Iscrizioni latine a Spongano. Quando le epigrafi raccontano la storia.

INTERVISTA di Donato Nuzzaci a Giuseppe Corvaglia, Filippo G. Cerfeda, Giorgio Tarantino, autori del libro: ISCRIZIONI LATINE A SPONGANO

 

di Donato Nuzzaci

 

Come è nato il progetto di raccogliere le iscrizioni latine a Spongano?

Giuseppe C.: l’idea è nata tantissimi anni fa e si era arenata. Negli ultimi tempi l’Associazione Panara Antica ha pensato di riprendere un’iniziativa del passato e ridare vita a una Collana, “Nuove note di storia locale”, che riprende una vecchia iniziativa dell’Amministrazione comunale. Questo libro sulle iscrizioni latine ci è sembrato il viatico migliore per partire.

In questa prospettiva ci siamo ritrovati e abbiamo lavorato alacremente senza farci spaventare dai problemi di ognuno e dalle distanze: io a Loano, Filippo a Padova e Gino a Spongano, un triangolo dal perimetro di centinaia di chilometri.

È chiaro che la tecnologia ci ha aiutato molto: trent’anni fa questi supporti ce li saremmo sognati. D’altra parte, questa intervista stessa la stiamo realizzando con un incontro a distanza…

 

Quante iscrizioni avete raccolto?

Gino T.: Sono più di 70 iscrizioni raccolte in 58 schede corredate da 160 foto.  Ogni scheda riporta il testo, la data, la traduzione, la collocazione e ne racconta la storia e il significato o anche dettagli e particolarità raccolte attraverso i documenti e le testimonianze orali dirette.

Epigrafe Torre dell’orologio già Sedile

 

Che senso ha oggi scrivere un libro sulle epigrafi latine?

Giuseppe C.: Meglio di quanto potremmo dire noi ha scritto Salvatore Rizzello nella prefazione dicendo: “…proporre un libro sulle iscrizioni latine non è un’operazione anacronistica, ma una “missione” che ha un triplice merito: far emergere il percorso carsico della storia e la continuità della conoscenza comune nei mutamenti generazionali, mettere in luce il sottile legame con altre comunità, anche molto lontane, di profonde radici identitarie, farci riconoscere per ciò che realmente siamo, viandanti nel tempo su sentieri tracciati e già percorsi.”

 

Di solito, dove venivano collocate le iscrizioni?

Gino T.: Ne abbiamo trovate in diversi posti scolpite, segnate sulle facciate e all’interno di case, chiese e luoghi sacri, in edifici privati e pubblici, su muri o su dipinti, una addirittura su una scultura d’arte moderna.

 

E i proprietari hanno collaborato al progetto di raccolta delle iscrizioni?

Gino T.: Abbiamo sempre trovato disponibilità da parte di tutti che non hanno esitato a fornirci informazioni, dati e notizie, ma abbiamo riscontrato anche la disponibilità di amici che si sono messi a disposizione. Per esempio, un amico ci aveva detto che c’era una epigrafe su Palazzo Stasi (Arcana tua et aliena tace) e io sono andato a cercarla, anche con una certa insistenza e quasi irritando il proprietario. Poi un giorno un altro amico va in farmacia, alza gli occhi e vede l’epigrafe che stava nel palazzo di fianco al palazzo Stasi dove la stavamo cercando.

Come puoi vedere senza la collaborazione di tutti questo libro non avremmo potuto realizzarlo.

 

Qual è stata l’iscrizione che più vi ha colpito tra tutte?

Giuseppe C.: Potrei dire “Arcana tua et aliena tace”, posta sulla facciata di un palazzo in via Diso, perché è un modo elegante per suggerire di farsi gli affari propri e penso che potrei parlare a nome di tutti e tre gli autori, ma a parte questa mi ha colpito molto l’epigrafe posta sul lato ovest della torre dell’orologio di Spongano che è una dedica mariana ed è ricomparsa dopo i restauri di qualche anno fa e già oggi si sta perdendo di nuovo per gli agenti atmosferici. Ci fa capire che il recupero delle testimonianze non è una cosa rinviabile perché può andare perduto facilmente. La stessa cosa possiamo osservare per alcune formelle del timpano del Calvario.

Arcana tua et aliena tace

 

Filippo, qual è stata l’iscrizione che ti ha interessato particolarmente?

Filippo G. C.: Molte iscrizioni hanno suscitato interesse e curiosità, ma in particolare una iscrizione mi ha coinvolto particolarmente: quella collocata sul palazzo della famiglia Marzo, oggi palazzo Polimeno.

Nella iscrizione l’aggettivo MARTIUM è un attributo di EMBLEMA che è neutro.

Con la sua traduzione vediamo la volontà di opposizione tra 2 stemmi gentilizi diversi: l’Ancora (simbolo di attività legata al mare o cognome di un’altra famiglia) e la Palma simbolo della vittoria (specie in battaglia perché Marte è il dio della guerra). Quindi la Palma è simbolo/ornamento di Marte, marziale e, per associazione di idee, dei Marzo, visto che vuole essere l’arme della famiglia Marzo.

 

Forse una competizione con un’altra famiglia di Spongano?

Epigrafe di Palazzo Marzo ora Polimeno

 

Gino, qual è stata l’iscrizione che ti è rimasta più impressa?

Gino T.: Dobbiamo dire che le epigrafi raccolte ci sono piaciute tutte e tutte hanno suscitato un vivo interesse in noi. Ogni epigrafe è stata una scoperta sia per informazioni che ritrovavamo, sia per il ritorno a maneggiare il latino che nel caso mio e di Giuseppe non si basava su una frequentazione consueta.

A me poi è piaciuta molto quella di Casina Stasi, “Pusilla domus…” perché esprime manifestamente il senso di ospitalità, di giorno e di notte, verso persone a cui si tiene molto ed evoca uno dei valori più belli che ci siano: l’amicizia. La casa, per quanto piccola è a disposizione degli amici, con generosità e affetto. Un motto che mi sentirei di fare mio.

Epigrafe Casina Stasi

 

Filippo, perché venivano realizzate queste epigrafi-iscrizioni?

Filippo G.C.: Un’epigrafe è un manifesto: dichiara una scelta di vita, una filosofia. Può essere anche ostentazione di ricchezza; a volte appare quasi come un comizio contro avversari veri o presunti; oppure è una preghiera, o una maledizione: è tante cose.

Nel momento in cui si edificava la casa o il palazzo, la massima che il proprietario voleva scolpita sull’architrave equivaleva ad un blasone di nobiltà intellettuale e morale, un blasone che diventava uno stimolo categorico a bene operare per sé e per i propri discendenti, per i vicini, per i parenti, per coloro che di là passavano e la leggevano, per la propria e le future generazioni. Essa aveva un valore assoluto in quanto nasceva da una profonda convinzione e da lunga esperienza di vita vissuta.

Le società del passato amavano ostentare il sapere, e non solo, ma anche il “fare”. Tutte le opere di misericordia materiale, le pie istituzioni, a vantaggio dei poveri, orfani, vedove e maritande: tutto ciò veniva “inciso su pietra”, come a perpetuare nei secoli la presenza e l’esistenza di quelle generazioni.

 

Gino, chi erano – di solito – i committenti?

Gino T.: Sicuramente nobili, borghesi e benestanti, ma anche la popolazione, attraverso il Comune e la Chiesa, per fissare nel tempo un evento importante per la comunità.

Quindi le iscrizioni spesso esaltavano nobili o possidenti, giammai singoli cittadini, vero? Oppure vescovi o uomini di chiesa, o ancora riportavano passi di testi religiosi particolarmente significativi?

Gino T.: Non sempre erano celebrative di nobili. Ricordo una iscrizione in lingua italiana su un vaso scolpito del cimitero che celebrava una bimba, figlia di un artigiano, morta prematuramente che esprimeva il dolore dei genitori. (“A GRAZIA RIZZELLO I GENITORI” “a soli tre anni ti perdemmo, chi ne consolerà”)

Inoltre, ne abbiamo trovata una che diceva MOLIRE UT MOLAM che poteva essere addirittura uno slogan pubblicitario di un frantoio o di un mulino.

Epigrafe chiesa madre

 

Filippo, qual è la differenza tra epigrafi e araldica? Entrambi possono o potevano andare spesso a braccetto?

Filippo G. C.: L’epigrafe è una iscrizione scolpita su pietra o vergata a mano mentre l’araldica è una disciplina, una materia specifica che studia gli stemmi e i blasoni nobiliari o vescovili. Quasi sempre negli edifici pubblici o residenze nobiliari le epigrafi erano sempre accompagnate con il blasone di famiglia, con lo stemma gentilizio o nobiliare che ostentava ricchezza e affermazione sociale. Soprattutto sugli altari o sui dipinti la presenza dello stemma di famiglia era indicativa della committenza della stessa opera d’arte.

 

Quali erano le funzioni delle iscrizioni?

Gino T.: Potevano avere una funzione informativa, didascalica, ma anche morale, dove l’epigrafe diventava un monito per il lettore.

Tuttavia, non mancava fra gli scopi anche quello di un tributo alla memoria di personaggi particolarmente importanti ed amati dalla collettività.

 

Quale tipo di pietra veniva usata?

Giuseppe C.: La pietra poteva essere la più diversa anche se la maggior parte veniva vergata su pietra locale, ma epigrafi si trovano su marmo e anche su tela o targhe di metallo o scritte su stucco o su intonaco.

 

La lingua latina era capita dal popolo oppure erano messaggi per le persone colte e pochi eletti?

Giuseppe C.: Il popolo non comprendeva la lingua latina, anche nelle preghiere spesso le ripeteva senza comprenderne il senso e addirittura nel ripeterle le corrompeva con elementi di dialetto o di volgare.

Il messaggio delle epigrafi era un messaggio solenne e autorevole e doveva servirsi della lingua istituzionale perché doveva essere tramandato a futura memoria.

 

Si può affermare che le iscrizioni erano i manifesti, i giornali o i “social network” del passato? E viceversa gli attuali social possono avere la funzione delle iscrizioni del passato?

Giuseppe C.: Il messaggio dei social network vuole dare visibilità a chi lo scrive, ma non dà l’eternità per via del fatto che i messaggi arrivano dappertutto, magari hanno una risonanza maggiore, ma sono effimeri, mentre l’epigrafe era destinata a perpetuarsi ben oltre la vita di chi l’aveva scritta. Pensa all’epigrafe per antonomasia, la scritta che Dante trova sulla porta dell’inferno “…io etterna duro…” ecco quello era lo scopo dell’epigrafe, i post dei social va ancora bene se durano qualche giorno.

 

Come mai oggi si realizzano sempre meno iscrizioni durature?

Giuseppe C.: Non direi. Pensiamo ai murales o alle iscrizioni dei writers che usano l’italiano, l’inglese, talvolta un loro lessico particolare e criptico… anche la strofa di una canzone o il verso di una poesia può diventare una epigrafe nell’ambito di un murales. Anche loro hanno una loro ragione e una loro efficacia comunicativa e anche quelle possono durare per sempre o per lungo tempo.

Si potrebbe fare un paragone tra le iscrizioni del passato e i tatuaggi sulla pelle?

Anche i tatuaggi sono un messaggio forte e inequivocabile, a volte esplicito ed a volte criptico, che riguarda la persona che lo porta e fa parte della sua identità, ma non è destinato a durare nel tempo, ma dura soltanto per la durata della vita di chi lo porta.

 

Come mai sono piuttosto rare le iscrizioni in lingua italiana? Ne esistono in lingua dialettale?

Giuseppe C.: Io credo che epigrafi in italiano ce ne siano tantissime. Pensa ai monumenti, alle lapidi dei cimiteri, alle lapidi commemorative… Abbiamo poi esempi di epigrafi in volgare anche molto antichi come quella di Minervino del 1473 (COMO LU LIONE ET[E] LO RE DELLA NIMALI CUSI MENERBINO ET[E]LO RE DE LI CASALI A.D. MCCCCLXXIII regnante Rege Ferdinamdos) e il distico di Corigliano d’Otranto del primo ventennio del ‘500 (HUMILE /SO/ ELLHUMELTA / MABBASTA/ DRACON/ DEVE(N)TARO/ SALCHU(N)/ ME/ TASTA), sono certamente le prime due testimonianze epigrafiche volgari più antiche del Salento.

Il dialetto non è usuale, ma anche quello viene usato, io stesso, per l’epigrafe della tomba di mio padre ho usato il dialetto sponganese.

 

Filippo, qual è la funzione delle iscrizioni nelle chiese e nei luoghi sacri come, ad esempio, nel Calvario di Spongano?

Filippo G. C.: Le iscrizioni nelle chiese o all’interno delle cappelle, pubbliche o private, quasi sempre mettevano in evidenza i diritti di patronato laicale (Jus patronatus laicorum) delle famiglie più influenti e cospicue, oppure le committenze. Le chiese parrocchiali e confraternali erano costruite publico sumptu (con denaro dei cittadini) e con la loro fatica e sacrificio: tutto ciò veniva “inciso su pietra”, perché Scripta manent, come a perpetuare nei secoli la presenza e l’esistenza di quelle generazioni.

La simbolicità del Calvario di Spongano (a forma di tempio circolare) ci dice che il cielo e la terra sono collegati con questo Calvario, dove Dio si è abbassato fino alla morte per risollevare l’uomo fino al cielo. Inoltre, nel Calvario, ci sono altri due elementi che fanno di questo monumento un’autentica mistagogia ecclesiale, che introduce chi vi legge, nella comprensione più profonda del mistero stesso di Cristo; questi due elementi sono le epigrafi e le icone.

Nella tradizione della Chiesa cattolica i gesti dei sacramenti si esprimono “per ritus et preces”. Per “ritus”, ossia gesti simbolici, possiamo intendere le icone, mentre per “preces” possiamo qualificare le epigrafi.

Cupola interna del Calvario

 

Come continua oggi e come continuerà la tradizione delle iscrizioni in questa epoca di “social” dove sempre meno si lasciano segni scritti tradizionali e sempre più emergono rappresentazioni nella realtà internettiana, virtuale?

Giuseppe C.: La rete sarà la principale destinataria dei messaggi, ma credo che l’epigrafi non smetteranno mai di esistere, certo, non in latino, con modalità diverse, ma resisteranno perché chi passa da un luogo ricordi una persona, un evento, una lezione.

 

Cosa ha lasciato a voi tre questa esperienza?

Gino T.: Abbiamo imparato che è possibile lavorare in équipe anche in questo ambito. Lavorando insieme con pazienza e tenacia, mettendo in comune le proprie competenze e le risorse, rinunciando alle gelosie e agli interessi personali, un’idea è diventata un progetto fatto e finito che ha raggiunto uno scopo nobile, quello di offrire la conoscenza agli altri.

Abbiamo imparato che la lontananza fisica viene azzerata dalla tecnologia e la vicinanza dello spirito conta davvero, che chiedendo per scopi buoni, le porte si aprono e gli amici ci sono. Infine, abbiamo scoperto che lavorando si cresce e si può raggiungere una sana soddisfazione.

 

Avrete occasione di incontrare il pubblico? Quando?

Gino T.: Domenica 14 agosto 2022 nella bella cornice di Parco Rini a Spongano io e Giuseppe dialogheremo con Salvatore Rizzello dell’Università del Salento, e Dario Vincenti presidente della Società di Storia Patria Sezione Sud Salento “N.G. De Donno”. Filippo, che sarà assente, manderà un messaggio per i lettori.

 

Quale potrebbe essere l’iscrizione latina adatta per questo vostro libro?

Giuseppe C.: DONEC FERETRUM SEMPER DISCIMUS… AC FORTASSE ETIAM POSTEA , fino alla bara sempre si impara… e forse anche dopo.

 

Intervista a cura di Donato Nuzzaci

Agosto 2022

 

Ortelle. Una piccola personale di murales di Antonio Chiarello

Una piccola personale di Murales: Antonio Chiarello adorna il suo borgo di dipinti murali molto interessanti e gradevoli

 

di Giuseppe Corvaglia

Quest’anno, dopo la necessaria astinenza dell’anno trascorso col COVID 19,  come ogni terzo fine settimana di ottobre, a Ortelle si è tenuta la tradizionale Fera de Santu Vitu.

La gente ha partecipato  numerosa (e speriamo che non ci siano conseguenze): il richiamo di una delle feste più amate dell’autunno,  la carne “de porcu paesanu”, “ddilissata con pepe e sale” o arrostita con i suoi effluvi inebrianti, il vino , la birra, le castagne, le noccioline, i fichi siccati, la cupeta, i mustazzoli e tante e tante cose buone, sono state per moltissimi un’attrattiva irresistibile.

Quest’anno, però, a Ortelle, nelle immediate prossimità della fiera, c’era anche un piccolo evento che non è stato pubblicizzato, perché nato spontaneamente e non previsto come tale, che però a un occhio attento non poteva sfuggire.

Andando dalla “Madonna de a Crutta” verso via Provinciale era ed è possibile godersi una piccola personale di murales di Antonio Chiarello.

Da qualche anno Antonio, che è pittore del Salento, pittasanti, come spesso si definisce, che non disdegna lavori di decorazione e di murales,  ha sperimentato questa forma espressiva con buoni risultati e sembra prenderci gusto.

A pochi metri dalla chiesetta ipogea si può ammirare il murales dedicato a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Francesca Morvillo e agli uomini della scorta caduti con loro. I due magistrati sono rappresentati in atteggiamento confidenziale, come in una famosa fotografia, e il murales evoca quella confidenza che, quasi, si può sentire il loro bisbigliare. Nei pressi l’Amministrazione ha piantato un albero della legalità perché chi muore può generare buoni frutti, se è un buon seme.

Procedendo oltre su via Provinciale si incontrano le altre due pitture murali. Sono poste una davanti all’altra, ma una è visibile a chi va verso il mare e una è visibile a chi torna.

Entrambe hanno il dono della leggerezza, ma sono collegate alla terra, a questa Terra, il Salento.

 

Uno raffigura un aquilone che vola nel cielo e una scritta che dice “la sola cosa che non sopporto degli aquiloni è lo spago che li tiene legati“, un inno alla libertà estrema che rappresenta il volo, ma l’autore della frase, nell’impeto dell’entusiasmo, omette di dire che senza quel filo e quel legame l’aquilone non potrebbe volare. Un po’ come tutti noi che ci stacchiamo dalla nostra casa, dai nostri cari e andiamo nel mondo, liberi, ma legati a un sottile, invisibile filo che ci guida nelle nostre scelte.

È il filo delle nostre radici, dell’imprinting che ci hanno dato i nostri maggiori, dell’amore dei nostri cari che ci lega a questi luoghi.

L’altro è il più recente e anche più complesso dove Antonio esprime tutto l’amore e la simpatia per Francesco d’Assisi.

Nel cielo terso si alza un frondoso albero di fico che rappresenta il rivoluzionario messaggio di Francesco, dal Cantico delle creature, che ci dice che per amare e lodare Dio dobbiamo prenderci cura e amare il mondo. E allora lodiamo il Signore per nostra sorella Terra, per nostra sorella Acqua, per frate Foco e frate Aere, rispettiamoli, prendiamocene cura come cose nostre, care e indispensabili alla nostra sopravvivenza e alla nostra felicità. Il messaggio è impegnativo per chi, alla ricerca della felicità nel consumismo e nei bagordi, rovina questi tesori comuni e non si  cura del loro bene, che poi è il nostro, ma è anche un messaggio leggero perché si serve di parole semplici, antiche, seppure ancora attuali ed efficacissime, per questo degne di essere “scolpite” nella pietra a monito.

E leggerezza esprime il fanciullo vestito di bianco che in bilico sulla pietra imita il volo degli uccelli che si librano nell’aria e ci fanno sentire tutta la sua malinconia (che poi è la nostra), per non poter spiccare il volo: lui gioca a volare, ma i suoi piedi restano a terra, su quella terra fatta di muretti a secco, erba e papaveri, con una lucertola e una gazza che lo guardano perplesse. Una terra, il Salento, che ha partorito un Pittore che dalla semplicità di un piatto muro bianco sa evocare, con un formidabile “tromp-l’oeil”, un mondo fantastico.

 

Ho incontrato Antonio nel suo studio e gli ho chiesto:

La scelta dei muri, a parte quello della tua casa natale, è stata casuale, dettata da una commissione o l’hai fatta tu?

È stata una mia iniziativa, ma direi che alla fine è stata l’una e l’altra cosa. Il primo, quello della casa dei miei, è nato per mia spontanea volontà: i miei figli erano piccoli e volevo fare una cosa gioiosa che riprendesse quella frase,  e gli aquiloni che mi ispiravano. All’epoca, gli anni ’90, di murales  a Ortelle non ce n’erano.

Poi mi sono appassionato ai murales che stanno diventando un fenomeno diffuso e che mi piace proprio come forma espressiva.

In quei muri bianchi ci vedo una risorsa, un’occasione e allora, quasi per gioco, ho proposto al padrone di casa un dipinto dedicato a Falcone e a Paolo Borsellino e lui ha accettato senza enfasi, con naturalezza. Il contesto era adatto; un parco frequentato dalle giovani generazioni che più di ogni altro hanno bisogno di chiedere giustizia, legalità, senso civico.

Mi sono interessato io delle autorizzazioni al Sindaco e all’Ufficio tecnico, del materiale e l’idea l’ho elaborata, come anche per il terzo murales, parlandone con amici e maturandola poi da solo.

La cosa procede così anche ora: ci sono luoghi che mi ispirano e mi appartengono: un muro che vedo tutti i giorni di fronte a casa mia, il muro della mia casa natale e il muro di fronte dove prima c’era un benzinaio e che ora era piatto, anonimo, mi stimolano, allora propongo l’idea al padrone di casa e se viene accolta si procede.

 

Insomma il murales può coprire qualsiasi muro oppure ha bisogno di un contesto suo?

Ecco, questo è il vero nocciolo della questione: è opportuno che l’opera si realizzi in un contesto adeguato, altrimenti il rischio è che ci si faccia prendere la mano e si realizzino cose esteticamente discutibili complicando situazioni che dovrebbero essere fruite con leggerezza, riflessione e serenità.

 

Beh, ma questo succede già nel mondo nel senso che i writer meno noti e meno dotati dipingono dove capita, su muri abbandonati della periferia, su carrozze della metropolitana o dei treni, ma anche su muri di una certa importanza storica e architettonica, senza pensare ad eventuali danni, ma volendo solo comunicare , spesso usando un linguaggio criptico noto solo a loro e ai loro ambienti, mentre i writer di un certo peso scelgono accuratamente i contesti dove realizzare le loro opere…

Infatti in molte città il murales viene realizzato per valorizzare posti abbandonati o deteriorati. Resta il fatto che il contesto deve essere adeguato all’opera.

 

Secondo me c’è una differenza fra tromp-l’oeil e murales: il primo evoca un mondo e te lo fa vedere in una illusione ottica che lo rende reale. Il murales libera la creatività e manda sempre un messaggio. Sei d’accordo? E i tuoi dipinti murali sono più tromp l’oeil o più murales? Oppure sono tutte e due le cose?

Non c’è mai stato da parte mia la ricerca dell’illusione ottica come nel tromp-l’oeil anche perché non avrei i mezzi tecnici per fare quello, ma ho sempre pensato a una forma artistica come il murales che avesse nella sua espressione un messaggio.

 

Il murales di Falcone, Borsellino, Morvillo e degli altri agenti caduti facendo il loro dovere, è una cosa a cui pensavano molti cittadini democratici e anche chi, come me, non sa disegnare, nel vederlo realizzato si emoziona. Quale è stata la genesi di questo dipinto?

Le figure dei due giudici, eroi del nostro tempo, sono state proposte in tanti posti e in tanti modi diversi, quasi fosse una specie di moda, e potrebbe sembrare un messaggio quasi inflazionato, ma ripensando alla storia dei due giudici e vedendo quello che succede in Italia e nel mondo ho pensato che il messaggio evocato da loro è ancora un messaggio forte e importante e una riproposta avrebbe avuto ancora una grande utilità e una grande valenza educativa. Qui c’è un parco che è frequentato da bambini, giovani e mi sembrava bello coinvolgerli visivamente, ricordar loro che due uomini hanno dato la vita per rendere migliore la loro. Il proprietario della casa aveva per queste due figure grande ammirazione e il progetto è andato a buon fine.

 

Il terzo murale parla del tuo rapporto con San Francesco che sembra molto particolare. Ce ne vuoi parlare? È una simpatia per la figura del Santo o ti solletica soprattutto l’attualità del suo discorso ambientalista che pure ha sollecitato il Santo Padre?

Intanto devo dire che nella mia famiglia c’è sempre stato un legame con questo Santo: mio padre si chiamava Francesco, ho chiamato mio figlio Francesco e poi conoscendo la sua vita e le sue gesta, l’ho sentito molto vicino, come un modello da imitare ancora prima che emergesse questo legame solido con l’ecologia che oggi viene molto spesso evidenziato.

Francesco è una figura di uomo e di santo che non è catalogabile in modelli stereotipati o in liturgie, ma esprime l’uomo che sposa il messaggio cristiano con consapevolezza, rigore, serietà, profonda umanità.

L’idea del murales prende origine da un lavoro su tela che si ispirava ai quattro elementi della natura, da quell’idea nasce una elaborazione e un confronto con altri amici che ha portato a quella figura.

Come per tutte le opere si parte da una intuizione che viene elaborata per giungere al risultato finale frutto di pensieri, discussioni, confronti…

 

Qual è l’attualità di San Francesco?

Francesco è sempre attuale perché tutti noi dobbiamo fare i conti con la nostra coscienza, con quello che facciamo, di buono e di non buono. Francesco è un uomo che aveva fatto cose discutibili, poi ha preso coscienza di quello che faceva cambiando radicalmente il suo modo di vivere e il suo modo di operare e anche noi dovremmo fare i conti con quello che siamo e con quello che facciamo.

Questi sono stati i passi che mi  hanno portato a fare una piccola galleria a cielo aperto in questo borgo e per il momento, nonostante non manchino richieste mi sembra un progetto concluso o quantomeno giunto a un termine. La cosa mi è piaciuta e mi piace per cui potrebbe continuare anche in altri luoghi. Vedremo.

 

Fiabe salentine| Verde Lumìa

La storia di Verde Lumìa ovvero de lu Conte Marcu 

che era vecchiu e facce rrignatu e de lu Conticeddhu paru sou

 

di Giuseppe Corvaglia

Dopo aver commentato il libro pubblicato da Del Grifo e curato da Eugenio Imbriani sulle antiche fiabe di Terra d’Otranto, ho proposto lo scritto ad alcuni amici e uno di questi mi ha chiesto se conoscevo la storia di Verde Lumìa.

Io, onestamente, ho risposto di no, mentendo inconsapevolmente. Infatti non la conoscevo con quel nome, la conoscevo con il nome della Storia de lu Conte Marcu, che tante volte ho ascoltato dagli amici del Canzoniere Grecanico Salentino e conosciuto anche con il nome di Fina Perna.

La storia è quella di una fanciulla, Verde Lumìa,  che vuole sposare il suo innamorato giovane, ma che non riscuote le simpatie del genitore che, pensando di fare il bene della figlia, la promette in sposa a un Conte più facoltoso  (possiede 34 o 36 castelli, parte dei quali vende per comprare gioielli alla futura sposa) ma vecchio e brutto. La giovane cerca di resistere, ma alla fine deve rassegnarsi a quel matrimonio infelice.

Questa e le successive illustrazioni sono state appositamente realizzate da Gianna Cezza

 

La prima notte di nozze, però, la fanciulla ha un’idea portentosa: chiede allo sposo una grazia, dicendo di aver fatto voto alla Madonna di restare ancora per tre giorni vergine e chiede di lasciarla illibata.

Il marito, che stravede per lei, la bacia sulla guancia e si addormenta.

 

Quando il Conte dorme pesantemente, Verde Lumìa raccoglie le gioie regalatele dal vecchio sposo e se ne va a casa del giovane amante.

Il giovane, deluso per la scelta di Verde Lumìa, però, è sdegnato e la vuole mandare via.

Lei, sicura del fatto suo, lo sfida dicendogli: «Accoglimi! Se non sarò illibata potrai uccidermi, se lo sono potrai amarmi!» E l’amante l’accoglie.

Verde Lumìa Gianna Cezza

 

Durante la notte il Conte si sveglia, non trova la sposa e va a cercarla dal giovane amante. I due innamorati lo beffeggiano e quando lui chiede indietro i gioielli che le ha regalato, Verde Lumìa gli dice di ridargli indietro quel bacio che le ha rubato.

Il Conte non può ridarglielo e lei si terrà l’amante, giovane e baldo, e i gioielli della dote.

 

Due versioni di Verde Lumia

 La storia è molto diffusa nel Salento ed è nota come Verde Lumìa, Conte Marcu o Fina Perna. Ne ho trovate due versioni: una proposta da Ettore Vernole e una che è l’elaborazione del Canzoniere Grecanico Salentino. Mi sono piaciute e ve le propongo.

Di entrambe ho riportato i testi e di quella del Canzoniere, ho riportato anche un link che consente di ascoltarla nella versione originale. Ho riportato anche il link dove è possibile reperire l’articolo di Vernole.

*****

Ettore Vernole ci riporta la storia e il testo del canto in un suo saggio uscito negli anni ’30 del secolo scorso sulla rivista Rinascenza Salentina: Folclore salentino: Sabella e Verde Lumìa (Anno I, fascicolo 2, 1933, pp.94-07).

https://emerotecadigitalesalentina.it/sites/default/files/allegati/RS33_folcloresalentino_romanze.pdf

L’autore ci dice che “… “Lumìa” nel dialetto salentino, è una delle varietà più aromatiche del limone, e quella parola non è stata messa a caso a denotare il nome dell’eroina: significherà “giapponescamente”, o l’amaritudine o l’acredine del fato, o il profumo intenso o l’estrema speranza simboleggiata nel verde speciale di quella varietà d’agrume”.

Ci riporta poi a vecchie usanze come il bacio (osculum nuptiarum) scambiato contro l’anello del fidanzamento. Ci fa notare come venga definita quasi pittoricamente la scena, ma anche i personaggi, soprattutto verso la fine, quando all’amore raggiante dei due innamorati si contrappone la bruttezza fisica del Conte Marco, che va a riprendersi la sposa con vesti brutte e una mula zoppa, e anche morale, perché la donna che considerava così bella da meritare tutte le sue ricchezze, diventa “brutta brutta”.

L’autore ci dice poi di come il nome del protagonista, Conte Marco, rievoca le relazioni del Salento con Venezia e il Re di Cipri possa riferirsi al Re di Cipro (Ugo di Lusignano) che sostò nel Salento con i suoi Crociati, diretto in Terra Santa; sulle coste gallipoline, a testimonianza della sua permanenza, lasciò in ricordo un Sacello campestre.

Il canto è reso alla maniera dei cantastorie o, come dice Vernole, alla maniera dei Trovatori, con una parte didascalica recitata e una parte cantata.

In questo modo lo rielaborerà Luigi Lezzi, componente del Canzoniere Salentino con Rina Durante e Bucci Caldarulo, nell’edizione proposta negli anni ’70 dal Canzoniere Grecanico Salentino con Daniele Durante (voce narrante e autore delle parti recitate) e Roberto Licci (voce cantante) (https://www.youtube.com/watch?v=RRh1ymuhBd4 ) formidabili e credibilissimi cantastorie che ci hanno fatto vivere ( e ci fanno ancora oggi godere con i prodigi del web) in maniera mirabile una bella storia d’amore, di arguzia e dabbenaggine.

Durante, con voce decisa e un lessico tipico di chi parla in italiano e usa termini dialettali italianizzati, sembra proprio un cantastorie di altri tempi e Licci canta con la sua voce vera e genuina evocando la storia in maniera scenografica (anche qui, come nel testo riportato da Vernole nelle strofe cantate si alternano in forma dialogata i diversi personaggi e chi canta deve saper rendere: la tenera pulzella, il padre crudele, il giovane amante sdegnato e il conte che sbava dietro alla giovane bella per farsi gabbare bellamente.

Nella versione del Canzoniere, quando il Conte gabbato va dalla madre sua a chiederle aiuto perché ha perso la moglie, lei , arrabbiata, lo compiange dicendogli “…fiju cu pozzi essere maledettu /cu perdi la mujere de ntra lu liettu…”).

Riportiamo il testo raccolto e riportato da Ettore Vernole :

Didascalia

Verde Lumìa è figlia unica d’un Principe caduto in rovina, il quale cura l’avvenire della fanciulla impegnandola a nozze con un ricco e vecchio conte: essa invece aveva scambiata promessa col Re di Cipro, poi costretta alle nozze, cede, ma fugge pura..

-Verde Lumìa te oju maritare… –

«E ci m’ hai ‘ulutu dare, ‘Gnore meu? »

« Te dicu senza pene e senza ‘nganni

ca ete n’ommu cchiu’ de settant’anni,

e ghete lu putente conte Marcu

padrunu de castelli trentaquattru… »

Na, e na e ni e nena – nena, nena, na-ni- nana.

 

«Ma jeu lu conte Marcu nu lu ‘ulìa,

ca a Re de Cipri stae l’amore mia,

de quandu scii a la mescia e iddu a la scola,

de tandu nde ‘ppuntamme la palora… »

Ne e na e ni e nena – nena, nena, na-ni-na-na…

 

Didascalia:

Il nobile genitore è sdegnato e irremovibile. 

Verde Lumia l’ippe de ‘nfidare

ogne castieddu cumanzau a sparare,

tante fora le museche e strumenti

e zitu e zita stèsara cuntienti…

Na e na e ni e nena – nena, nena, na-ni-na-na…

 

Didascalia:

L’eroina ha maturato un piano, e accenna al vecchio sposo di aver fatto voto di castità nella prima notte: è appagata. 

