. Nella sua Solofra, per ricordare e festeggiare i 400 anni della nascita di don Ciccio Guarini, così come, affettuosamente lo chiamavano i suoi compaesani ed estimatori, è stato indetto l’anno guariniano.

Alla luce di tutto questo e sulla base di non pochi elementi, alcune domande sono d’obbligo. Come mai, qui, invece, a Gravina, i tanti cultori di storia locale, gli esperti di storia e storiografia gravinese hanno trascurato questo evento? Come mai i possessori di queste meravigliose opere d’arte hanno omesso di celebrare il centenario della nascita di un pittore che ha dato molto a questa città? Come mai, quella che si definisce città d’arte, facendo solo ridere di pietà e compassione, ha trascurato di organizzare un evento che ricordasse la figura di questo pittore, gravinese d’adozione?

Perché questa città manca di conoscenza e coscienza dell’appartenenza, perché figlia incestuosa della cultura dell’apparenza esclusiva e depositaria di un soggettivismo e personalistico modo di proporsi ed atteggiarsi a uomini di cultura, senza averne le capacità, l’interesse, l’amore, la dedizione, lo studio, l’approfondimento, la serietà e il rigore scientifico.

Tutto questo, però significa e deve continuare a significare, ma solo per questo, che Gravina è città d’arte, perché coltivare nel proprio nucleo urbano gli ignoranti è anche un arte. L’arte è un valore intimo, non è un valore astratto, è un valore concreto.

Sulla base di queste certezze, mi auguro che qualcuno, al di fuori e al di là di alcune categorie di pseudo culturali, si metta a lavoro e organizzi qualche evento a ricordo di quest’uomo benefattore della nostra città. Riporti alla memoria, ai fasti della gloria l’acuta sensibilità di un artista, di un cultore del bello e del sacro e della famiglia che lo riempì di consensi, stima e fiducia.

Musei diocesani pugliesi scrigni di ricchezze

 

 

di Giuseppe Massari

Nel panorama culturale pugliese ci sono delle testimonianze e delle realtà che non si può fare a meno di visitare. Tra i tanti doni naturali che la Puglia possiede, e che ha gratuitamente ricevuto in dono,  ci sono quelli costruiti da mani esperte ed umane. Sono immagini sacre, quadri, sculture di santi, reliquiari, paramenti ed arredi sacri. Un corredo enorme che costruisce e ricostruisce la storia della Chiesa pugliese. Che fa da cornice e da sfondo ad una storia scritta, ma non sufficientemente conosciuta. Un bagaglio culturale di enorme spessore, interesse e bellezza attraverso il quale si sono cimentati pittori e artisti di fama mondiale, ripercorrendo in lungo e in largo la sacralità, la spiritualità, la fede della nostra regione.

Questi ricchi contenitori di arte ed espressività, intonati e sintonizzati con le corde del cuore, sono i molteplici musei diocesani sparsi dal nord al sud della Puglia.

Ma in realtà quanti sono? In una prima ricostruzione, fatta alcuni anni fa, dalla Commissione per la cultura della Conferenza episcopale pugliese,  e sfociata in una pubblicazione che ha visto la luce circa cinque anni fa,  “Guida dei Musei diocesani di Puglia”, essi assomano ad un numero pari a 17. Va detto subito che sono fra i più importanti e i più ricchi per contenuti di oggetti espositivi. A questo elenco vanno aggiunti quelli definiti ecclesiatici, cioè sempre di proprietà della Chiesa, ma più, per quanto riguarda la gestione, di natura privata o privatistica.

Tutti, comunque, in ugual misura, contribuiscono ad integrare il già vasto patrimonio architettonico delle nostre chiese romaniche, gotiche e barocche.

Tutti questi cimeli, uniti indissolubilmente alle storie di ogni singola cattedrale o chiesa locale, sono il miglior viatico, il migliore mezzo per portare la Puglia oltre i suoi limitrofi e lontani confini. Essi svolgono una funzione turistica di indubbio valore, se è vero, come è vero, che la sete del sapere e del conoscere non può non passare attraverso le bellezze che racchiudono il sacro, il divino, il trascendente, il culto, la fede, la tradizione, la specificità di un messaggio autentico e non artefatto, in mezzo al confusionismo moderno o della modernizzazione dissacrante, blasfema ed iconoclasta.

Nell’economia di questi tesori viventi vanno aggiunti i cassetti della memoria spolverata o impolverata degli Archivi. Altre miniere di ricchezza di documenti, di racconti particolari, curiosi, metodici, puntuali dello svolgimento della vita della Chiesa, con gli atti ufficiali dei molteplici vescovi che hanno abitato le sedi episcopali. La vita dei Capitoli cattedrale. Le particolarità raccontate dei vari personaggi storici, che hanno contribuito a scrivere ogni fetta e parte di storia locale. Forse, con l’eccezione e la dovuta distinzione, però, va evidenziato come i musei, per la loro capacità di farsi guardare e ammirare sono mete ambite da molti.

Gli archivi, sono luoghi di studio, riservati a pochi, a cultori, ad appassionati di ricerche, e, quindi, meno esposti ai visitatori occasionali e di passaggio. Ma gli uni e gli altri non differiscono dall’ essere punti centrali d’incontro e di partenza per lo studio di ogni realtà particolare. Gli uni e gli altri insieme per assolvere a quella funzione di supporto propagandistico e promozionale del nostro territorio.

Non potendo elencare tutti i tesori contenuti nelle strutture museali diocesane, quanto meno, ci è sembrato opportuno, riportare, grazie all’ausilio di un recente studio, elaborato attraverso una Tesi di Licenza in Museologia, curata dal giovane Giorgio Gasparre e discussa presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, presso la Città del Vaticano, nell’Anno accademico 2004 – 2005, l’elenco aggiornato di tutti i musei che insistono nelle varie diocesi pugliesi.

 

 

Provincia di Lecce

Ÿ         Museo Diocesano d’ arte sacra dell’ Arcidiocesi di Lecce: Comune: Lecce- Diocesi: Lecce- Sede: Palazzo del seminario, piazza Duomo- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Otranto: Comune: Otranto- Diocesi: Otranto- Sede: palazzo Lopez, piazza della Basilica- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro. 

Ÿ         Museo Diocesano di Gallipoli: Comune: Gallipoli- Diocesi: Nardò-Gallipoli- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a pagamento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Ugento: Comune: Ugento- Diocesi: Ugento- Santa Maria di Leuca- Sede: Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

 

Provincia di Brindisi

Ÿ         Museo Diocesano “Giovanni Tarantini”: Comune: Brindisi- Diocesi: Brindisi- Ostuni- Sede: chiostro del Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In allestimento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Oria: Comune: Oria- Diocesi: Oria- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a richiesta. 

 

Provincia di Taranto

Ÿ         Museo Diocesano di Taranto: Comune: Taranto- Diocesi: Taranto- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra-Proprietà: diocesano. Prossima apertura.

Ÿ         Museo Diocesano di Castellaneta: Comune: Castellaneta- Diocesi: Castellaneta- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Provincia di Bari

Ÿ         Museo Diocesano della Basilica Cattedrale di Bari: Comune: Bari- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Arcivescovado- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano: Pinacoteca Mons. A. Marena e Lapidario romanico: Comune: Bitonto- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Capitolare della Cattedrale di Gravina di Puglia: Comune: Gravina di Puglia- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Seminario Vecchio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: Capitolo della Cattedrale di Gravina di Puglia- Aperto, offerta libera.

Ÿ         Museo Diocesano della Cattedrale di Altamura: Comune: Altamura- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Matronei della Cattedrale- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Ÿ         Museo Diocesano di Monopoli: Comune: Monopoli- Diocesi: Conversano- Monopoli- Sede: Ex Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Bisceglie: Comune: Bisceglie- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Provincia di Barletta- Andria- Trani

Ÿ         Museo Diocesano di Trani: Comune: Trani- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: piazza Duomo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso.