«O conte Marcu, ci me ‘oi a la vita

stasera ‘una cu stau zitella zita.

O conte Marcu, ci nu me ‘oi la morte

stasera ‘ulia me lassi zita de corte! »

Na e na e ni e nena – nena, nena, ne-ni-na-na…

 

E conte Marcu nde la concedìu,

all’adda vanda se ‘utau e durmìu!…

Verde Lumia la notte se nd’ azau,

li meju anelli tutti se pijau,

lu meju cavallucciu se scucchiau,

le porte a Re de Cipri sciu e tuzzàu

Na e na e ni e nena – nena, nena, ne-ni-na-na…

 

«O Re de Cipri, àpreme le porte

ca su scappata de manu a la morte!… »

«Nu me ‘ulisti, no, quand’eri zita?

Mancu te oju moi pe cara amica!… »

«Ci nu me trovi sana, pura e zita,

pija la spada e lèvame la vita…

Ci nu me trovi sana, pura e onesta,

pija la spada a tàjeme la testa… »

Na e na e ni e nena – nena, nena, ne-ni-na-na…

 

Didascalia:

Mentre i due si riconciliano, conte Marco s’è svegliato :

«Mamma, mamma, ‘dduma la candela

ca persi quidda ci spusai jersera!

Mamma, mamma, ‘dduma la ‘ucerna

ca haggiu persu la cchiù fina perna!… »

E conte Marcu se ‘oze vastire

e le cchiù brutte robe ‘oze mintire,

sotta la scudaria ‘oze calare,

susu na mula zoppa ‘ncavarcare…

Na e na e ni e nena – nena, nena, ne-ni-na-na…

 

Didascalia:

E conte Marco va dal Re di Cipro a reclamar la sposa. 

«O Re de Cipri, àpreme le porte,

ca m’è scappata ‘na mula stanotte! »

« Jeu nu su’ mula e su’ de bona razza,

culonna d’oru so’, quistu me ‘mabrazza… »

«O brutta, brutta, tòrname l’anelli

ca me custàra trentatrè castelli… »

«O bruttu vecchiu, tòrname lu vasu

ca foi zitella e an facce m’è rumasu!… »

Na e na e ni e nena, nena, nena, na-ni-na-na…

 

Versione del Canzoniere Grecanico Salentino

È questa la storia de lu Conte Marcu ca era vecchio e facce rrignato, ma siccome che era patruno di trentasei castelli, si voleva nzurare na giovincella ca era faccirosa, beddhra fatta e delicata.

«Figghia t’aggiu cchiatu de maritare!»

«O mamma chi sarà sto mio marito? »

«Figghia, lu Conte Marcu ti voglio dare

ca è patrone di trentasei castelli. »

Ma la nostra giovincella il Conte Marco non lo voleva, perché lei ci aveva nel cuore il Conticello paro suo che non era ricco, ma era nu bellu giovine alto biondo, capelli lisci ed occhi azzurri.

«Mamma no lu ogghiu lu Conte Marcu,

vogghiu lu Conticellu paru miu! »

Ma la mamma lu puntu lu vincìu

cu Conte Marcu la fice spusare.

Ma che cosa si ba inventa la prima notte di nozze la nostra giovincella? Si ba sonna che ha fatto un voto alla Madonna e che per questo tre notti verginella deve rimanere.

«Conte Marcu nu pattu nui imu fare:

aggiu fattu nu votu alla Madonna,

aggiu fattu nu votu alla Madonna:

tre notti nuzzitella m’ha lassare. »

Siccome , come vi avevo detto all’inizio, il nostro Conte Marco era vecchio e ribbambito, al fatto nci cridìo e come che ci dese un bacio si girò all’altra parte e durmiscìo, ma come che scoppolò nel sonno ecco che la nostra giovincella si alza e se ne va.

Conte Marcu nu vasu li vose dare

Se vose all’authra via e durmiscìu,

se vose all’authra via e durmiscìu,

la zita de nthra lu liettu se nde scìu.

E dove, dove secondo voi poteva andare la nostra giovincella spinta da un così travolgente amore se non a bussare alle porte dell’amato suo? Ma siccome il nostro amato era rimasto scornato dal fatto che lei si era sposata cullu Conte Marcu, allora cosa fa? Nde la caccia!

«Apri o Conticellu apri ste porte

ca su zitella e m’hai pija’ stanotte! »

«Abbande ca te vosi maritata

ca tie cu conte Marcu sì spusata! »

»«

Ma forse che voi bi potete pensare che un così travolgente amore si può rompere alli primi cuntrasti? E invece no, perché la nostra giovincella era sicura de li fatti soi perché lei era ancora vergine e pura come la mamma l’aveva fatta. E allora sentiamo cosa nci risponde.

Se no mi trovi tu zitella ardita

con la tua spada tronchimi la vita

Se non mi trovi tu zitella onesta

con la tua spada tronchimi la testa.

A questo punto accantoniamo i nostri due giovani amanti che lascio immaginare a voi che cosa stanno facendo e andiamo allu castellu.

Al castello il Conte Marcu si è discitato e la prima porta dove ha fusciuto è quella de mammasa.

«Azzate mamma e mpiccia la candela,

ca la zita de ntra lu liettu aggiu perdutu! »

«Fiju cu puezzi essere maledettu

cu perdi la mugghiere de ntra lu liettu. »

Citta mamma e no me maledire

ca ci l’aggiu persa l’aggiu scì a truvare,

ci l’aggiu persa l’aggiu scì a truvare,

alle porte de Conticellu adu a bussare. »

 

Ritorniamo ai nostri due giovani amanti. Essi stavano teneramente mbrazzati quando proprio sul più bello li ba cimenta il Conte Marco.

«Apri o Conticellu, apri ste porte

Ca m’ha scappata na mula stanotte»

«Nonn’è na mula è na mula de razza.

È  na vagnona ca mo me sta mbrazza.»

 

A questo punto il conte Marcu si rende contu che l’amore della giovincella non se lo può prendere indietro e che tenta cu fazza? Tenta almeno di riprendersi li trentasei castelli, ma…

«Brutta brutta damme li miei nelli

Che mi custara trentasei castelli! »

«E tie, bruttu damme ddhru baciu ca me rrubbasti. »

«Cu lla piaga intra lu core te ne venisti. »

 

E così questa storia può dimostrare a tutti quelli che si pensano che con i soldi tutto si può ‘ccattare che non è vero perché quando un amore è così bello e travolgente come quello dei nostri due giovincelli neanche trentasei castelli se lo possono ‘ccattare e anzi chi ci tenta, come il nostro Conte Marcu, alla fine rimane attutu, curnutu e cacciatu de casa.

 

Segnalo anche “Sta cala lu serenu de le stelle”  proposta, tra gli altri, da Ghetonia nel 1995, un canto che evoca la vicenda, chiamando la leggiadra fanciulla Fina Perna, perla preziosa e rara. Ho detto evoca, perché non racconta la storia come le altre due versioni, ma a quella storia fa riferimento. Evoca la fuga di notte della donna (sta cala lu serenu de le stelle…) e l’accusa che il Conte Marco farà al Conticello di avergliela rubata. Il canto dice che chi ruba donna non può essere chiamato ladro, semmai si deve chiamare giovanotto innamorato. Poi fa un riferimento agli agrumi, come la verde lumia, agrume raro ora, ma molto diffuso in passato, facendo dire all’amante giovane che lui non è un limone da stringere e nemmeno un arancio da mangiare.

Molto tenera la descrizione della bellezza della donna che il poeta dice essere fatta di zucchero e manna e in forme così belle, grazie al nutrimento della madre che è così sacro da tenere in bocca senza mai sputarlo, per assumerne meglio le sue portentose proprietà.

Un riferimento poi viene fatto allo sdegno del giovane amante che si vede tradito dal Matrimonio con il vecchio, e inizialmente non vuole riaccoglierla e dice: “…no me l’hai fare a mie sti cangi e scangi…”

https://www.youtube.com/watch?v=CAxfVuWc2Zo

Una storia decisamente interessante e, a quanto pare, molto diffusa.

 

Ringrazio Gianna Cezza che ha fatto le illustrazioni per questa occasione. Una favola con le figure è più gradevole, queste sono mirabili: asciutte, senza fronzoli, con una particolare attenzione all’aspetto e alla psicologia dei personaggi e colori caldi ed evocativi.

 

Segnaliamo questo bell’articolo di uscito su Tutto Taurisano

https://www.tuttotaurisano.it/nuovataurisano/2013/LUGLIO2013/4.pdf

Tradizioni ed edilizia funerarie a Spongano

di Giuseppe Corvaglia

 

Nel 1600, come in tutti i paesi di Terra d’Otranto, a Spongano non c’erano cimiteri e i defunti venivano seppelliti nelle chiese. La Chiesa Madre aveva le tombe della comunità che, successivamente, saranno differenziate in: quelle per i sacerdoti, poste vicino all’altare maggiore, quelle per i nobili (sepulchra nobilium) anch’esse poste in prossimità dell’altare o vicino agli altari della famiglia, quelle delle vergini (tumbae virginum), quelle dei bambini (parvulorum sepulchrum) e quelle degli altri abitanti. La prima a essere sepolta in Chiesa Madre, nel 1604, fu una certa Domenica Gallona.

Ancora oggi si può osservare il pavimento della sacrestia, in parte ristrutturato, ma in parte ancora irregolare, deformato dalla pressione dei gas, formati dai processi di decomposizione dei corpi.

I nobili, come detto, avevano urne vicino agli altari, di cui avevano jus patronato, o una tomba vicino all’altare maggiore, ma alcuni di essi potevano essere sepolti nelle cappelle patrizie di proprietà.

Accadeva per gli Scarciglia e i Riccio, ad essi imparentati, che tumulavano i propri defunti nella Cappella di San Teodoro, fatta erigere da Don Pomponio Scarciglia, e per i Bacile che costruirono la propria cappella, prospiciente il Palazzo e dedicata alla Madonna dei sette dolori, grazie all’opera di Don Giuseppe Bacile, Arcidiacono della Cattedrale di Castro. In essa il primo ad esservi tumulato fu Giovanni Antonio, fratello del prelato.

Ricordiamo pure che nella piccola comunità era attiva una Confraternita della Buona morte che garantiva un funerale ai poveri che non potevano permetterselo e pregava in suffragio delle anime, avendo patronato su un altare della chiesa che, in seguito, verrà dedicato a Santa Vittoria.

Quando le fosse della chiesa si riempivano e quando la chiesa fu chiusa, per i lavori di restauro nel XVIII secolo, i defunti furono tumulati nella Chiesa della Madonna delle Grazie che oggi conosciamo come Congrega.

Se il numero dei morti diventava elevato, come accadeva in occasione di epidemie, quali: il colera nel 1836, il vaiolo nel 1880, la difterite nel 1886, la scarlattina, il morbillo nel 1888… si ricorreva al cimitero epidemico (Agro Sancto Epidemico) che si trovava sulla via per Surano, in Contrada Taranzano. La rivoluzione francese aveva affrontato il problema delle sepoltura con l’uso delle tombe comuni poste a distanza dai centri abitati.

A Spongano, come in tutto il Regno delle Due Sicilie, si comincia a parlare di Cimitero solo nel 1817, quando una legge, “per garantire la salute pubblica, ispirare il rispetto dei morti, e conservare la memoria degli uomini illustri”, dispose che i defunti venissero inumati o tumulati in luoghi appositi, chiusi da mura e da un cancello, distanti almeno un quarto di miglio dal centro abitato. A Spongano e nei comuni associati, Surano e Ortelle, si cercarono i siti per la costruzione del cimitero locale. Per Spongano si individuò un luogo detto “Vignamorello”, posto fra l’attuale piazza Diaz e la ferrovia, dove c’era una grotta, usata come neviera in disuso, che avrebbe consentito di inumare le salme più agevolmente.

L’iter fu travagliato e furono proposti, negli anni, altri luoghi, ma senza mai decidersi a realizzarlo, nonostante un altro dispositivo, il Real Rescritto dell’11 gennaio 1840, reso esecutivo in Terra d’Otranto il 25 gennaio 1840.

A questo contribuì l’opposizione, più o meno palese, del Clero, che traeva benefici economici dal tumulare i morti nelle chiese, la credenza dei fedeli che la tumulazione in Chiesa, vicino alle reliquie dei santi e luogo di preghiera, fosse migliore e, soprattutto, la necessità delle varie amministrazioni di stornare i fondi destinati ai cimiteri per spese più necessarie e urgenti, differendo la soluzione del problema.

Nel 1880 la Regia Amministrazione Sabauda ritorna alla carica con leggi apposite e stimola decisamente i Comuni a dotarsi di un Cimitero. In questa temperie, i Decurioni, nel 1883, decidono di costruire il nuovo cimitero acquistando all’uopo un fondo denominato “Campo San Vito” sulla via per Ortelle. Il progetto fu fatto dall’Ingegner Pasanisi e fu approvato dal Genio Civile nel 1885.

Il Camposanto fu inaugurato l’11 maggio 1885 e già il giorno dopo vi fu sepolto il primo sponganese, Ruggero Alamanno. Da allora non furono più seppelliti morti in chiesa (l’ultima salma fu tumulata in Chiesa il 1° maggio 1885).

Ingresso del cimitero di Spongano

 

Architettonicamente possiamo dire che, nel complesso, la parte più antica risente di quel gusto architettonico, molto in voga nell‘800 fino agli inizi del ‘900, chiamato Eclettismo, qui particolarmente evidente, che utilizza in libertà tutti gli stilemi architettonici del passato, come modelli di riferimento, per progettare edifici esteticamente belli che colpiscono il gusto del fruitore ancora oggi.

La facciata, austera, si ispira a un’architettura classicheggiante; in alto al centro è scolpito il chrismon con ai lati l’alfa e l’omega, all’apice una croce (caduta e non più ripristinata) con due fregi ai lati.

Statua di Cristo risorto di A. Marrocco

 

Sempre all’ingresso sono situate due epigrafi in latino che ammoniscono gli umani.

Una riporta “La mia carne riposa nella speranza” (CARO MEA REQUIESCET IN SPE) e l’altra dice “Il corpo corruttibile e mortale dell’uomo conduce all’immortalità”  (MORTALE INDUET IMMORTALITATEM).

 

 

Alcuni anni fa è stata posta, nel piazzale antistante, una bella statua bronzea dell’artista contemporaneo Armando Marrocco che rappresenta Gesù risorto.

Anche la tomba comune, dove trovavano sepoltura tutti i cittadini che non avessero una tomba propria, si ispirava a un sobrio classicismo. L’ingresso, sormontato da un timpano con un bordo modanato in pietra leccese, aveva due nicchie laterali e una porta centrale che conduceva a un semi-ipogeo, che ricordava le catacombe, dove vi erano i loculi che accoglievano le salme e una fossa comune (a carnara). In fondo, al centro, vi era un altare dedicato alla Madonna del Carmine, oggi restaurato. Negli scorsi anni è stata restaurata la tomba comune ricavando al piano terreno dei colombari nuovi e un ampio ambiente coperto; la nuova facciata riecheggia la forma della vecchia struttura.

Più o meno coeve sono diverse cappelle gentilizie, costruite con stili diversi, anch’essi liberamente ispirati all’Eclettismo.

Anche a Spongano, come in quasi tutti i comuni del Salento, le famiglie nobili, borghesi o benestanti, sentivano la necessità di costruire la propria cappella funeraria per custodire le spoglie dei propri cari, ricordarne la memoria, ma anche per ostentare il proprio stato.

La materia usata, prevalentemente, è la pietra leccese che, come dice Gabriella Buffo nel suo articolo su Fondazione di Terra d’Otranto, “Edilizia funeraria a Nardò e nel Salento”, “diventa il morbido tessuto su cui ricamare tutta la simbologia della morte”.

Entrando si può ammirare, sulla sinistra, la tomba della famiglia Rizzelli che sfoggia uno stile classico arricchito, da ghirlande di fiori, scolpite nella pietra leccese. La facciata è abbellita da due colonne sovrastate da un timpano semicircolare che si ripete sui quattro lati. Lo stesso stile classico si può osservare nella più discreta tomba dei Rini.

Cappella della famiglia Rizzelli

     

Particolare della cappella Rizzelli (lato nord)

  

Di fronte vi è la cappella della famiglia Coluccia che richiama uno stile neoromanico, come la cappella della famiglia Scarciglia che si trova più avanti. In quest’ultima, oltre al raffinato portale, che richiama le decorazioni di Santa Caterina in Galatina e di San Nicolò e Cataldo a Lecce, si nota un bel rosone con al centro una testa di leone.

Cappella Scarciglia

 

particolare con il rosone della cappella Scarciglia

 

Di stile neorinascimentale è la cappella dei Bacile, progettata da Filippo Bacile, architetto e umanista pregevole, sempre seguendo il gusto dell’eclettismo in voga. Il portale è protetto da un elegante loggiato, sormontato da una sorta di baldacchino, con un timpano, sorretto da due colonne, adorne di capitelli corinzi, che reca lo stemma di famiglia e un bordo con gli spioventi decorati a scacchiera, dove si alternano cubetti cavi a cubetti pieni. L’interno della cappella è semplice e le sepolture sono allocante in una parte semi-ipogea.

Cappella della famiglia Bacile

 

Cappella funeraria della famiglia Rini

 

Cappella funeraria della famiglia Coluccia

 

Nel corso degli anni il cimitero è stato ampliato e oggi si possono vedere tombe più moderne, alcune dallo stile essenziale, altre di pregevole fattura come quella che accoglie il Caporal maggiore Antonio Tarantino, caduto a Nassirya durante una missione di pace. La cappella, progettata dall’architetto Virgilio Galati, presenta sulla facciata uno squarcio che rompe due strati: quello del corpo (pietra leccese) e quello dell’anima (cemento). Un altro squarcio spacca la parete posteriore che, con la sua struttura a lamelle sovrapposte, sembra la corazza di un guerriero e quello squarcio diventa un finestrone irregolare che, orientato a est, accoglie la luce del sole che nasce. All’interno, sulla tomba del giovane milite, si ergono due possenti, ma al tempo stesso elegantissime, ali di angelo in marmo greco. La pavimentazione e la volta riproducono cerchi come pianeti di una costellazione. Il tutto esprime la tensione a volare in cielo, ma, allo stesso tempo, la crudele e dirompente realtà della fine di una giovane vita.

Cappella del caporal maggiore Antonio Tarantino, caduto a Nassirya

                      

particolare della cappella funeraria Tarantino

 

Interessante la cappella di un altro soldato, morto tragicamente mentre era in servizio, Claudio Casarano, figura eclettica di artista prestato all’esercito; in essa è possibile ammirare la riproduzione in marmo di Carrara di una sua scultura in legno d’ulivo, molto suggestiva che esprime il rinchiudersi in se stessi per non vedere la crudeltà del mondo. Interessante anche sulla facciata un sofferente crocifisso in ferro battuto, fatto dal milite nella sua attività artistica.

Particolare della cappella Casarano

 

Pure di interesse è la tomba Polimeno per gli infissi in ferro battuto di Simone Fersino, che si rifanno al mosaico di Pantaleone della Cattedrale di Otranto (l’albero della vita che poggia su due elefanti e Alessandro Magno sui grifoni), e un bellissimo angelo sull’altare, affrescato da Roberta Mismetti in foggia bizantina.

Altra tomba particolare è la tomba Corvaglia, progettata dall’Architetto Sigfrido Lanzilao, posta dietro la tomba Rini. Segno caratteristico è un piccolo arco a tutto sesto che richiama l’arco romano e poggia su due colonne a sezione quadrangolare (o a pilastro) e che, con armonia ed eleganza, sovrasta le tombe e accoglie un crocifisso in legno, ottenuto da un artista ligure con rami rimaneggiati dal mare. Le tombe ai lati sembrano due ali disposte come un abbraccio che accoglie; all’interno ci sono due fioriere una a forma di ciotola votiva e una che richiama un antico mortaio con i simboli della forza e del coraggio (zampa di leone), dell’estro e dell’allegria (uva), del genio e della tecnica (squadra) e della vita ottenuta dalla morte (spiga di grano) opera, come l’arco, di Bruno Polito.

Fino a qualche anno fa c’era un piccolo cenotafio, un vaso commemorativo, in pietra leccese, scolpito e decorato da un genitore affettuoso e valente artigiano, Oronzo Rizzello, per la piccola figlia Graziella, portata via da una malattia e sepolta in una tomba comune. Il vaso (su cui era scritto A GRAZIA RIZZELLO I GENITORI e poco sotto a soli tre anni ti perdemmo, chi ne consolerà) è stato rubato da mani sacrileghe, durante dei lavori di riposizionamento.

Ma il Cimitero non è solo l’insieme di note storiche, stilemi architettonici, lapidi e sculture: il Cimitero è, soprattutto, un crogiuolo di ricordi, talvolta intimi, evocati dai foto-ritratti o dagli epitaffi e di storie, talvolta, solo immaginate.

Tipico esempio di questa evocazione è il giro che si fa il giorno dei morti, quando si vaga senza uno scopo preciso, oltre le solite visite, per cercare un parente più lontano che ci ha lasciato o un amico che non c’è più e, talvolta, ci si perde a immaginare la vita della persona raffigurata in un ritratto antico.

Di quei giorni e di tante domeniche mi vengono in mente le discese veloci dalla copertura della scala della tomba comune, un piano inclinato, pavimentato di chianche, su cui ci si arrampicava e si scendeva d’un fiato. Il pensiero oggi mi fa rabbrividire per il rischio che correvamo, ma all’epoca chi ci pensava?

Anche un luogo così mesto poteva diventare divertente, come le coccole dei cipressi che diventavano biglie … o pallottole.

Io, poi, ogni volta che varco il portale dell’ingresso e vedo la porta sulla sinistra, non posso fare a meno di ricordare il mio bisnonno, Donato, che, come capomastro, partecipò alla costruzione di quel camposanto e, una volta ultimati i lavori, ebbe anche l’incarico di custode notturno che svolgevano a turno i figli i quali, per farlo, dormivano in una cameretta al primo piano sopra la camera mortuaria a cui si accedeva, appunto, da quella porticina.

Quando c’era un morto, gli si legava alle mani una cordicella che saliva fin nella cameretta e si collegava a una campanella che avrebbe suonato in caso di risveglio del trapassato, come accade nei casi di morte apparente (nell’architrave dell’ufficio del custode che una volta era camera mortuaria, è possibile vedere ancora la carrucola e il foro che portava alla cameretta del custode).

Donato Corvaglia capomastro muratore

 

Mi ricordo pure di un altro Donato Corvaglia, un caro amico. Era una persona speciale che, come impiegato comunale, svolse diversi ruoli: netturbino, archivista, messo comunale e alla fine custode del cimitero e “precamorti”. Di lui ricordo la bontà e la bonomia, la cura nell’insegnarci il catechismo, la semplicità e la sensibilità delle sue poesie che amava comporre in quella pace, ma anche la delicatezza e la discrezione nei momenti della sepoltura, quando il distacco fra il defunto e i familiari diventava lacerante. Lui mostrava sempre umana pietà, sensibilità, solidarietà e la giusta fermezza, tutte viatico per l’addio. Ha lasciato in eredità ai suoi colleghi un attrezzo da lui inventato che loro chiamano, affettuosamente, Mangone (era il soprannome patronimico) che serve a scardinare la lastra di pietra murata nelle dissepolture.

E poi, ai più attempati verrà in mente un altro Precamorti mitico: u Paulu.

“Paulu” viveva, praticamente, nel cimitero anche se aveva una sua casa in paese. Vestiva abiti dimessi, era solo e, spesso, accettava la carità di un pasto, offerto per “l’anima dei morti”, o anche solo un bicchiere di vino, due, tre….*

Lui accettava volentieri, ma veniva considerato uno sventurato e, spesso, i ragazzi lo prendevano in giro. Allora lui, quando si arrabbiava, urlava minaccioso: « A cquai ve spettu tutti!!!» ( Vi aspetto tutti qui!!! intendendo al Camposanto).

Aveva preso parte in una sacra rappresentazione della Passione di Cristo, rimasta memorabile, (quella, per intenderci, in cui Mesciu Carmelu Carluccio, cantore, era Gesù) interpretando un efficace e credibilissimo Cireneo che, su quelle spalle malferme, sbilenche, si caricava il segno della redenzione del mondo senza essere il Messia.

Altri aneddoti si raccontano su di lui. In particolare si racconta di una giovane vedova, innamoratissima del marito, morto prematuramente, la quale, ogni giorno, portava sulla sua tomba delle pietanze, come se fosse vivo. Paolo se le mangiava e lei ogni giorno non mancava di rinnovare il suo gesto affettuoso nei riguardi del marito. Un giorno di estate, nel caldo della canicola, era scesa nel colombario sotterraneo e non poteva immaginare che Paolo precamorti si fosse infilato in un loculo per sfuggire alla morsa di quel caldo soffocante. Quando lo vide uscire, per poco non rimase stecchita. Era una donna forte, molto cara, che non morì per lo spavento, ma concluse la sua vita in tarda età con la compagnia di due cani affettuosi per poi ricongiungersi al suo amato Salvatore.

 

 

*Piccola nota di costume.

Nel Salento si usa offrire delle cose da mangiare, specie a chi è più sfortunato, per ottenere delle preghiere in suffragio delle anime defunte. È quasi come offrirle al caro che non c’è più e, spesso, il cibo o il frutto offerto è quel cibo o quel frutto che piaceva particolarmente al caro estinto.

Talvolta si sogna un caro che manifesta il desiderio di un cibo e si cerca di soddisfarlo, dando quel cibo a qualcun altro che quel cibo può mangiarlo fisicamente. C’è chi racconta di aver regalato dei cibi a qualcuno e che il caro estinto sia andato poi in sogno, esprimendo soddisfazione per quel pasto.

In particolare una conoscente, riferiva di aver preparato e donato delle sagne col sugo da portare a una famiglia benestante che, però, non apprezzava particolarmente quel dono. La domestica, incaricata del servizio, un giorno aveva fame, si sedette e se le mangiò. Dopo aver mangiato si sentì ristorata e soddisfatta e, come si usava, pregò il riposo eterno ai defunti della donatrice. Nei giorni successivi, chi aveva donato il cibo sognò il defunto che mangiava le sagne, seduto su alcuni gradini. Quando la donna rivide la domestica, per ripetere il dono, le chiese se le sagne erano arrivate a destinazione. Di fronte alle domande insistenti, la donna raccontò la verità e il posto dove le aveva mangiate era lo stesso dove, nel sogno, il caro defunto si era seduto a mangiare. Da allora le sagne, quando preparate, furono destinate alla domestica.

Un’altra volta, un’altra massaia aveva mandato del pesce fritto da portare in dono e chi lo portava, inciampando, ne fece cadere, accidentalmente, alcuni. Non poteva rimetterli nel piatto, ma non voleva buttare quel ben di Dio. Così li pulì dalla polvere e se li mangiò con gusto pregando un Recumaterna alli morti sentito.

Giorni dopo la massaia sognò il defunto che raccoglieva del pesce da terra e se lo mangiava. Indagò e scoprì l’accaduto.

Come diceva il Commedantore del Don Giovanni Mozartiano: “Non si pasce di cibo terreno chi si pasce di cibo celeste…” e per noi uomini moderni è difficile credere che ci possano essere dei legami reali e sostanziali diversi da quella che può essere solo una suggestione.

Anche una richiesta, oggi domandata per favore, un tempo veniva perorata chiedendola “per l’anima de li morti toi”. Magari, se la richiesta era particolarmente importante, per meglio ottenerla, si chiedeva il favore per l’anima di un defunto particolarmente caro (Pe l’anima de lu Tata tou, o pe l’anima de la Mamma tua).

Inoltre ogni volta che si voleva ringraziare qualcuno si usava dire “Recumaterna alli morti toi” (in segno di ringraziamento, prego il riposo eterno per i tuoi cari defunti) o anche Ddhrifriscu de i morti, che vuol dire la stessa cosa oppure Ddhrifriscu de Diu che voleva dire che il Signore Iddio misericordioso conceda il riposo eterno ai tuoi defunti. Anche questo andava a consolare le anime che, secondo gli insegnamenti cristiani, potevano stare in Purgatorio in attesa della beatitudine.

Per contro, se si voleva offendere qualcuno in modo estremo, ci si rivolgeva a lui imprecando contro i suoi defunti.

 

Si ringraziano per le foto Mirella Corvaglia e Antonio Corvaglia

Spigolature sulla chiesa Madre di Spongano

di Giuseppe Corvaglia

 

La chiesa Madre di Spongano è dedicata a San Giorgio Martire. In origine era costituita da un’unica navata; così fu riedificata nella seconda metà del ‘700, mentre le due navate laterali furono edificate soltanto verso la metà del 1800; l’abside è posta a oriente e la chiesa è orientata sull’asse est-ovest.

Alla fine del ‘700 l’altare maggiore era dedicato all’Immacolata Concezione; venne poi rifatto nella forma attuale e dedicato a San Giorgio nel 1830. Di pregio sono gli stucchi dorati modellati da Vito Tedesco da Monopoli.

 

Sul lato destro della chiesa antica, a navata unica, c’erano tre altari: il primo, all’ingresso, eretto nel 1684, era dedicato a Santa Teresa ed era di patronato della famiglia Scarciglia; il secondo era dedicato a Sant’Antonio, di patronato della famiglia Bacile, ed era adorno di un quadro che raffigurava il Santo con il Bambino Gesù e una statua di pietra che ora è posta di fianco alla porta di ingresso laterale destra; il terzo altare era dedicato alla Madonna del Rosario ed era di patronato della famiglia Morelli.

La navata sinistra fu edificata successivamente, verso la metà del 1800, a spese della famiglia Bacile fino alle volte e fu completata, con le volte e gli altari, con il contributo della popolazione e il fattivo interessamento dell’Arciprete don Pietro Scarciglia.

Gli altari, in origine, erano tre: il primo altare, oggi sostituito dal Battistero, era dedicato alla Madonna Assunta con un quadro che può essere osservato sopra il Battistero stesso e raffigura, ai piedi della Vergine, San Giorgio che sottomette il drago e San Luigi Gonzaga; il secondo altare è dedicato a Santa Vittoria e il suo patronato apparteneva alla Confraternita della Buona Morte; il terzo è l’altare dedicato a San Giuseppe.

Proprio di quest’altare vi voglio parlare. È l’altare della navata più prossimo all’altare maggiore ed è dedicato, come detto, a San Giuseppe o alla Sacra Famiglia.

Fu costruito nel 1843, con il medesimo stile di quello dedicato a Santa Vittoria che è coevo.

Altare di San Giuseppe
Altare di San Giuseppe, dipinto della Narività

 

Il dipinto centrale è posto in mezzo a due colonne con capitelli corinzi, come in un proscenio di teatro, abbellito da elementi floreali e ghirlande, e rappresenta la Natività con l’adorazione dei pastori.

San Giuseppe, quasi defilato rispetto al centro del dipinto, mostra, con candido e genuino stupore, ai pastori e al popolo dei fedeli, il piccolo Gesù, vero centro dell’attenzione, su cui convergono gli sguardi di tutti gli astanti.

Ai lati vi sono due statue in pietra leccese, raffiguranti Sant’Anna e Santa Lucia, di recente fattura. L’ovale sulla mensa raffigura San Lazzaro, in abiti vescovili, ruolo che, dopo la morte di Gesù, può aver ricoperto.

Intorno all’effigie si legge l’epigrafe “LAZARUS FUERAT MORTUUS QUEM SUSCITAVIT JESUS” ([Sono] Lazzaro colui che era morto e fu resuscitato da Gesù Cristo).

Altare di San Giuseppe, San Lazzaro
Lecce, statua di San Lazzaro

 

Il Santo era venerato nel Salento. Qui, durante il periodo che precedeva la Pasqua, piccole compagnie improvvisate di musici e cantanti usavano proporre, in giro per le masserie, in una specie di questua di prodotti della terra, un canto chiamato “Santu Lazzaru” che, partendo dalla resurrezione dell’amico di Gesù, narrava la sua Passione e la sua Resurrezione.

Lazzaro morì giovane e fu resuscitato da Gesù, poi assistette alla sua dolorosa passione e dopo l’Ascensione del Signore, quando i discepoli si dispersero, con le sorelle Marta e Maria, secondo la Legenda aurea di Iacopo da Varagine, approdò a Marsiglia, dove si conservano ancora le sue reliquie. Qui Lazzaro convertì e battezzò molti pagani e resse, quale vescovo, la chiesa di quella città. Morì in età molto avanzata, ricco di meriti e di virtù. Un’altra fonte lo colloca a Cipro, a Cizio (oggi Larnaca), sempre come vescovo. Secondo questa versione le sue reliquie sarebbero state ritrovate a Cipro e portate in Francia dai Crociati.

In alto, nell’altro ovale, collocato sulla sommità dell’altare, è raffigurata la Sacra Famiglia.

Negli ultimi anni, proprio su questo altare, aveva trovato posto una pregevole statua in cartapesta della Sacra Famiglia fatta dall’artista salentino Antonio Papa e fortemente voluta e donata da Don Vittorio Corvaglia.

Sommità dell’altare di San Giuseppe

        

Chiesa del Carmelo a Loano: ai lati S. Teresa e S. Giovanni della Croce

 

Sempre sulla sommità dell’altare ci sono altre due statue che non hanno indicazioni.

Le statue sono rappresentate con abiti talari e un rosario in vita. Quella alla destra dell’osservatore rappresenta una religiosa con un angelo che la ispira, evidenza che si tratta di una donna Dottore della Chiesa, mentre quella alla sinistra rappresenta un religioso con una croce in metallo davanti.

Si può ipotizzare che siano raffigurati San Domenico e Santa Caterina da Siena: il primo, raffigurato con una croce nell’atto di predicare, e la seconda ispirata da un angelo.