 

Provincia di Foggia

Ÿ         Museo Diocesano di Foggia: Comune: Foggia- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Chiesa dell’ Annunciata- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Ÿ         Museo Diocesano di Bovino: Comune: Bovino- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Castello di Bovino- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di San Severo: Comune: San Severo- Diocesi: San Severo- Sede: ambiente ipogeo di via vico freddo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di Lucera: Comune: Lucera- Diocesi: Lucera- Troia- Sede: Episcopio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano del tesoro della Cattedrale di Troia: Comune: Troia- Diocesi: Lucera- Troia- Tipologia: artistico- arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Le foto a corredo di questo articolo riprendono alcuni dei beni esposti nel Museo Diocesano di Gallipoli

Gli ordini religiosi nella vita di Benedetto XIII

di Giuseppe Massari

Pierfrancesco Orsini, nobile di nascita, il 2 febbraio 1650, e morto il 21 dello stesso mese dell’anno 1730, da papa ( quest’anno la data e il giorno della morte coincidono come allora),decise di abbandonare gli agi familiari, le prerogative legate al suo ruolo dinastico e scelse la vita religiosa, la vita claustrale, vestendo “le bianche lane” dei domenicani, col nome di frà Vincenzo Maria.

In questa famiglia monastica eccelse, nonostante i divieti, le ritrosie della madre che non aveva creduto alla sua vocazione, ma si convinse solo dopo che ebbe ricevuta la conferma dal papa Clemente X, il quale mise alla prova il giovane novizio e ne uscì edificato, così come raccontano i biografi e gli storici del tempo. Quindi, il domenicano Orsini legò indissolubilmente il suo nome, la

BIT Milano: Salento terra talento

di Giuseppe Massari

La Borsa internazionale del turismo, giunta alla sua 32 ^ edizione, in svolgimento a Milano da giovedì 16 febbraio per chiudere i battenti nella giornata di domani, ha mostrato il volto vero della Puglia. Una Puglia aperta, dinamica, vitale nella sua offerta turistica, nella promozione dei suoi prodotti.

In questa cornice e con queste premesse il Salento ha dominato, ha fatto la parte del leone. Un Salento che, stando alle dichiarazioni della vigilia rilasciate dall’assessore provinciale al turismo di Lecce, Francesco Pacella, si è presentato unito, riuscendo a fare di questa terra una sola identità storica, culturale, umana, economica, turistica e commerciale. E’ stata la prima volta, nel corso della cornice milanese, che l’antica terra d’Otranto, con Brindisi e Taranto, hanno parlato un solo linguaggio.

Questo è di buon auspicio per affrontare le sfide future, quelle anche minacciose che vogliono espropriare un territorio, che vogliono snaturare e sfruttare una terra che i nostri italici padri ci hanno consegnato. Una terra di

San Sabino patrono di Gravina? Verifica di un interrogativo infondato

A seguito dell’articolo di Giuseppe Massari su San Sabino patrono di Gravina, pubblicato su questo spazio web,  il maestro Peppino Di Nunno da Canosa ci ha inviato una precisazione che smentisce l’ipotesi e che ci sentiamo in dovere di pubblicare.

 

di Peppino Di Nunno

L’interrogativo posto prudentemente dalla Redazione sulla figura di San Sabino patrono di Gravina,  richiede, come tutte le conoscenze, una verifica alla luce di una ricerca storiografica e di fonti autorevoli da consultare.

Non c’è alcun intento di esprimere giudizi sull’autore dell’articolo che attesta il patronato di Gravina di San Sabino, ma nella verifica occorre apportare elementi e fonti consultate per la chiarezza delle conoscenze obiettive, per non ingenerare nei lettori e nei canosini credenze infondate.

Esprimo anzi apprezzamento per l’autore dell’articolo, Pasquale Ieva, per averci fatto scoprire l’esistenza nella Chiesa di Vaglio in Basilicata di un affresco di San Sabino, riconducibile al Vescovo canosino, cui tutti siamo affezionati e legati da devozione.

affresco di San Sabino nella chiesa di Vaglio in Basilicata

Già in precedenza ho dovuto chiarire l’infondatezza del San Sabino di Fermo e Spoleto, che da ricerche fonti storiografiche e da voci autorevoli del territorio, come il Direttore dell’Archivio della Curia e il Direttore della Biblioteca comunale, non coincide con il nostro San Sabino, essendo sostanzialmente un Martire, come attestano le fonti storiografiche di San Gregorio Magno.

Da questa mia ricerca e dalle ricerche storiche emergono soprattutto alcune linee metodologiche che non possono essere disattese nella formulazione di una tesi da parte nostra.

L’effigie non basta, l’iconografia non è sufficiente, come anche

San Sabino patrono di Gravina?

a cura di Giuseppe Massari

(Mentre la città di Gravina in Puglia si appresta a festeggiare san Michele Arcangelo, suo santo protettore, come sancito dalla Bolla papale di Clemente X del 10 marzo 1674, contestualmente siamo venuti a conoscenza di uno scritto  del professore Ieva, che di seguito riportiamo nella sua versione integrale, tratto da “Il Campanile, periodico di informazione e cultura, anno XVII, n. 1, Gen- Feb. 2009, in cui si afferma, sia pure in forma dubitativa, interrogativa e deduttiva, che san Sabino potrebbe essere, oltreché  patrono di Canosa, anche di Gravina. San Michele, quasi come un qualsiasi inquilino, potrebbe essere sfrattato? Questo, se fosse accertato, soprattutto dagli storici, significherebbe stravolgere l’intera storia di una comunità che ha basato la sua fede, la sua tradizione religiosa verso il principe della Milizia celeste sin dal suo apparire alle pendici del Gargano, e anche oltre, giungendo a convivere con la non distante Lucania. Noi, naturalmente, sic et simpliciter, non possiamo sposare la tesi del professore Ieva, se non altro perché è molto debole e non supportata da prove storiche e documentali attendibili. Riteniamo, però, che il suo contributo possa far nascere un serio e sereno dibattito finalizzato all’approfondimento e ad una ulteriore ricerca. Può essere considerata una buona e sana “provocazione”per poter confermare, smentire o riscrivere una nuova pagina di storia. Ai posteri, storici sinceri e non, l’ardua, l’ardita,  la faticosa, la provvisoria, la confermativa, definitiva o innovativa sentenza (g.m).

 

 

 

“Liberata Gerusalemme da Goffredo di Buglione, i Latini costituirono Nazareth Metropoli. Ma in seguito la Palestina fu ripresa dai Saraceni e il 2 ottobre 1187 il sultano d’Egitto Saladino entrò trionfante nella città, dopo che il suo

Anche Muro Lucano rivendica un posto nella santità di Benedetto XIII

di Giuseppe Massari

Giustamente, anche la città di Muro Lucano, in provincia di Potenza, essendo stata uno dei feudi della famiglia Orsini, rivendica un posto nel processo di beatificazione e nella futura gloria degli altari del servo di Dio, Benedetto XIII. Purtroppo, per noi, ma non è mai tardi per venire a conoscenza delle cose, a circa oltre un anno di distanza abbiamo appreso di un carteggio tra il comune di Muro e il vicariato di Roma. Infatti, il 3 giugno dell’anno scorso, così scriveva, il sindaco della cittadina lucana, Gerardo Mariani, al cardinale Vallini, vicario del papa per la città di Roma: “Eminenza Reverendissima, questa Amministrazione Comunale con grande esultanza ha appreso l’inizio del processo canonico di beatificazione per il papa Benedetto XIII, al secolo Pierfrancesco Orsini, in quanto da seminarista frequentò il seminario diocesano di Muro Lucano, della cui città gli Orsini erano feudatari. Il seminario vescovile, fondato nel 1565, è stato tra i primi in Italia. A tal fine mi permetto di sottoporre all’attenzione di Vostra Eminenza reverendissima che

Suoni di pietra: indagine del Cnr nella chiesa grotta di San Michele

 

Gravina. San Michele delle Grotte

 

di Giuseppe Massari

Le chiese rupestri di Gravina in Puglia continuano a suscitare sempre di più e nuovi interessi da parte di studiosi e ricercatori, assetati e affamati di storia vera, autentica e genuina. O più esattamente, sempre più desiderosi di accostarsi alle fonti primordiali di una storia sacra che ha lasciato i suoi segni indelebili con le pitture murali, sottoforma di affreschi, ora bizantini, ora medioevali, ora tardorinascimentali.