Consideriamo però che la Santa senese è già effigiata da una delle statue in pietra, poste ai lati dell’altare di Sant’Antonio, e San Domenico viene in genere rappresentato con un giglio, una fiaccola o un cane.

In realtà sembra più plausibile identificarli con due mistici della famiglia carmelitana: San Giovanni della Croce e Santa Teresa d’Avila che riformarono l’ordine del Carmelo e che spesso si trovano raffigurati insieme, anche a Spongano, nella cappella del Carmine, di patronato della famiglia Ruggeri e ora di proprietà della famiglia Rini.

La devozione verso la Vergine del Carmelo a Spongano era molto sentita. Lo testimoniano la presenza di quadri, una statua processionale fatta modellare da Urbano Corvaglia e poi fatta restaurare negli anni ’50 da Emanuela Falco, edicole votive e altre espressioni della devozione popolare.

 

statua processionale della Madonna del Carmine

                                          

A Lei si rivolgevano preghiere e suffragi per la salvezza delle anime del purgatorio e Lei si invocava per non morire nel peccato in caso di morte improvvisa.

Un’espressione della devozione popolare era una giaculatoria rivolta a Lei per chi era in punto di morte o anche per sé stessi, pensando a quel momento di trapasso.

La Giaculatoria diceva:

“Madonna del Carmine,

mia bella Signora,

assistetemi Voi

nell’ultima mia ora .”

oppure “assistete – e qui si citava il nome dell’agonizzante – nell’ultima sua ora”.

Particolarmente devote alla Vergine del Carmine erano due famiglie patrizie di Spongano: i Ruggeri e gli Scarciglia che hanno annoverato fra i loro congiunti diversi parroci.(1)

Gli Scarciglia avevano patronato sul primo altare della parete di destra, nell’antica chiesa a navata unica, dedicato a Santa Teresa d’Avila e ornato da un quadro, oggi collocato nel cappellone con l’altare del Santissimo Sacramento che fu costruito dall’arciprete Pietro Scarciglia (2), figlio di Gerolamo, con il contributo della madre e del fratello, dottor Fisico Giuseppe, proprio per trasporre il patronato dell’altare di Santa Teresa.

Nel quadro la Santa in estasi viene raffigurata nell’atto di ricevere il velo monastico da San Giuseppe e dalla Madonna.

Santa Teresa riceve il velo dalla Madonna e da San Giuseppe

 

Ritratto di Don Pietro Scarciglia

 

Un altro quadro della stessa famiglia si può ammirare in sacrestia e raffigura la Madonna del Carmine con le anime purganti fra San Giovanni Battista e S. Oronzo.

I Ruggeri dedicarono alla Madonna del Carmine la propria cappella gentilizia che si trova in via Carmine, di fronte al loro palazzo, Ruggeri ora Rini.

particolare di Palazzo Ruggeri

 

Il tempio fu costruito da Francesco Antonio Ruggeri, padre di Giovanni Tommaso che fu Arciprete di Spongano dal 1714 al 1751, e la consacrò nel 1690. Per costruirla, Francesco Antonio aveva comprato, nel 1687, due fondi e la dotò pure di due vigneti e tre orte di vigna, oltre ad altri fondi, che costituivano un legato per 52 messe delle quali una parte doveva essere celebrata con canti, primi e secondi vespri, nei giorni in cui si festeggiava la Madonna.Nelle visite pastorali viene sempre lodata per arredi e paramenti; ancora oggi, dopo i restauri voluti dal Dottor Gaetano Rini e dalla moglie Anna Rizzelli, mostra nella sua bellezza quello stile barocco con cui era stata concepita.

Della Dedicazione alla Madonna del Carmelo è attestazione l’epigrafe posta sulla porta di ingresso (D(EO) O(PTIMO) M(AXIMO)/ DIVAE MARIAE A CARMELO/ D(OMINUS) IO(ANN)ES THOMAS ROGGERIUS DICAVIT/A(NNO). D(OMINI). MDCXC – Traduzione: A Dio Ottimo Massimo/ E alla Madonna del Carmelo/ Don Giovanni Tommaso Ruggeri dedicò (questo tempio) / Nell’Anno del Signore 1690).

Don Bernardo Ruggero

 

Don Scipione Ruggero

 

All’interno si nota la volta a botte in pietra viva e un altare barocco, sfarzoso per stucchi e colori, che accoglie un quadro che raffigura la Madonna con il bambino mentre porge lo scapolare a due santi in ginocchio: San Giovanni della Croce, con una Croce adagiata presso le sue ginocchia, e Santa Teresa d’Avila che reca i simboli della passione di Cristo, fra cui la canna con alla sommità una spugna, infilzata per dissetare il Redentore sulla Croce, e la lancia con cui i romani ne trafissero il costato.

 

Note

(1) Nella famiglia Ruggeri, oltre a Giantommaso, parroco dal 1714 al 1751, ricoprirono il ruolo di Parroco a Spongano anche Scipione e Bernardo (1771-1779), mentre nella famiglia Scarciglia, oltre a Pietro, fu parroco anche Girolamo dal 1679 al 1684.

(2) Il quadro raffigura Don Pietro Scarciglia, parroco di Spongano dal 1826 al 1836. L’epigrafe recita: D(ON) PETRUS SCARCIGLIA ARCHIPRESBYTER SPONGANI, PIETATIS AC RELIGIONIS LAUDE MAXIME ENITENS, OMNIBUS DESIDERATISSIMUS. OBIIT DIE 18 NOVEMBRIS 1836 AETATI- che vuol dire “Don Pietro Scarciglia, arciprete di Spongano che merita la lode più grande per pietà e religione, ricercatissimo da tutti. Morì il 18 novembre 1836 all’età di …” (Il libro aperto cita la lettera di San Paolo agli Ebrei). Don Pietro Scarciglia fu Arciprete per quasi tre decenni, in due periodi, dal 1808 al 1825, quando decise di dimettersi dalla carica per poi riaccettarla nel 1826 fino al 1836, anno della sua morte. Questi furono anni intensi per la progettazione e la costruzione della navata sinistra con gli altari citati. La Famiglia Scarciglia, originaria di Minervino, si stabilì a Spongano nel ‘600 con Pompomio Scarciglia, che fece costruire la cappella di San Teodoro. Il palazzo principale della famiglia è quello che si trova di rimpetto alla chiesa e fu costruito nel 1620 ma anche gli altri palazzi a sinistra sullo stesso lato di via chiesa, sono della famiglia Scarciglia. Su questo palazzo è posta una epigrafe che recita Hic sunt patera frondes.

 

Si ringraziano Antonio Corvaglia e Mirella Corvaglia per le foto che mi hanno fornito e si ringrazia l’Ufficio diocesano per l’arte Sacra e i Beni Culturali per le autorizzazioni alla pubblicazione delle immagini

Due libri sulle bande musicali e della loro storia sociale di un fenomeno sociale

di Giuseppe Corvaglia

 

Il 2018 ha visto l’uscita di due libri sulla banda davvero interessanti, uno di Emanuele Raganato (Le Bande Musicali – Storia sociale di un fenomeno globale – Edizioni Streetlib write) musicista, musicologo, didatta, esperto di sociologia, ed un altro di G.M. Paone e D. M. Andriulli (La banda come strumento formativo, educativo e sociale – Edizioni Efesto 2018), entrambe acquistabili su web.

Raganato parte tracciando, in maniera gradevole e completa, la storia della Banda, partendo dall’origine del nome, fino a tracciare una storia delle bande dagli albori delle civiltà in Italia e nel mondo.

Inizia con le ipotesi sul nome, che potrebbe risalire al termine gotico bandwa, che indicava un gruppo di suonatori eterogeneo che animava la vita delle cittadine e accompagnava i banditori, o a quei gruppi musicali militari che suonavano e accompagnavano i vessilli che distinguevano gli eserciti (bandiere, bande) o ancora alla fascia (banda) che indossavano i trombettieri che annunciavano il corteo regale (pensate ancora oggi alle processioni che con le bande annunciano l’arrivo del simulacro dei santi o alle parate o alle manifestazioni civili…).

Segue una classificazione, che si giova di proposte come la distinzione di Fulvio Creux, che le distingue in Bande amatoriali, più diffuse al centro nord, Bande ministeriali o bande militari ispirate alla struttura proposta da Vessella, e Bande da giro, tipiche del sud Italia, o come pure la distinzione delle bande pugliesi di Bianca Tragni, che le suddivide in bassa banda, o bassa musica, banda a servizio interno, simile alle bande amatoriali che limita la sua attività a livello locale, e banda da giro, fenomeno a parte perché erano e sono vere e proprie imprese che da maggio a ottobre suonavano per più di cento giornate e diventavano reddito per molti lavoratori della musica.

Interessante anche il riferimento al termine Concerto, molto usato per le Bande, che deriva dal latino “consertus”, letteralmente “legato insieme”, come lo sono gli strumenti di una formazione, e ad altri termini come Fanfara, formazione fatta di ottoni e percussioni di origine ottomana, e la distinzione in ambito anglosassone fra Brass-band inglesi, composte, come le fanfare, da ottoni e percussioni, e le Wind-band che avevano anche strumenti ad ancia, oltre ad altre interessanti notizie.

Raganato poi fa una analisi storica del fenomeno che parte dall’Egitto dei faraoni e nell’antica Grecia, dove l’uso primitivo di strumenti a fiato e di percussioni era legato principalmente a due ambiti. Quello militare e quello rituale–funebre, specie per i morti in battaglia, aspetti presenti in tutto il mondo antico fino all’Impero romano e che per certi aspetti ancora resistono.

Nel prosieguo del racconto riporta l’opinione di Vessella sulle bande musicali dei popoli barbari, essenzialmente formate da strumenti atti a creare un fragore assordante che incitasse i propri soldati e incutesse paura agli avversari.

Poi passa al Medioevo, dove gruppi musicali scandivano le diverse fasi dei tornei, ma accompagnavano pure i cortei regali, e delinea brevemente una figura importante per la musica popolare, quella del Menestrello (Minstrel), musicista, cantastorie, girovago, spesso autodidatta e senza formazione specifica a livello musicale, figura caratteristica di musica e cultura popolare che, come la banda, portava musica e poesia al popolo, ed era diversa da quella del Trovatore che era più colto, conosceva la letteratura e le tecniche di scrittura ed era bene inserito nelle corti dei nobili. La carrellata sul Medioevo si chiude citando pure le fanfar delle truppe turche.

Dopo questa disamina passa ad analizzare il percorso delle bande popolari in Italia, che prendono forma come tali nel XIX secolo, partendo dalle Bande militari, le più importanti, fino alle bande locali, piccole realtà, ma non meno significative. Artefici di queste bande locali erano sodalizi come le Società di Mutuo Soccorso, le Società Operaie, gli Oratori, specie quelli dei Salesiani, che erano luoghi di incontro, cultura e istruzione quando lo Stato non riusciva a garantire questo. Queste associazioni iniziarono a occuparsi, fra l’altro, della formazione musicale di bambini e degli adolescenti delle classi popolari.

La presenza delle bande era molto diffusa e determinante fu il ruolo educativo, fortemente moralizzante, della didattica musicale che interessò tutti i ceti sociali influenzandone pure i reciproci rapporti, un po’ come le associazioni di soccorso e volontariato che pure comprendevano diverse classi sociali che, nelle operazioni di soccorso, stavano fianco a fianco.

Il ritrovarsi per le prove portava a creare rapporti umani solidi e inaspettati per le differenze sociali, ma anche a ricercare esperienze musicali nuove. Proprio questa voglia di novità portò le bande a rinnovare il repertorio, per cui si passò dal repertorio di marce militari e ballabili a un repertorio più colto, ma sempre popolare, come la musica lirica.

Nel Regno delle Due Sicilie le bande popolari erano caratterizzate da una base popolare imponente costituita da artigiani, bottegai, contadini, operai guidati da Capi-musica, provenienti dai ranghi più bassi dei corpi militari e da maestri formatisi negli ambienti religiosi o nei Conservatori napoletani.

Il sospetto che queste bande potessero essere conniventi con associazioni segrete eversive, specie dopo i moti del 1848, portò i Borboni a controllarle e a regolamentarle, cercando di inglobarle nella Pubblica Amministrazione.

Banda del Regno delle Due Sicilie

 

Per questo un Decreto Regio stabiliva che tutte le bande dovevano essere censite, che non dovevano indossare uniformi di tipo militare o non autorizzate, che i musicisti dovevano essere inquadrati nel corpo della guardia urbana del proprio municipio e che il Capobanda doveva avere una patente di riconoscimento con l’elenco dettagliato di tutti i musicanti della sua formazione. Per usare una divisa la banda doveva presentare un figurino della stessa, che doveva essere approvato dall’autorità, e doveva disporre di un abito nero per le ritualità funebri, di una divisa di ordinanza e di una divisa da parata.

Con l’Unità d’Italia le bande militari furono unificate e molte Amministrazioni locali cercarono di dotarsi di una banda civica da gestire con le proprie risorse. I Sindaci, oltre a promuovere le bande, dovevano controllare la moralità dei musicanti.

Secondo il Ministero della Pubblica Istruzione nel 1872 in Italia erano attive 1927 formazioni, di cui nel Meridione 429 bande e 46 fanfare per un numero complessivo di 12.532 suonatori. In questo novero non c’erano le bande non istituzionalizzate.

Figurino per una banda municipale a Spongano di fine ‘800.

 

Queste bande si esibivano nelle piazze e nelle ville comunali, spesso su strutture dette “Cassarmoniche”, che erano strutture in ferro o muratura a forma di padiglione o di pagoda che hanno dato origine alle attuali strutture mobili in legno che si montano in occasione delle feste patronali, strutture adorne di lampadine, ma spesso decorate con ritratti delle muse o dei musicisti come un teatro mobile.

Cassarmoniche a Trani nella villa comunale e ad Acquaviva delle Fonti

 

Non manca in entrambe i libri il riferimento agli orfanotrofi, che si chiamavano Conservatori, che istruivano gli orfani alla musica e poi li indirizzavano ad arruolarsi nelle fanfare e nelle bande militari. Particolare a Lecce fu l’esperienza degli Spizziotti dell’Ospizio Garibaldi che formarono una banda benvoluta e apprezzata come i loro colleghi Martinitt a Milano.

La banda dei Martinitt – Museo dei Martinitt Milano

 

Nel ventennio il fascismo cercò di accentrare e controllare tutto e le bande vennero inglobate nella Opera Nazionale del Dopolavoro (OND, 1925). Le bande che non si iscrivevano alla OND e i musicanti che non si tesseravano al Partito Fascista, non potevano suonare e al regime, che usava abbondantemente la propaganda; le bande servivano in molte occasioni (feste, adunate, manifestazioni…).

Con l’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla poi si avviò per i più giovani un programma di inquadramento musicale da affiancare all’attività sportiva e tanti ragazzi appresero i rudimenti della musica.

Nel dopoguerra si cercò di ricostruire l’Italia e riprese stimolo anche la ricostituzione delle bande. Si crearono nuovi complessi che richiamavano le jazz band, ma anche le bande tradizionali ripresero a suonare. Importante in questo periodo fu la fondazione dell’ ANBIMA (Associazione Nazionale Bande Italiane Musicali Autonome), animata da Lorenzo Semeraro, e il ricostituirsi di Associazioni culturali, chiuse dal Regime o inglobate nel Dopolavoro, che promossero l’istruzione musicale e la formazione di bande. Negli anni ’50 e ’60 le Amministrazioni locali cercarono di rilanciare il fenomeno inteso come momento di formazione culturale, istituendo corsi musicali popolari e vennero in questo supportate da ANBIMA che propose musicanti esperti, anche se non diplomati al Conservatorio, a cui venne riconosciuto un titolo dal Ministero della Pubblica Istruzione utilizzabile per insegnare in questi corsi ad orientamento bandistico che fornivano i mezzi per conoscere la musica e per farla concretamente. Così molti giovani tornarono ad essere istruiti alla pratica musicale e a sperimentare concretamente la musica suonando nelle bande (N.d’A. A Spongano in seguito a questi corsi furono in molti ad essere avviati alla musica e 10-15 ragazzi fecero l’esperienza della banda a giornata.)

Raganato ricorda come le bande riprendono il loro ruolo con successo grazie anche a valenti direttori dal gusto e dalla cultura musicale raffinata come Ligonzo, Lufrano, Centofanti e tanti altri.

Negli anni ’70 molti musicanti studiano al Conservatorio e possono ambire a qualcosa di più, per cui si indirizzano o verso le bande militari o verso l’insegnamento nella scuola. Resistono le Bande da Giro, che impegnano i lavoratori per 100 giorni all’anno, ma si cominciano a formare Bande a giornata che si spostano lo stesso per tutto il Meridione, ma fanno una stagione meno impegnativa, intorno alle 50 giornate all’anno, mantenendo una struttura che si ispira a quella delle bande da Giro, con un organico più contenuto, ma un repertorio classico di marce e fantasie d’opera con un occhio anche alla musica moderna (Canzonieri vari).

L’altro libro, di Gregorio M. Paone e Donato M. Andriulli (La banda come strumento formativo, educativo e sociale Edizioni Efesto 2018), è meno analitico sull’excursus storico, ma pone di più l’accento sulla funzione sociale e pedagogica della banda.

Per sottolineare quanto le bande siano state importanti per fare musica, per farla conoscere e farla apprezzare, cita il metodo Orff nel quale il bambino impara la musica creandola assieme agli altri, prima con piccoli e semplici strumenti a percussione e poi approcciandosi a uno strumento vero e proprio, che può suonare in gruppo, misurandosi in una esperienza formidabile. Questo metodo didattico considera la pratica di uno strumento essenziale per l’apprendimento e ci introduce a quella che oggi, sempre più spesso, è la pratica nelle Scuole secondarie di primo grado dove, alla normale educazione musicale, si associa l’esperienza pratica supplementare con uno strumento. Viene, però, posto pure l’accento sulla banda come esperienza di vita, spendibile in tutti i campi della vita stessa, e sulla necessità di educare all’ascolto, perché solo ascoltando si può raggiungere una consapevolezza che porta a migliorare l’esecuzione. L’ascolto degli altri consente poi ad ognuno di collocarsi nella giusta dimensione ed essere parte di una esecuzione perfetta.

Nella musica d’insieme, che sia l’orchestra, una fanfara, un quartetto d’archi, un gruppo rock o la banda, ascoltarsi è essenziale. Chi suona deve saper ascoltare la propria voce e la voce degli altri, ma l’ascolto globale e analitico serve anche ad ognuno di apprezzare un brano che è sempre il contributo di più voci.

Per gli autori l’essere parte di una banda è una esperienza di vita che ti porta, già in giovane età, a maturare, a mettere in pratica la teoria, ad adattarti al rispetto delle regole e a misurarti con le difficoltà vere, al fianco di persone più esperte che ti possono guidare.

Una parte del libro è dedicata al Maestro Direttore che, specie nelle piccole realtà, era una specie di Capobanda con competenza per scrivere le parti e indirizzare i bandisti, ma con il tempo, evolvendosi la tecnica degli strumenti, la competenza dei singoli musicisti, la loro scolarizzazione e i gusti del pubblico, il suo ruolo è cambiato e ha dovuto avvicinarsi sempre più alla figura del Direttore d’orchestra.

In effetti, il Maestro, che è anche concertatore della banda, non deve tenere solo il tempo dei pezzi suonati, ma deve comunicare emozioni, interpretare la pagina stampata, ispirare i musicisti e il pubblico.

Questo hanno saputo fare i grandi Maestri del passato (Piantoni, Ernesto e Gennaro Abbate, Falcicchio…) e del passato recente (Ligonzo, Lufrano, Centofanti…), ma anche del presente (Samale, Schirinzi, Pescetti, Guerrieri, Donateo…) e non a caso molti dei nomi citati sono stati anche Direttori d’orchestra.

Quando il Maestro tocca le corde giuste, dirigendo i musicisti, nessuno resiste e si crea una sintonia che ammalia il cuore di chi ascolta e di chi suona e lo cattura per dargli balsamo di piacere.

Questa maestria i musicisti, allievi e non, la apprezzano e sarà una lezione che li guiderà nella vita.

La seconda parte del libro declina in pratica quanto descritto, cioè come la banda sia uno strumento formativo, educativo, e sociale riportando l’esperienza dell’Orchestra giovanile “P. Ragone” di Laureana di Borrello e il lavoro del Maestro Managò che, in una realtà sociale divisa dalle faide, trova nella musica un momento edificante che unisce tutti i giovani a dispetto delle inimicizie e del clima ostile. Questo sforzo sarà ripagato non solo per il risultato artistico, che porterà il giovane Concerto in tutta Italia, ma anche per i riconoscimenti ottenuti. Primo fra tutti l’interessamento di Riccardo Muti che riconosce nel lavoro del Maestro Managò, di tutti gli altri maestri di trincea e dei giovani musicisti l’impegno a costruire cultura, pace, godimento, umanità nel quotidiano e nel concreto, invitando una di queste bande, la giovane banda di Delianuova , ad aprire il Ravenna Festival nel 2006 dirigendola lui stesso.

La banda di Delianuova col Maestro Muti al Ravennafestival

 

Banda P.Ragone di Laureana di Borrello

 

Libri di nicchia forse, ma sicuramente letture interessanti e facilmente reperibili nei siti del web.

 

Siti da consultare sull’argomento

http://www.collezionespada.it/greci1.htm

http://www.salentoinlinea.it/index.php?option=com_content&view=article&id=3649:la-banda-qernesto-e-gennaro-abbateq-citta-di-squinzano-una-tradizione-lunga-135-anni&catid=77&Itemid=689

https://www.youtube.com/watch?v=ranv_CdQZL4

L’associazionismo giovanile negli anni 70 a Spongano

di Giuseppe Corvaglia

Negli anni ’70 i giovani a Spongano, sperimentarono una modalità di aggregazione ancora nuova che, con nome anglofilo, chiamarono Club. All’epoca, sembrava non facessero più presa né le esperienze associazionistiche tradizionali come l’Azione Cattolica, i partiti politici, le Confraternite, né quelle più moderne, figlie del ’68, come il Circolo Studentesco Ricreativo.

L’esigenza dei giovani era quella di avere un posto, diverso dal bar o dalla piazza, dove stare insieme a chiacchierare su quanto succedeva nel paese o su quello che capitava a scuola oppure ancora un luogo dove scambiarsi opinioni, confrontarsi e divertirsi in vari modi con poco. Una sorta di “nido” che li facesse sentire a proprio agio, a “casa propria”, senza gli occhi degli adulti addosso che dicessero cosa fare o cosa non fare.

I giovani si associarono per classi d’età o per interessi comuni: fra questi non era trascurabile quello di incontrarsi con le ragazze per conoscersi meglio, senza fomentare chiacchiere.

Allo scopo recuperarono vecchie case non più abitate, talvolta con pavimenti sconnessi o pareti scrostate, e ne fecero accoglienti luoghi di ritrovo e aggregazione.

Club Universal 1977

 

Queste associazioni prosperarono a Spongano mantenendo una sana laicità sia nei riguardi della Chiesa, sia nei riguardi delle Istituzioni e dei Partiti, che non significava rifiuto o rivolta nei loro confronti, ma solo sana voglia di sentirsi liberi e indipendenti. In ogni club c’erano militanti di destra, di centro e di sinistra, anche agguerriti, e ragazzi che della politica non si interessavano affatto, ma tutti convivevano senza problemi di sorta.

Il Club era un posto riservato, ma sapeva accogliere e questo lo si vedeva nella frequentazione di amici dei soci oppure, in estate, quando arrivavano dei ragazzi forestieri che trovavano nei club un punto di riferimento per incontrare amici nel breve periodo delle vacanze sponganesi: era così che nascevano amicizie care e solide.

In queste associazioni, i giovani, spesso minorenni, riuscivano con i propri risparmi a pagare l’affitto, a comprare uno stereo, i dischi, gli addobbi e le prime luci psichedeliche, aggiustate alla bell’e meglio dal componente del club più esperto o dall’amico che si interessava di elettronica.

Nei Club ci si autogestiva, si cresceva, si cercava una propria emancipazione per liberarsi dalla angusta realtà di un paesino, facendo insieme esperienze importanti. Si ascoltava soprattutto musica che spesso esprimeva emozioni e sensazioni meglio di tanti discorsi.

Anche l’approccio con l’altro sesso era facilitato (senza che venissero meno un essenziale rispetto e un sufficiente pudore), ma trovavano posto pure la discussione e il confronto fra pari, la responsabilità di tener fede agli impegni presi e di portare a termine un lavoro, nonché la possibilità di creare cose nuove spesso proposte alla comunità, vivacizzandone la vita routinaria.

In questo modo scaturirono momenti che portarono queste piccole comunità a uscire dalla monotonia di tutti i giorni e a esporsi al pubblico con attività come il teatro della Nuova Compagnia del Teatro Popolare o gli Scuola-quiz del Club Jolly o i Piccolo Festival del Club Royal o, ancora, la Corrida del Club Universal.

Ogni club cercava di organizzare eventi, spettacoli, iniziative, per esprimersi al meglio e per caratterizzarsi rispetto agli altri gruppi, ma anche per rimpinguare le casse del club stesso e trovare le risorse per i propri progetti (per quanto ci si inventasse anche alternative come per esempio una stagione di coltivazione di tabacco posta in atto dal club Jolly). Il fulcro di questi spettacoli era la Sala Parrocchiale, ma talvolta gli eventi erano accolti anche nel Cinema Italia di via Ariosto.

La spinta a realizzare questi eventi era sì un’esigenza economica, ma anche l’intenzione di trovare una propria peculiarità, cercando, magari, un approccio culturale che non fosse solo di semplice intrattenimento.

La Nuova Compagnia del Teatro Popolare, che aveva sede in una casa di via Chiesa, quasi all’angolo con la farmacia, scelse il teatro. Inizialmente propose una commedia, inventata dagli stessi componenti: U Furese, firmata da Claudio Casarano e Italo Stefanelli, ma realizzata con il contributo di tutti i componenti. Successivamente misero in scena altre rappresentazioni teatrali leggere, come U Requenzinu ‘nnamuratu, o drammatiche, come Una madre d’Italia e la Passione di Gesù.

La NCTP in una rappresentazione de U Furese con Claudio Casarano protagonista

 

Il Club Jolly, ubicato in via San Leonardo, si inventò gli “Scuola-quiz”, ispirandosi al famoso “Chissà chi lo sa” di Febo Conti. I ragazzi del club selezionarono delegazioni di classi della Scuola media per sottoporle a domande di cultura generale e scolastica, sfruttando anche la grande simpatia che il pubblico aveva per i quiz e la inevitabile competizione che si veniva a creare fra i concorrenti, solleticando pure la vanità dei genitori che accorrevano a fare il tifo per i loro piccoli campioni.

Il Club Royal, situato in via Giovanni XXIII, toccò lo stesso tasto, ammiccando alla sensibilità dei genitori, facendo gareggiare con canzoni dello zecchino d’oro, e non solo, piccoli cantanti in erba in eventi chiamati “Piccolo festival”.

Nessuno dei componenti del club allora suonava, ma si ingegnarono e coinvolsero Uccio Zippo con la sua chitarra (chi potrà dimenticare la mitica Apache!) e quella che allora si chiamava Musical Band, realizzando spettacoli sicuramente gradevoli e partecipati.

Le edizioni del “Piccolo Festival” potevano sembrare una cosa semplice da fare, ma richiedevano un’organizzazione non indifferente: occorreva reclutare i “mini cantanti”, vincendo la resistenza dei genitori, andare a prenderli per le prove e riportarli a casa, essendo essi piccoli, e tutto questo significava mostrare impegno e un adeguato senso di responsabilità.

La Corrida Sponganese

 

Il Club Universal, che aveva sede in un vicoletto di Via Chiesa, riunì per la maggior parte musicisti in erba che già si erano aggregati a formare la Musical Band e poi la Mini Orchestry per cui impostarono i loro eventi sulla musica.

Lo spettacolo più riuscito, che poi diventò una tradizione, fu laCorrida Sponganese”, che riscosse grande successo e portò alla ribalta personaggi di cui, all’epoca, i più ignoravano le qualità artistiche.

I concorrenti cantavano, suonavano, sfoggiavano una discreta, quando non ottima, abilità, ma talvolta alcuni competitori, se pure mostravano scarse doti tecniche o artistiche, ispiravano una simpatia e una verve comica ineguagliabili, suscitando curiosità e raccogliendo il plauso del pubblico.

Talvolta il concorrente riusciva ad aggregare una claque che travalicava gli angusti confini della famiglia. Ricordo ancora oggi lo straordinario numero di tifosi che accorse ad applaudire Vittorio Papa: familiari, colleghi di lavoro, simpatizzanti, portandolo, con il loro sostegno appassionato, alla vittoria finale.

Spesso questo tifo “popolare” poteva anche penalizzare chi era più bravo tecnicamente, ma non riusciva a captare la benevolenza del pubblico, come capita, ancora oggi, di vedere alla Corrida televisiva dove è il pubblico a decidere le sorti della gara.

Mini Orchestry a un Carnevalissimo

 

I componenti del club Universal che suonavano erano Nicola Paoli clarinettista e poi batterista, Raffaele Rizzello clarinettista e sassofonista, Giuseppe Guida Trombone, concertatore e curatore delle parti, Raffaele Corvaglia che suonava il flicorno soprano, Franco Marti che suonava la tromba e il sassofono soprano, e il sottoscritto, Giuseppe Corvaglia, che suonava il flauto traverso e il sassofono, per una breve stagione.

A questi si aggiungevano Carmelo Paiano e Vittorio Donadeo, più di una volta presentatori degli spettacoli proposti, Giacomino Picci e Luigino Rizzo, spesso protagonisti di esilaranti scketch, Walter Erriquez, risorsa per la soluzione di problemi tecnici ed elettrici, Pino Ragusa, esperto, per quella cerchia, di musica rock e assiduo lettore di “Ciao 2001”, Nino Giannuzzo, Vito Lazzari, Alfredo Rizzello, Giorgio Buffo, Salvatore Gambino, Giovanni Marti. Ognuno trovava il modo di essere utile, anche perché l’organizzazione di questi eventi non era solo quello che si vedeva sul palco, ma anche: predisporre le prove, cercare gli sponsor, provvedere alla stampa dei manifesti, trovare l’amplificazione, magari senza pagarla, spostare gli strumenti, interloquire con la SIAE, contrattare la gestione del teatro… la buona riuscita dell’evento era il risultato del gioco di tutta la squadra e questo valeva per tutti i Club e per tutti gli eventi.

Oltre alle varie Corride, il Club organizzò anche serate di intrattenimento in occasione del Carnevale (Carnevalissimo) sulla scia di uno spettacolo organizzato inizialmente dal Club Royal con il medesimo obiettivo: guadagnare creativamente soldini per il club.

Negli ultimi tempi, il complesso nostrano venne integrato da elementi esterni e poi subentrarono gli S.R.C. (Società Riunita in Concerto), un gruppo pop-rock di Marittima che ha curato le musiche delle ultime edizioni della Corrida sponganese.

Un’altra cosa che il Club Universal organizzò fu un torneo di Calcio (ripetuto per 3 o 4 anni) che però non riuscì a vincere mai, nonostante giocassero fra le sue fila giocatori di buona caratura, per la bravura di una squadra chiamata Imperador (praticamente un club senza sede), ma anche per le puntuali autoreti di un socio, che puntualmente infilzava il proprio portiere, ma poi si faceva perdonare con le splendide prestazioni da libero.

Un anno fu pure ingaggiato come “commissario tecnico” Salvatore Corvaglia, gloria del calcio locale, ma non ci fu niente da fare: l’Imperador, che ha rifornito di calciatori le squadre locali, era più forte, calcisticamente, si intende.

Ai Club citati è giusto aggiungere anche il Club Genesis sito in via Congregazione, che non si espresse con particolari eventi pubblici come gli altri club, ma mostrò una maggior apertura nella cerchia dei soci ivi comprese le ragazze che negli altri club erano di casa come frequentatrici, ma non come socie.

Ognuna di queste associazioni ha accolto tanti piccoli uomini vogliosi di crescere, di trovarsi, di sentirsi grandi, mostrando fantasia e creatività, capacità e operosità, impegno e senso di responsabilità, qualità che poi nella vita servono sempre.

Bei ricordi di una specie di Happy Days casareccia senza Fonzie.

 

Foto da raccolte di Raffaele Corvaglia, Felice Rizzello, Raffaele Rizzello

Spongano. Un presepe di anime e terre

Presepe di anime e terre. Un presepe vivo e attuale che parla, in silenzio, di anime all’anima

di Giuseppe Corvaglia

 

Il Presepe di Anime e Terre, inaugurato giovedì 20 dicembre e che potrà essere visitato fino al 13 gennaio 2019, è una mostra del fotografo Francesco Congedo, ospitata nella meravigliosa cornice dell’Ipogeo Bacile che mostra sempre più la sua duttilità e la sua capacità di accogliere arte in tutte le sue forme.

Le foto di Congedo ci mostrano un mondo di anime raccolte in questa cavità che, come grembo della madre terra, le accoglie come vita.

L’evento si giova delle atmosfere sonore di Giovanni Corvaglia, musicista elettronico, curatore pure dell’allestimento e della direzione artistica, che ci accompagnano come una sorta di tappeto volante, di cuscinetto che ci sospende in un mondo nuovo, sconosciuto, eppure assolutamente familiare, noto.

Il risultato è un presepe ideale che parla dello stupore che genera una nascita, che è vita, e di un mondo che è vita esso stesso. E la vita genera sempre stupore.

Il Presepe, che nasce come rievocazione della Natività e della Maternità, ci mostra un neonato e la sua Mamma, ma ci mostra anche tanti sprazzi di vita che comprendono attività quotidiane, emozioni significanti, rapporti e dinamiche sottese.