Dopo l’intenso periodo di lavoro, durato circa 15 giorni e di cui abbiamo già scritto su questo sito, vissuto dall’ équipe di giapponesi, provenienti dall’Università di Kanazawa, guidata dal professor Miyashita, ecco che la città, situata sull’orlo del burrone e torrente da cui prende il nome, viene nuovamente “presa di mira”, con un nuovo progetto denominato: “Suoni di Pietra”.

Suoni di pietra è un progetto promosso dal Dipartimento di Architettura e Urbanistica del Politecnico di Bari, dedicato alla caratterizzazione acustica di alcune chiese rupestri dislocate in diverse zone della regione: fra esse anche la Grotta di San Michele a Monte Sant’Angelo sul Gargano.

Ingresso alla chiesa di San Michele

Scopo principale del progetto, finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Puglia, è lo studio, la catalogazione e la fruizione dell’ambiente sonoro delle chiese, al fine di valorizzare le caratteristiche acustiche e ricreare in realtà virtuale le atmosfere delle celebrazioni sacre dei secoli medievali.

Anche Gravina è stata inserita nell’iniziativa grazie al coinvolgimento, come storico locale, della prof.ssa Marisa D’Agostino, presidente dell’Associazione Amici della Fondazione E. Pomarici – Santomasi, incaricata di fornire un supporto storico alla ricerca, relativamente al sito preso in considerazione.. Infatti, nei giorni scorsi e quasi contestualmente alla missione giapponese, un gruppo del Cnr si è messo a lavoro,  per conto del Politecnico, per effettuare alcune prove tecniche e rilievi con il laser scanner all’interno della chiesa grotta di San Michele, la più rappresentativa del patrimonio rupestre gravinese. Dai dati che emergeranno, frutto di due giorni di permanenza in questa cavità naturale, potrebbero essere coinvolte anche altre chiese di ugual natura che insistono sul territorio,  ma potrebbero essere coinvolte anche alcune  scuole cittadine, soprattutto quelle medie  di secondo grado. Mentre la stessa chiesa, alcuni giorni fa è stata fatta oggetto da parte di vandali, incoscienti e criminali, di quell’atto sacrilego e blasfemo culminato nel trafugamento della corona dal capo della statua di san Michele.

Mentre da ogni dove vengono segnalati analoghi atti di insipienza umana, culturale, di aberrante inciviltà contro alcune testimonianze storiche e patrimoni culturali, che, comunque sono stati, purtroppo segnalati, nella speranza di sensibilizzare quanti e tutti a recuperare una dimensione di tutela, salvaguardia, vigilanza e fruizione, dall’altra si notano segnali positivi di ripresa di studi, di ricerche, finalizzati a far conoscere i misteriosi valori e potenzialità che questi tesori posseggono e conservano  e mai esplorati fin d’ora.

Tutto quello che è avvenuto, nel più stretto rigore scientifico, di competenza, di passione, di professionalità, può essere soltanto l’inizio di un interesse ridestato da parte di chi, facendo cultura tutti i giorni, è capace di dimostrare quanto siano importanti certi studi.

Quanto sia importante, non solo ai fini della conoscenza, non fermarsi nello scrutare ciò che non è mai un bene abbastanza definito o conosciuto. La internazionalizzazione, da una parte, con i docenti e gli alunni universitari di Kanazawa; la regionalizzazione o localizzazione, dall’altra, con il Politecnico di Bari, produrranno i loro frutti. Le loro risultanze saranno un’altra tappa  fondamentale nel cammino di ricerca, ma soprattutto, di nuovi strumenti da fornire ai visitatori, ad altri studiosi, ai turisti non distratti e non superficiali che interagiranno con le stesse realtà storiche già conosciute, ma con nuovi risvolti, con gli arricchimenti che la tecnologia più avanzata è stata capace di mettere e mettersi a servizio dell’uomo contemporaneo, frastornato, forse,  negativamente dai bombardamenti del tecnologismo abusato, incontrollato e non da quello positivo che lascia i suoi segni per riscrivere nuove e fresche pagine di storia.

Parco dell’Alta Murgia da intitolarsi ad un figlio illustre di Gravina?

PARCO NAZIONALE DELL’ALTA MURGIA “GIUSEPPE LOPRIORE”?  E’ UN’IDEA, UNA PROPOSTA

 

di Giuseppe Massari

Il 14 gennaio 2011, a Ruvo di Puglia, uno dei 13 comuni compresi nel territorio del Parco dell’Alta Murgia, presso l’ex convento dei domenicani, fu inaugurata ed aperta ufficialmente la sede dell’Officina del Piano per il Parco. Nel corso dell’evento, quella che potrebbe essere definita la sede tecnica del parco è stata intitolata a Don Francesco Cassol, il parroco di Longarone (Bl) ucciso da un bracconiere nel territorio del Parco, nell’agosto dello  scorso anno. Questa decisione è stata una scelta mirata, un segnale e un messaggio di solidarietà nei confronti di questo sfortunato sacerdote bellunese, ucciso mentre era in vacanza in Puglia, in quella zona di murgia che egli conosceva molto bene per esserci stato molte altre volte in passato. E’ stato un messaggio forte contro il presunto colpevole e contro tutti coloro che praticano, non sappiamo se per arte o per sport, il bracconaggio in questo territorio arido e brullo.

Comunque sia, dopo quello che poteva essere e sembrare un atto dovuto nei confronti di don Cassol, approfittando di questa intitolazione, ci piace poterne suggerire una che riguarda la sede del parco che si trova a Gravina. La ragione è semplice ed elementare. Facilitata, anche, da una felice circostanza.

Questa città annovera fra i suoi figli più illustri, Giuseppe Lopriore, a cui, pure, è dedicata una via. Ma chi era costui?  Conosciamolo insieme.

Lopriore nasce a Gravina il 12 settembre 1865 da umile e modesto casato. Tale appartenenza non poteva garantirgli il proseguimento degli studi per il quale si sentiva vocato, per cui alcuni mecenati gravinesi: Luigi e Giovanni Pellicciari lo avviarono agli studi. Compiuti, così, i primi studi a Gravina prima e poi a Bari, con lodevolissimi risultati, fu, a spese del nostro Comune, inviato nella Regia Scuola Agraria di Portici. A Portici, nel novembre del 1887 ne uscì laureato con

“La complicità pugliese” per la santità di Giovanni Paolo II

 

di Giuseppe Massari

La santità per Giovanni Paolo II, quella invocata e gridata dai fedeli in piazza san Pietro, il giorno dei solenni funerali, sta per giungere a compimento. Infatti, il 1° maggio, egli sarà proclamato beato, tappa intermedia verso la ufficializzazione definitiva della piena santità, con il riconoscimento delle sue virtù eroiche, che potrà avvenire da qui a qualche anno. Di questo pontefice venuto da lontano, amato da tutti, perché instancabile pellegrino nel mondo, possiamo dire che non si è risparmiato per andare a cercare i lontani dalla fede e da Cristo. Fossero politici, capi di stato e di governo, gente povera, semplice, umile, ricca.

In questo lungo e continuo peregrinare vi è stata la Puglia, visitata e toccata dalla sua presenza per ben cinque volte. Anzi, come era solito fare all’inizio di ogni suo viaggio, quando si inchinava a baciare il suolo che lo avrebbe ospitato, possiamo e dobbiamo ricordare che per cinque volte ha baciato la nostra terra.

La terra della nostra regione, così ricca di tanta spiritualità, bisognosa anche della sua santità, della sua presenza, simbolo di una forza e di una resistenza fisica alla pari di quegli ulivi secolari faranno da sfondo, da cornice, da coreografia nella piazza che, ufficialmente, lo proclamerà beato, eletto, scelto, chiamato alla vera vocazione redentrice e corredentrice a cui ogni individuo, ogni cristiano è chiamato.

Gli ulivi di Puglia, i fiori, le piante, i colori della nostra regione accompagneranno il suo trionfale cammino verso la pienezza della sua vita,

Cinque valenti pugliesi nel Pantheon dell’Unità d’Italia

 

di Giuseppe Massari

Io non so se i 150 anni dall’Unità d’Italia siano sufficienti per tracciare un sereno bilancio storico. Forse, è necessario ripercorrere le tappe della nostra storia italiana per capire i fermenti, le ansie che l’evento, non compiuto, per certi aspetti, portò con se.

Gli anni post unitari sono stati segnati da due guerre, da una dittatura, da una guerra civile, spaccato di rottura dell’unità che sembrava essere stata conseguita. Finalmente, le luci, gli albori di una democrazia nata sotto le insegne del riscatto, della rinascita con tutte le conseguenze che ne sono derivate;  con tutte le anomalie e le ambiguità connesse e tipiche di una nuova e giovane creatura.

In tutto questo lasso di tempo, la Puglia, credo, abbia avuto la sua parte decisiva per le sorti dell’intera nazione. Cinque fra i suoi migliori uomini hanno segnato, con la loro presenza e la loro attività politico sindacale, gli anni cruciali, anche se fra ombre e luci, della storia italiana ponendo la Puglia ai primi posti sulla strada di quello che doveva essere l’inarrestabile sviluppo.

Antonio Salandra in un dipinto conservato a Troia (ripr. vietata)

Da Antonio Salandra,  foggiano di Troia, capo del governo nazionale  dal 21 marzo 1914 al 18 giugno 1916, dopo essere stato ministro

Taranto e l’Unità d’Italia. Giuseppe Massari

 

di Daniela Lucaselli

Elevatezza di pensiero, nobiltà di carattere, fiero patriottismo, così lo si può definire il nostro concittadino. Fu uno dei pubblicisti di spicco nel periodo risorgimentale; la sua innata passione di scrittore si ispirava a sani principi di morale e di patriottismo. La forte personalità, il suo temperamento passionale, la tendenza dialettica emersero nel giornalismo, uno strumento nelle sue mani atto alla divulgazione del proprio pensiero, pronto a risvegliare coscienze assopite dalla schiavitù, a illuminare menti asservite dall’ignoranza e a diffondere gli ideali di libertà e di indipendenza che infuocavano il suo animo.

Nacque a Taranto l’11 agosto 1821. Dotato di spirito vivace e buon ingegno, si dedicò dapprima  a studi letterari e filosofici nel seminario di Avellino, poi, a soli quattordici anni, a studi di  matematica e medicina, per poi ritornare alla tanto amata letteratura e filosofia. Frequentò la casa dell’abate pugliese Teodoro Monticelli, convinto sostenitore delle idee liberali, entrò in contatto con diversi patrioti, che avevano partecipato ai moti del 1799 e del 1820, dai quali apprese lo spirito di libertà, supportato dalla lettura delle opere di Pasquale Galluppi, che divenne suo maestro.

Pare che frequentasse la setta della Giovine Italia, fondata dal connazionale calabrese Benedetto Musolino.

Il suo agire irruento richiamò l’attenzione della polizia borbonica ed il padre, temendo per il futuro del figlio, che aveva nel frattempo pubblicato in un’edizione clandestina le poesie di Berchet, lo fece credere un ribelle e gli impose di emigrare a Marsiglia, in Francia.

Aveva solo 17 anni. Nella capitale francese conobbe Terenzio Mamiani, il quale gli consigliò di leggere la “Teorica del Sovrannaturale” di Vincenzo Gioberti, esule a Bruxelles. Il nostro connazionale si invaghì delle sue teorie. Dal novembre del 1838 intrecciò con lo studioso una relazione epistolare  e in due articoli,  inviati nel 1841 al “Progresso” di Napoli  intorno all’”Introduzione allo studio della filosofia” del filosofo, gli espresse la sua ammirazione, ne condivise gli ideali e i sogni, auspicando di vedere l’Italia rifiorire  nel suo antico splendore.

Tra i due nacque una intensa comunione d’intenti, anche se ben presto, il giovane abbandonò gli studi della filosofia per darsi all’azione. Entrò in contatto con altri esuli italiani, come Guglielmo Pepe, Filippo Buonarroti, Giovanni Berchet, Nicolò Tommaseo, con i quali strinse una forte amicizia

Taranto. Vogliamo l’Italia Una, Indipendente e Libera

 

Una voce decisa vibrò all’unisono:

Vogliamo l’Italia Una, Indipendente e Libera

 

di Daniela Lucaselli

Gli avvenimenti  tessono la  intricata tela della storia, le passioni colorano gli ideali, le lotte acuiscono le controversie ideologiche, il popolo rivendica la tanto desiderata libertà.

Il nostro Risorgimento nazionale… sul sangue versato di tanti eroi inneggerà la sua bramata libertà.

L’attesa, la speranza… vedere l’Italia “inerme, divisa, avvilita, non libera, impotente”, risorta “virtuosa, magnanima, libera e una”. Così Vittorio Alfieri sogna la sua Patria.

Sono passati 150 anni… le iniziative e le manifestazioni si moltiplicano ogni giorno in tutta la Penisola  per rimembrare il sacrificio di chi, con la propria vita, ha contribuito all’unità della Nazione.

Il Risorgimento è innanzi tutto storia di uomini che, con il loro operato, hanno contribuito alla rigenerazione morale dell’umanità. Hanno dimostrato coerenza di principi, onestà di intenti e fede nell’ideale ed hanno fatto  diventare tutto ciò una realtà storica, concreta.

L’Unità d’Italia (già Dante auspicava l’unità spirituale degli italiani) è stato il coronamento dell’opera e dell’azione di uomini  insigni, appartenenti a tutte le regioni della Penisola,  che hanno sentito vibrare nel loro animo  la sete di un certo rinnovamento delle condizioni dell’Italia, l’unità, l’indipendenza, l’educazione del popolo e il suo benessere sociale ed economico.

Il processo risorgimentale ha comunque registrato nel suo insieme una esigua partecipazione di massa, specie se questo dato lo si riferisce  al

Libri/ Il patrimonio geologico della Puglia. Territorio e geositi

LA PUGLIA SOMMERSA E SOTTERRANEA

 

di Giuseppe Massari

Il lago di Orte a Otranto (ph Fabio Bonatesta)

“Il patrimonio geologico della Puglia. Territorio e geositi”. E’ questo il titolo di una recente pubblicazione curata dalla SIGEA (Società italiana di geologia ambientale), con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Puglia e con il patrocinio della Regione. E’ una mappatura di tutti i siti geologici presenti sul territorio pugliese, quello stesso che presenta realtà diverse, ma accomunate da un solo obiettivo: la tutela, la salvaguardia. La conoscenza storica, conservativa di un territorio compreso tra il nord e il sud della regione. Infatti, per la migliore conoscenza dei siti, per meglio valorizzarli e studiarli, oltreché approfondirli sotto l’aspetto geomorfologico, scientifico, geografico, è stata predisposta una divisione per zone.

In sintesi ci si trova a dover fare i conti con quelle che, forse, ma non tanto, vengono complessivamente, totalmente e generalmente chiamate le Regioni geologiche della Puglia, a loro volta suddivise in sottogruppi: le aree dell’avampaese apulo a cui appartengono il Gargano, le Murge e il Salento; le aree della fossa bradanica con il Tavoliere delle Puglie e la Fossa premurgiana; nella sua vivisezione, viene evidenziata l’area della Catena appenninica, cioè i monti della Daunia.

tratto di costa salentina comprendente Grotta Romanelli (da http://www.salentoalacarte.it/)

Questo inventario prosegue con il carsismo e le sue forme, le gravine e le lame, i terrazzi marini e le coste.

Un patrimonio naturale che dimostra e conferma come la Puglia è ricca di insediamenti ed elementi geologici talmente variegati fra loro da costituire un gioiello di originalità, uno scrigno di tesori. Pensiamo ai puli o doline. Ai dolmen e alle cave di bauxite. Alle grotte di Castellana, ai terrazzamenti marini, particolarmente visibili all’estremità e alle punte delle nostre coste.

Questo interessante, ricco patrimonio di valore storico e culturale ha fatto si che dal 2009 fosse interessato da una legge regionale ad hoc. Infatti, la Puglia è stata una delle  prime regioni italiane, l’unica nel centro sud, a dotarsi di uno strumento legislativo consono e finalizzato alla tutela dell’intero patrimonio geologico. Questo non solo per dimostrare interesse e sensibilità, quanto anche per aprire le frontiere ad un più vasto consenso e

Arcangelo Scacchi, instancabile ricercatore gravinese

UNO SCIENZIATO GRAVINESE  SENATORE DEL REGNO

 

di Giuseppe Massari

Nell’ambito delle manifestazioni celebrative per i 150 anni dell’Unità d’Italia predisposte dal Comune di Gravina in Puglia  ve n’è una che assumerà un carattere di particolare  importanza e solennità. Sarà quella in cui sarà ricordata la figura di Arcangelo Scacchi, eminente scienziato mineralista e cristallografo di fama internazionale, che, per meriti scientifici, fu nominato, il 20 gennaio 1861, Senatore a vita del Regno.