Nella Bethlem del Presepe si incontrano le figure più disparate, dagli abitanti ai mercanti e poi ancora pastori, Ebrei che arrivano per essere censiti, curiosi che vogliono vedere il Salvatore del mondo, come i Magi. E le foto di Congedo ci restituiscono con pregevole semplicità le più variegate ed eterogenee realtà del mondo di allora riunite attorno a quella stalla che ospita il neonato Redentore, con immagini di uomini e donne contemporanei a noi.

L’artista ci mostra una umanità con molteplici interpreti, diversi per etnia, classe sociale, costumi, pure bisognosa di salvezza, che non vuole dire ricchezza o consumismo, ma la ricchezza che serve davvero anche a noi: la pace, quella pace in terra agli uomini di buona volontà annunciata dall’angelo ai pastori.

Il centro della mostra ci presenta una madre bambina con il suo piccolo e due angeli, proprio come ce la descrive il Vangelo apocrifo quando arrivano i Re Magi a Bethlem. («… Nel vedere la stella, i magi si rallegrarono di grande gioia , ed entrati nella casa trovarono il bambino che sedeva in grembo alla madre… – Vangelo dello pseudo Matteo , Cap XVI, par. 1 e 2, “I vangeli apocrifi”, a cura di M.Craveri, Einaudi 1969).

Il presepe del mondo di Congedo è fatto di commercianti che propongono la loro mercanzia con un gesto o uno sguardo, da pastori seduti in cerchio attorno al fuoco, da comari affaccendate nelle loro incombenze quotidiane o colte in un attimo di sano ozio, da piccoli che resistono nel tipico stupore dei bambini pur avendo conosciuto anche i lati più truci e oscuri della vita.

Le immagini ci invitano ad un viaggio ideale tra l’Africa e l’Asia, ma al tempo stesso ci fanno scoprire un viaggio reale, quasi palpabile, che ci mostra una umanità vera e varia che può arricchirci se la sappiamo accogliere guardandola negli occhi e riconoscendo in quegli occhi l’anima, quella scintilla di divino che ci accomuna tutti. Farci prendere dalla paura dell’altro e chiuderci all’accoglienza, ci priva di quella ricchezza.

Il viaggio evocato dalle immagini ci arricchisce e ogni personaggio incontrato diventa parte di un mondo e cattura lo spettatore che, entrato quasi in comunione empatica col soggetto raffigurato, trova difficile staccarsi da quegli sguardi, da quei gesti, da quelle pose.

Queste fotografie, davvero evocative, sono un suggestivo presepe delle anime che, con le pregevoli musiche e l’ambiente che le accoglie, ci porta a meditare sul mistero della vita.

Di questi volti impressionano gli sguardi che il reporter ha saputo cogliere nella loro essenza, capaci di coinvolgerci, accusarci, accoglierci, respingerci, rapirci … Il percorso della mostra così delineato diventa un momento di conoscenza del mondo e dell’uomo, ma diventa anche un’ occasione per conoscere sé stessi.

Particolarmente interessanti sono le sculture luminose di Gabriele Pici che, con le loro forme ispirate alla natura e le loro lucine tremolanti, ci trasportano nella placida atmosfera tipica della notte di Natale e del presepe.

Una esperienza da gustare, da assaporare in ogni sua immagine visitandola, magari, anche più volte.

Il tabacco raccontato con garbo in un libro di Salvatore Colazzo

Spongano (ph Giuseppe Corvaglia)

 

di Giuseppe Corvaglia

Per uomini e donne della mia età l’infanzia e l’adolescenza, in estate, si riempivano di frutti della terra succulenti e saporiti: fichi, meloni, uva, angurie, cucummarazzi, pomodori, persichi , albicocche… c’era però un frutto che frutto non era, anche se ugualmente una risorsa importante per le non brillanti economie salentine: il tabacco.

Il tabacco nel nostro vissuto era amico, o almeno conoscente, tiranno, ma anche speranza (quanti motorini per gli adolescenti dipendevano dalla stagione), levatacce alle quattro di mattina e mani sporche di unto amarognolo che si puliva a fatica dalle pieghe della pelle. D’estate diventava cornice alla vita del paese. In ogni angolo c’erano talaretti con le file di tabacco infilato.

Per raccoglierlo al mattino bisognava alzarsi prestissimo e quando il sole saliva nel cielo, ci si sedeva per terra all’ombra delle limese e si trafiggevano le larghe foglie con le acuceddhre per fare le file da stendere al sole. Era davvero una compagnia discreta, uno di famiglia ormai, piacesse o no, da gestire, ma anche da coccolare, da proteggere da quattru nziddhri di pioggia fugace come dalla muntura della notte.

Contadine mettono a dimora le piantine di tabacco (ph Oronzo “Oro” Rizzello)

 

All’epoca non avremmo pensato che sarebbe scomparso dal Salento. Molte famiglie lo producevano e molte si spostavano nel Tavoliere delle Puglie o nel Metapontino per coltivarlo.

A quei tempi la sigaretta era un piacere, un sollievo facile da ottenere per gli adulti, e un modo per sentirsi grandi, una sottile ribellione per i ragazzi.

Anche gli attori fumavano nei film, come nei caroselli pubblicitari, i vecchi e il sigaro sembravano una cosa sola e inscindibile e le bionde sigarette erano anch’esse irrinunciabili.

Gli emigrati al ritorno per le feste portavano cioccolate per i piccoli e sigarette per i grandi. Dalla Francia le sigarette erano le famose Gauloise e dalla Svizzera le Marlboro e le Muratti della Philips Morris molto diffuse anche con il contrabbando.

A raccontarlo oggi non sembra neanche vero, direbbe Francesco De Gregori, invece oggi le sigarette non sono più uno status symbol, un segno distintivo di prestigio, di sicurezza, di classe, sono viste con sospetto: sono indice di vizio, provocano ictus, malformazioni neonatali, infarti, forse anche la “guerra atomica”. In realtà è ben noto come il tabacco crei dipendenza ed è ben noto come il fumo nuoccia alla salute specie quando finisce di essere piacere occasionale e diventa ossessione, vizio, perché, come dicevano gli antichi, “Bacco, Tabacco e Venere / riducon l’uomo in cenere”.

Oggi non si fuma più nei locali pubblici, non si fuma nemmeno nei parchi, ma nemmeno in casa o in macchina. Per fumare si esce sul balcone, ci si ferma alla piazzola di sosta… l’unico posto rimasto tradizionalmente “affumicato” è il bagno delle scuole. Anche l’ONU ha istituito la Giornata senza tabacco che si celebra il 31 maggio

Da alcuni anni Tabacco nel Salento non se ne coltiva più. Non perché lo vieti il monopolio, ma perché non ne vale più la pena.

Ogni tanto qualcuno ne parla con nostalgia dimenticando cosa significava lavorarlo, quali fatiche, quali impegni comportasse, ma a me è rimasta sempre la curiosità di saperne di più, di andare oltre le cose che avevo visto con i miei occhi di ragazzo. (sappiamo che curiosità deriva dal latino “cur”, perchè)

Molti di questi perché ce li spiega un libro davvero molto interessante “I tabacchi orientali del Salento- Quattro storie e loro dintorni.” (Giorgiani Editori – Novembre 2017- 157 pag. 10 €) di Salvatore Colazzo, un agronomo di Collepasso, che con passione racconta la storia del Tabacco, dalla sua scoperta nelle Americhe al Novecent,o con l’interessante ed efficace presentazione di Mario Toma, che inquadra il fenomeno del tabacco dal punto di vista sociologico.

Il libro non è il solito libro che parla degli aspetti della coltivazione, della vita che menavano i contadini, della fatica, dei disagi e delle oppressioni, ben noti ormai, ma ci apre un mondo e ci fa conoscere il tabacco come storia, come pianta, come fenomeno di costume ed evento economico delle nostre terre e del mercato mondiale, come oggetto di desiderio e bene voluttuario.

Colazzo ce ne parla come se raccontasse la storia di un vecchio amico e nel raccontarla ci svela tanti particolari, non solo della pianta in sé, o delle fasi di lavorazione, ma anche di come si sia diffusa dal sedicesimo secolo nel mondo, del perché sia stata apprezzata e si sia diffusa in tutte le classi sociali, di come sia stata una risorsa capace di affossare o rialzare l’economia e di come la stessa pianta sia stata adattata dalla botanica e dalla genetica ai gusti delle persone.

Ci racconta storie di politica incapace che cede le armi a imprenditori avidi vampiri e storie di imprenditori coraggiosi capaci di fare scelte ardite, sicuramente utili alle proprie sostanze, ma pure capaci, con produzioni innovative, di dare pane e guadagno anche alle classi contadine.

La prima storia che ci racconta è quella di questa pianta che arriva in Europa e inizialmente viene utilizzata solo a scopi medicinali da frati erboristi per poi diventare genere voluttuario o ridotto in polvere e fiutato, o avvolto in sigari e fumato o anche appositamente acconciato e masticato.

Del tabacco si apprezza il rude sapore, ma anche il tono che dà (la nicotina è un alcaloide stimolante il sistema nervoso centrale già noto per queste virtù agli indigeni americani che lo usavano per raggiungere una condizione di trance).

Poi ci parla del tabacco salentino e si scopre che non era quel tabacco dai nomi esotici che conosciamo, ma un tabacco che si chiamava Cattaro riccio o Brasile salentino che nemmeno si fumava, ma era buono per ottenere delle ottime e pregiate polveri da fiuto, prodotto che, passando di moda il gusto per le tabacchiere, con la diffusione delle sigarette, manderà in crisi tutta la tabacchicoltura salentina.

Colazzo è molto bravo a raccontare della diffusione sempre maggiore del tabacco in tutto il mondo, dell’evoluzione dei gusti con il sopravanzare della preferenza per il fumo all’uso di tabacchi dal gusto meno forte e più gradevoli . Quindi ci racconta della grande produzione degli Stati Uniti, ma anche del progressivo affermarsi dei tabacchi prodotti nell’area dei Balcani, chiamati turchi o orientali, tali da surclassare il tabacco americano che pure aveva creato il mercato del fumo, così da essere richiesti per migliorare le miscele degli stessi prodotti americani (il primo a miscelarli fu proprio l’americano Philip Morris).

Racconta anche di come lo Stato Italiano fece propria questa produzione avocando a sé la gestione, la produzione e la vendita, creando la Privativa di Stato per il Monopolio di Sali e Tabacchi.

Ci racconta pure, però , di come col tempo lo Stato mostrò di non saper gestire bene la cosa e di come scelse di affidare a una società di imprenditori privati, chiamata Regia Cointeressata (1869), la produzione del tabacco mantenendo il monopolio della distribuzione e della vendita.

I privati cercarono di rendere efficiente la produzione combattendo il contrabbando, che per gli agricoltori era un mezzo per arrotondare i miseri guadagni, ma, essendo loro a stabilire il prezzo e la qualità del raccolto, lucrarono sul prodotto pagando il tabacco ai contadini come di seconda classe per poi usarlo nelle miscele dei sigari come di prima classe.

Questo portò un guadagno effimero perché, in realtà, fece distogliere i contadini dal produrlo e ben presto quegli stessi mezzi che dovevano portare a una maggior efficienza e guadagno diventarono la ragione di perdite per gli imprenditori stessi della Regia Cointeressata e per lo Stato, che aveva il monopolio e doveva produrre il tabacco per fare i sigari. Non disponendo della materia prima, dovette importare il prodotto dall’estero a discapito della bilancia commerciale. Come dire che a voler solo guadagnare speculando si va a perdere tutto: insomma chi troppo vuole nulla stringe.

A questo punto il Colazzo ci racconta due cose anch’esse molto didascaliche: una racconta come lo Stato riprese in mano anche la produzione rilevandola dai privati allo scadere della concessione, e di come, questa volta, investì nella scienza e nella sperimentazione affidandosi ad esperti come Orazio Comes e Angeloni, esperti e botanici di rango, che cercarono di trovare qualità più adatte alla produzione nazionale e al gusto del mercato compatibili con il nostro clima e la nostra terra.

La seconda storia parla di un pioniere deciso e lungimirante il Principe Gallone.

Con la crisi della tabacchicoltura si cercò di trovare delle nuove strade per uscirne. La Camera di Commercio di Lecce fu autorizzata a sperimentare sulla produzione di tabacco, ma si fissò sulle vecchie specie locali, finché un imprenditore illuminato, il Principe di Tricase Giuseppe Gallone, Senatore del Regno, ottenne il permesso di sperimentare nella tabacchicoltura e, collaborando con imprenditori di Salonicco, importò e produsse alcune varietà di tabacchi levantini che nel nostro Salento attecchivano bene, tanto poi da diventare colture pregiate e consentire al Monopolio di non importare più del dovuto tabacchi pregiati dall’estero e rilanciare la produzione del tabacco nel Salento. All’epoca Salonicco era un porto da dove passava quasi tutta la produzione dei tabacchi pregiati orientali perché vicino alla Erzegovina alle città come Xanti e Saluk e lì si poteva imparare la coltivazione di quelle piante e procurarsi le sementi di quelle varietà.

Sen. Giuseppe Gallone Principe di Tricase e Moliterno

 

L’esperimento riuscì e varietà come Erzegovina, Xanti Yaca, Perustitza e Sallucco, diventarono di casa.

Nel libro si parla ancora di altri pionieri che per migliorare la produzione ibridarono specie americane, come il Kentucky con le specie salentine contro le opinioni comuni, qualche volta irridenti, poi smentite dai risultati.

La storia si ferma alla fine dell’800. Continuare avrebbe richiesto un altro libro e questo probabilmente accadrà in un’altra pubblicazione che Colazzo saprà regalarci.

 

http://www.salogentis.it/2013/06/17/tabacco-e-tabacchine/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/01/la-coltivazione-del-tabacco-da-fiuto-sun-di-spagna-nel-salento/

https://issuu.com/salvy/docs/i_suoni_del_tabacco/10

https://www.youtube.com/watch?v=7KV0Lir4gMI min.1-min 7

https://carmiano.wordpress.com/2017/05/30/il-tabacco-attivita-produttiva-del-secolo-scorso-a-carmiano/

 

Il Canzoniere Grecanico Salentino

Tutto arriva per chi sa aspettare. Il Canzoniere Grecanico Salentino a Loano al Festival Nazionale della Musica Tradizionale Italiana delle Rigenerazioni

 

di Giuseppe Corvaglia

Tutto arriva per chi sa aspettare, anche il Canzoniere Grecanico Salentino.

Da anni seguo il Festival Nazionale della musica tradizionale italiana e da anni mi aspettavo venisse a questa manifestazione un gruppo di rango della musica popolare salentina.

Quest’anno, il 26 luglio, nel festival dedicato alle RIGENERAZIONI, diretto da Jacopo Tomatis che, dopo 17 anni, riceve il testimone da John Vignola, ecco che partecipa il CGS che è proprio esempio di un gruppo “rigenerato” dalle nuove generazioni: Mauro, figlio di Daniele Durante, ed Emanuele, figlio di Roberto Licci, che hanno rinnovato il gruppo non solo anagraficamente, ma anche musicalmente.

A rendere questo evento particolarmente prezioso e unico è stata la presenza di Roberto Licci (Daniele Durante era assente perché impegnato a Melpignano come Direttore artistico della Notte della Taranta) non come reliquia, ma come parte del gruppo e in quel gruppo scatenato ed entusiasta il vecchio leone si è integrato a meraviglia.

Il pezzo forte era il concerto serale che, opportunamente, è stato spostato in Piazza Italia dal Giardino del Principe, dove tanti spettatori possono stare comodamente seduti, ma non è propriamente adatto per un concerto di musica popolare salentina dove una buona parte di canti, che sono Pizziche, ti induce naturalmente alla danza, nel Salento direbbero ”te scazzica”, ed è una esperienza che se non la danzi, godi solo a metà.

Tuttavia, per gli estimatori, un momento particolarmente interessante è stato l’incontro delle 18,30 sotto le palme dei Giardini Nassiriya dove il giornalista Ciro De Rosa ha condotto protagonisti vecchi e nuovi nel racconto di una vicenda artistica e umana complessa che dura dal 1975, ma è davvero degna di essere conosciuta.

 

Ciro De Rosa,Roberto Licci, Mauro Durante ed Emanuele Licci ai Giardini Nassiriya

Con Roberto Licci si sono ripercorsi gli inizi quando il Nuovo Canzoniere del Salento sente di aver esaurito la propria spinta propulsiva e con Luigi Chiriatti invita alcuni giovani di Calimera, fra cui lo stesso Licci, e nasce il Canzoniere Grecanico Salentino sotto la guida ed anima vera del gruppo: Rina Durante.

Rina Durante

 

È il 1975 tutto quello che accade nella società è permeato di politica. C’è un’attenzione diversa alla cultura ed in particolare alla cultura popolare. Alcune avanguardie culturali riscoprono e recuperano la cultura e le tradizioni popolari e questo recupero passa attraverso una consapevolezza politica tesa a dare dignità ad una cultura considerata fino a quel momento subalterna rispetto alla cultura ufficiale.

Negli anni 50 e 60 un antropologo di rango come Ernesto De Martino, lavorando in equipe con una squadra di esperti, aveva esplorato il fenomeno del tarantismo per affermare che la ragione del disagio e della sofferenza non stava nel morso di un ragnetto o di uno scorpione, quanto nel disagio sociale delle tarantate che in quella esibizione trovavano sollievo e liberazione, seppure temporanea.

Rina Durante, intellettuale a tutto tondo e una delle avanguardie citate, capisce che la musica e i canti popolari sono stati e possono essere un veicolo formidabile per la diffusione di una cultura popolare, di una letteratura e di una poesia, di una arte e di una filosofia, di una saggezza e di un modo di raccontare la storia del popolo che fino a quel momento erano considerate subalterne ma che subalterne non lo erano affatto perché avevano una loro dignità.

Questo ha voluto dire Roberto Licci quando nell’intervista con De Rosa, ha parlato di connotazione politica dei concerti del CGS e il concetto lo si ritrova espresso con chiarezza proprio da Rina Durante in una intervista del 1979, quando dice che il recupero della tradizione e della cultura popolare in quegli anni passava attraverso una presa di coscienza politica.

(https://www.youtube.com/watch?v=SYq8aVceT3Y Canzoniere Grecanico Salentino dal minuto 22; dal minuto 29 intervista a Rina durante; dal minuto 31 una parte di Quannnu Diu fice lu munnu[1] interessante esempio di autoironia dei contadini).

 

Il CGS in Quannu Diu fice lu munnu Da un documentario RAI

 

Sono gli anni del boom economico, dell’alfabetizzazione di massa. La gente che aveva migliorato le sue condizioni spesso cercava di nascondere le proprie origini, radicate nella cultura contadina, quelle origini che ricordavano povertà, stenti e soprusi; voleva sposare il modello del benessere, del progresso, della cultura ufficiale, quello che noi oggi sappiamo essere il consumismo.

Questa realtà la scopriva bene chi si cimentava nella ricerca popolare, che spesso trovava la gente restia a parlare dei tempi andati, ma poteva pure accadere, come riporta efficacemente Roberto Licci, che il pubblico nei concerti prendesse a nocciole e mandorle i cantanti perché non cantavano Yuppi duh, canzone in voga all’epoca, e cantavano “Damme nu ricciu de li toi capelli”.

Pur tuttavia una buona parte della gente voleva riscoprire la cultura delle origini, fatta di canti e componimenti ironici ed autoironici, che strizzavano l’occhio al doppio senso, pieni di una semplice, ma gustosa allegria. Spesso questi canti erano resi più gradevoli con rifacimenti molto simili al liscio e ai ballabili. Non che il risultato fosse disprezzabile, ma se l’intento era quello di prendere coscienza della propria condizione non ci si poteva fermare all’intrattenimento.

Prendiamo per esempio, un canto popolare, riproposto sia da un noto cantante folk come Luigi Paoli (Catarineddhra ncatinata [2]), sia dal CGS (la Ceserina [3]) sono lo stesso canto in origine che parla di due innamorati in catene, ma per il Paoli le catene portata in petto da Caterina e ai polsi dall’innamorato sono catene d’amore; nella Ceserina del CGS la catena sul petto di Ceserina è d’amore, ma le catene dell’innamorato legano i suoi polsi perché lui va in prigione, lontano dalla sua bella e dalla sua vita, tradito da una infame carogna. Il canto è lo stesso, ma mentre Paoli lo edulcora in un canto d’amore il CGS lo ripropone nella sua crudezza che parla di lotte contadine, di repressione, di infamie e di prigione. Particolarmente toccante è il voto che fa il malcapitato: se il governo cambierà girerò tutto il mondo a piedi. (https://www.youtube.com/watch?v=NZ5oLsjzscA Roberto Licci con i Ghetonia)

Licci nel sottolineare la valenza politica e non solo musicale del CGS riporta a un concetto espresso bene da Rina Durante nell’intervista già citata, dove viene spiegato come il gruppo, oltre a riproporre canti popolari nei suoi spettacoli, stimolava in diversi paesi la ricerca della cultura popolare da parte di giovani.

Occorre dire che se il Canzoniere nasce dall’intuizione di Rina Durante, deve però la sua fama a un impianto vocale bellissimo dato dalle voci di Bucci Caldarulo, di Roberto Licci e di Luigi Chiriatti e Rossella Pinto, e deve pure molto al genio musicale di Daniele Durante.

Il CGS negli anni 70: da sinistra B. Caldarulo, R. Licci, D. Durante, R. Pinto, L. Chiriatti (Foto dal web www.stornellisalentini.com)

 

Con lui anche le canzoni popolari, spesso raccolte come prodotti essenziali, acquisiscono una gradevole eleganza. Licci ricorda come qualche purista criticasse l’impianto musicale di Daniele perché a loro dire, usava la chitarra come un clavicembalo. Non credo che questo potesse essere un male, invece a volte la riproposta filologica può anche non essere un bene, specie se interpretata con rigidità.

Oggi il Canzoniere Grecanico Salentino è davvero rigenerato, lo spirito si è adeguato ai tempi, i suoi componenti sono capaci di padroneggiare il nuovo, le opportunità che la tecnologia, il progresso e il mondo offrono; è apprezzato sui palchi dei principali festival di tutto il mondo, dal WOMAD allo Sziget al SXSW Music Festival in Texas, ma sembra ancora attento ai principi che hanno ispirato il gruppo delle origini.

Una cosa straordinaria è che l’artefice di questa rigenerazione, Mauro Durante, che nel 2007 ha ereditato dal padre la conduzione del gruppo, ha saputo coinvolgere l’altro erede, Emanuele Licci e altri valenti musicisti creando un gruppo coeso, sinergico, capace di trasmettere entusiasmo con una musica gradevole, stimolante e coinvolgente.

L’impianto vocale, che era il punto di forza del primo CGS, è ancora il pilastro del gruppo attuale che sull’amalgama delle voci, crea la sua sonorità impreziosendola con strumenti vari che rendono i canti più musicali. Anche le contaminazioni si sposano con la musica tradizionale senza snaturarla anzi arricchendola gradevolmente.

Il Canzoniere Grecanico Salentino da sinistra Emanuele Licci, Alessia Tondo, M. Morabito, G. Paglialunga, Mauro Durante, G. Bianco, Silvia Perrone

 

Così se la magica mistura vocale, adorna della musica degli strumenti, si associa a una energia potente, nessuno riesce a rimanere indifferente e anche chi non si lancia nel vortice delle danze, non può fare a meno di scandire il ritmo con il piede o con il battito delle mani.

I canti non sono più quelli del passato CGS e questa “rigenerazione” si dichiara già con la copertina del CD in una bottiglia di Coca cola usata per conservare la salsa di pomodoro dove la salsa è il segno di un sapere antico, comune a tutte le famiglie, e la Coca cola è il segno della globalizzazione, e questo rinnovamento lo si trova nella produzione del gruppo degli ultimi anni. La musica del nuovo CGS contiene i germi della musica popolare tradizionale, ma si apre a nuove contaminazioni e a nuovi esperimenti, come nel caso di “Taranta” scritta con Ludovico Einaudi (https://www.youtube.com/watch?v=4cG6pbwx_dw ) o di altri brani che nascono dalla collaborazione con musicisti di tutto il mondo.

Il messaggio è inequivocabile e non parla di omologazione, ma dice che si può andare nel mondo con le proprie gambe e le proprie proposte musicali mantenendo le proprie radici che sono parte integrante della propria identità.

Copertina del CD Canzoniere

 

Un’altra nota di attualità nella tradizione ce l’ha spiegata Mauro Durante con un interessante paragone sulla terapeuticità della pizzica. Nei tempi andati, infatti la terapia si basava su diversi elementi: la musica, i colori, l’acqua (ricordiamo per chi non lo sappia che uno dei passaggi fondamentali della terapia era la visita alla chiesa sconsacrata di San Paolo a Galatina dove i tarantati bevevano un’acqua da un pozzo che era solfurea e li faceva vomitare liberandoli e guarendoli, secondo la credenza, per l’intervento del Santo), ma il percorso terapeutico, guidato dai musici che stimolavano la danza liberatrice, era osservato e sostenuto da tutta la comunità che, discretamente, partecipava emotivamente a quella sofferenza interiore che si manifestava con l’abbandono e l’apatia e per guarire diventava sforzo fisico spossante, obbligato, estenuante e anche umiliante.

Oggi le sofferenze della psiche non mancano, si esprimono diversamente, e la musica coinvolgente, come la pizzica, unisce e può essere una sorta di terapia di gruppo dinamica che con la danza unisce e può curare tante umanità diverse.

Roberto Licci e Mauro Durante ai Giardini Nassiriya (foto G. Corvaglia)

 

Così se il pomeriggio ha offerto un racconto di un quarantennale percorso articolato, fatto di successi, di fatica, di addii e di ritrovamenti, ma soprattutto di musica e di sapienza antica, non è mancata la musica con alcuni brani del repertorio classico, grico con “Aremu rindineddhra”[4] , canto struggente dove un uomo lontano chiede alla rondine che viaggia per il mondo di raccontargli qualcosa della sua terra, che sicuramente avrà visitato, dei suoi genitori, dei suoi amici, e “Damme nu ricciu”, in dialetto salentino, cantato nonostante i tempi stringenti per fare il check dello spettacolo. Dono migliore non ci poteva essere, per chi era andato ai Giardini Nassiriya, di questa canzone d’amore dove l’innamorato chiede alla donna un riccio dei suoi capelli che lo fanno innamorare e che quando si muovono baluginano come il riflesso dell’ oro e poi le chiede la mano sotto una pianta di vite per restare uniti fino alla morte come due uccelli. (qui nella versione dei Ghetonia https://www.youtube.com/watch?v=W-xdpFGS1Mg o nella versione di Antonio Amato https://www.youtube.com/watch?v=0unR40RLjEs )

 

Si è parlato poi di Grecìa Salentina, isola linguistica, dove il griko va scomparendo perdendosene la pratica linguistica sia perché le nuove generazioni non lo parlano, sia perché il continuo rapporto con persone di comunità vicine obbliga all’uso dell’Italiano o del dialetto salentino.

Emanuele Licci ha raccontato di come gli unici posti dove si possa ancora sentire il griko siano le sale d’attesa degli ambulatori medici, frequentati da anziani che ancora parlano il griko quando si relazionano fra di loro.

La sera in piazza Italia c’ era attesa e, invero, non è stata delusa.

Le voci di Mauro Durante, di Alessia Tondo ed Emanuele Licci, i preziosi inserti musicali di Giulio Bianco, zampogna, armonica, basso, flauti e fiati popolari, e di Massimiliano Morabito all’organetto diatonico , le movenze eleganti di Silvia Perrone e la coinvolgente energia di Giancarlo Paglialunga con la sua voce e il suo “tamburieddhu”, hanno subito scaldato la piazza e anche l’evento particolare di questa serata, la partecipazione di Roberto Licci, è stata una bellissima e preziosa parte del concerto.

In questo gruppo, insolitamente rinnovato con l’antico, non si percepiva differenza generazionale e i brani non erano solo gradevoli e coinvolgenti, ma sembravano dire noi siamo questa storia che ora state ascoltando.

Molto significativa la riproposta della “Quistione meridionale”, canto memorabile scritto da Rina Durante con la musica di Daniele Durante, che con molta ironia racconta di come il dibattito sulla questione meridionale non abbia mai portato niente di buono alla gente, ma ha portato sicuramente benefici a chi ci ha speculato e ci specula sopra. (https://www.youtube.com/watch?v=eUNlnFe-rxA )

È una canzone bella ed evocativa per i termini che usa e le immagini che sceglie. Per esempio parlando delle lotte contadine non parla della violenza fisica sui corpi dei contadini, pure molto sentita, ma di una violenza ancora più feroce, come distruggere le biciclette dei braccianti, che non è solo un danno economico, ma un umiliazione perché distrugge un bene che aveva portato benessere e aveva fatto progredire. Un po’ come dire: «Straccione, torna a camminare a piedi», come quando i padroni per punizione sequestravano ai contadini la cintura: non era solo un castigo, un danno, ma una umiliazione.

Insomma una bella serata e un concerto da ricordare che ha saputo coinvolgere il pubblico toccandolo nelle corde dell’intimo, portando gioia per una musica che, uscita dai confini del Salento, diventa sempre più apprezzata grazie anche al lavoro di questo Canzoniere Grecanico Salentino.

 

Nota dell’autore

Per chi vuole inquadrare meglio la storia del Canzoniere Grecanico Salentino consiglio la lettura:

–         dell’articolo di Luigi Chiriatti su Blogfolk Le Ricerche Sulla Musica Tradizionale In Salento – Dalla ricerca come memoria alla ricerca come affermazione del sé  http://www.blogfoolk.com/2013/05/le-ricerche-sulla-musica-tradizionale.html

 

Note al testo

[1] Quannu Diu fice lu munnu è una gustosa rielaborazione di una canzone popolare sceneggiata dal CGS che racconta la creazione immaginaria dove Dio chiama le sue creature per elargire un dono. I preti si prendono mangiare e cantare. I monaci dicono pazienza e il Creatore darà loro pazienza. Gli imbroglioni non potendo avere Mangiare e Cantare né pazienza chiedono almeno le trappole per gli stupidi, gli imbrogli e Dio glieli concede, ma quando arrivano i contadini non resta niente e uno di loro sfugge la frase quasi sempre detta dai nostri padri, il “fazza Diu” che esprime rassegnazione verso le disgrazie e le avversità. Iddio li accontenta e letteralmente fa lui mandandoli a zappare.

 

[2] Catarineddhra ncatinata di Luigi Paoli

O Caterina mia Caterina Cara/ mmienzu allu piettu tou nc’è na catina./

Se tie la porti an piettu, ieu la portu a manu/ e tutti doi ncatenati stamu.

Amore amore crida mò la nuceddhra/ se nu la cazzi nu se pote manciare./

Ieu la cazzai e truvai na carusa beddhra/ de nome se chiamava Catarineddhra.

 

[3] La Ceserina versione del Canzoniere Grecanico Salentino riproposta da Ghetonia

Scinnu de le muntagne caddhripuline/ no sacciu se la trou la Ceserina./

Oh Ceserina mia Ceserina Cara/ mmienzu allu pettu tou nc’è na catena/

Se tie la porti am piettu ieu la portu a manu/ e tutti ddoi ncatinati stamu./

O giudice ci puerti la pinna a manu/ no me la fare longa la mia cundanna/

Ca no aggiu ccisu e mancu aggiu rrubbatu/ pe na nfame carogna stau carciratu/

Ca ci ole Diu cu cancia stu cuvernu/ la terra la caminu parmu parmu

O Ceserina mia, Ceserina cara / le carceri de Lecce no le sapia

Le carceri de Lecce no le sapia/ me l’aje fatte mparare Cesarina mia

Le carceri de Lecce su cruci cruci/ de lu luntanu passane l’amici.

 

[4] Aremu Rindineddha Traduzione in Italiano

Chissà mia rondinella/ da dove stai arrivando/quale mare hai attraversato/con questo bel tempo.

Bianco hai il petto/ nere hai le ali/ il dorso color del mare/e la coda in due hai divisa.

Seduto vicino al mare/ io ti guardo/ un po’ ti levi, un po’ ti abbassi/ un po’ sfiori l’acqua.

Chissà quali paesi/ quali luoghi hai attraversato/ dove hai costruito/ il nido tuo.

Se avessi saputo che passavi/ vicino alla mia terra / quante cose / ti chiederei di dirmi.

Ma tu nulla mi dici /per quanto io ti domandi/ un poco ti levi, un po’ ti cali/ un po’ sfiori l’acqua.

Ti domanderei di mia madre/ che è tanto amata/ che è da tanto che mi aspetta/che io giunga per vedermi.

Ti domanderei di mio padre/ di tutto il vicinato,/ e, avessi la parola,/ quante cose avresti da dirmi.

Ma tu niente mi dici/ per quanto io ti domandi,/ un po’ ti levi, un po’ ti cali/ un po’ sfiori l’acqua.

Le bande musicali, vanto delle feste del Salento, da riscoprire ed amare

festa patronale

di Giuseppe Corvaglia

 

La banda musicale è sicuramente un bene prezioso della nostra cultura popolare.

In Puglia se ne contano centinaia e il fenomeno si diffonde sempre di più in tutto il Sud, ma direi in tutta Italia e nel mondo.

La banda da noi ha contribuito a diffondere la musica colta, ha allietato momenti di festa, ha evocato sentimenti di sincera devozione nelle feste patronali e accompagnato nell’ultimo viaggio tanti salentini. E’ stata ed è risorsa economica, ma è soprattutto gioia, calore che scalda il cuore, emozione e molto altro.