Di questo luminare,  il presidente dell’aula di Palazzo Madama, Domenico Farini,  ebbe a dire: “fra gli uomini chiarissimi che nel gennaio 1861, annessa Napoli, vennero ascritti al Senato, era Arcangelo Scacchi, il quale nato a Gravina di Puglia il 10 febbraio 1810, da molti anni nell’ateneo professava la mineralogia ed alla napoletana Accademia delle scienze apparteneva. Scienziato di fama più che italiana, qui lo si ammetteva anche per i meriti singolari che cotesta fama gli avevano, a decoro della patria, procacciata”.

Sempre lo stesso presidente, in un altro passaggio di un suo intervento, ribadì ancora meglio la vocazione di Arcangelo Scacchi che si era speso per la scienza. “Allo studio della medicina voltosi in gioventù, ne conseguì la laurea il 1831. Nel tempo  istesso invaghito delle scienze naturali si mise dentro allo studio di esse tanto, che in non lungo volgere di tempo, già noto per frequenti e dotte pubblicazioni, poté con pubblico concorso nel 1844, da interino che era da due anni, venire nominato professore di mineralogia e direttore del Museo mineralogico. Al congresso degli scienziati nel 1845 la cresciuta rinomanza lo designò per segretario della sezione di mineralogia e geologia. Gli scritti suoi di mineralogia, di geologia, di cristallografia non che commentare non sta a me lo enumerare. Io posso sì, avvertire che egli, spinto da nobile pungolo, indefessamente studiò, osservò pazientemente, pazientemente sperimentò; debbo ricordare che il naturale acume e la diuturna osservazione ebbero ricompensa di notevoli scoperte che gli meritarono l’essere annoverato alle più insigni Accademie nostrane e straniere: prova di quanto valente ed altamente reputato egli fosse in casa e fuori. Per questo lo scorso anno, celebrandosi il cinquantesimo del suo insegnare, italiani e forastieri andarono a gara nel fargli omaggio di stima grandissima e di affetto. Discepoli e colleghi gli avevano sempre mostrato devozione, anzi venerazione; ed egli, o fosse consigliere ordinario di pubblica istruzione in Napoli, o preside della facoltà, o rettore dell’Università, aveva volto il tempo e le più amorevoli cure allo incremento degli studi, alla tutela degli studenti e degli insegnanti”.

Gravina, Piazza Scacchi e il monumento all’omonimo scienziato in una foto d’altri tempi

Ricercatore e studioso di minerali, fu più volte rettore dell’Università di Napoli, dove si era trasferito sin dalla giovane età per laurearsi e continuare

Il cola – cola tra il mito degli dei e degli eroi

di Giuseppe Massari

Se la storia di un popolo passa attraverso il culto o la cultura di un feticcio, di un totem portafortuna, scaccia crisi o scaccia jella, non è un fatto negativo, anzi è il frutto di una creatività popolare fatta di strumenti con i quali poter esprimere un linguaggio, alcuni concetti, semplici parole, emissioni di suoni o messaggi. E’ quanto si è sforzato di spiegare, riuscendoci, Amedeo Visci, con la sua ultima fatica editoriale: “Il cola – cola tra il mito degli dei e degli eroi”.

Un testo che analizza aspetti storici ed etno antropologici di uno strumento a fiato realizzato e plasmato con le mani di artigiani locali abituati a modellare l’argilla, o volgarmente chiamata creta, trasformandola in terracotta. D’altronde, Gravina, ricca, nei suoi insediamenti di questa materia prima, è stata, sin dai secoli scorsi, maestra d’arte, maestra di vasari illustri le cui testimonianze sono state rinvenute nelle tombe della zona archeologica di Botromagno.

Ma oltre a questi illustri trascorsi di importanza notevole, è possibile dire e affermare con certezza che la cola – cola, sotto le sembianze di un galletto o di un volatile somigliante alla gazza (Pica Caudata), è un simbolo di Gravina in Puglia? Con certezza, si, perché, se viene alla mente uno dei toponimi di questa città, soprattutto sotto la dominazione romana, quando si chiamò Silvium, cioè luogo di selva e di boschi, dove di solito la gazza vive, diventò l’oggetto identificativo della città e della sua comunità.

E’ doppiamente simbolo della città peuceta se si considera che, soprattutto letto e visto sotto forma di gallo, animale sacro ad Esculapio, legato al culto di Ercole, ad alcuni eroi mitici richiamati nel titolo del libro, ha rappresentato l’ idea vincente della morte sconfitta dalla vita, il bene che vince il male, soprattutto, in Puglia, dall’arrivo dell’Arcangelo Michele, che sostituì il culto misterico di Esculapio, sconfiggendo, prima,gli angeli ribelli e, successivamente, debellando gli artefici delle distruzioni barbariche, che tanti morti seminarono anche a Gravina, tant’è che la città lo elesse suo protettore.

Quindi, la cola – cola segno di rinascita, di riscatto. E non può essere diversamente, soprattutto, se le leggere fasce cromatiche, che adornano questo manufatto, sono vivaci e non spente,  improntate all’ottimismo, ai mesi primaverili dell’anno, quando la natura mostra la bellezza dei suoi colori.

Questi oggetti di terracotta vengono prodotti anche in altre zone della Puglia e della Basilicata, ma hanno altre forme e hanno altra valenza. Sono comunemente chiamati fischietti, tanto è vero che a Rutigliano, in provincia di Bari, ogni anno si svolge la sagra del fischietto.

La cola – cola, è vero, è  un fischietto anomalo, non più in uso, ma bello da vedere, da mostrare, da regalare, da acquistare sulle bancarelle dei mercatini delle feste paesane o delle sagre di paese.

Un simbolo, un modello espressivo di arte paziente e  povera, ma ricca di contenuti, di quell’arte intrinseca, specialistica e specializzata, pronta  a colmare di speranze il presente, quasi sempre, senza domani.

Il testo di Visci ha racchiuso, immortalato, conservato e consacrato, nel breve volgere delle sue pagine, i tesori di un popolo, di una generazione che ha creduto al niente, al falso, all’immaginario costruito dalla sola arma della fantasia,

Le calcare, fucine di lavoro e produttività

LE CALCARE?

FORNACI ARDENTI PER CALCE VIVA

di Giuseppe Massari

Fucine di lavoro e produttività. Luoghi idonei in cui veniva cucinata la calce da utilizzare per abbellire, imbiancare e pulire mura e pareti di palazzi, di case, di lamie. Numerose e tante, in un contesto abitativo molto piccolo, hanno assolto ad una funzione, ad un ruolo economico ed occupazionale di mano d’opera, oltreché  di salvaguardia, di pulizia, di tutela e di rispetto dell’ambiente. Oggi, sono dismesse, abbandonate al loro infame destino. Trascurate e dimenticate, come ogni cosa di cui disfarsi, secondo quella regola di progresso che impone solo il futuro incerto, senza garantire prospettive di identità.

Gravina aveva questa ricchezza insieme alle cave di tufo, di pietre, di mazzaro, alle cave e alle fornaci in cui si estraeva e cucinava l’argilla trasformata in coppi per coprire i solai o in brocche e tanti arnesi da cucina tra cui piatti e recipienti idonei al consumo del desco familiare. Era avanzata sotto il piano dell’edilizia. Non era seconda a nessuno. Anzi, fiorente in questo commercio, era all’avanguardia nell’esportare i suoi prodotti migliori, quelli trasformati dalla materia prima di cui madre natura l’aveva dotata.

Non c’è più traccia di questi siti, se non nella memoria di coloro che hanno adoperato braccia e il sudore della loro fronte. Un tentativo di recupero, se non alla loro funzionalità, ma almeno testimoniale, sembra impossibile o destinato a non essere recepito da un punto di vista storico e culturale dai proprietari. Sembra non esserci nessuna sensibilità neanche da parte degli enti pubblici, preposti, tra l’altro, a disperdere una certa memoria, una certa visibilità culturale.

Il declino della storia è destinato a soccombere, senza nessuna possibilità di rialzarsi con quella necessaria e dovuta punta d’orgoglio, nonostante sollecitazioni, strumenti e mezzi che potrebbero essere utilizzati, se solo si pensa alla possibilità di attingere a finanziamenti europei. Queste celle diroccate, questi tufi, ormai, ammassati, sotto cumuli di immondizia, di erbacce possono continuare a languire, a far perdere le loro tracce. Hanno fatto il loro tempo.

Nonostante ciò, però, c’è qualcuno che non dispera. Tanto è vero che è stato realizzato un calendario con immagini e storia di questi antichi opifici. A curarlo è stata l’Associazione Amici della Fondazione Ettore Pomarici Santomasi, un sodalizio impegnato da anni a recuperare, ma soprattutto a non far disperdere l’immenso patrimonio storico, culturale, abitativo di una città che ha avuto in dono molto e poco ha dato al bene gratuitamente ricevuto.

La professoressa Marisa D’Agostino, presidente dell’Associazione, ha censito, grazie all’ausilio di alcuni proprietari, tutto l’intero patrimonio, che, attualmente, ammonta  ad un numero di 13 fornaci, forse, anche recuperabili da un certo punto di vista. Ma niente di più per quello che poteva essere un simbolo di creatività, di operosità.

Il destino di queste ricchezze naturali è tutto da inventare, se non si vuole continuare ad affidare al tarlo del tempo quello che ha rappresentato ricchezza e benessere per l’intera comunità.

Un immenso ed inestimabile tesoro naturale da poter vantare come gioielli, come ricchezza, diventato fastidioso ingombro, forse, di cui disfarsi, perché ormai, l’incuria del tempo e degli uomini ha saputo sciupare e dilaniare senza rispetto per nulla e per nessuno, e per cui, ogni intervento di recupero sarebbe o potrebbe risultare inutile. Di questa cultura, purtroppo, è impregnato il nostro tempo, il nostro correre affannati verso il nulla, verso l’assurdo e l’ignoto.

La città avrebbe dovuto mostrare tutta la sua sensibilità per conoscere, apprezzare, valorizzare, sensibilizzare, ricostruire. Invece, è il degrado il nuovo padrone a cui, volontariamente o involontariamente, sappiamo dire di si, con incoscienza, con leggerezza e faciloneria, il tutto accompagnato da quella dose di ignoranza che fa da sfondo, da cornice e da scena al teatro mesto di un corteo funebre che sopravanza in maniera inesorabile, spietata, crudele ed irreversibile e anche inarrestabile e inafferrabile.

Foscolo, in una delle sue poesie: A Zacinto, presagiva “a noi il fato prescrisse illacrimata sepoltura”. E’ quello che potrebbe toccare, se non lo ha già toccato, il destino delle cose belle, delle cose sacre, della storia recente di quegli uomini, pur non fatti per vivere come bruti, secondo il sommo poeta Dante, ma per seguir virtude e conoscenza, e, invece, si sono mostrati e si mostrano, ogni giorno di più, dissacratori, distruttori, assassini, negativi e cattivi maestri.

Veri iconoclasti della memoria, delle tradizioni, della cultura, dei saperi e dei sapori. Di quei cimeli resta ben poco, se non il nulla o il niente. Non c’è più nessuno che sappia o saprà farli amare.

Resta, però un fatto, una considerazione amara. Quanto resisterà la nostra sudditanza psicologica al progresso? Quanto resisterà la nostra inesistenza? Quanto durerà la nostra supponenza? Quanto durerà la nostra vita insipida, vuota e scialba?

Sono domande da cucinare in quelle stesse fornaci che abbiamo distrutto, e, quindi, non avranno risposta, se non appicchiamo il fuoco amico dell’orgoglio cittadino, dell’appartenenza e della identità.

 

Benedetto XIII, splendida figura di servitore della Chiesa

CELEBRIAMO LA SANTITA’ DI  BENEDETTO XIII

 

di Giuseppe Massari

Dipinto sul tela dell’Orsini. Opera ignota del Settecento. Sagrestia Basilica Cattedrale di Gravina in Puglia

Il 2 febbraio 1650, secondo gli storici accreditati e gli studiosi seri, e non il 1649, secondo una visione errata della lettura del calendario, nasceva a Gravina in Puglia, pur  non essendoci nessun documento ufficiale che lo attesti e lo comprovi, Pierfrancesco Orsini, che sarebbe diventato successore di Pietro e vicario di Cristo con il nome di Benedetto XIII. Questa felice coincidenza ci permette di festeggiare un altro evento. Dopo che il Comune di Gravina in Puglia, nel mese di ottobre dello scorso anno, su proposta del sottoscritto, inoltrò al Comune di Roma la richiesta di intitolare una strada della capitale al nostro papa, la commissione capitolina preposta  ha espresso il suo parere favorevole dandone ufficialmente notizia agli amministratori locali.

Così, Roma, che nella sua toponomastica comprende quasi tutti i nomi dei romani pontefici, d’ora in poi comprenderà anche il nome  del nostro. Era un inciso doveroso, giusto per informare la città e tutti coloro che, pur dicendosi sostenitori di certe nobili cause, millantando e accreditandosi , se non spacciandosi per storici, o, peggio ancora, ritenuti tali dalla selva di ignoranti di cui pure è popolata la nostra città, mai hanno pensato di scoprire se Roma, ad esempio, fra le sue numerosissime vie, piazze, ne annoverasse qualcuna dedicata a Benedetto XIII.

Comunque, al di là di certe miserie umane che vagano per le vie della nostra città,  Gravina, fortunatamente, può vantare questa gloria, questo orgoglio,  prescindendo dalle date , dalle tante falsità che sul conto di questo santo uomo sono circolate e continuano, purtroppo, a fare storia. Quante bugie nel suo nome! Quante menzogne sul suo conto! Quante ipocrisie sulla sua limpida e splendida figura di servitore della Chiesa, cioè degli ultimi, dei poveri e degli ammalati. Ma se nel mese di febbraio ebbe inizio il suo cammino nel mondo, vide la luce del mondo, nello stesso mese, il giorno 21 del  1730, ” terminò la sua corsa, la sua buona  battaglia, come direbbe san Paolo, aspettando la corona dei giusti”, e non la santità falsamente sbandierata dagli o degli uomini.

Moriva in concetto di santità  nel giorno precedente l’inizio della Quaresima, come è più giusto ed esatto asserire,   e non come certi storici frettolosi, animati da un livore laicistico, hanno affermato, con sicumera, che morì nello stesso giorno in cui terminavano i riti goderecci, festaioli e spensierati del  carnevale. Morì come visse, come fu educato, potremmo dire come fu concepito, se è vero che un domenicano aveva preconizzato alla madre, Giovanna Frangipane della Tolfa, che il figlio che portava in grembo, un giorno, sarebbe diventato sacerdote dell’Ordine di san Domenico.

Nacque il giorno in cui, la Chiesa celebra la solennità della Purificazione della Beata Vergine. Due date che coincidono nella loro importanza e nella loro essenza, a dimostrazione di quanto fossero chiari i piani di Dio su quest’uomo, preservato e destinato alla grazia e alle prove della santità

Le macchine del tempo. Orologi e meridiane in Puglia

TEMPO E OROLOGI: MERIDIANE E MACCHINE DEL TEMPO A GRAVINA E CITTA’ DI PUGLIA E BASILICATA

 

di Giuseppe Massari

Fedele Raguso e Marisa D’Agostino, un tandem consolidato sul piano storico e culturale per la città di Gravina. Due storici e due ricercatori di storie patrie, e di tutto il vasto tessuto murgiano, da cui sono emersi, grazie ai loro precedenti studi, personaggi quali Canio Musacchio e Arcangelo Scacchi. Sindacalista e collaboratore di Di Vittorio il primo, mineralologo, il secondo. Un territorio nel quale ha approdato l’Arcangelo Michele, fino ad inabissarsi nei meandri scoscesi e rupestri, dove solo lo Spirito è capace di poggiarsi e fermarsi, per condividere la storia comune di popoli diventati protagonisti grazie alla penna di questi due instancabili studiosi. Dopo tanto peregrinare sono giunti alla loro decima fatica editoriale con la quale hanno voluto fermare il loro tempo per parlare, far parlare gli artefici del tempo: gli orologi, le meridiane. Un lavoro dedicato alla loro città di origine, alla città verso la quale continuano a svolgere il prezioso lavoro di conoscenza, di approfondimento. Gli orologi più importanti della città. Non solo come monumenti, non solo arredo e corredo di una città che ne annovera tre fra i più significativi, anche da un punto di vista storico ed architettonico, ma di oggetti, compagni di viaggio, di speranza, di attesa, di lavoro, di riposo, di inquietudine, di solitudine.