La Banda più antica d’Italia è quella di Pietra Ligure fondata l’8 luglio di 500 anni fa dal parroco dell’epoca, per accompagnare le funzioni religiose, ma ancora oggi continua con entusiasmo la sua opera e con lei le centinaia di bande in tutta la nostra penisola che rallegrano i momenti di festa e sottolineano i momenti più solenni delle comunità.

In Puglia fin dal 1800 ne sono sorte di eccellenti e proprio verso la fine di quel secolo le bande, grazie all’opera di Alessandro Vessella maestro della Banda di Roma, pur mantenendo un assetto militaresco, si dotarono di un organico capace di proporre musica colta, sinfonica o operistica creando una tradizione che perdura.

Città come Squinzano, Ceglie Messapica, Conversano, Trani, Francavilla Fontana, Lecce stessa, devono parte della loro notorietà a complessi bandistici che ne hanno onorato il nome e anche Spongano, come tanti paesini, in diverse epoche ha aspirato a dar vita a una banda. Oggi città nuove presentano con orgoglio le loro banda e non solo in Puglia. Mi riferisco al Concerto città di Ailano del maestro Samalek premiata di recente al prestigioso 33° raduno bandistico di Ferrandina, ma anche alla banda di Racale, di Sogliano Cavour, che quest’anno allieteranno le giornate di festa a Spongano, alla Banda di Scorrano, guidata dal Maestro Daniele De Pascali e dedicata all’indimenticato capobanda Panarese, o al Concerto di fiati condotto dal Maestro Tarantino o alla banda di Monteroni fondata dall’amico Giuseppe Guida, alla Banda verde di Nardò e tante e tante ancora.

Da sempre le bande sono inquadrate come un piccolo drappello, suonano a passo di marcia che diventa il mezzo per spostarsi, ma anche il modo per scandire il tempo della musica. Tuttavia una volta sulla cassarmonica, sono capaci di proporre pagine immortali della musica mondiale come sinfonie, fantasie d’opera, brani resi noti dalla cinematografia e molto altro fino addirittura alla clownerie senza per questo perderne in dignità, anzi guadagnando in simpatia.

Anche i gusti si sono affinati nel tempo e dall’esecuzione di marce militari si è passati a marce sinfoniche gradevoli e complesse che se non possono considerarsi musica colta, ma a questa si avvicinano molto con risultati gradevoli e coinvolgenti.

La verità è che la Banda appassiona, coinvolge, emoziona, unisce l’intero paese in una sorta di sacralità collettiva, arriva ovunque e non ha bisogno di un teatro: la scena la crea con la sua musica.

Ricordo da “bandista” il giro del paese quando tutti si affacciavano a vedere la banda, dalle massaie intente ad allestire il pranzo della festa, ai ragazzi assonnati, agli uomini in canottiera che si preparavano per uscire in piazza per il matinée, ma ricordo anche le frotte di bimbi che andavano dietro alla musica come un contorno gioioso, così come ricordo, nei paesi rurali della Basilicata o della Calabria, che piccoli drappelli di musicisti arrivavano fin nelle case più lontane o poste in luoghi impervi, perché la musica era la festa che doveva arrivare a tutti.

Nella nostra regione, ma in tutto il centro-sud d’Italia, la banda è stata ed è ancora il centro della festa di comunità con il suo repertorio classico che dà prestigio alla festa, con il suo accompagnamento che dà solennità alle funzioni religiose, con la gioia che evocano le sue marcette allegre.

Quando di buon mattino la si sente per vie del paese, preceduta dalle tradizionali salve di “carcasse” si comprende che la festa è iniziata e quando la sera allieta la festa, con le luminarie incornicia il piacere di trovarsi, di godersi di vivere il momento che si aspetta da un anno.

Oggi, però, la banda, regina della festa, ha perso smalto. L’accensione programmata delle luminarie, molto simile a una discoteca o a uno spettacolo da parco-giochi, insidiano il primato della banda nelle nostre feste comunitarie.

Eppure le bande di oggi non sono quei complessi di un tempo quando “i musicanti” erano artigiani, barbieri, calzolai, sarti, falegnami che durante il giorno lavoravano nelle loro botteghe e alternavano il loro mestiere a quello di musicante nella banda, con lo scopo di arrotondare il proprio piccolo guadagno, e se non suonavano proprio ad orecchio, poco ci mancava. Oggi la maggior parte dei bandisti sono musicisti che hanno studiato e spesso hanno conseguito un diploma presso il Conservatorio, la qualità e la complessità dei repertori è molto migliorata e anche la tecnica e la qualità degli strumenti è al passo coi tempi.

Probabilmente la scarsa conoscenza delle opere, ritenute musica obsoleta, e, forse, anche la difficoltà ad adeguare il repertorio a gusti più moderni, mettono in crisi questa istituzione.

Anche le risorse a lei dedicate vengono limitate perché il grosso dei soldi raccolti viene dirottato su altri spettacoli, dalle già citate luminarie, ai concerti di cantanti noti e così via.

Nonostante questo le sedie davanti alla cassarmonica, dove si siedono estimatori, gli appassionati e gente genuinamente interessata ad ascoltare quella musica, sono sempre occupate.

L’Associazione Panara Antica, in collaborazione col Comune di Spongano e in particolare con l’Assessorato alla cultura, vuole proporre un percorso didascalico ma anche formativo dal titolo “Tutti pacci pe la Banna” per affinare le competenze degli appassionati della banda per farli diventare un estimatore vero e proprio capace di acquisire gli strumenti per apprezzare le bande e, magari, a riconoscerne i pregi e i difetti.

Il percorso è un modo per riappropriarsi di un bene prezioso della nostra cultura, una magia che scalda il cuore, che emoziona, che fa sognare.

L’evento vuole essere un contributo per stimolare l’interesse della gente non solo per la musica popolare, ma per la bellezza in generale perché, come diceva Peppino Impastato, “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà …. perché è necessario che in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore (Peppino Impastato)“. E proprio con la bellezza possiamo salvarci.

E’ un opera che si deve fare in tanti campi, dalla letteratura, alla storia, alla musica, all’arte, noi oggi ci proviamo con la banda.

Oggi, infatti, la banda tende ad essere svalutata ma è davvero superata o chi la giudica tale non la apprezza perché ne ignora la bellezza e l’importanza? Ecco quindi che spiegare, informare proporre significa dare alla gente gli strumenti per capire e poi decidere se buttare questo bene o valorizzarlo.

Fare il corso, come lo abbiamo ideato, in estate non sarebbe possibile, per cui abbiamo pensato di presentare l’iniziativa in una amena serata estiva per poi proporre il corso che si articolerà durante l’anno cercando di invogliare la gente a iscriversi.

Il 5 agosto alle 21,30 Giuseppe Corvaglia e il Maestro Giuseppe Guida parleranno della banda vissuta e delle esperienze fatte con essa, proponendo una guida all’ascolto di marce sinfoniche: il primo commentando Ligonziana, in una visione della banda più romantica, il secondo proponendo una guida all’ascolto più tecnica di una marcia classica , A Tubo. Salvatore Rizzello, poi, parlerà della banda amata e apprezzata parlando delle fantasie d’opera, prendendo spunto da Boheme di Giacomo Puccini

In chiusura Mirella Corvaglia leggerà alcune storie di banda scritte da Giuseppe Corvaglia e una piccola orchestrina, allieterà la serata cercando di ricreare atmosfere caratteristiche.

Lo abbiamo chiamato corso, ma in realtà è un percorso didascalico che speriamo sia di stimolo e riesca a fornire gli strumenti per apprezzare le bande e, magari, a riconoscerne i pregi e i difetti.

Come già detto, si articolerà per tutto l’anno, con incontri dove si proporranno guide all’ascolto delle opere più note con ascolto di brani da fantasie d’opera proposti dalla banda e la visione dell’opera presentata o serate a tema su argomenti più tecnici.

Questi incontri saranno registrati e proposti anche su un canale youtube che si chiama Tutti pacci pe la banna e che potrebbe giovarsi di contributi importanti.

Informazioni e adesioni potranno essere indirizzate via mail a tuttipaccipelabanna@gmail.com .

Il calendario degli incontri verrà comunicato via mail o attraverso i social.

I frantoi e i luoghi dell’olio a Spongano

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

trappitu ipogeo “maniju”, Spongano, via S. Leonardo

 

G. Corvaglia, B. Pedone, R.C. Rizzo, G. Tarantino, I frantoi e i luoghi dell’olio a Spongano

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 369-377

 

ITALIANO

Questo studio, frutto di un’approfondita ricerca su fonti scritte e testimonianze orali, analizza la centralità dell’olio e dei suoi derivati nella storia di una piccola comunità del basso Salento, quella di Spongano. Partendo dalle prime testimonianze cinquecentesche, passando attraverso i catasti di fine Seicento e del Settecento e approdando infine al Novecento con le memorie degli ultimi frantoiani ancora in vita, gli autori esaminano le influenze, non solo economiche, ma anche culturali e sociali, avute sulla comunità sponganese dai frantoi e più in generale dalle molteplici attività legate all’olio e agli altri prodotti della molitura.

 

ENGLISH

This study, fruit of a close examination on written sources and oral testimonies, analyses the centrality of the olive oil and its by-products in the history of Spongano, a small community in the south of Salento. Beginning from the first sixteenth-century testimonies going through the end of the seventeenth century and the eighteenth century and coming finally to thetwentieth century with the last living oil pressers’ memories, the authors examine not only the economic, but also the cultural and social influences made on the Spongano community by the oil-presses and by the numerous activities connected with the oil and the other oil-press’s products.

 

Keyword

Giuseppe Corvaglia, Bruno Pedone, Rocco C. Rizzo, Giorgio Tarantino, Spongano, frantoi, olio

Le Panare di Spongano

ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia

 

Le Panare di Spongano 2017: il tempo passa e la festa cambia pelle   

di Giuseppe Corvaglia

Le Panare sono una festa dei frantoi di Spongano che, come festa dei frantoi, ha rischiato di scomparire ma che, diventando festa di tutta la comunità, è rifiorita da circa mezzo secolo e oggi è un evento.

Le panare sono ceste di canne tagliate a listarelle e intrecciate a una struttura di polloni di ulivo che servivano a trasportare tante cose, ma che, per l’occasione, i frantoiani riempivano di sansa con una modalità particolare tale da consentire di porre al centro della panara il fuoco.

La festa è stata sempre una gioia della comunità, anche se in origine gli unici che facevano le Panare erano i frantoi: tanti frantoi tante Panare.

E a Spongano di frantoi ce n’erano tanti, come si evince da una ricerca di prossima pubblicazione sul Delfino e la Mezzaluna, ma anche quando le panare le facevano solo i frantoiani era sempre una festa della comunità, sia perché molte famiglie del paese avevano frantoiani che in quel giorno uscivano dalla “nave”, che era il frantoio, e potevano godere della loro presenza, sia perché la maggior parte della popolazione era parte del processo di produzione dell’olio, dalle olive al frantoio.

I frantoi erano tanti e chi non lavorava nei frantoi lavorava negli uliveti per la raccolta dei frutti. Poi c’erano i “ccatta e binni”, mediatori che compravano e vendevano olive per consentire a chi non ne avesse abbastanza per una molitura di realizzare in soldi il raccolto o di completare la quantità di frutti per fare una “vascata” (4 tomoli o 160 Kg di ulive). C’era chi raccoglieva la morchia, residuo dell’olio, per rivenderla ai saponai; c’era chi nelle Saponiere ci lavorava e c’erano le famiglie che vivevano dei proventi di tutti questi lavori.

ph Antonio Chiarello (2006)
ph Antonio Chiarello (2006)

 

La festa poi consentiva per quel giorno di ascoltare musica, ballare, cantare, stare in compagnia e in allegria, sfidando il freddo e il buio dell’inverno.

Nei tempi andati oltre alle fiammelle delle Panare si allestiva anche un falò che scaldava la piazza e consentiva ai paesani di portare a casa, in recipienti di metallo o terracotta, della brace, partecipando a quel fuoco comune che rinsaldava i legami comunitari.

Intanto, tra le note dei musicanti e i balli dei giovani, le Panare si consumavano lentamente, sotto la sorveglianza dei frantoiani che “governavano” il fuoco facendolo durare anche fino al giorno dopo.

ph Adriano Rizzello (1983)
ph Adriano Rizzello (1983)

 

Circa quarant’anni fa ci fu la prima vera rivoluzione: un gruppo di amici realizzarono la prima Panara che non partiva da un frantoio. Era gente che nei frantoi aveva lavorato e sapeva cosa erano e come si realizzassero le Panare, le quali, con l’avvento di nuove tecnologie, diventarono più rare, come accadeva per i frantoi.

Da quel momento la panara fatta al di fuori dei frantoi fu sdoganata e paesani, gruppi di amici, famiglie, associazioni, si sono cimentate a creare la lpropria Panara, ognuno mantenendo la struttura tradizionale e addobbandola come meglio sapeva e poteva. La tradizione vuole che gli ornamenti siano combustibili, perché la panara deve consumarsi lentamente, ma deve anche bruciare completamente.

L’aumentato numero delle Panare è una bella cosa, ma porta, talvolta, a qualche inconveniente specie quando la gestione della fiamma non è adeguata: infatti se si alza troppo deve essere domata con pezzuole bagnate di acqua e se tende ad affievolirsi con pezzuole bagnate di un combustibile lento, come olio o nafta. La benzina potrebbe avvampare tutto e l’acqua sulla sansa che arde provoca un fumo denso e fastidioso. Oggi non è che l’esperienza dei conduttori delle panare sia aumentata, ma ognuno si attrezza perché nel centro della panara, al posto dello spurtiddhru, con il fuoco vivo ci siano i più sicuri lumini o lanterne che mostrano la fiamma, certamente meno rischiosi.

Dalle poche Panare di un tempo oggi se ne contano fino a 40 o 50, e qualche anno di più, disposte in uno scenografico serpentone colorato e vivace che si forma a partire dalla Casa Cranne, il Palazzo Bacile, da dove è sempre partito il corteo.

ph Antonio Chiarello
ph Antonio Chiarello

 

Nel primo pomeriggio la banda parte dalla piazza e va al citato Palazzo, dove prende la prima delle Panare e da lì andrà a prendere tutte le altre, secondo un percorso stabilito dal Comitato dei festeggiamenti e dalla Polizia Municipale.

In passato la banda raccoglieva tutte le Panare e i frantoiani pretendevano che ognuna di esse fosse accolta nel corteo con una marcetta e tutti gli onori. La bandicella che le aveva accompagnate si rifocillava alla fine del percorso nel Palazzo baronale con stuzzichini e l’ottimo vino di casa Bacile; oggi imprenditori o privati cittadini generosi apprestano dei piccoli rinfreschi in itinere.

ph Giuseppe Corvaglia (2003)
ph Giuseppe Corvaglia (2003)

Se quarant’anni fa la gestione dell’evento era possibile con due membri del comitato e un vigile urbano, oggi necessita di una vera e propria macchina organizzativa che studia il percorso, i punti di raccolta, la gestione del traffico, col coinvolgimento anche della Protezione Civile per domare eventuali incendi.

Anche la Panara delle Scuole è una iniziativa lodevole e ormai consolidata, con il coinvolgimento delle diverse classi cittadine.

1991. Prima Panara della scuola: la acconciano Pippi "Scorcia" Rizzello e Luigi Stefano Rizzello (ph Giorgio Tarantino)
1991. Prima Panara della scuola: la acconciano Pippi “Scorcia” Rizzello e Luigi Stefano Rizzello (ph Giorgio Tarantino)

 

Un altro piccolo, ma significativo, cambiamento avvenne trent’anni fa quando un gruppo di amici decise di riproporre la Panara come si faceva una volta, prima dell’avvento di carri motorizzati.

Gli amici, da sempre attenti alla cultura e alle tradizioni popolari, decisero di proporre la panara ponendola su un carretto rigorosamente trainato a mano. Un altro elemento della festa sono, infatti, i mortaretti e qualsiasi bestia al loro scoppio potrebbe imbizzarrirsi con effetti imprevedibili.

La Panara partì da via Torquato Tasso, proprio da quello che era stato negli anni ’50 un frantoio della famiglia Casarano, e l’impresa riuscì grazie alla collaborazione di Arcangelo Corvaglia che allestì la struttura della Panara e di Salvatore Bramato che ci prese per mano e avviò un percorso che sembrava estemporaneo e dura ancora.

All’epoca la festa si concludeva con la deposizione delle Panare nel punto di raccolta . La banda, dopo essersi rifocillata, andava nella piazza principale e suonava ancora qualche marcetta e poi una coda fatta di ballabili con i pochi musicanti che si fermavano, ma poi la festa finiva.

Oggi la serata fredda è riscaldata dal fuoco, ma anche dal buon vino e da buona musica con un palcoscenico che, negli ultimi anni, ha visto gruppi di rango della musica salentina, ben diversa da quel rimorchio di trattore e da quei musici pieni di buona volontà, e la festa diventa una buona occasione per stare insieme all’aperto anche in una serata invernale.

Anche il piccolo rinfresco offerto dai Comitati fatto di taralli e lupini per “appoggiare” un buon bicchiere di vino nel tempo si è evoluto con aggiunta di pittule prima impastate e fritte dalle donne della Fratres, poi con la Confraternita dell’Immacolata, che alle pittule ha associato vin brulè, poi il brudinu di pipirussi e cucuzze siccate e dopo i pezzetti di cavallo…

La festa, insomma, si è evoluta, come è giusto che sia, mantenendo il connotato di festa comunitaria e diventando un evento che accoglie un discreto pubblico che di anno in anno va aumentando.

ph Giuseppe Corvaglia (2009)
ph Giuseppe Corvaglia (2009)

 

Anche l’atteggiamento della Chiesa è cambiato. In passato non riconosceva questa festa, tant’è che la messa di Santa Vittoria con il bacio della reliquia era contemporanea al corteo e anche il titolo di Panare de Santa Vittoria era sbagliato, attribuito solo perché il Comitato della festa della Santa organizzava anche le Panare, oltre al fatto che parte delle Panare fra gli addobbi avesse anche una immaginetta della santa. Oggi c’è un’attenzione diversa e il parroco partecipa alla festa con una benedizione delle Panare e del fuoco.

Quest’anno il programma sarà davvero ghiotto e stimolante.

Ad accompagnare gioiosamente con la musica le Panare sarà la banda Città di Racale che alle 15,30 partirà dalla piazza per raccogliere le Panare, prima fra tutte quella di Palazzo Bacile.

Sarà presente fra le tante associazioni, istituzioni e gruppi di privati cittadini, anche l’Associazione Panara Antica con la tradizionale Panara trainata a mano e il variegato gruppo che ormai da trent’anni non manca mai all’appuntamento, così come non mancheranno partecipanti di vecchia data e giovani che per la prima volta si misurano con questa esperienza.

Il corteo si prevede partecipato e allegro con le Panare adornate al meglio con addobbi che bruceranno con esse, ma che le rendono belle come altri ornamenti e che ravvivano il carro che le trasporta.

A fine corteo, mentre le Panare si consumano riscaldando l’ambiente col fuoco, Spongano festeggerà e accoglierà gli Ospiti.

Il Comitato offrirà , come da tradizione, lupini, magari sponzati e salati nell’acqua di mare, mentre la Confraternita dell’Immacolata proporrà pittule e vin brulè, il Comitato dei Rioni proporrà patatine fritte normali e a spirale e sarà presente uno stand di carne arrostita, ma non mancherà vino buono e buona birra artigianale.

La musica che farà pulsare il cuore della festa quest’anno sarà quella degli Aprés la Classe già noti al pubblico sponganese per uno strepitoso concerto di una notte bianca rimasta nei ricordi di molti, ma prima del concerto alcuni amici e compagni di cantate renderanno omaggio a Pippina Guida con quei canti che l’hanno vista gioiosa protagonista che sarà pure un momento per ricordare quei Cantori che con lei hanno saputo restituirci un patrimonio di suoni, voci, ricordi, cuore e memoria.

La Pro loco, sempre attenta e partecipe, organizzerà un mercatino dei prodotti artigianali e locali che si prevede interessante e stimolante specie in un periodo che fa pensare ai doni.

Altra attrattiva della serata sarà una percorso multimediale curato da Ada Manfreda che valorizza foto e video provenienti da archivi o da collezioni private, che darà un’idea della festa in tutti i suoi aspetti.

Una ideale prosecuzione delle Panare sarà Il viaggio del Nachiro il 23 e il 24 dicembre, evento teatrale itinerante che ha fatto il giro del Salento e si conclude proprio nel frantoio ipogeo di Palazzo Bacile con Fabio Bacile di Castiglione, medico e scrittore, nachiru d’eccezione, che parlerà dei segreti del frantoio.

E quei giovanotti, ora un po’ attempati, che da trent’anni tirano una panara sul carretto come “somarelli”, pensando che l’esperienza sia faticosa, che possa finire a ogni anno che arriva, alla fine si ritroveranno circondati da altri formidabili giovanotti che sentono come propria l’esperienza, che la rendono viva , godendo del vino buono che sul carretto non manca, gustando le pittule e il brudino, mozzicando alli panini, assaggiando le purpette e vivendo un’esperienza autentica.

Finche dura l’avventura … ce piacere ci nci sta.

panare

il culto dei Santi presso il popolo salentino

di Giuseppe Corvaglia

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, part. Altare di S. Giovanni Elemosiniere (ph Maura Lucia Sorrone)

I Santi nel Salento fanno parte di esso, della sua cultura, dei suoi sapori, dei suoi colori, delle sensazioni che evocano, insomma, per citare Marti e Spedicato, di quella piccola Patria di cui si sentono parte i Salentini, nativi o adottivi.

L’idea di scrivere dei santi ha un po’ meravigliato mia madre e, forse, anche molti amici che mi conoscono come uomo di scienza e sufficientemente laico. Questa idea prescinde la fede e la devozione, che afferiscono alla sfera prettamente personale, e nasce dal fatto che conoscere la loro storia , per quanto talvolta fantasiosa e incredibile, ti fa comprendere la rappresentazione che di essi viene fatta e può aiutare a comprendere le ragioni di alcune forme devozionali.

Qualcuno potrebbe pensare che le loro storie sono spesso poco storiche e scientifiche, ma al di là di supplizi più o meno truculenti, resta sempre l’atto di grande fede, per chi crede, ma anche di libertà che caratterizza tutti: la libertà di amare Dio e il Prossimo rinunciando ai propri beni alla propria vita e alla propria libertà.

Pittori e artisti li rappresentano con dei simboli che si riferiscono al loro martirio e alla loro vita e noi, conoscendone la vita e le gesta, possiamo riconoscerli in una cattedrale, in una edicola, in una chiesetta di campagna o in un museo o anche solo in una casa.

Apprezzare l’arte è una delle cose più belle della vita e per farlo occorre sapere e capire.

Mi viene in mente un episodio che riportava mio padre: un esperto di banda e melomane ascoltava la Traviata in piazza. Un signore si avvicinò e, conoscendo la sua fama gli disse:« Maestro cosa suonano?» Lui lo guardò perplesso e poi disse, scuotendo la testa: «Se la senti e non la capisci se ti dico la sai?»

Così per l’arte sacra, ma anche per le rappresentazioni mitologiche: se le storie non le sai non puoi capire le immagini anche se qualcuno ti dice chi è il personaggio e se non comprendi non puoi godere a pieno l’arte.

eligio

Sant’Eligio (Santu Liggiu o Sant’Alòi) 1 dicembre
Sant’Eligio (Santu Liggiu o Sant’Alòi) era un santo molto venerato nel Salento, soprattutto dai contadini che avevano un cavallo, una mucca o un mulo o un asino.

La ragione sta nel fatto che questo santo, orefice prima di diventare consigliere del Re, monaco e poi Vescovo, avrebbe riattaccato la zampa rotta di un cavallo, come si vede in dipinti nella chiesa di Santa Marina a Muro e nella cripta della Madonna della Crutta a Ortelle.

Veniva citato dai contadini che, nei casi disperati, erano soliti dire “Santu Liggiu ne azza i fierri” volendo dire che se un Santo capace di tali imprese raccoglieva i ferri del mestiere per andarsene non c’era proprio rimedio.

In caso di malattia della bestia i contadini facevano fare all’animale il giro di alcune cappelle, ove era effigiato il Santo. Una di queste era la cappella di San Vito e la Madonna della Crutta a Ortelle.

Santa Marina 17 luglio
Santa Marina di Antiochia in Pisidia era figlia di un sacerdote pagano. Dopo la morte della madre, il padre la affidò a una nutrice che praticava il cristianesimo e la educò ai principi della nuova religione. La stessa Santa è nota anche con il nome di Margherita. Con questo nome compare in una nota preghiera:

Santa Margherita,

si bella e si pulita,

do’ ancili ammenzu a casa,

doi nthra lu lettu,

la Madonna la portu ampettu,

Gesù Cristu an capitale,

Lu Nimicu cu se pozza scunfunnare.

Fusci, fusci, Tantaziune,

ca su fija de Maria,

ca la Madonna m’aje prumisu

ca me daje lu paradisu ,

se no osci crai

quannu moriu me lu dai.

Marina, dicevamo, si era convertita; quando il padre lo scoprì la cacciò via e la riaccolse la sua nutrice. La fanciulla, anche se povera, era bellissima e la notò il governatore di quei posti che voleva sposarla. Marina, però, rifiutò e fu imprigionata. In prigione fu tentata dal demonio che le si presentò sotto forma di dragone e la inghiottì viva. Lei non si perse d’animo e gli squarciò la pancia con la croce, uscendone viva. Fu poi ancora seviziata e infine decapitata.

La bellezza del suo volto e il bel colorito la facevano invocare, perché preservasse e guarisse dall’ittero (mal di fegato) e dal pallore (anemia) mentre il fatto di essere uscita dalla pancia del drago, la fece invocare per le partorienti. L’ittero anticamente veniva chiamato male dell’arco, poiché si riteneva un cattivo influsso dell’arcobaleno e i fedeli compravano dei nastrini colorati, le zagarelle, le strofinavano sulla statua della santa e poi sul viso proprio e dei bambini per poter avere sempre un colorito sano.

In alcuni dipinti la croce nella mano della santa è diventato un martello che simboleggia la pazienza e la perseveranza.

A Ruggiano chi andava in pellegrinaggio a Santa Marina si fermava e urinava nei pressi di un arco, come un atto di purificazione, recitando la formula

Arcu bell’arcu

bellu pintu e bellu fattu,

ci te vide e no te saluta,

de culure cu tramuta.

Ieu te vitti e te salutai,

lu culure no persi mai. (o te culure ne guadagnai)

Qualcuno aggiunge:

Santa Marina, ca an Paradisu stai,

famme na grazia ca la potenza l’hai,

fammela prestu e no ntardare

ca sinti Santa ca la pote fare.

Santa Marina viene invocata anche contro l’emicrania e contro le maldicenze, ma in questo caso si confonde con un’altra Santa, santa Marina di Bitinia, che visse come monaco in un convento e fu accusata di essere il padre di un bambino e per questo allontanata col figlio dal convento. Accettò la punizione finché fu riaccolta nel convento in punto di morte. Quando, dopo morta, i monaci andarono a lavare il corpo, per prepararlo alla sepoltura, scoprirono il segreto del monaco Marino, che aveva accettato tutte le bugie in silenzio fino a morirne.

San Giorgio
san giorgio

San Giorgio era un soldato, cavaliere originario della Cappadocia.

Un giorno, passando da Silene in Libia (ma per altri da Berito, l’attuale Beirut, in Libano), vide una fanciulla atterrita sulla riva di uno stagno.

Gli abitanti di quel posto erano terrorizzati da un dragone orribile che viveva in quello stagno e ogni tanto ne usciva per uccidere animali o persone che incontrava.

Si era arrivati ad offrire del bestiame, ma questo non bastò, per cui si decise di immolare un fanciullo o una fanciulla, scelti a sorte fra i giovani della città.

Quel giorno era toccato alla figlia del Re. Giorgio, che passava, la vide e aspettò la bestia, la tramortì e la portò vicino alle mura della città dove la uccise fra il tripudio della gente che si convertì al cristianesimo.

La vicenda è propriamente simbolica dove il cavaliere è la Chiesa e il dragone il paganesimo e il male.

Anche il nome, Giorgio, vuol dire in greco uomo che coltiva la terra è significativo. Il martire è stato uno dei santi più presenti nella tradizione orientale e perciò il suo culto fu molto diffuso dai monaci basiliani. Secondo la tradizione fu decapitato in Palestina. A Ortelle viene invocato contro la malaria.

S. Vito   2° e 3° domenica di ottobre
Calimera_Cappella_San_Vito

S. Vito, giovinetto siciliano di Mazzara del Vallo, venne martirizzato a Roma, con la nutrice Crescenza e il pedagogo Modesto, che lo avevano educato alla cristianità, per ordine dell’Imperatore dopo che il Santi aveva salvato proprio il figlio dell’Imperatore stesso posseduto dai demoni.

Viene raffigurato con uno o due cani perché protegge dalle bestie inferocite, in particolare protegge dalla rabbia, poiché la leggenda vuole che sia stato gettato in una fossa con delle bestie feroci che però lo risparmiarono.

Viene invocato anche per il ballo di San Vito o Corea, una malattia neurologica che porta i soggetti affetti a fare dei movimenti involontari, ampi e bruschi soprattutto con gli arti come se fossero una danza. Il patrocinio fa riferimento alla vita del Santo quando si cercò di sedurlo tramite delle avvenenti danzatrici che, coi loro corpi splendidi e le loro movenze seducenti, avrebbero dovuto farlo rinunciare alla fede. Il Santo capì e mise nelle scarpe dei chiodini che lo tormentavano scacciando la tentazione.

Una particolare protezione veniva chiesta contro i licantropi o lupi mannari cioè quelle persone che in concomitanza con alcune fasi lunari si trasformano in creature belluine.

Le persone capaci di dominarle si chiamavano “Manure de Santu Vitu”.

S. Oronzo   26 agosto
FIG.2. Lecce. Cattedrale. S.Oronzo (G.A

S. Oronzo è uno dei primi martiri del Salento. Patrizio leccese, pagano, mentre si divertiva andando a caccia, incontrò un uomo lacero che si chiamava Giusto e che veniva da Corinto, mandato da S. Paolo, che lo convertì.

Si racconta anche che, una volta convertito, sia andato a Corinto a trovare San Paolo che lo nominò vescovo di Lecce. Scoperto, fu perseguitato e si rifugiò prima in una grotta di Ostuni e poi in Turi, dove fu catturato e riportato a Lecce.

Qui fu portato fuori dalla città e decapitato. I resti furono lasciati alla mercè delle intemperie e delle bestie, ma furono poi raccolti da una pia donna e divennero meta di pellegrinaggio. Sul luogo del martirio, detto Capu de Santu Ronzu, fu edificata una chiesa.

La storia di Sant’Oronzo è a dir poco particolare: non se ne trova traccia nel Martirologio, ma la storia viene riferita da un monaco visionario calabrese, sollecitato dal Vescovo Luigi Pappacoda, che, attraverso le sue visioni, fa ritrovare le reliquie del Santo nel 1500.

Il momento è particolare, la penisola Salentina ha conosciuto la tragedia della conquista ottomana con il suo strascico di morti, prigionia, crudeltà e la fede inizia a vacillare. In questo periodo viene nominato vescovo Pappacoda che governa la città disciplinando il clero, cercando di stimolare la spiritualità dei leccesi e incentivando gli ordini religiosi a costruire nuove chiese: così nascono le splendide chiese che oggi ammiriamo.

Oronzo era un santo locale non di origine greca e si prestava bene, secondo i canoni del Concilio di Trento, a ricoprire il ruolo del patrono.

Santa Vittoria     8 agosto   23 dicembre
Santa Vittoria fu una giovane fanciulla di famiglia nobile romana che era stata promessa in sposa ad un altro rampollo della nobiltà: Eugenio. Fu educata al cristianesimo dalla cugina Anatolia e si convertì decidendo di dedicare la sua vita e la sua persona a Gesù. Eugenio, d’accordo con il fidanzato di Anatolia, decise di separarle e le inviarono nei loro possedimenti in campagna, ma a nulla valse il sopruso: entrambe furono ancora più salde. Anzi Vittoria operò anche dei prodigi, come allontanare un dragone che affliggeva la zona di Trebula nella Sabina dove stava, e cominciò a fare apostolato fra le fanciulle del luogo, per la qual cosa oggi viene considerata la protettrice della gioventù femminile di Azione Cattolica.

Denunciata al pontefice del Campidoglio, venne obbligata a offrire sacrifici a Diana e al suo fermo rifiuto venne uccisa con la spada.

Nel Salento viene festeggiata a Spongano.

S. Donato   7 agosto
San Donato Vescovo di Arezzo fu martirizzato con decapitazione il 7 agosto del 362 sotto Diocleziano. Viene rappresentato con un calice, perché fra i suoi prodigi è riferito che, mentre celebrava messa e distribuiva il vino consacrato in un calice di cristallo, entrarono dei pagani che ruppero il calice. Il Santo ne ricompose i frammenti e continuò a distribuire la comunione. Viene anche rappresentato con dei libri e con un bambino esanime fra le braccia della madre, riferimento a un altro episodio della sua vita quando libera dai demoni.

Fu decapitato e viene invocato a protezione del mal di testa e, soprattutto a Montesano Salentino, per l’epilessia, detto dagli antichi male sacro.

Nei giorni della festa del Santo la statua viene portata dalla chiesa al santuario a lui dedicato. Qui in passato restavano con lui gli epilettici giorno e notte che pregavano, ma anche parlavano e gridavano in un rapporto diretto (qualcuno raccontava di dialogare proprio con il santo e magari inveiva anche contro o lo implorava di farlo guarire). Gli stessi epilettici durante la processione camminavano all’indietro non potendo staccare lo sguardo dal volto del Santo. La base della statua era adornata da basilico.