Con le loro storie, hanno segnato la vita dei gravinesi. Di ogni ceto sociale, perché il tempo è l’unico a non fare discriminazioni. Passa per tutti. Tutti sono segnati dalle fatiche del tempo. Dai ristori che ognuno riesce a ritagliarsi.

Queste tre testimonianze, situate in luoghi diversi della città, hanno avuto il privilegio di seguire le sorti di coloro che, forse affidavano le loro ansie, le loro preoccupazioni, il buon o il cattivo andamento degli affari.

l’orologio della villa

Uno era situato nei pressi della villa comunale, dove, di solito , gli operai, i

Santa Maria di Leuca: fede e storia nei mari dell’infinito

di Giuseppe Massari

Natale, quella festa più importante per la cristianità, quella festa in cui si festeggia la nascita di un bambino particolare. Oltre a festeggiare il nuovo arrivato, perché non ricordare Colei che ha partorito, ha contribuito, con il suo sacro ed immacolato corpo, a mettere al mondo, nella povertà e nella miseria, il Figlio di Dio. Vogliamo parlare e riferirci, con le parole e il pensiero a Maria. Lo facciamo prendendo spunti storici, e in prestito dalla storia, alcune notizie che riguardano l’importante e glorioso Santuario di Leuca.

Santa Maria di Leuca e il suo Santuario continuano a suscitare interesse, non solo in occasione delle festività natalizie, o nei giorni di agosto, in occasione della festa patronale, ma fuori da ogni sospetto festaiolo, da parte dei più grandi circuiti della comunicazione globale. Non è da meno che, ultimamente, la trasmissione Rai, Sereno Variabile, condotta ogni sabato da Osvaldo Bevilacqua, ha dedicato una puntata a questo luogo incantevole dove i destini si incontrano, le fedi si abbracciano, i mari si confondono; dove, dall’alto svetta il Santuario dal quale si sprigionano raggi di luce accompagnati dall’insolito calore che è l’affetto di Maria verso i suoi figli.

Meta indiscussa di tradizione e devozione, tappa obbligata per i sofferenti, per gli ammalati, ultimamente anche per coloro che, fisicamente impediti e impossibilitati, non solo non possono raggiungere quel luogo sacro, ma non possono neanche soddisfare il precetto della messa festiva. Tant’è che, prima Rete 4, poi Rai 1, hanno privilegiato questa chiesa trasmettendo la messa domenicale, o di alcuni giorni festivi. Ma Santa Maria di Leuca è stata toccata, in passato, da altre generose e particolari attenzioni, soprattutto quelle papali. Se la visita di Benedetto XVI, il 14 luglio del 2008, ha avuto la sua giusta eco, non va tralasciata quella particolare cura che altri pontefici hanno avuto e dimostrato quando, con lo sguardo alla padrona di casa hanno consentito le migliori condizioni di culto e devozione verso di Lei, dotando il Santuario di un Penitenziere. E questo è avvenuto il 1726, durante il pontificato di Benedetto XIII, uno dei tre papi pugliesi. I vicari di Cristo, succedutisi  a guidare la Barca di Pietro, hanno contribuito e concorso ad arricchire, questa Porta del Cielo, di indulgenze privilegi a beneficio dei fedeli che correvano ai piedi della Vergine. Vanno ricordati, oltre al già citato Benedetto XIII, papa Giulio I, Innocenzo XI, Pio IX, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, che con Bolla del 19 giugno 1990, concesse il titolo al Santuario di Basilica minore.

Certamente la storia continuerà a ripetersi e a riflettersi nelle azioni di altri pontefici che adorneranno questa Basilica di cure premurose per rendere sempre più gradito l’omaggio a Colei che veglia sui confini del mondo e della Puglia. Dall’ultimo estremo di terra, Maria saluta marinai e viandanti affaticati, in cerca di ristoro spirituale. Saluta, accoglie e protegge le famiglie, l’infanzia abbandonata, maltrattata ed offesa, così come ha salutato e accolto tutti i popoli che, nel corso dei secoli, hanno inciso le loro storie, hanno intrapreso i loro cammini di conquista, hanno attraversato i confini come pellegrini o come turisti, soprattutto Iapigi , Messapi e i figli della Magna Grecia. Leuca potremmo definirla terra di papi e di popoli, ma anche terra di santi e dei grandi della terra, per cultura e per potere. Enea e Re Alfonso di Napoli, ma san Pietro, san Francesco d’Assisi, San Giuseppe Benedetto Labre.

Questa, in sintesi, in pillole, la storia di una terra generosa e generosamente donata da Dio agli uomini, a tutti gli uomini, perché costruissero la sua tenda, la sua casa, l’edificio in cui nessuno potesse scartare la testata d’angolo e in cui ognuno doveva e deve sentirsi a casa propria. Santa Maria di Leuca è il miracolo della storia di fede. E’ il miracolo della natura ancora incontaminata e di una storia ancora da scoprire nei suoi ipogei, nei suoi anfratti, nei suoi meandri nascosti, nella sua cultura archeologica attraversata e costruita da fenici, cretesi, greci, romani e raccontata, come ci suggerisce uno storico del posto, il sacerdote Vincenzo Rosafio nel suo libro: “Il Santuario di Leuca o De Finibus Terrae”, da Erodoto, Strabone, Virgilio e Plinio. Santa Maria di Leuca, allora, si conferma terra non solo di preghiera, ma di studi, di approfondimenti, per portare alla luce del suo sole tutto l’invisibile, tutto ciò che è giusto conoscere e fare apprezzare nel contesto di un cammino culturale, proiettato a diventare universale, perché fonda le sue radici e ha una base di partenza che è la fede.

Fede e cultura, il binomio di una identità da scoprire, correggere, incoraggiare, esaltare nella bellezza e nello splendore di una coscienza ravvivata, ritrovata e non perduta, nonostante l’immensità del mare e l’infinto che si dipana all’orizzonte.

La Puglia terra di Papi e Santi (terza parte)

LA PUGLIA TERRA DI PAPI E SANTI (3)

 Benedetto XIII

 

di Giuseppe Massari

La matematica dice che il numero tre è il numero perfetto, attingendo, con ogni probabilità, dai latini che dicevano: “omne trinum est perfectum. Tre, per un caso o una coincidenza sono finora i papi pugliesi. Degli altri abbiamo ampiamente scritto e descritto, in precedenza, da queste stesse colonne, la loro vita, le loro opere pastorali, il loro servizio alla Chiesa, fra ombre, luci, consensi e dissensi.

Ora è la volta dell’ultimo della serie, Benedetto XIII, della nobile famiglia degli Orsini. Nato Pierfrancesco, a Gravina in Puglia, come primo erede del casato, dal duca Ferdinando III e Giovanna Frangipane della Tolfa, a diciassette anni veste l’abito domenicano, assumendo il nome di Vincenzo Maria. Una scelta difficile e travagliata, perché osteggiata dalla madre, la quale stava preparandogli, essendo il primogenito, un bel partito matrimoniale. Lui incurante dei piaceri mondani e dei privilegi di corte e di casta, abbandona tutto e segue la chiamata vocazionale al sacerdozio, intraprendendo una rapida carriera ecclesiastica, tant’è che a 22 anni, ad appena un mese dalla sua ordinazione sacerdotale, tra resistenze, pianti, dinieghi, da papa Clemente X, è creato cardinale, del titolo di San Sisto, e non perché raccomandato o per una sorta di privilegio che gli derivava dalla sua discendenza e dai suoi avi, ma perché apprezzato modello di santità, dottrina, cultura, sapienza e scienza. Questo incarico, inaspettato, lo turbò parecchio, perché egli voleva continuare a vivere la vita del chiostro che aveva scelto. Purtroppo, per lui non fu così, tanto che fu costretto all’obbedienza da parte del suo Maestro generale dell’ordine a cui apparteneva. Chinò il capo, convinto di fare la volontà di Dio e assunse, con dignità e decoro tutti gli impegni che gli furono assegnati. Dapprima nei panni di uomo di curia, presso alcuni dicasteri vaticani, e, successivamente come vescovo di Manfredonia, Cesena e Benevento. In queste tre sedi vescovili spese, fino alla morte, tutte le sue energie spirituali, morali e materiali. Restaurò a sue spese chiese, ospedali, se non addirittura costruendoli dalle fondamenta. E’ il caso di Manfredonia, dove pure non esitò, sotto la spinta del Concilio di Trento, a costruire un seminario per la formazione del clero. In questa terra garganica il suo episcopato durò poco meno di cinque anni, perché fu trasferito a Cesena. Anche qui, nella brevità della sua permanenza, non fece mancare il suo apporto, le sue intuizioni

La Puglia terra di Papi e Santi (2)

 

Lecce, piazza Duomo

di Giuseppe Massari

Attingendo da Matteo Fantasia, autore de “I papi pugliesi”, Innocenzo XII è il secondo, dopo Bonifacio IX, di cui ci siamo occupati, e prima di Benedetto XIII, ultimo vicario di Cristo nato in questa generosa terra di Puglia.

Questo pontefice nacque a Spinazzola il 15 marzo 1615, dalla nobile famiglia Pignatelli. Al fonte battesimale gli fu imposto il nome  Jacinto, Francesco, Luigi, Giuseppe, Antonio, anche se quello che restò scritto sul margine sinistro dell’atto di battesimo fu Antonio.

Di questo illustre personaggio si può dire che fece una rapida e brillantissima carriera ecclesiastica. Da piccolo, dopo aver percepito i segni della vocazione religiosa, intraprese il cammino ecclesiastico, diventando sacerdote, nell’ordine dei Gesuiti, laureandosi in diritto canonico e civile.

La sua preparazione teologica e giuridica consentì a molti pontefici di averlo come stretto collaboratore, soprattutto nelle missioni difficili da dirimere. Fu ambasciatore e fine diplomatico, infatti, fu nunzio apostolico presso le sedi di Varsavia, Vienna.

Purtroppo, questa carriera che sembrava essersi avviata verso una folgorante ascesa, fu interrotta quando al Soglio di Pietro fu eletto Clemente X, papa Altieri, che lo destinò vescovo residenziale a Lecce. A capo della Chiesa salentina restò per 12 anni, a mezzo del suo vicario, mons. Matteo Pulverini fino a quando non fece ritorno in Vaticano per assumere gli incarichi importanti nell’ambito della Curia romana. Fu nominato segretario della Congregazione dei vescovi e due anni dopo Maestro di Camera. Prima che fosse destinato a Napoli, però, bisogna non dimenticare le altre tappe episcopali intermedie che lo videro protagonista, e ci riferiamo al vescovado di Faenza e a quello di Bologna, come Legato pontificio.

Del suo episcopato in terra leccese si ricordano alcune importanti opere: le tre porte nuove, realizzate a sue spese, per la cattedrale. Fece, inoltre

La Puglia terra di Papi e Santi (1)

la chiesa di Casaranello

di Giuseppe Massari 

E’ noto a tutti e a molti come la Puglia  sia o possa essere considerata culla di santi.

San Giuseppe da Copertino, sant’Antonio Francesco Fasani,  il beato Giacomo di Bitetto, la beata suor Elia di san Clemente, carmelitana scalza, il servo di Dio, don Eustachio Montemurro, fondatore di due congregazioni religiose: le Suore Missionarie del Sacro Costato e i Piccoli Fratelli del SS.mo Sacramento, don Pasquale Uva, fondatore della casa della Divina Provvidenza di Bisceglie, senza dimenticare il santo per eccellenza, che pur non essendo pugliese di nascita, è vissuto nella nostra regione e le sue spoglie mortali vengono custodite sul Gargano, san Pio da Pietrelcina.

Ma la Puglia si conferma, nella sua radicata religiosità, anche terra di papi, avendone dati tre alla Chiesa universale. Infatti, secondo una ricostruzione e ricerca condotta alcuni anni fa da Matteo Fantasia, sfociata in una pubblicazione editoriale: “I Papi Pugliesi”, Schena editore, 1987, viene alla luce una verità ai più sconosciuta. Secondo questo studio i papi pugliesi sono tre: un salentino e due baresi.

Bonifacio IX, Pietro Tomacelli, nato a  Casarano o Casaranello, in provincia di Lecce, diocesi di Nardò, fra il 1344, o il 1355 o nel 1359. I biografi, purtroppo, sono discordi, anche  se è possibile accettare più vera la data intorno al 1350.

Innocenzo XII, Antonio Pignatelli, vide la luce a Spinazzola, il 15 marzo 1615, in quella che un tempo era in provincia di Bari, oggi città inserita fra i comuni che compongono la nuova provincia di Barletta – Andria – Trani, della diocesi di Altamura – Gravina e Benedetto XIII, dell’ordine dei Padri predicatori, al secolo Frà Vincenzo Maria Orsini, nato a Gravina in Puglia il 2 febbraio 1650, in provincia di Bari, della stessa diocesi di Innocenzo XII, attualmente servo di Dio in quanto candidato agli onori degli altari, essendo in corso il processo di beatificazione.

Queste tre grandi figure, vissute in periodi difficili e tumultuosi per la vita della Chiesa, non va dimenticato che durante i quindici anni del pontificato di Bonifacio IX la chiesa era scossa dallo scisma di Avignone, dove si risiedeva l’antipapa spagnolo Pedro de Luna, Benedetto XIII, segnano la storia della nostra regione, anche se fra luci ed ombre, o, forse, fra più ombre che luci, come è nel caso di papa Pietro Tomacelli di cui ci occuperemo più diffusamente.

Questi non brillò per spessore religioso, se è vero, come riconoscono i suoi

Benedetto XIII. Un processo di beatificazione che non è mai partito

Dipinto di anonimo pittore allocato nella sagrestia della Basilica cattedrale di Gravina in Puglia

di Giuseppe Massari

Purtroppo, ci giungono voci poco confortanti dagli ambienti della Curia romana circa il cosiddetto Processo di beatificazione che avrebbe dovuto riguardare il papa gravinese, Benedetto XIII

A metà del mese di febbraio di quest’anno il cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini, firmò l’editto per la riapertura della Causa. Questo non significava, così come qualcuno lasciò intendere, che il processo avrebbe preso subito il suo avvio, o che, automaticamente ne veniva dato corso e seguito, non prima, comunque, aver raccolto tutto il materiale storico e bibliografico prodotto nel corso dei secoli, fino ai nostri giorni. Ma da questo, a sapere dagli stessi ambienti vaticani che la causa non è “neanche in agenda” ce ne passa. Significa che è  su un binario morto, nonostante i trionfalismi circa i tempi rapidi di apertura e di chiusura, quasi fosse un prodotto da far lievitare ai gradi centigradi di un forno. Anzi, dalla Congregazione per le Cause dei santi fanno sapere che se non c’è un forte interesse, una forte motivazione, una forte spinta, il dibattimento, sia pure su basi documentali e non verbali, non inizierà mai. Cioè, in soldoni, significa che già di per sè il candidato deve essere forte, carismatico;  deve essere in grado, da solo, a spingere al suo personale esilio verso gli altari. Di questo, purtroppo, la Congregazione è poco convinta, nonostante, l’anno scorso, il 26 novembre, alla Biblioteca Casanatense di Roma, il prefetto della Congregazione, il futuro e prossimo cardinale Angelo Amato, avesse  alimentato speranze, sempre secondo coloro che sono figli e re dell’ignoranza.

Cosa significa tutto ciò? Che il personaggio candidato desta poca considerazione? Che c’è stato un disinteresse da parte dei promotori, i quali, vinti e accecati da una frenesia, ingiustificata e ingiustificabile, pensavano

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