La suggestione era massima ed era rinforzata dagli stessi epilettici.

Santa Lucia   13 dicembre
Santalucia

Il culto di Santa Lucia era molto diffuso in tutto il Salento.

Santa Lucia era una bellissima fanciulla che era stata promessa in sposa. Fu educata al cristianesimo, ma decise di dedicarsi anima e corpo a Gesù, dopo un pellegrinaggio a Catania sulla tomba di sant’Agata della quale ebbe una visione. Vendette i suoi beni e li donò ai poveri. Il fidanzato, per farla desistere, la denunciò e venne martirizzata con la spada. La leggenda vuole anche che prima di ucciderla, le siano stati cavati gli occhi e da questo episodio deriva il suo patronato sulla vista e il raffigurarla con gli occhi in una ciotola.

La sua festa arriva il 13 dicembre quando si avvicina il Natale e si comincia a pensare alle feste, ma si è ancora in Avvento. Importanti sono le fiere che si tengono nel suo giorno a Lecce (che poi prosegue fino a Natale con la vendita dei pupi del Presepe) e a Scorrano dove fra le altre cose si fa provvista di fichi secchi e di stoccafisso.

S. Rocco     16 agosto
San Rocco

S. Rocco era un santo molto venerato nel Salento, ma se vogliamo anche in tutto il mondo. Nato a Montpellier decise di andare in pellegrinaggio a Roma. Nel suo viaggio a Roma si imbattè nella peste. Capì che la carità non poteva essere solo di parole e, mentre tornava da Roma, si prestò a curare gli appestati. Si ammalò e decise di ritirarsi in un eremo per non contagiare nessuno. Si trovava in una grotta presso Piacenza e lo andava a trovare un cagnolino che rubava un pane alla mensa del suo padrone e glielo portava leccandogli la piaga. Un giorno il padrone lo seguì, scoprì Rocco e lo portò a casa aiutandolo a guarire. Guarito, si incamminò verso Montpellier, ma a Voghera fu arrestato con l’accusa di essere una spia e imprigionato per 5 anni senza nemmeno essere riconosciuto dal governatore di quei luoghi che era lo zio. Alla sua morte venne riconosciuto per un difetto del corpo: una sorta di angioma a forma di croce che Rocco aveva da quando era nato sul fianco sinistro (come pure viene cantato nel responsorio: Ave Roque santissime,/ nobili nate sanguine,/ crucis signate schemate/ sinistro tuo latere).

Inizialmente invocato contro la peste, fu poi invocato a protezione di ogni tipo di piaga. Infatti nella società contadina dei tempi passati, in assenza di antibiotici, era facile che una ferita procurata nei campi potesse infettarsi e cronicizzare oppure portasse a conseguenze ancora più gravi. Viene rappresentato come un pellegrino con un bastone e la borraccia, una mantellina con la conchiglia di Compostella, detta Capasanta, e un cane con un pane in bocca.

San Nicola  6 dicembre 9 maggio
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La figura di San Nicola è molto diffusa nel mondo occidentale, ma soprattutto in Puglia e nel Salento, sia per la presenza e l’opera dei monaci basiliani, sia per l’influenza che aveva su questi territori il Catapano bizantino che stava a Bari dove c’erano le sue reliquie, trafugate da Mira in Asia minore, ad opera di una compagnia di marinai baresi.

Questo rinforzò la fama che aveva fin lì accompagnato il santo venerato sia il 6 dicembre, ma soprattutto in Puglia il 9 di maggio memoria dell’arrivo delle sue reliquie a Bari.

Nato a Patara, in Asia minore, presto si trasferì a Mira dove si avvicinò al Cristianesimo e dove, ancora giovane, venne eletto vescovo di quella città . L’epoca delle prime persecuzioni era finita e Costantino, con l’editto di Milano, aveva sancito la libertà di culto per i cristiani.

Lui fece il vescovo con grande energia rispettato dal popolo e dalle autorità che lo invitarono a dare giudizi preziosi anche in sede conciliare, come nel Concilio di Nicea, quando affrontò l’eretico Ario che negava la natura divina di Gesù.

Viene rappresentato con il pallio, il pastorale   e il vangelo in mano per la sapienza mostrata nel contrastare gli eretici, ma anche con tre palle d’oro, tre bambini in una tinozza o con un mattone che brucia che si riferisce a un miracolo operato durante il concilio di Nicea. Per spiegare la trinità Nicola prese un mattone che conteneva in origine terra, fuoco e acqua, ma che ora era altro dei tre elementi. Il mattone prese a bruciare e a gocciolare acqua e alla fine rimase terra secca.

Le tre palle d’oro sono la semplificazione di tre borse di monete d’oro che Nicola donò a un padre nobile, caduto in disgrazia, il quale, non avendo i soldi per il matrimonio e la dote delle figlie, le voleva avviare alla prostituzione. Nicola gettò in casa un sacchetto con le monete impedendo che la figlia grande si prostituisse e consentendo il suo matrimonio. Fece così altre due volte salvando anche le altre due sorelle, ma la terza volta il padre, che stava nascosto, lo scoprì.

I tre bambini si riferiscono a un altro prodigio operato dal santo a cui un oste presentò un piatto di carne. Il Santo non volle toccarne e chiese all’oste di portarlo dove teneva quelle carni. Una volta vicino alla tinozza della salamoia il Santo pregò e dalla tinozza emersero tre bambini che l’oste aveva ucciso e le cui carni venivano servite agli avventori. Questo episodio, leggendario, potrebbe essere influenzato da un altro più storico quando Nicola si adoperò per salvare tre uomini condannati a morte ingiustamente.

Comunque la generosità verso le fanciulle, la protezione verso i bambini e una vita svolta a proteggere attivamente il suo popolo hanno fatto sì che si generasse nell’immaginario collettivo la figura di Santa Klaus (contrattura nordica del latino Nicolaus), il nostro Babbo Natale che porta doni ai bambini. L’abito rosso e il cappuccio non sono altro che riferimento ai paramenti vescovili così come il colletto bianco un riferimento al pallio.

San Pantaleone o Pantaleo   27 luglio
San Pantaleone era un medico anargiro di Nicomedia. Medico brillante (aveva curato anche il figlio dell’Imperatore) un giorno si convertì al cristianesimo, vendette le sue sostanze e le distribuì ai poveri, curando tutti senza compenso. Per questo venne osteggiato dai suoi colleghi e denunciato come Cristiano all’Imperatore per la qual cosa fu lungamente torturato e poi ucciso.

Viene raffigurato legato ad un albero secco, mentre viene seviziato con il fuoco e i flagelli, o vicino a una vasca perché subì anche la tortura dell’annegamento. La leggenda tramanda che l’albero a cui il santo era legato, benché secco, si ricoprì di frutti. Le sevizie non convinsero il Santo ad abiurare e fu martirizzato.

Nel Salento si festeggia a Martignano, ma il suo culto era molto diffuso nella provincia.

San Lazzaro
Lazzaro era uno dei migliori amici di Gesù. Viveva a Betania, con le due sorelle Marta e Maria.

Il Vangelo ci narra di come Lazzaro fosse morto. Gesù si recò al sepolcro, fece togliere la pietra che ne chiudeva l’entrata e chiamò Lazzaro, il quale uscì vivo dal sepolcro, ancora avvolto nelle bende funebri. Dopo la morte e resurrezione di Gesù venne preso di mira dal sinedrio che voleva cancellare le opere compiute dal Messia e dovette partirsene dalla Palestina.

Secondo la Leggenda aurea di Jacopo da Varagine, Lazzaro andò a predicare in Francia con le sue sorelle e lì divenne il primo vescovo di Marsiglia.

Invece secondo la tradizione orientale, Lazzaro divenne vescovo di Cipro e durò nell’episcopato per circa un trentennio. A supporto di questa versione, nell’anno 890 fu ritrovata una lapide con l’iscrizione “Lazzaro, l’amico di Cristo”. Successivamente le reliquie furono traslate a Costantinopoli e quindi in Francia dai Crociati. Nel 1972 sotto l’altare della chiesa di Larnaca fu rinvenuta un’arca di marmo, contenente resti umani, che si ritengono quelli di Lazzaro. Secondo quest’ipotesi, il trasferimento delle reliquie a Costantinopoli fu soltanto parziale.

Nel Salento viene venerato in pochi luoghi come una parrocchia di Lecce città, ma ci sono immagini sue anche in altre chiese. Tuttavia viene citato in prossimità della Pasqua. In questo periodo gruppi di contadini, dotati di strumenti musicali e buone voci, giravano per le case o per le masserie in una sorte di folkloristica questua da cui ricevevano prodotti della terra detta, appunto, “Lu Santu Lazzaru”. Queste rustiche compagnie musicali andavano in giro con un ramo di ulivo dove venivano attaccate figurine e nastrini colorati (zagarelle) cantando la storia di Cristo e concludendo che Santu Lazzaru, che risorse, oggi sarà Cristo che risorgerà a Pasqua.

Viene rappresentato come Vescovo.

Il San Lazzaro povero, straccione e spesso rappresentato con dei cani è il Lazzaro, mendicante, che viveva fuori dalla casa del ricco epulone implorando di ricevere le briciole del suo desco, ricevendone insulti e umiliazioni. Quando sarà in paradiso, nel grembo di Abramo, il giovane, maleducato e cattivo, patirà le pene dell’inferno e implorerà un conforto da Lazzaro che, stando fra i beati, non potrà dargli.

Santi Cosma e Damiano 26- 27 settembre
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Santi Cosma e Damiano, conosciuti come Santi Medici, erano medici anargiri che curavano senza compenso.

Originari dell’Arabia o della Siria, svolsero la loro opera in Turchia. Prima di approcciarsi a un malato pregavano intensamente e poi svolgevano la loro opera. La leggenda racconta di un loro contrasto dovuto al fatto che Cosimo avesse accettato 3 uova da una donna che aveva curato. Il fatto amareggiò Damiano che dispose di non essere sepolto accanto al fratello. Scoperti cristiani furono processati e martirizzati. Mentre ci si stava disponendo a seppellirli, lontano uno dall’altro, un cammello parlò e disse che Cosimo aveva accettato quelle uova solo per non umiliare la donna e furono uniti nella sepoltura.

Vengono rappresentati con in mano dei balsamari   per gli unguenti e delle cassette per i ferri chirurgici.

Nel Salento il loro culto è molto sentito e in passato erano diffusi anche i nomi Medico e Medica.

San Vitale  28 aprile
Sposato con Santa Valeria, era padre dei santi Gervasio e Protasio.

Vitale, soldato romano, accompagnò un magistrato a Ravenna dove assistette alla condanna a morte per Cristianesimo di Ursicino. Lui incoraggiò il martire che andava al supplizio e, dopo la morte , lo seppellì.

Denunciato come cristiano venne condannato a essere sepolto vivo da pietre e terra. Così accadde e quel sepolcro, che era stato patibolo, divenne luogo di culto, tanto che quando venne la moglie Valeria a riprendersi le spoglie del caro, trovò l’opposizione dei Ravennati.

Di ritorno, la santa donna troverà un gruppo di fanatici pagani che al suo rifiuto a sacrificare al dio Silvano, faranno seguire una punizione fatta di bastonate che ridurranno in fin di vita la donna che spirerà qualche giorno dopo a Milano.

I figli Gervasio e Protasio erano anche essi cristiani e vissero facendo del bene finché non furono uccisi nelle persecuzioni. I corpi furono ritrovati ai tempi di Sant’Ambrogio e vicino al loro capo vi era un libretto che raccontava la loro storia e quella dei loro genitori. Sul luogo del loro ritrovamento nacque una basilica.

San Giuseppe da Copertino   18 settembre
copertino

Giuseppe Maria Desa nacque ai primi del ‘600, in un momento di grandi difficoltà della famiglia e vide la luce in una stalla del suo paese, Copertino, adattata a casa. Il padre, abile artigiano, aveva sposato una donna benestante ed era uomo di fiducia dei Signori di Copertino, ma si ritrovò povero e morì ancora giovane per aver garantito per mille scudi un amico che fallì.

La povera vedova e i figli vissero anni durissimi; Giuseppe faceva il garzone e non riusciva a imparare un mestiere e in paese lo chiamavano “Ucchipertu/Boccaperta” per la sua abituale distrazione; dovette pure lasciare la scuola per una brutta piaga che lo afflisse per 5 anni e guarì per intercessione della Madonna delle Grazie. Questo accrebbe la sua fervida devozione mariana.

Il creditore del padre aveva ottenuto dal Tribunale che Giuseppe, unico figlio maschio di Felice e Franceschina, una volta raggiunta la maggiore età, fosse obbligato a lavorare senza paga fino a saldare il debito del defunto genitore. L’unico modo per sottrarsi a quella che sarebbe stata una vera e propria schiavitù era diventare sacerdote o frate, ma Giuseppe non era istruito e non poteva ambire perciò al sacerdozio. Cercò quindi di entrare in un convento e a 17 anni bussò alla porta dei Frati Francescani Conventuali, nel convento detto della ‘Grottella’, a due passi da Copertino, dove un suo zio era stato padre Guardiano, ma dopo un periodo di prova fu mandato via, “per la sua poca letteratura, per semplicità ed ignoranza”. Passò allora ai Francescani Riformati e poi ai Cappuccini di Martina Franca, ma la distrazione, l’inettitudine e le estasi gli facevano fare veri e propri danni, per questo fu mandato a casa dove non venne bene accolto.

Fu solo grazie all’interessamento dello zio e dopo molte insistenze che riuscì a farsi accettare di nuovo dai Conventuali della ‘Grottella’. I frati, informati della sua situazione e della condanna del Tribunale, presero a cuore la situazione e lo ammisero nella comunità, prima come oblato, poi come terziario e finalmente come fratello laico.

Addetto ai lavori pesanti e alla cura della mula del convento, Giuseppe ben presto espresse il desiderio di diventare sacerdote e lo divenne per situazioni a dir poco prodigiose. Nonostante gli sforzi era rimasto ignorante, ma negli esami accaddero cose incredibili: in uno il vescovo gli chiese l’unica cosa che sapesse e nel secondo, il vescovo, dopo aver visto una grande preparazione nei primi studenti interrogati, decise di promuovere tutti, anche San Giuseppe.

Si definiva fratel Asino, ma riusciva a parlare di teologia in maniera semplice ed efficace anche con persone di elevata cultura, perché possedeva il dono della scienza infusa, sapeva essere sapiente nel dare consigli ed era molto ricercato dentro e fuori del suo Ordine, nonostante che si definisse “il frate più ignorante dell’Ordine Francescano”.

Un’altra sua caratteristica erano le estasi e i voli durante queste.

In effetti volava nell’aria come un uccello, il fatto storico è che questi fenomeni sono avvenuti in presenza di tanta gente stupefatta. Proprio la presenza intorno a lui di tanto popolo costituì un problema per i suoi Superiori, che lo mandarono in vari conventi dell’Italia Centrale, proprio per distogliere da lui l’attenzione del popolo, che sempre più numeroso accorreva a vedere il santo francescano. Di lui si interessò l’Inquisizione di Napoli, che lo convocò per capire di che si trattasse e proprio davanti ai giudici, Giuseppe ebbe un’estasi; la Congregazione romana del Santo Uffizio alla presenza del papa Urbano VIII, lo assolse dall’accusa di abuso della credulità popolare e lo confinò in un luogo isolato, lontano da Copertino e sotto sorveglianza del tribunale. Fu mandato da un convento all’altro: a Roma, Assisi, Pietrarubbia, Fossombrone e infine ad Osimo (Ancona) dove morì il 18 settembre 1663 a 60 anni.

Mia nonna Rosa nel rosario pregava San Tommaso d’Aquino, professore alla Sorbona, e San Giuseppe da Copertino che infondessero nelle nostre menti intelligenza e buon senso o con lo studio, come nel caso del domenicano, o senza studio, come era accaduto al francescano salentino; a lui si rivolgono gli studenti prima degli esami, specie coloro che si rendono conto dei propri limiti.

S. Antonio da Padova 13 giugno
Figura 6. G. A. Colicci, SantÔÇÖAntonio da Padova, 1736 Lequile (Le)

Antonio nacque a Lisbona (Portogallo) nel 1195, battezzato come Fernando, ebbe la sua prima formazione in una famiglia cristiana, importata a Lisbona dopo che fu liberata dai musulmani. Studiò alla scuola della cattedrale e li sbocciò la sua vocazione religiosa. Ancora adolescente entrò negli agostiniani prima a Lisbona e poi a Coimbra. Li ricevette una completa formazione religiosa e teologica, grazie alle sue doti: una grande pietà e una fervida intelligenza.

Nel 1220 venne a sapere di alcuni francescani che erano stati uccisi in Marocco mentre cercavano di evangelizzare quelle genti e decise di entrare nell’Ordine francescano, mutando il suo nome originario, Fernando, in Antonio. Quando riuscì, partì per il Marocco, lì si ammalò e si reimbarcò per ritornare in patria, ma delle tempeste marine lo portarono in Sicilia, dove fu curato nel convento francescano di Messina. Qui venne a conoscenza del Capitolo generale dei francescani, che avrebbe avuto luogo ad Assisi, nella Pentecoste di quel 1221 e vi partecipò. Vide san Francesco, ma non si fece conoscere. Frate Graziano, ministro provinciale della Romagna, lo accolse nella sua compagnia   e lo destinò al romitorio di Montepaolo dove Antonio visse la regola dell’eremita francescano.

Un giorno, in occasione di un’ordinazione sacerdotale celebrata a Forlí, dovette, per obbedienza, tenere un discorso e mostrò doti di eloquenza e preparazione teologica eccellenti tanto da essere destinato a diventare predicatore, docente e ministro dell’Ordine. Dalla Romagna propriamente detta la sua predicazione si allargò all’Italia superiore e alla Francia meridionale.

In seguito il suo compito principale fu l’insegnamento della Teologia ai frati minori nelle scuole di Bologna e di Montpellier, primo docente di Teologia francescana.

Alla fine arrivarono gli incarichi di responsabilità come custode della provincia di Limoges e poi come ministro provinciale della provincia di Romagna, che si estendeva allora anche a tutta l’Italia settentrionale, ma sfatto dalle fatiche e dall’idropisia, nel luglio del 1230 ottenne d’essere liberato da ogni incarico e di ritirarsi a Padova nel convento di Santa Maria Madre del Signore dove morì il 13 giugno 1231. Il suo corpo per espressa sua volontà restò a Padova; fu canonizzato neanche un anno dopo la sua morte e sette secoli dopo papa Pio XII lo proclamò “Dottore della Chiesa”.

Viene rappresentato con il Bambino Gesù per le estasi che più volte ha vissuto, con dei libri, simbolo degli studi e della sua sapienza, e un giglio simbolo di purezza.

Nel Salento si prega con questa preghiera:

Sant’Antoniu meu bidegnu

Tuttu chinu de santità

Tridici grazie fai lu giurnu,

fammene una per carità.

Fammela prestu e non tardare

Ca tie si santu ca me la poti fare,

Tie sì santu mannatu de Diu

Fammela prestu sant’antoniu miu.

Arcangeli S. Michele, San Gabriele e San Raffaele
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Gli Arcangeli sono i sette spiriti che stanno al cospetto del trono di Dio, sono coloro che godono della luce del suo volto e ne ascoltano la voce. Di questi ne conosciamo tre, per riferimenti biblici che li riguardano: Michele, Gabriele e Raffaele.

Michele (in ebraico Chi è come Dio?) è l’arcangelo che combattè contro Lucifero e tutti gli altri angeli che si erano rivoltati contro Dio e li allontanò dal Paradiso confinandoli nell’inferno.

Altri appellativi di questo arcangelo che interviene nella lotta contro il male sono : difensore degli amici di Dio e protettore del suo popolo. Viene raffigurato come un giovane gagliardo con la spada in mano e, talvolta con armatura, mentre sottomette il demonio.

Gabriele (Forza di Dio) è colui che spesso porta dei messaggi di Dio all’uomo. Lui   rivela a Daniele i segreti del piano di Dio, annunzia a Zaccaria la nascita di Giovanni Battista ed è lui che annuncia a Maria che da lei nascerà Gesù.

Secondo i musulmani è sempre Gabriele a dettare il corano a Maometto.

Viene raffigurato, generalmente, mentre incontra Maria a Nazareth.

Raffaele (Dio guarisce) è l’arcangelo che   talvolta scendeva nella piscina di Betzaida e agitava le acque, concedendo la guarigione dalle malattie a chi vi si immergeva, ma è soprattutto la guida che scende in terra dopo le preghiere di Tobi e accompagna il figlio Tobiolo a riscuotere un credito in Media, l’attuale Iran. Lì guarirà Sara che è tormentata dal diavolo Asmodeo e che poi si unirà in matrimonio con Tobiolo. Mentre fanno ritorno, Tobi, che si sente vicino alla morte ed ormai è cieco, chiede la grazia al Signore di rivedere per una ultima volta il figlio prima di morire. Raffaele allora dice a Tobiolo di tuffarsi nel fiume e prendere un grosso pesce che troverà. I viaggiatori mangeranno il pesce, ma conserveranno, su indicazione di Raffaele, le interiora che poi spalmate sugli occhi di Tobi gli faranno riacquistare la vista e rivedere il figlio e la nuora.

San Raffaele è raffigurato mentre accompagna un ragazzo che porta un pesce. Questo lo differenzia dall’Angelo custode pure raffigurato mentre guida un bambino, talvolta schiacciando il diavolo tentatore.

San Giuseppe Patriarca.
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Giuseppe è un uomo giusto, della stirpe di Davide, che sposa Maria e che, quando scopre che è incinta vorrebbe ripudiarla, ma poi accetterà di tenerla con sé e farà da padre putativo a Gesù.

Viene considerato Patriarca (πατήρ αρχή il padre dell’inizio di una vita nuova, di una nuova generazione) perché dalla sua famiglia nascerà un popolo nuovo.

Viene raffigurato come un uomo attempato che tiene in braccio il bambino Gesù e si appoggia a un bastone fiorito.

Il bastone fiorito si riferisce a un prodigio riferito dai vangeli apocrifi. Il sacerdote Zaccaria aveva infatti ordinato che venissero convocati tutti i figli di stirpe reale per sposare la giovane Maria, vissuta per nove anni nel tempio. Per indicazione divina, questi celibi avrebbero condotto all’altare il loro bastone, Dio stesso ne avrebbe poi fatto fiorire uno, scegliendo così il prescelto. Fiorì il bastone di Giuseppe, della stirpe di Davide, e accettò di prendere in sposa Maria, nonostante la differenza di età. In seguito, sapendo che era incinta, pensò di ripudiarla, ma, dopo una visione angelica, non lo fece e crebbe Gesù.

La sua festa fino a non molto tempo fa era festa di precetto e festa civile (fino al 1977); in molti paesi del Salento è rimasta una festa rilevante. Alcuni devoti in suo onore fanno un pranzo, la Tavolata di San Giuseppe, dove gli invitati rappresentano la Sacra Famiglia e altri Santi. Gli invitati mangiano le portate, tutte di magro poiché ci si trova in Quaresima, e devono portarsi a casa i resti del pasto. Altri devoti distribuiscono la caratteristica pasta (massa e ciciri o ciceri e tria) o anche del pane benedetto.

 

Il mito di Santa Cesarea in un canto popolare adattato a cantastorie

 cesarea

di Giuseppe Corvaglia

 

Il luogo

Santa Cesarea Terme è un piccolo centro marittimo del Salento, molto noto per l’amenità del luogo e per la presenza di acque termali, salsobromoiodiche e sulfuree, utilizzate per le cure da tempo.

Il riferimento alla Santa, Cesarea, nota fin dal XV secolo, potrebbe far pensare a una certa vetustà del luogo; in realtà il paesino, fino all’inizio del secolo scorso*, non esisteva neppure e le grotte, con le acque termali, potevano essere raggiunte solo attraverso sentieri scoscesi e  difficili da percorrere.

affresco del XVI secolo che si trova inell'antica chiesa di San Nicola adiacente alla chiesetta della Madonna dell'Idri a Nociglia ed è la più antica figura di Santa Cesarea nella provincia di Lecce (foto Antonio Chiarello)
affresco del XVI secolo che si trova nell’antica chiesa di San Nicola adiacente alla chiesetta della Madonna dell’Idri a Nociglia ed è la più antica figura di Santa Cesarea nella provincia di Lecce (foto Antonio Chiarello)

I miti fondanti

Ci sono diversi miti che giustificano la presenza delle acque sulfuree-salso-bromo-iodiche: uno di essi lo ritroviamo nella mitologia classica dove si narra che qui, sulle impervie coste della Japigia, sia finito lo scontro fra Ercole e i Titani Leuterni sopravvissuti alla lotta che aveva avuto luogo nei Campi Flegrei. I giganti battuti fuggirono fin qui sperando che l’asperità del luogo potesse proteggerli, ma qui l’eroe li raggiunse e non ebbero scampo.

Proprio dai loro corpi in decomposizione, secondo la leggenda, originarono le acque e i fanghi putridi e maleodoranti, ma benefici e curativi.

Un’altra leggenda, ambientata nel XIV secolo, quando il Salento era insidiato dai Turchi, parla di Cesarea, fanciulla bellissima,  notata da un saraceno il quale di lei si invaghì e volle farla sua. La inseguì sulla scogliera fin dentro una grotta e quando la raggiunse, prodigiosamente, dal terreno si sprigionarono fiamme e fumi che arsero vivo l’uomo. Da allora si ritiene che le acque e i fanghi siano terapeutici.

Ma la leggenda principale riguarda Santa Cesarea secondo la versione  riferita dai Bollandisti.

Santa Cesarea, secondo questa versione, nacque in un dicembre del XIV secolo da Luigi e Lucrezia, dopo un’attesa di oltre 10 anni dal matrimonio e al termine di una pia pratica suggerita dall’eremita Giuseppe Benigno.

Rimasta orfana della madre quando era ancora adolescente, Cesarea fu costretta ad abbandonare la casa dei genitori, per sfuggire alle insane tentazioni del padre; si rifugiò in una grotta marina fra Castro e Otranto.

Qui visse la sua vita di privazioni e di preghiera, votata ad una totale dedizione a Dio, divenendo una eremita la cui fama si estese in tutta la Terra d’Otranto. Dopo la sua morte, avvenuta nella grotta da dove non era più uscita, sempre nel secolo XIV, fu eretta una chiesa sul posto che divenne centro del suo culto fin dal secolo XVII. Il suo culto si diffuse nel Salento, in particolare a Francavilla Fontana (BR) che viene indicata come la patria d’origine della santa.

Patrona anche di Porto Cesareo, è ricordata il 15 maggio, ma, nel paesino termale, a metà settembre la sua statua viene portata in processione con  un corteo di barche alla grotta Gattulla dove sarebbe vissuta e poi morta. (A. Borrelli da Enciclopedia dei Santi www.santiebeati.it )

 

processione di Santa Cesarea (foto Antonio Chiarello)
processione di Santa Cesarea (foto Antonio Chiarello)

Il canto

Il canto, proposto nel 2008 dal gruppo Totine Sud Sisters sotto forma di cantastorie, è diffuso nel basso Salento e narra la leggenda di Santa Cesarea.

Vi sono già pubblicate due versioni dello stesso, cantate una dagli Ucci nell’album Bona sera a quista casa e una dai Cantori dei Menamenamò nell’album Santa Cesarea, ma il racconto viene anche tramandato oralmente in diversi luoghi del Salento.

Oltre a far parte della mole di racconti edificanti che parlavano delle vite dei santi, questo canto è anche il mito fondante del paesino salentino, che cerca di spiegare le origini delle acque sulfuree delle sue terme con un intervento divino e la presenza del diavolo che si viene a trascinare giù nell’inferno il genitore snaturato.

La storia infatti  parla di un incesto voluto dal padre che desidera la bella figlia, per quanto lei cerchi di scoraggiarlo con pudica modestia, e che verrà portato via proprio dal diavolo.

Ho preferito la versione riferita da Rizzo Antonietta fu Amedeo perché, come quella dei Cantori dei Menamenamò, mi sembra più congrua e, verosimilmente, più vicina all’originale. Infatti in essa, nela prima strofa, si usa il termine “sposà” per indicare la volontà del padre di possedere carnalmente la figlia, mentre nella versione degli Ucci si parla di “ammazzà” che può assumere un significato simbolico, ma che qui non pare appropriato.

La stessa versione, poi, contiene anche una strofa di chiusura non riportata nelle altre due edizioni.

Nella terza strofa è suggestiva la figura evocata del padre che insegue la fanciulla con la spada sguainata, evidente doppio senso di tipo sessuale, ma anche evocativa del fatto che lo stupro ucciderebbe in sé un’anima candida come quella di Cesarea.

Bella è pure l’immagine del cuore che batte così forte da sembrare un tremito in cui non si distinguono i battiti (tutta tremante in sen)**

Nell’ultima strofa troviamo due diversi termini nelle due versioni; nella versione degli Ucci si dice Cesaria s’atterrava mettendo l’accento sul terrore della fanciulla mentre nella versione presentata e in quella dei Cantori dei Menamenamò (Cesaria la’ nserrava – si apriva il monte in due e Cesaria veniva imprigionata dalla roccia) si fa riferimento al monte che facendola sprofondare la rinchiude nelle sue viscere.

Anche nella versione agiografica Cesaria, restando come eremita per sempre nella grotta senza più uscirne fuori, ritirandosi dal mondo, è come se da quella grotta, comunicante con le viscere della terra, ne fosse inghiottita.

Ho inserito nella parte narrata anche una frase ricorrente come proverbio (Aprite munte*** e ‘gnuttite Cisaria / e li stivali de sirma nzurfu e rena****) che viene detta quando si verifica una situazione dirompente come uno scoppio d’ira o un litigio.

La strofa di chiusura chiude il racconto e non parla più del corpo mortale, ma invita a considerare l’anima pura che viene portata, beata, a godere della gloria di Dio.

 

 

 

*        Il decreto regio che istituisce il comune di Santa Cesarea, è del 26 maggio 1913

 **    Viene riportata anche  tutta tremante in sé nel senso di terrorizzata nell’intimo.

***   In un’altra versione si dice “Aprite pentuma e gnuttite Cisaria”.

**** Il riferimento agli stivali del padre che diventano sabbia e zolfo viene fatto anche da Trifone Nutricati, poeta e pubblicista leccese, in un poemetto in dialetto scritto agli inizi del Novecento e forse da esso prende origine per poi diffondersi nel lessico popolare.

 

statua della santa portata in processione (foto Antonio Chiarello)
statua della santa portata in processione (foto Antonio Chiarello)

 

statua della santa portata in processione a mare(foto Antonio Chiarello)
statua della santa portata in processione a mare(foto Antonio Chiarello)
La storia de Santa Cisaria

Libero adattamento in forma di cantastorie di un antico canto popolare di Giuseppe Corvaglia

1     E’ questa la storia di Santa Cesarea nostra che, pur essendo piccola per età, dimostrò un grande coraggio. Cesarea era una fanciulla bella, ma modesta e delicata.

La mamma era morta quando ella era ancora piccinina e lei aveva trovato conforto nella fede, dedicandosi anima e corpo a Dio. Ma il padre, sconvolto dal dolore per la perdita della moglie, era attratto dalle grazie della fanciulla e iniziò a desiderarla fino all’ossessione.

Santa Cesarea bella,

a Dio donasti il cuore,

lu   patre traditore

che la voleva sposa’.

2         Il padre di Cesarea è ossessionato: vuole a tutti i costi possedere la fanciulla, ma lei ha donato a Dio il suo cuore e vuole serbarlo puro come il suo corpo.

La furia del padre è, però, cieca e lei non può contrastarla.

Allora escogita uno stratagemma per potersi mettere in salvo: dice al padre che acconsentirà ai suoi voleri e chiede alcuni momenti per lavarsi. Ma, invece di prepararsi, lega due colombi sul fondo di una bacinella che, battendo le ali, fanno credere allo snaturato genitore che la fanciulla si stia lavando e poi, paurosa e tremante, se ne fugge via.

Prese due palombelle

le mise in un bacile

e poi si mise a fuggire

tutta tremante in sen.

3        Ma lo snaturato genitore è impaziente e l’inganno non può durare a lungo.

Così, dopo aver atteso invano l’arrivo della fanciulla, apre la porta e resta sbalordito.

Vede le colombe legate, la finestra aperta, capisce e si lancia all’inseguimento della giovine che corre trafelata.

Fuggiva e si voltava

suo patre la ‘rrivava,

la spata spoderava

che la voleva ammazzà

4       La fanciulla trema: ha paura della persona che dovrebbe volerle più bene, ha paura di quello che potrebbe accadere al proprio corpo e alla propria anima e prega chiedendo all’Altissimo una grazia da far tremare i polsi: “ Aprite munte e gnuttite Cisaria / E li stivali de sirma ‘nzurfu e rena”

Le sue preghiere vengono ascoltate: la roccia si apre e padre e figlia ne vengono inghiottiti, ma Cesaria prima di morire riesce a vedere la gloria degli Angeli che la incorona indicandole il Paradiso, mentre il padre viene a prenderselo il diavolo che lascia traccia di sé nelle grotte sulfuree.

Aprite munte in due

Cesarea sta ‘nserrata

si vede incoronata

dagli Angeli del ciel.

Portate  palme e  fiori

Santa Cesarea bella

in cielo  c’è  una stella

la gloria del Signor.

 

Il filmato del canto proposto come cantastorie, fatto da Luigi Zappatore a Nociglia nella festa campestre di San  Donno nel 2008, mostra la versione cantata dal gruppo Totine Sud Sisters ( Ros’Ines, Natalina (voce e Chitarra), Mirella e Stefania Corvaglia) con la partecipazione di Giuseppe Corvaglia (Flauto), Raffaele Rizzello (clarinetto) In quell’occasione suonarono nel gruppo anche Rizzo Rocco C., Angelo Zappatore , Giorgio Ruggeri e Emanuele Cortese.

Il video è visibile su you tube al link

https://www.youtube.com/watch?v=YRWjLACvhpc&feature=youtu.be

 

 

Giorgio Cretì come uno sciamano

giorgio cretì

di Giuseppe Corvaglia

 

A Natale mi è arrivato   uno dei più bei regali dello scorso anno: il libro di Giorgio Cretì “Ortelle e dintorni” dono per i sostenitori della Fondazione Terra d’Otranto.

Questa pubblicazione, che raccoglie tutte le sue opere letterarie, mi ha richiamato i Meridiani di Mondadori e dopo averlo letto ho pensato che l’opera sia stata un degno modo per valorizzare uno scrittore di spessore non noto ai più.

In questi giorni di questa estate che non si decideva ad arrivare ed ora ci delizia col suo caldo ecco che giunge come un felino predatore la nostalgia per il Salento.

Sei intento a fare le tue cose e a un tratto senti in’inquietudine, non vedi l’ora di ritornarci, di vedere quei posti, quelle persone, quei sapori che sono la tua gente, i tuoi posti, i tuoi sapori. Così gironzolando davanti alla libreria ecco che come magneticamente, mi capita fra le mani il gradito dono e mi vien voglia di rileggere alcuni racconti come panacea alla nostalgia, ma anche per il piacere di immergermi di nuovo in quel mondo come in un liquido primordiale.

Avevo apprezzato già in passato alcuni suoi racconti sul sito e una pubblicazione sulla panificazione e ne ero stato piacevolmente colpito. A parte la gradevolezza e la forza espressiva mi avevano interessato la capacità di trasmettere un sapere antico che io avevo assaporato con i miei nonni, i miei genitori e tutto quel mondo di amici, parenti, vicini di casa, paesani che ti fanno sentire bene parlandoti, sorridendoti, prendendosi cura di te, facendoti crescere non solo nel corpo, ma anche nell’anima.

copertinafronte

Quelle cose che sembrano banali, ordinarie sono le tue radici, il mezzo che ti lega alla terra e che ti porta il suo nutrimento. Non le vedi, non le tocchi, ma ti servono come l’ossigeno dell’aria che i polmoni aspirano e le cellule di ogni parte del corpo utilizzano per vivere. Da quelle radici ognuno trae la linfa che lo farà diventare quello che è.

Ma spesso la memoria si perde, le persone care se ne vanno e non risenti più le storie, i proverbi, i consigli, le istruzioni per fare una cosa, il nome e il posto di quella pianta particolare.

La memoria è uno strumento insostituibile per ognuno di noi così come per la  comunità (memoria collettiva), ma è anche fragile come strumento e talvolta, pure se rimane nel nostro cuore, è impossibile richiamarla nei nostri pensieri.

Ogni comunità cerca di salvaguardare la sua memoria perché da essa deriva la possibilità  di progredire nella propria identità, di crescere senza snaturarsi. Ogni società dovrebbe saperlo e cercare di custodire la memoria che è bene comune.

Nelle comunità primitive c’erano delle persone deputate alla custodia di questa memoria.

Lo sciamano era l’uomo medicina, ma anche l’uomo della sapienza (le parti del nome sciamano fanno riferimento a radici di uomo e sapere) e l’uomo della memoria.

Lo sciamano conosceva rimedi e codici che potevano regolare la vita e la salute della comunità ma conservava anche quel sapere che era memoria. Nelle culture animistiche lo sciamano trae molte informazioni dal rapporto particolare con l’al di là e la maggior parte dei suoi atti sono permeati di magia.

Anche le nostre comunità avevano degli sciamani. Persone rispettate, capaci di stimare ricchezze, raccolti, terreni, di curare mali con erbe, unguenti ed impiastri, di dirimere liti e contrasti, ma soprattutto genti capaci di rispondere alle tante domande della comunità.

Tutti i nostri nonni in qualche modo sono stati sciamani e tutti noi in piccolo o in grande lo saremo.

Ho conosciuto persone che ricordavano canti, nozioni, storie, e la storia della comunità. Noi giovani avidi di conoscere le nostre radici abbiamo cercato e trovato queste persone, ma non sempre abbiamo rintracciato tutte le risposte, e, bisogna ammettere, talvolta, presi da giovanili ardori siamo scappati rimandando a domani le domande e le risposte. Nel crescere anche le domande sono cresciute e non sempre le risposte sono arrivate anche perché spesso chi poteva dartele se ne era andato.

Oggi molte risposte le ho trovate nei racconti e nei romanzi di Giorgio Cretì.

L’amore per la sua terra, quell’amore ancora più speciale perché vissuto da lontano, lo ha portato a farsi tante domande e a trovare tante risposte.  Molte di queste risposte ce le ha rese nelle sue storie. Vedere le splendide chiese di pietra leccese, le lamie assolate coperte di chianche ti porta a chiederti cosa è quella pietra. Puoi andare e vedere le cave di oggi, meccanizzate, moderne, produttive, ma ti chiedi come è stata estratta la pietra per la casa di mio nonno e per le chiese secentesche ed ecco che  vedi con gli occhi della fantasia, ma lo vedi davvero, il cavamonti. Un uomo che si aggira fra sterili rocce terreni buoni solo a produrre timo, dove non si può coltivare nulla che si aggira saggiando quei ” cuti” con gesti misurati ma misteriosi, quasi apotropaici, e scopre una ricchezza sotto.

Oppure rievocare piccoli gesti come preparare una lampada votiva utilizzando come stoppino la corolla di un fiorellino di campo, l’olio e un bicchiere, oppure ancora riecordare piante, fiori, frutti, utensili e piccoli atti di vita.

Il tempo ci ha fatto crescere e ci ha fatto allontanare da quel mondo, ma ne sentiamo forte la nostalgia e per chi, come me in questi giorni, conta i minuti che lo separano dal ritorno, ma anche per chi, pur restando nel Salento,  si è allontanato dal mondo antico per gettarsi a capofitto nel mondo moderno, più accattivante, più scintillante, sicuramente più attraente, ma alla fine non sempre davvero appagante, potersene riappropriare, anche solo con la lettura, è meraviglioso.

Così cerchiamo le nostre radici, ma così come la memoria da riferimento orale è diventata storiografia con lo studio dei documenti e la valutazione critica delle testimonianze, anche lo sciamano moderno non può più esprimersi confidando nel suo rapporto con l’al di là.

Cretì, uomo dall’intelligenza viva, si è fatto tante domande ed ha trovato tante risposte non per magia, ma affidandosi, come un moderno sciamano, alla conoscenza e alla scienza moderna offrendole a noi.

La sua lettura è quindi un piacevole arricchimento letterario ma è anche una splendida bevanda fresca, chiara dissetante che spegne la nostra sete di saperne di più di un piccolo mondo antico.

Il Calvario di Spongano sito in contrada Santa Marina

 

Calvario di Spongano (lato nord) (ph Giuseppe Corvaglia)
Calvario di Spongano (lato nord)
(ph Giuseppe Corvaglia)

di Giuseppe Corvaglia

 

Il Calvario è un monumento presente, se non in tutti, nella gran parte dei paesi del Salento.

Il modello più comune è quello a semicupola o a edicola absidata, all’interno della quale ci sono degli affreschi che raffigurano i momenti principali della passione di Gesù, come la crocifissione, la deposizione, ma anche la preghiera nell’orto degli ulivi, la flagellazione alla colonna  o il cammino verso il Golgota.

In alcuni, come a Diso e Vignacastrisi, nella parte bassa viene raffigurato anche Gesù morto, deposto nel sepolcro; a Montesano e in altri posti viene riportata  la deposizione dalla croce. Ai lati vengono spesso raffigurati il buon ladrone e il mal ladrone.

Di forma ad edicola absidata ne troviamo molti nel circondario (Botrugno, Castiglione, Diso, Vignacastrisi, Vitigliano, Montesano, Ruffano, Montesardo, Miggiano, Tiggiano e Tricase).

Ci sono poi Calvari a edicola poligonale (come quello di Andrano), a emiciclo o a esedra curva   (come quello di Parabita) o ad esedra poligonale (come quello di Depressa), a recinto (come quello di Maglie) o, ancora, a portico, detto anche monoptero (come quello di Ortelle) o, infine, a tempietto, come quello di Spongano.

Calvario di Montesano (ph Giuseppe Corvaglia)
Calvario di Montesano
(ph Giuseppe Corvaglia)

Il monumento non è stato concepito in origine per pregare solo nella Settimana Santa, ma voleva essere un monito per tutti i giorni, finalizzato al culto pubblico per il beneficio spirituale di tutta la comunità cittadina locale.

Ricordo ancora la giaculatoria da recitare quando si passava davanti: «Gesù Crocefisso, liberatemi dalle fiamme dell’inferno e dal morire dalla morte improvvisa».

 

La Cappella di Santa Marina

A Spongano siamo abituati a definire la zona che da piazza della Repubblica porta alla stazione, come a susu Calvariu oppure a su Santa Marina; il primo riferimento è intuitivo, ma il secondo resta solo come toponimo, perché della chiesetta di Santa Marina non c’è più traccia.

Nella zona vicino al tempietto del Calvario, a Spongano, esisteva in passato un’antica cappelletta, dedicata a Santa Marina. Di questa cappelletta l’ultima vestigia è un quadro della Santa, conservato presso la nostra Chiesa Parrocchiale.

Santa Marina

La cappella, esistente già nel ‘700, fu demolita, essendo diventata fatiscente, e agli inizi del XX secolo fu costruita l’attuale cappella dedicata al Sacro Cuore di Gesù, inaugurata nel 1911.

interno della cappella (ph Antonio Chiarello)
interno della cappella (ph Antonio Chiarello)

In prossimità di questa cappella si teneva ogni anno, a luglio, una fiera con vendita  del bestiame e la celebre cuccagna, in cui si cimentavano i giovani più agili del paese, sopravvissuta fino agli anni ’50.

 

Il Calvario

Il Calvario di Spongano si distingue da tutti gli altri Calvari salentini. L’iconografia di questa opera, particolare nel suo genere, non si affida ad immagini dipinte, ma alle formelle del timpano e viene scandita dalle epigrafi lapidee nucleo del monumento.

Il monumento, che celebra la Passione di Gesù Cristo, venne costruito nel 1871, probabilmente sulla spinta delle predicazioni dei Padri Passionisti, grazie ai fondi raccolti dalla popolazione e a un contributo della Civica Amministrazione che consentì il compimento dell’opera.

Calvario a Montesano (ph Giuseppe Corvaglia)
ph Antonio Chiarello

Redasse il progetto Filippo Bacile di Castiglione che elaborò un Calvario originale.

Il valente architetto, incline alla moda dell’eclettismo, scelse un’architettura classicheggiante che rievocasse il periodo storico contemporaneo a Gesù e la simbologia della passione e morte del Redentore.

Il monumento è dato da un tempietto circolare aperto e formato da colonne, disposte in cerchio, sormontate da un timpano, sovrastato da una cupola, con lesene dove sono scolpiti simboli rievocanti episodi della Passione,.

Al centro sono posti cinque parallelepipedi sormontati da croci che, da qualunque parte le si guardi sembrano tre. Sulle facce di questi parallelepipedi ci sono delle epigrafi che raccontano la vicenda di Gesù, la cui evocazione viene completata dagli oggetti scolpiti sulle lesene del timpano. Il maestro scalpellino esecutore del lavoro fu Giuseppe Pisanelli.

 

Epigrafi

Le Epigrafi sono il nucleo del monumento.

ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia

La lapide principale è quella dedicatoria che dice: TRIUMPHALI CRUCIS VEXILLO IN CALVARIA PRIMUM EXPLICATO  SPONGANENSIUM PIETAS COLLATICIA STIPE AN. MDCCCLXXI P ( posuit) cioè “la Pietà degli Sponganesi, che raccolsero i necessari fondi per la costruzione, dedicò quest’opera nell’anno 1871 a quel trionfale vessillo che è la Croce mostrata al mondo come tale per la prima volta sul monte Calvario”.

In alto, nella parte interna, a livello del timpano, è dipinta la scritta REGNARE NESCIENS NISI IN CRUCEM REX NOSTER vale a dire “il nostro Sovrano sa regnare solo nel segno della Croce”.

Sulle restanti facce dei parallelepipedi ci sono iscrizioni che si riferiscono allo svolgersi della passione, riprendendo i cinque misteri dolorosi del Rosario.

Cupola interna e croci (ph Antonio Chiarello)
Cupola interna e croci (ph Antonio Chiarello)

La prima epigrafe, Orans sanguinem in sudorem emittit, fa riferimento alla preghiera che Gesù recita nell’orto degli ulivi quando, mentre sta  pregando, dalla fronte geme insieme sangue e sudore.

La successiva (OBOEDIT) evidenzia come il Figlio dell’uomo abbia obbedito anche di fronte alle immani sofferenze che sapeva di dover sopportare.

La seconda iscrizione (Flagellis caeditur ad columnam) fa riferimento alla flagellazione patita da Gesù per ordine di Ponzio Pilato.

La terza parla di come sia stato incoronato con una corona di spine (Spinea redimitur corona) per dileggio.

La successiva lapide mostra ancora una sola parola, DILEXIT, che vuol dire amò, perché solo chi ama fino in fondo può sottoporsi a così dura prova.

La successiva (Crucem bajulat in Calvariam) fa riferimento alla Via Crucis quando il Redentore porta sul Monte Calvario lo strumento del suo supplizio.

L’ultima (Affixus Cruci moritur) racconta l’epilogo della vicenda che vede Gesù, crocefisso, morire sul Golgota.

 

Le formelle del timpano iconografia della Passione di Cristo

Il Calvario di Spongano, come abbiamo detto, è diverso dagli altri Calvari salentini, perché non affida il racconto della Passione ad immagini dipinte, ma a epigrafi e bassorilievi, scolpiti in pietra, nelle lesene del timpano, raffigurando oggetti rievocanti episodi della Passione, come nelle croci processionali usate nei riti del Venerdì Santo.

Croce passione Spongano
ph Giuseppe Corvaglia

 

In queste formelle si possono vedere il vaso di unguenti, usato dalla Maddalena in casa di Simone per profumare anzitempo il corpo e i capelli di Gesù, la brocca e la bacinella con cui Pilato si lava le mani e le insegne del potere romano, la corona di spine, i flagelli, il pugno di ferro e la colonna dei supplizi, ma anche le lanterne e i fasci portati dai soldati andati ad arrestare Gesù nel Getsemani, e ancora la tunica tirata a sorte dai gaglioffi sotto la croce, i dadi, la lancia e la canna con la spugna, usate per dissetare e trafiggere il Crocifisso, il calice amaro della passione, il compenso e il cappio del traditore, il sudario della sepoltura e così via.

ph M. Preite
ph M. Preite

Oggi

Da tempo il Calvario compare sulle guide turistiche del paese, viene illuminato di notte e posto in bell’evidenza, ma cominciava  a mostrare le crepe del tempo che si allargavano viepiù fino a metterne in pericolo la sua stabilità e la sua conservazione.

Le formelle del timpano, su cui sono scolpiti i simboli della Passione, cominciavano a deteriorarsi, alcune per l’erosione della pietra, altre per crepe nella pietra stessa.

Un albero, che casualmente si chiama Albero di Giuda (Cercis siliquastrum), aveva esteso le sue radici fin sotto i gradini del tempietto, sollevandone  alcuni, e forse proprio questa spinta dal basso può essere stata la responsabile delle crepe.

Le stesse radici spingevano la balaustrata del lato sud verso l’esterno rendendola instabile. Dal lato est (lato verso la piazza) un possente pino sconvolgeva la balaustra e forse spingeva anche lui dal basso il tempietto e anche da nord l’inoffensivo e bellissimo skynus (o finto pepe) spingeva pericolosamente la balaustra e il tempietto, perché la roccia sotto di lui ne impediva la naturale propagazione delle radici .

ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia

Spongano, paese pieno di devozione e generoso, non meritava la perdita di questa importante memoria dei nostri padri, particolarmente originale e significativa.

Tuttavia non ci sono state iniziative e l’Amministrazione Comunale, non essendo proprietaria del bene, ha solo potuto tagliare e rimuovere  il maestoso pino, responsabile in gran parte della instabilità della balaustra.

Non si è neppure costituito un comitato che, come hanno fatto i nostri padri nel 1870 con la raccolta di fondi per costruirlo, potesse dar vita a una iniziativa per salvarlo.

E’ vero che quando si tratta di intervenire su un bene culturale è necessaria perizia e grande competenza, non ci si può improvvisare, e bisogna dare atto che i cittadini di Spongano, in particolare quelli di S. Marina, come si chiama la zona circostante, si sono spesi per ridare dignità al luogo come hanno potuto.

Oggi il recupero di Calvario è una realtà grazie a un progetto di don Vito Catamo, emerito parroco di Spongano, progetto auspicato anche dal compianto sindaco Luigi Zacheo e coordinato dall’attuale parroco don Donato Ruggeri i quali, d’intesa con la Soprintendenza ai beni artistici e culturali e l’Ufficio diocesano dei beni culturali, hanno contribuito a realizzare un progetto che ristabilisce la stabilità e l’integrità di un monumento tanto delicato.

Calvario oggi Preite
ph Antonio Chiarello

A compiere i lavori è stata l’impresa GEM di Marco Preite, non nuova a questo tipo di opere, avendo già ristrutturato una casa del ‘700 in via S. Leonardo e il pregiato frantoio ipogeo di Palazzo Bacile.

Così oggi il Calvario di Spongano, liberato delle insidie delle piante, ormai troppo ingombranti, e riadornato del muro perimetrale, ricostituito con il recupero della balaustra, si può ammirare nella sua nuda bellezza senza sospirare per la sua precarietà.

Ci sarà da lavorare per restaurare il tempietto e valorizzare sempre più il pregevole sito. Per quello ci auguriamo che la devozione e la generosità degli Sponganesi di oggi sappia emulare quella SPONGANENSIUM PIETAS dei loro avi, così che un domani si possa restituire il Calvario all’antica bellezza.

 

 

Bibliografia:

  1. G. Corvaglia, Il Calvario di Spongano sito in contrada S. Marina- Note di storia locale, 2003 Erreci Edizioni Maglie – Comune di Spongano
  2. http://www.comunemontesanosalentino.it/fenomeno-calvari-nel-salento

Santa Vittoria Vergine e Martire: storia di una devozione a Spongano

 

Santa Vittoria, da  http://www.comune.ficulle.tr.it/it/senza_titolo_1.html
Santa Vittoria, da
http://www.comune.ficulle.tr.it/it/senza_titolo_1.html

di Giuseppe Corvaglia

(dall’intervento del 22 dicembre 2006 ai bambini della scuola elementare di Spongano)

 

La devozione verso Santa Vittoria degli Sponganesi non è presente alle origini del paese.

E’ nel ‘600 in seguito alla Controriforma e soprattutto sotto l’influenza di Vescovi, come il vescovo di Castro Francesco Antonio De Marco che dona alla comunità una reliquia della Santa, che si cerca di far radicare il culto di Santi romani rispetto al culto di Santi di origine greca molto diffuso nel Salento per ragioni storiche e politiche.

A Spongano, a parte il culto mariano, erano oggetto di culto diversi Santi di origine greca: San Giorgio, titolare della parrocchia, Santa Marina, San Teodoro.

Nel XVII secolo viene introdotto a Spongano il culto di Santa Vittoria vergine e martire,fanciulla della nobiltà romana tesa verso una vita felice, promessa sposa ad un giovane nobile e brillante la quale si avvicina però alla buona novella cristiana grazie agli insegnamenti della cugina Anatolia. La fanciulla rinuncerà alle liete prospettive di una vita agiata e desiderabile e si donerà completamente a Cristo e alla carità verso i fratelli affrontando con fortezza e fede salda il martirio.

Gli Sponganesi provarono grande simpatia e devozione per questa giovane donna che rinuncia a una esistenza lieta, spensierata per insegnare l’amore senza paura di affrontare la morte e il 20 luglio 1766 con riunione del Capitolo parrocchiale e  un’adunanza del parlamento cittadino,  acclamano Santa Vittoria “special Protettrice e Padrona di questa terra di Spongano” ufficializzando una devozione sincera e sempre più crescente. Il parroco dell’epoca era don Crispino Bacile.

La Sacra Congregazione dei riti, sotto il papa Urbano VIII, il 21 febbraio 1767 concede di festeggiare la Santa nella seconda domenica di agosto.

La devozione è davvero sentita e così lo stesso anno il clero e il popolo chiedono il permesso di cantare il responsorio, scritto da un anonimo devoto sponganese, Salve Christi sponsa electa, un canto suggestivo giunto fino ai giorni nostri con intatta capacità di evocare intensa devozione. Il testo canta la storia e le virtù della santa giocando molto sul nome Vittoria e sul suo significato.

Negli anni successivi viene anche avanzata la richiesta di poter festeggiare la Santa anche il 23 dicembre data del suo martirio, secondo il martirologio romano, e il 3 agosto 1785 il Vescovo di Castro Agostino Gorgoni acconsente alla richiesta.

A Spongano, Santa Vittoria viene invocata contro il terremoto, la grandine, il maltempo e i fulmini. Probabilmente questo è da porre in relazione con alcuni episodi accaduti uno dei quali il 2 settembre 1779 e un altro il 13 agosto 1884 entrambe nella Chiesa Madre.

Un altro prodigio viene riferito, con aura di leggenda, durante la celebrazione per la festa patronale quando un fulmine entrò dal finestrone centrale della facciata con grande strepito, attraversò tutta la navata centrale piena di gente, come il resto della Chiesa, e andò a schiantarsi sul braccio del simulacro della Santa. Si dice che alcuni dei presenti videro il braccio della statua lignea protendersi verso la saetta quasi a proteggere la gente radunata in quel luogo sacro.

I tempi cambiano e nel 1951, in occasione del XVII centenario del martirio della Santa, il parroco dell’epoca, don Antonio Ligori, scrive un inno alla Santa in italiano con il quale si invoca la sua protezione sulle persone più deboli come i malati (la sofferente età), gli anziani (la declinante età) e su l’umanità intera. ma anche sui giovani (la giovanile età) bisognosi di sostegno e di guida. Santa Vittoria è ricordata infatti per l’opera di apostolato rivolta soprattutto ai fanciulli e ai bambini mentre era prigioniera a Trebula nell’agro romano; anche per questo la Santa è protettrice della gioventù femminile di Azione Cattolica.

Questo inno resta attuale anche se da alcuni anni è in auge un pregevole inno, composto dal Prof. Antonio Rizzello, più moderno, orecchiabile e coinvolgente ma non per questo meno autorevole.

Il testo evoca la storia della Santa e invoca la sua protezione sugli sponganesi e, nel ritornello, assume il nome, Vittoria, con il suo proprio significato. (Vittoria avrà chi crede in Te e dona a dio la sua libertà).

Come si può vedere ancora oggi la devozione verso questa Santa a Spongano non si è per nulla attenuata e non solo per la sontuosità dei festeggiamenti in suo onore, ma soprattutto per la sentita partecipazione del popolo di Spongano alle funzioni e alla affollata processione.

Pubblicato su Villaggio Salento Agosto 2007

 

RESPONSORIO IN ONORE DI SANTA VITTORIA v. m.

(anonimo sponganese  1767)

 

Salve Christi sponsa electa

Coeli sedibus invecta

Thriumphans Victoria

                                             Rit.      Deum pro nobis deprecare

                                                         Ut possimus reportare

                                                         De mundo victoria

Forti pectore expulisti

Et insaniam repressisti

In tui amore Eugenii.

                                              Rit.       Deum pro nobis deprecare……

Te fortiorem admiramur

Dum constantem contemplamur

In tormentis Decii

                                               Rit.      Deum pro nobis deprecare

Duplex hostis debellatur         

Duplex tibi preparatur

Palma in coelis gloriae.

                                              Rit.      Deum pro nobis deprecare

Gloria Patri et filio                                                         

Et Spirito Sancto

Traduzione

 

Salve, o eletta sposa di Cristo,

Vittoria,

condotta in cielo in trionfo.

                                                          Rit.      Intercedi per noi presso Dio

                                                                     affinché possiamo essere                     

                                                                     vittoriosi sulle malvagità

                                                                    e le avversità del mondo

                                                                    

Esprimesti un cuore saldo

E vincesti l’insensatezza

dell’amore per il tuo Eugenio.         

                                                                  Rit.

 Ti Ammiriamo fortemente

 e ti  contempliamo sicura

 nei tormenti  subiti per ordine di Decio

                                                                                               Rit.     

 Hai vinto un doppio nemico

 E per questo ti è stato preparata

Una duplice gloria  nei cieli.

                                                                                               Rit.    

Gloria al Padre e al Figlio

E allo Spirito Santo

                                                                                               Rit.     

 

INNO A SANTA VITTORIA NEL XVII CENTENARIO DEL MARTIRIO

                                                               (1951)

Scritto da Mons. Antonio Ligori

Musica di Padre Raffaele Letizia

Santa Vittoria Martire che il cor sacrasti a Dio

E nella fede intrepida sprezzasti il mondo rio

Salve o Vittoria Vergine; dal ciel di tua beltà

Mira con occhio tenero la giovanile età. (2 volte)

 

Il petto tuo virgineo offristi con ardore

Al duro acciar che celere ti trapassava il core;

fecondo allor spandevasi tuo fior di castità;

mira con occhio tenero la sofferente età. (2 volte)

 

Tuo nome ognor rivelasi presagio di vittoria

E col passar dei secoli assurge a nuova gloria .

I figli erranti e trepidi invocan tua pietà

Mira con occhio tenero la declinante età (2 volte)

 

Da questa terra turgida d’odio, di sangue ed onta,

guida nostr’alme misere al Ben che non tramonta;

fa che seguiamo docili le vie dell’amistà;

mira con occhio tenero tutta l’umanità. (2 volte)

 

Del dolce Cristo inebriaci Vita dell’alme e Via,

forti ci renda e impavidi la Santa Eucaristia;

Del cieco invano cercasi del Ciel la chiarità,

deh, Tu ci appresta vigile tua tenera bontà. (2 volte)

 

Spongano fedelissima dei Padri alle memorie

Nel centenar con giubilo inneggia alle tue glorie.

Tu a Cristo questo popolo tua dolce eredità

Consacra e un dì festevole Vittoria canterà (2 volte)

 

 

Inno a Santa Vittoria 

parole e musica del Prof Antonio Rizzello

Martire della fede,

O vergine Vittoria,

Cantando la tua gloria

Ci rivolgiamo a Te.

 

Tu consacrasti a Dio

Il fior degli anni tuoi

Vigila su di noi

Dall’alto della tua santità

 

Rit.      Vittoria avrà

Chi come Te

Consacra a Dio la sua libertà

Esempio Tu di fedeltà

di sacrificio e di carità.

 

Andasti al tuo martirio

Col tuo Signore in cuore

Il tuo terreno amore

Donasti al tuo Gesù.

 

L’esempio tuo risplenda

In tutti noi tuoi figli

La tua virtù consigli

A non tradire la verità.

 

Rit.      Vittoria avrà

Chi come Te

Consacra a Dio la sua libertà

Esempio Tu di fedeltà

di sacrificio e di carità.

Un libro sulla chiesa confraternale di Spongano

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di Giuseppe Corvaglia

 

Così è finalmente arrivato il nuovo libro di Filippo Giacomo Cerfeda: “Loquar ad cor eius – La chiesa confraternale dell’Immacolata di Spongano e l’omonima Confraternita”.

La passione per la storia e i documenti lo spinge sempre a farci conoscere aspetti della nostro passato che ci fanno sentire più completi e aumentano l’orgoglio di appartenere a questa comunità.

La storia serve a farci capire da dove veniamo, è la radice che ci ancora a questo mondo e che ci rende saldi nel cammino, ci rende forti quando è tempo di spiccare il volo ed è la meravigliosa sensazione che ci fa sentire a casa anche in capo al mondo. La storia dei nostri luoghi è parte fondamentale della nostra identità e dobbiamo ringraziare chi arricchisce questo patrimonio.

Questa volta, però, il lavoro di Cerfeda mi è sembrato particolarmente eccellente perché, oltre a parteciparci dei documenti nascosti in archivi polverosi, ha saputo raccontarci la vita della Congrega dell’Immacolata di Spongano dagli albori della sua esistenza fino ai giorni nostri mostrandocela come una creatura che, nonostante i 360 anni trascorsi dalla sua fondazione, è ancora vitale e pulsante, capace animare l’aspetto devozionale senza far mancare un apporto diverso alla comunità, e a far sentire viva questa vita di fratellanza al lettore.

L’autore, da archivista fine e appassionato, ci mette a disposizione tutti i documenti che ha trovato negli archivi vicini e lontani e anche in quelli smembrati (come quello della diocesi di Castro diviso fra gli archivi parrocchiali di Poggiardo, Castro, Marittima e Diso e l’archivio diocesano di Otranto), ma, da didatta, non tralascia di spiegare il senso e il succo di questi documenti.

Ne restano perciò appagati sia gli estimatori appassionati, che possono gustare i documenti per loro inaccessibili, sia i lettori comuni che vogliono conoscere la storia e il senso attuale di questa Confraternita.

Ma questo libro ha un altro pregio, quello di proporci documenti attinti a fonti diverse: dall’Archivio diocesano, che Filippo Cerfeda conosce bene, agli archivi citati, compresi quello della Confraternita e della Parrocchia. Ci propone, infatti, anche molti documenti notarili che ci spiegano meglio alcuni aspetti frequenti dei tempi andati, quando le Confraternite, oltre alla formazione spirituale e al suffragio dei morti, erano dedite anche al soccorso degli associati concedendo dei prestiti o l’uso dei terreni di loro proprietà.

Il percorso propostoci dall’Autore ci racconta l’evoluzione della confraternita che, nata come associazione devozionale, si trova ad avere a che fare anche con le leggi del mondo per cui verso la fine del 1700, quando la stessa deve essere riconosciuta dallo Stato, si chiede l’assenso del Re per la fondazione e le regole. L’ assenso verrà poi concesso il 15 marzo del 1778.

La supplica al Re è firmata da 67 cittadini, fra cui i sacerdoti della parrocchia, e ci fa vedere cognomi noti e magari anche quelli dei nostri avi.

I tempi cambieranno e altre volte la Confraternita dovrà chiedere il riconoscimento come persona giuridica sia nel 1925 sia nel 1992.

Un altro segno dei tempi che cambiano sarà nel 1820 l’approvazione di una regola, per una Fratellanza inizialmente solo maschile, che consenta di associare anche le donne, ancora oggi una importante parte dell’associazione. Tale disposizione verrà attuata da un decreto del Re del 1830.

Interessante poi l’excursus sulle diverse confraternite laiche della storia di Spongano che, rispetto a precedenti lavori, appare più completo, perché Cerfeda riesce a fare il punto della situazione, integrandolo con altre notizie, come per la Confraternita del Rosario che a un certo punto cessa di esistere, per cui il patronato dell’altare della Madonna del Rosario, restando la devozione, diventa di patronato popolare.

C’è da dire, come riconosce l’autore stesso e sa bene chiunque abbia cercato di interessarsi della materia, che soprattutto le nostre comunità, che facevano parte della diocesi di Castro, hanno patito una dispersione documentaria che per certi aspetti non ha favorito una ricerca mirata e puntuale; questo ha reso ancora più prezioso il lavoro e lo sforzo dell’autore.

Un aspetto, per me, molto interessane e allo stesso tempo sconosciuto è stato la scoperta di aggregazioni con altre confraternite che erano una forma di solidarietà fra confraternite che si scambiavano i suffragi per i propri confratelli defunti. Infatti in base a veri e propri accordi, la Confraternita di un paese ricordava nelle messe di suffragio anche i defunti di altre Fratellanze le quali, a loro volta, ricordavano i defunti di quella confraternita nelle messe di suffragio per i propri morti. Cerfeda ci mostra alcune di queste lettere che rammentano al priore in carica gli accordi chiamati anche alleanze, per meglio rendere l’idea.

Molto interessanti sono le notizie sul culto della Madonna Immacolata. A differenza del culto di Santa Vittoria, il culto mariano, e in particolare dell’Immacolata, lo troviamo già alle origini della comunità. Cerfeda ci ricorda che già nella vecchia chiesa parrocchiale c’era un altare dedicato e che il decreto di fondazione della confraternita intitolata a Maria Immacolata risale al 1653.

Altre notizie ci vengono date sulla cappella vera e propria, dalla sua origine alla sua riedificazione dopo dei danni prodotti verso la metà del 1700 da eventi atmosferici. Dai documenti non si evince chi sia stato il costruttore né colui che l’abbia riedificata, ma Cerfeda fa un lavoro di “investigazione”, riuscendo a formulare un’ipotesi sicuramente attendibile che riferisce alla famiglia Gambino sia l’iniziativa sia proprio la maestranza per la ricostruzione dell’opera.

Anche il capitolo degli arredi ci fa scoprire cose nuove ed inaspettate come il Calvario mobile dipinto da Alessandro Bortone e che speriamo non sia andato perduto.

Altro capitolo curato dall’autore è quello dei privilegi e delle concessioni dove cita e riproduce brevi e documenti papali che definiscono tali privilegi soprattutto nei giorni di festa per la Madre di Dio e per gli altri compatroni della confraternita: San Raffaele Arcangelo e San Luigi Gonzaga, le cui effigi troviamo ai lati del dipinto dell’Immacolata.

Bella poi la spiegazione dell’epigrafe posta sopra lo stesso dipinto che l’Autore utilizza in parte per il titolo di questo libro. Da esperto epigrafista non gli basta tradurre dal latino, ma ci propone alcune spiegazioni esegetiche davvero molto belle e ci fa capire quale poteva essere l’intento dei padri che l’avevano scelta come monito per tutti.

Penso che la spiegazione di Sant’Alfonso Maria de Liguori sia quella più appropriata, perché la preghiera è comunitaria, come quella della confraternita, ma è anche raccoglimento e meditazione di chi si porta in un luogo isolato e cerca un dialogo con Dio che parla al suo cuore.

Altre interessanti notizie Cerfeda ce la dà riguardo ai censi bullari e ai canoni: i primi erano prestiti erogati dalla Fratellanza e regolati da bolle pontificali che evitavano interessi da usura e che diventavano una risorsa specie per i confratelli meno abbienti e più esposti, i canoni erano gli affitti delle proprietà terriere, anche loro a prezzo agevolato.

Entrambe erano una cosa molto seria tanto che per stipularli era necessario un atto notarile e  proprio da questi atti, proposti dall’autore e ritrovati in archivi privati, come quello di casa Bacile, assumiamo tanti particolari che ci danno uno spaccato della vita di quei tempi.

E’ però degna di nota tutta la parte documentale che è apprezzata, per lo più, dagli addetti ai lavori. Qui diventa una lettura molto interessante specie nella parte che ci fa conoscere le regole  sia quelle della prima concessione reale del 1778 sia quelle della seconda concessione, fatta dopo la riforma del diritto canonico del 1925.

Sono regole interessanti da leggere e attualissime  per chi voglia chiamarsi cristiano e devoto ma anche per chi si vuole chiamare persona civile. Gli articoli XIII (Procurino li Fratelli amarsino l’un l’altro nel Signore ed esser fra loro uniti con sincera carità dando buon esempio a tutti con la buona vita e costumi ) e XIV (tutti fuggano con ogni diligenza le mali compagnie, l’ubriachezze, le bestemmie, le mormorazioni ed altri motivi di parole impertinenti e scandalose, schiferanno i giuochi di carte e dadi, e massimamente li luoghi dove si esercitano … e si fanno altre dissolutezze ed eccesso, giocando però per qualche loro onesta ricreazione lo faccino a giuochi leciti e con pochi denari) sono davvero illuminanti, ma anche gli altri non sono da meno.

Possiamo definire questo libro un lavoro bello, edificante e istruttivo, voluto tenacemente dal Priore e da tutti i confratelli che, a vario titolo, hanno contribuito alla sua realizzazione.

Investire, specie oggi, è difficile in tutti i campi, ma farlo nella storia e nella conoscenza è un investimento che non dà apparentemente frutti tangibili immediati, ma che arricchisce l’uomo di oggi e le generazioni future.

Un plauso va anche all’avvocato Paola Vilei per la nota sullo stato giuridico delle confraternite di oggi, semplice, ma molto puntuale ed esplicativa.

La lettura del libro è stata molto gradevole; mi hanno portato a leggerlo, sicuramente, la mia passione per la storia patria e l’attrattiva che da sempre hanno su di me i lavori di Filippo Giacomo Cerfeda, ma forse ha molto contribuito la nostalgia di un chierichetto che serviva messa alla Congrega col suo amico Luigino e si guadagnava un soldino dal priore. Che si confessava al volo prima di entrare per la messa con quel gran sacerdote, innamorato perso della Madre di Dio, che era Don Vittorio Corvaglia, che ti assolveva se volevi comunicarti dicendo:< Che peccati puoi aver fatto?> E aveva ragione: che peccati si possono fare a 10-12 anni?

Nostalgia allora , ma anche sana curiosità, direi anche soddisfatta pienamente, su una delle Istituzioni di Spongano.

Attenti a wikipedia: quando è scritta con i piedi aprite gli occhi

panare

di Giuseppe Corvaglia

Wikipedia è una grande risorsa e il concetto che esprime di raccogliere più informazioni con una serie di informatori diffusi nel mondo per metterle a disposizione di tutti è rivoluzionario e altamente democratico, ma talvolta vengono scritte delle inesattezze quando non proprio delle baggianate.

C’è chi riesce ad accorgersene e a porre rimedio ma chi non si rende conto o non sa? Continuerà a perseverare nell’errore.

Mentre cercavo delle notizie su Santa Vittoria, protettrice del mio paese natio, ho letto che venivano fornite notizie sul culto di Santa Vittoria a Spongano. La cosa mi ha lusingato ma dopo averlo letto sono rimasto di stucco e poi mi sono indignato non poco.

Il testo diceva così: A Spongano la festa viene celebrata il 23 dicembre: in paese si mette in scena una rappresentazione e recita della storia della santa e si perpetua il rito della bruciatura delle panare (le foglie dell’albero della palma). La patrona si festeggia anche durante la stagione estiva, con la festa del paese dell’8 agosto in onore dei turisti.

Ora è vero che la festa patronale è la festa più importante , la festa in cui anche i paesani emigrati ritornano, la festa in cui si ritrova la comunità ma è sempre in onore della Santa. Si possono fare sagre della granita, della cunserva mara, della pirilla, dell’addio e dell’accoglienza in onore dei turisti ma la festa patronale è un’altra cosa.

Ma vediamo le inesattezze riportate.

Il 23 dicembre intanto non si mette in scena alcuna rappresentazione e recita. Negli anni passati la rappresentazione sulla passio della Santa  venivano fatta occasionalmente in estate per la festa grande ma mai a dicembre. E si perché la festa principale a Spongano è quella dell’estate dal 1767 altro che festa fatta in onore dei turisti.  Fu la Sacra Congregazione dei Riti, sotto il Papa Urbano VIII, il 21 febbraio 1767 che concesse di festeggiare la Santa nella seconda domenica di agosto festa che poi nei secoli si è stabilizzata all’8 di agosto quindi molto prima dell’avvento dei turisti.

Solo più di un secolo dopo la Cittadinanza chiese di festeggiare la Patrona il 23 dicembre perché la data della sua memoria indicata dal Martirologio cristiano   era appunto il 23 dicembre e nel 1785 l’arcivescovo di Castro Agostino Gorgoni acconsentirà a tale richiesta.

Sulle Panare poi le informazioni rasentano l’assurdo. Le panare sono cesti, grandi panieri che al posto di avere un unico manico che va da un bordo all’altro, hanno due manici sul bordo per prendere la stessa quando è piena e pesante in due.

Per cui le Panare non sono fatte di palme. Tutti i cesti e tutti panieri vengono fatti di giunchi o di canne.

Le palme nelle Panare di Spongano c’entrano come ornamento al pari di festoni di carta, di edera, di bandierine, di aranci e mandarini etc. etc.

Come farebbero le foglie di palme a sorreggere il peso della sansa che riempie le Panare?

Insomma un pasticcio che mette a nudo un problema  vero: l’affidabilità di uno strumento preziosissimo per tutti noi.

Da qualche giorno con la collaborazione di Antonio Andrea Pedone abbiamo corretto le informazioni così: Spongano la festa principale  viene celebrata l’8 agosto in ricordo di fatti prodigiosi avvenuti a Spongano (uno di questi accaduto proprio nella chiesa madre il 2 settembre 1779). Qui era invocata contro il terremoto, la grandine, il maltempo e i fulmini. La Sacra Congregazione dei Riti, sotto il Papa Urbano VIII, il 21 febbraio 1767 aveva già concesso di festeggiare la Santa nella seconda domenica di agosto. [3] [4]. il 23 dicembre: (……Negli anni successivi viene anche avanzata la richiesta di poter festeggiare la Santa anche il 23 dicembre data indicata dal martirologio cristiano, e il 3 agosto 1785 il Vescovo di Castro Agostino Gorgoni acconsentì a tale richiesta).

Alla vigilia, il 22 dicembre, si svolge una festa detta delle Panare (ceste di canna e virgulti di ulivo riempite di sansa e addobbate con palme, edera ed altri abbellimenti combustibili) che nasce come festa dei frantoi e non ha un riferimento con la patrona anche se sulla gran parte delle panare viene posto un ritratto della stessa [1][2].

 

Ora a questo errore è stato posto rimedio ma sarebbe opportuno che tutti noi, specie le nuove generazioni qualche volta allergiche a ricerche più approfondite e talvolta inclini alla comodità, e wikipedia è comoda, si faccia attenzione e anche che i volontari appassionati che sono preparati sorveglino e che chi non è informato o preparato eviti di scrivere commenti senza fondamento e senza costrutto.

La devozione per la Madonna di Lourdes a Spongano

 Madonna (1)

di Giuseppe Corvaglia

La devozione mariana a Spongano cambia nel tempo aspetti ma resta una costante dell’impianto devozionale, un pilastro per la fede degli Sponganesi come ci ricorda Filippo Casarano in un articolo pubblicato sul giornale del Comune qualche anno fa (Il culto della Madonna – Note di storia locale. Spongano periodico dell’Amministrazione Comunale – Anno V 25 aprile 2001).

Il patronato di Spongano viene chiesto per Santa Vittoria nel 1766 e non è stato mai richiesto per la Madre di Dio, ma è evidente una grande devozione per essa.

Intanto ce lo testimonia già agli albori del paese la presenza di una chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie, che ospita una confraternita dedicata alla Madonna Immacolata, e la devozione per la Madonna del Buon Consiglio (festeggiata nei tempi andati il 26 aprile).

Alla Vergine con questo titolo, che ricorda il miracolo di Genazzano, in chiesa è dedicato un altare e si può vedere la statua processionale conservata sopra la porta della sacrestia. In paese, poi, non è raro trovare testimonianze di devozione popolare, come le edicole poste all’angolo fra via S. Leonardo e via Fulvio Bacile e via S. Angelo e via Montegrappa.

Ma verso la fine del 1800 un nuovo impulso viene dato da monsignor Gaetano Bacile dei Baroni di Castiglione, ancora giovane parroco del paesino natale, che, dopo un pellegrinaggio a Lourdes, viene affascinato dagli eventi che ivi sono accaduti e che hanno sconvolto il mondo intero, non solo religioso.

Il mondo è cambiato. Il Positivismo e la scienza vagliano con attenzione gli eventi miracolosi e anche la Chiesa deve mostrare cautela. Ma di fronte a quella contadinella ignorante che parla di una Signora che prega insieme a lei con il Rosario e che si definisce Immacolata Concezione non si riesce ad archiviare tutto come allucinazione, visione o frottola.

Poi ci sono i miracoli che mettono in crisi anche i medici e gli scienziati più laici, quando non atei.

In questa temperie il giovane parroco di Spongano sente che la devozione alla Madonna di Lourdes è la modalità più bella per incanalare la sincera, filiale devozione degli Sponganesi per la Madre celeste.

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Così mette in campo entusiasmo, fede, estro creativo, cultura e conoscenza e progetta un percorso che vede ancora gli Sponganesi in cammino.

Il progetto prevede l’acquisto di una statua, la costruzione di un santuario e l’elaborazione di uno strumento per elevare lo spirito come un libretto di preghiere.

La statua viene commissionata nel 1876 allo scultore napoletano Reccio che a maggio di quell’anno la ultima e la fa arrivare a Spongano. In  seguito la pregevole opera verrà allocata in una nicchia sopra l’altare del cappellone decorata come se fosse la grotta di Massabielle.

Anche il santuario vedrà la luce con la costruzione del cappellone posto a sud e inaugurato dallo stesso monsignor Bacile, diventato Vescovo di Castellaneta, nel 1884.

L’altro punto il curato lo realizza sempre nel 1876 prestissimo stampando un libretto di preghiere a lei dedicato, che contiene anche un Inno che ancora oggi viene cantato solennemente dalle Figlie di Maria (associazione di preghiera) durante il momento topico della festa religiosa.

 

L’inno

L’inno “Orsù dunque festosi e giulivi” penso che abbia suggestionato e continui a suggestionare gli sponganesi di tutte le età. Viene cantato durante la processione della vigilia quando la statua giunge in piazza Vittoria, dove si ferma la processione.

E’ un omaggio alla Madonna ma anche un modo di affidarsi a Lei come madre ed assume lo stesso significato che in altri paesi ha la consegna delle chiavi della città.

La voce di tutta la comunità è quella delle giovani Figlie di Maria, che per l’occasione si vestono con gonna blu, camicetta bianca e foulard azzurro.

Ma a rendere particolarmente solenne il momento è la strumentazione per banda che accompagna l’inno sacro. La banda prova al mattino con le Figlie di Maria e, quando si arriva in piazza ci si ferma, ci si dispone e poi si attacca. Dopo un’introduzione solenne parte il coro di giovani donne che viene accompagnato dalla musica e, davvero, sembra sgorgare dal cuore.

L’inno comincia con un’esortazione a venerare la Diva di Lourdes decantandone i miracoli fatti ma, soprattutto, esaltandone i pregi del suo amore verso di noi.

Ella infatti per le tribolazioni (plaghe) del genere umano (dei fidi Adamiti, figli di Adamo) fornisce un rimedio meraviglioso (dolce medela): quello di manifestarsi e dire agli uomini che Lei è con loro e che le loro preghiere possono essere ascoltate.

Così Monsignor Bacile cerca di sbalordirci come lo è Bernadette al momento dell’apparizione.

Dice: squarcia il monte e se  stessa rivela a Bernarda dal candido cor.

In realtà la roccia non si apre, la grotta di Massabielle esiste già e Bernadette non sente rumori ma solo un soffio di vento. Ma quella Signora luminosa (dal suo volto raggiante fulgor), vestita di bianco con una fascia azzurra (ceruleo color) in vita, che ha fra le mani un rosario e sui piedi due rose dorate è più eclatante di un tuono, più roboante di un terremoto per quella semplice fanciulla.

Il ritornello è un’accorata preghiera ad accogliere il devoto omaggio della popolazione che viene esaltato dagli ottoni e dalle percussioni, così da diventare un grido liberatorio che si alza in cielo e si chiude con il punto coronato della banda.

E’ questo l’acme della festa, il momento principale che corona le preghiere, la processione, i fuochi, le luminarie, la banda. Senza questo momento di affidamento la festa non sarebbe la festa de la Madonna.

Questo momento negli anni è stato preparato molto spesso dal Prof. Antonio Rizzello, maestro di rango, che sa sempre guidare le giovani voci coordinandole con i musicanti che, da professionisti, ogni anno con poche prove riescono ad offrire un momento davvero emozionante e unico.

 

Orsù dunque festosi e giulivi

La gran Diva di Lurd veneriamo

I prodigi di lei ricordiamo

E i suoi pegni più cari d’amor.

Alle piaghe dei fidi Adamiti

Ella appresta una dolce medela;

squarcia il monte se stessa rivela

a Bernarda dal candido cuor.

                    Ritornello : O Vergin di Lurd

                              Regina d’amor

                              Accogli l’omaggio

sincero del cuor!

 

Questa ascolta e guardando sorpresa

La rimira di neve vestita,

ampia zona le cinge la vita

di un vivace ceruleo color.

Un Rosario la Diva ha fra le mani

Ai suoi piedi germoglian le rose

E rivela le grazie nascose

Dal suo volto raggiante fulgor.

                    Ritornello : O Vergin di Lurd

                              Regina d’amor

                              Accogli l’omaggio

                              sincero del cuor!

 

Per ascoltarlo in una esecuzione pubblica diretta dal Prof. Antonio Rizzello

Le Cacàgnule di Spongano

cacagnule

Le prime elezioni amministrative dell’Italia repubblicana a Spongano attraverso alcuni componimenti in vernacolo

di Giuseppe Corvaglia

 

Spongano, come altri paesini, vede periodicamente comparire mediante affissione, volantinaggio, corrispondenza o altre forme di pubblicazione, componimenti anonimi in dialetto o in italiano simili alle “Pasquinate” ma dette qui “Cacagnule”* da una serie di tali componimenti uscita negli anni ’80. Essi erano e sono ispirati a fatti politici o di costume d’interesse prettamente locale, esprimono opinioni personali o denunce e sogliono uscire, per lo più in concomitanza con elezioni amministrative comunali.

Ve ne proponiamo alcuni usciti nel 1946 in occasione delle prime elezioni amministrative della Repubblica scelti sia per la finezza e l’arguzia di qualcuno di essi sia per cercare, attraverso i medesimi, di comprendere il clima di quell’epoca.

 

Terminata la seconda guerra mondiale si rese necessario un ricambio della classe dirigente.

Si respirava un’aria nuova e con essa s’intravedeva anche la possibilità di operare dei cambiamenti nella società. Strumenti per fare ciò erano il suffragio universale (con il diritto di voto esteso, per la prima volta, anche alle donne, istituito dalla Consulta nel febbraio 1946) e la libertà di votare per più liste fino a quel momento soffocata dal fascismo.

Molti rappresentanti di spicco delle diverse classi sociali ritennero importante scendere in campo sia per contribuire  direttamente   alle scelte che avrebbero portato al rinnovamento della nazione sia perché, finalmente, si poteva operare nell’ambito della cosa pubblica senza compromettersi con un regime che aveva mostrato a pieno la sua faccia crudele e opprimente.

Bisognava voltare pagina.

Come dice F. Barbagallo nel suo libro “Dal 43 al 48- La formazione dell’Italia democratica” “… C’era da ricostruire uno Stato e una società e prima ancora bisognava ridefinire i fondamenti etici e culturali della convivenza civile, della comunità nazionale.  Un tale processo, come tutte le vicende storiche, non si sviluppa in asettici laboratori o in isolati circoli intellettuali; ma si svolge sul terreno aspro del confronto e del contrasto fra i diversi ideali, progetti, interessi, speranze. E’ questo un periodo molto ricco proprio perché fondativo di un nuovo ordinamento politico e sociale preparatorio di rinnovati valori morali, espressioni e comportamenti culturali.”

Anche Spongano divenne laboratorio e molti cittadini si sentirono di dover partecipare a quest’atto costitutivo della società e dello Stato che andavano rinnovandosi.

Le elezioni che si svolsero nella primavera del 1946, nonostante in molte città si sarebbe votato in autunno, furono importanti per verificare l’effettiva rappresentatività dei partiti politici che fino a quel momento erano stati rappresentati pariteticamente nel Comitato di Liberazione Nazionale oppure erano restati fuori dal governo come il Partito Repubblicano e il Partito dell’uomo qualunque.

Nel   marzo   del   1946 si tennero   a   Spongano  le prime   elezioni   del dopoguerra.

Così come in tutta Italia, anche a Spongano si presentò la Democrazia Cristiana proponendosi quale alternativa popolare sia alle destre sia alle sinistre, ma non fu considerata con grande benevolenza dalla ricca borghesia e dall’aristocrazia che a Spongano, durante il ventennio fascista, aveva espresso la classe dirigente.

Si può dire, tuttavia, che non faticò a raccogliere consensi grazie all’appoggio della Chiesa che si rese concreto in una propaganda capillare e di sicuro effetto su gran parte della popolazione. Oltre all’opera diretta del Clero fu importantissima l’attività dell’Azione Cattolica.

Non si trattava ancora della campagna anticomunista messa in atto nel 1948 quanto piuttosto di una propaganda volta a conseguire un obiettivo comune con le sinistre che era quello di evitare che i fascisti riprendessero le leve del potere, magari riciclandosi. Già si cominciava a intravedere quello che diventò poi il motivo ricorrente della propaganda democristiana caratterizzata da antifascismo e da anticomunismo e che utilizzerà a scopi elettorali immagini terrificanti e vistosamente esagerate.

Non si presentò a Spongano nella tornata elettorale del 1946 una lista di sinistra così come non furono aperte sezioni del PCI o del PSIUP. C’era qualche elettore o qualche giovane che faceva propaganda ma senza effetti significativi.

A Spongano la DC nello scegliere i candidati evitò accuratamente e, direi scientificamente, rappresentanti dei grandi proprietari terrieri. L’unico di questi a figurare nella lista,  Pantaleo Alemanno detto Terno,  non era sicuramente tra i più rappresentativi della classe.

Nella stessa lista si candidarono pure l’insegnante Antonio Alemanno, fra l’altro il più votato con 765 voti, Salvatore Monti, che nel 1949 diventerà Sindaco dopo la morte di Pantaleo Alemanno, Donato Montagna, piccolo commerciante che era  considerato all’epoca per essere stato, con successo, più volte priore della festa di S.Antonio, o Luigi Spagnolo detto Scicchi, uomo molto stimato fra la gente  e gestore di un negozio di generi alimentari che di sera diventava luogo di ritrovo, e poi ancora artigiani, commercianti e contadini. In questo modo la DC si presentò come il partito del popolo, quello che voleva e poteva contrastare il potere della classe padronale.

E’ difficile, per qualcuno, pensare alla DC come partito popolare specie per chi ha conosciuto la stessa come partito di potere e di governo tuttavia in quell’occasione la popolazione sponganese, al di là della pressione clericale che pure era notevole, in mancanza d’altri partiti d’estrazione popolare, ritenne la D.C. uno dei partiti più affidabili per la tutela dei propri interessi.

All’epoca, infatti, i grandi possidenti e in particolare i baroni Bacile di Castiglione decidevano tutto: dal prezzo delle derrate alla paga giornaliera dei braccianti e grande era il desiderio che ci fossero regole giuste applicabili a prescindere dalla volontà dei padroni. Non è che la popolazione fosse propriamente oppressa da tutta la classe padronale  anzi  bisogna dire che,  nel complesso,  ad essa derivavano buoni vantaggi dal fatto che, oltre a un grande proprietario terriero, a Spongano ce ne fossero anche altri sebbene non tutti campioni di correttezza. In quegli anni, infatti, la manovalanza per il lavoro nei campi poteva essere reclutata a Spongano anche per lavori nei feudi degli altri paesi e questo faceva sì che la maggior parte degli sponganesi avesse di che lavorare.

Ancora oggi, poi, si tramanda generalmente un buon ricordo della famiglia Bacile in special modo di Domenico, don Mimmi, e della moglie, donna Johanna Grossmayer, donn’Hansa,  che in tempi veramente difficili seppero aiutare alla bisogna i più poveri. Per non parlare poi di Filippo uomo poliedrico che, oltre a studiare metodi per il rimodernamento della produzione dell’olio, prestò la sua opera indefessa perché Spongano avesse il privilegio di fruire della ferrovia e, ancora, di altri membri della famiglia da Monsignor Gaetano fino a Fabio ai nostri giorni.

Ma al di là delle simpatie e del dovuto rispetto, c’era una voglia di libertà, di affrancarsi, di camminare da soli soprattutto dopo esperienze tragiche, dolorose e devastanti come la guerra e la dittatura.

Alla D.C. si opposero tre liste: una di ex combattenti e reduci di guerra, spesso nostalgici del vecchio regime, una lista civica guidata da Donato Stasi, di ispirazione conservatrice, rappresentata da un orologio e un’altra lista contrassegnata da una spiga di grano guidata da Giovanni Bacile.

Fu questa lista la vera antagonista della D.C. e raccolse gli esponenti della borghesia e della nobiltà sponganese nonché altre persone di popolo che, contrarie all’avvento della sinistra o di un partito controllato dalla Chiesa, vedevano un rischio e un pericolo di asservimento ancora più grande che quello creato dal manganello e dall’olio di ricino nell’opera di persuasione svolta dal parroco e da persone a lui vicine. E’ illuminante al proposito un frammento  raccolto   oralmente   dall’autore  nel  quale  “Chicco”    personaggio protagonista di alcune pasquinate, dice, rivolgendosi alla propria moglie (Carmela detta ‘Mmela): – “Quannu Cristu morse an Croce \ certu, ‘Mmela, no pinzava \ ca nu giurnu qualche boia\ su ‘ddhra Croce speculava“.-

Di questa lista facevano parte oltre a Giovanni Bacile, padre del barone Fabio, Antonio Rizzelli, altro proprietario terriero e dello stabilimento di trasformazione della sansa, Luigi Marsella già segretario comunale nonché persona colta ed esperta di leggi, regolamenti e dei fatti sponganesi e l’ingegnere Giuseppe Alemanno. Simpatizzava per questa lista tra gli altri Gino Stasi gentiluomo colto di cui si tramanda l’arguzia.

Il verdetto delle urne premierà la Democrazia Cristiana e Pantaleo Alemanno sarà eletto Sindaco.

L’andamento delle elezioni sarà condizionato non solo dal grande attivismo dell’Azione Cattolica e della Chiesa ma anche da una certa sicurezza di tenere la situazione sotto controllo che la lista della Spiga aveva ma che poi alla resa dei conti non si rivelò così sicura.

In questo lavoro vi presentiamo due dei tanti componimenti usciti in quell’occasione, che per la maggior parte sono andati perduti e di cui si ricorda qualche frammento tramandato oralmente. E’ probabile che questi due si siano salvati perché, stampati in tipografia, abbiano avuto una diffusione maggiore mentre gli altri , passati “brevi manu” oppure affissi, sono probabilmente andati perduti o, come dicevo, sopravvissuti in frammenti tramandati oralmente.

Non si conoscono gli autori di questi componimenti; sono state fatte ipotesi e girano voci di popolo ma niente di preciso non essendo gli stessi firmati se non con pseudonimi. E’ però evidente la parte politica per cui essi tengono.

Infatti se “Pe le elezioni te lu 46” è evidentemente pro D.C. “La ‘Mmela e lu cumpare Arciprete “ prende invece le parti della lista della Spiga e, per celia ma anche per simpatia, di quella dei reduci.

Proprio quest’ultimo componimento è interessante per la forma che l’autore sceglie, oserei dire “sceneggiata”.

Questi, infatti, non proclama le sue idee e i suoi programmi ma li mette in bocca a un’ingenua popolana che spiega all’autorità religiosa le sue convinzioni, poche in vero, e quelle del marito Chicco. Questi sostiene che la spiga è un tesoro per tutti e le tre spade sono quelle che hanno difeso la patria dai nemici ma l’orologio è tutto scombinato e fa le sei e mezza (prima di vedere i simboli delle liste pensavo che fosse un modo per ironizzare visto il palese doppio senso invece le lancette raffigurano proprio quell’ora .N.d’A.) mentre la Croce sul simbolo della D.C. è stata inventata solo per mettere zizzania.

Quindi dice che in Paradiso certamente non si sarebbero intristiti qualora Pantaleo Alemanno su questa terra non fosse diventato Sindaco di Spongano; d’altra parte il Padreterno non sarebbe stato così ingenuo da scambiare un fattore per angioletto oppure da far entrare in Paradiso un proprietario di mulino. Anzi, se avesse potuto, avrebbe preso tutti a colpi di ramazza e per primo proprio l’Arciprete.

La ‘Mmela continua poi spiegando come la D.C. pensi di mantenere la tassa sulla famiglia o in ogni caso di sobbarcare gli altri di tasse. Alla fine inviterà l’Arciprete a interessarsi delle cose di Chiesa e, provocatoriamente, a votare per la Spiga o per l’Elmetto. Non c’è solo un intento provocatorio in quest’invito ma c’è, come dicevo la sicurezza di poter governare gli eventi, di poter contare sulla gran parte dei cittadini tanto da tollerare anche  che alcuni voti, che col senno di poi avrebbero potuto essere importanti, verso un’altra lista.

Il secondo componimento è meno teatrale e si presenta sotto forma di proclama. Colpisce l’uso di un dialetto che sembrerebbe più vicino al dialetto della zona limitrofa a Maglie (…nu spettati n’addhra fiata… -… ma de l’addhri ci fattore…) rispetto all’altro componimento che sfoggia un dialetto sponganese più puro.

Qui il primo lapidario commento è per la lista di Stasi che l’autore dice, ironicamente, di ammirare. Poi l’autore parla della lista dei reduci che però accusa di non essere quegli eroi che dicono di essere. Molti infatti, secondo l’autore erano rimasti imboscati al paese oppure avevano disertato.

Non erano perciò molto simpatici a chi la guerra l’aveva fatta sul serio oppure vi aveva perso una persona cara. L’accusa può sembrare legittima ma va ricordato che proprio nell’ultima parte della seconda guerra mondiale disertare spesso significava salvarsi la vita ed evitare i campi di concentramento.

Quindi si passa alla vera controparte: la lista  della Spiga.

L’autore dice che alcuni dei candidati di questa lista non sono affidabili essendo incapaci di sbrigare i propri affari personali o essendo troppo impegnati per interessarsi delle faccende pubbliche. Poi accusa questa lista di voler caricare la povera gente di tasse grazie alla machiavellica abilità di Luigi Marsella e di utilizzare un membro della famiglia Bacile, influente e ben voluta, come espediente per gabbare la povera gente.

Il tema delle tasse è sollevato da tutte le fazioni ed usato come spauracchio per screditare l’avversario in realtà tutti sono coscienti che l’imposizione di pesanti tributi, considerata la disastrata situazione del paese, sarà una dolorosa necessità.

Proprio per questo non si può fare a meno di notare la “faccia tosta” dell’autore che evidenzia le cattive intenzioni della lista antagonista ma subito dopo si affretta a dire che i candidati della D.C. non sono tutti stinchi di santo e che se pure avessero dovuto sbagliare non ci sarebbe stato di che preoccuparsi perché Dio avrebbe visto e provveduto.

Non ci è dato sapere se il Padreterno abbia provveduto alla D.C. sicuramente il responso delle urne, qui come in tutta Italia, aiutò De Gasperi a rafforzare la sua leadership e quella della D.C. per le elezioni politiche che si sarebbero tenute di lì a poco e a Spongano la Democrazia Cristiana governò fino al 1964, grazie sempre alla provvidenza del Padreterno.

 

* Le Cacagnule propriamente dette escono intorno a Pasqua dell’82 e prendono il via da un concorso per applicato per il Comune. A seguire, però toccheranno diversi argomenti. Esse sono la reazione ad un’amministrazione che aveva lottato alacremente per vincere su una lista civica guidata da Fernando Erriquez in auge per 15 anni criticato per una gestione clientelare e poco ortodossa, e  rappresentano una certa insofferenza verso chi si era proposto come giusto e incorruttibile e su un concorso mostrava i vecchi metodi clientelari e spartitori.

Il Sansificio di Spongano

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 di Giuseppe Corvaglia

 

Nel 1926 l’ingegnere Francesco Rizzelli impiantò a Spongano un opificio per l’estrazione dell’olio dalla sansa, residuo solido della molitura delle olive.

L’impianto raccoglieva la sansa dei frantoi vicini e, all’inizio, estraeva un olio di scarsa qualità, avendo circa il 40% di acidità, che veniva utilizzato come combustibile (olio lampante) o come substrato nei saponifici.

La ragione di questa scarsa qualità era legata alla tecnologia e in particolare al solvente usato, la trielina. Con il tempo, utilizzando il benzene come solvente, si ottenne un olio migliore, con una acidità ridotta al 15%. Quest’olio veniva acquistato da alcune industrie del nord, fra cui la Costa di Genova e un’altra grande azienda di Firenze (forse la Carapelli), dove veniva ulteriormente raffinato per uso alimentare e immesso sul mercato.

L’attività dell’impianto, durata per circa cinquant’anni, fu anche funestata da diversi incidenti in uno dei quali, il 24 novembre 1927, lo stesso fondatore, l’ingegnere Francesco Rizzelli, perse la vita carbonizzato in un incendio. L’opera fu continuata dal fratello, l’ingegnere Raffaele, che apportò anche importanti modifiche tecnologiche tali da consentire di prolungare per tutto l’anno il ciclo produttivo, prima riservato alla sola stagione olivicola.

Una delle innovazioni più importanti fu il progetto di un grande silos dove la sansa veniva stipata dopo l’essiccazione, consentendo un ridotto utilizzo del solvente ed una maggiore resa in termini di qualità e di quantità.

deposito di sansa nel sansificio di Spongano
deposito di sansa nel sansificio di Spongano

La sansa, proveniente dai frantoi che adottavano la spremitura a freddo delle olive, veniva accumulata in un’area dell’opificio e prelevata da un sistema di secchielli per essere poi convogliata nell’essiccatore. Da qui, asciutta e priva di impurità, poteva essere depositata nel silos o versata direttamente nell’estrattore, dove veniva riscaldata a temperature elevate (circa 100°) e quindi sottoposta a vaporizzazione di solvente (benzene), ottenendo finalmente il prodotto da distillare.

Nello stabilimento erano collocati tre estrattori, ognuno dei quali poteva trattare quarantacinque quintali di sansa, in un ciclo lavorativo di circa sette ore, che richiedeva quasi sette litri di benzene. Una maggiore umidità avrebbe fatto aumentare la quantità di solvente necessario per il procedimento, per questo l’efficienza produttiva era maggiore con la sansa essiccata e depurata.

L’olio ottenuto con tale procedimento veniva poi distillato, con una resa finale di circa sette quintali rispetto ai quarantacinque  di sansa, pari dunque a circa il 13%.

Il residuo della lavorazione, la sansa esausta, veniva riutilizzato come combustibile sia per le caldaie e i fornelli degli essiccatoi dello stesso stabilimento, sia per altri scopi, fra tutti l’utilizzo nelle carcare di Taurisano, fornaci dove venivano cotte zolle di pietre calcaree per ottenere la calce. A Spongano, ma anche in altri comuni del Salento, la sansa veniva usata anche per rendere più morbido il fondo dei campi da calcio in terra battuta.

Traini

Negli anni Ottanta lo stabilimento fu dismesso, in parte per il rischio dovuto all’uso di grandi quantità di solventi portati ad elevate temperature, ma anche per l’ubicazione in pieno centro abitato e per l’inquinamento che derivava dai processi lavorativi.

Forse, però, la ragione più importante è da ricondurre al progresso tecnologico che, intanto, aveva cambiato i presupposti produttivi per quel tipo di opificio. Iniziavano, infatti, ad essere attive le cosiddette mulinova: impianti a ciclo continuo, con un procedimento di molitura delle olive da cui si ottiene  una sansa di qualità diversa.

Nella spremitura a freddo, infatti, la pasta, ottenuta dalla frangitura delle olive, viene distribuita su fiscoli, diaframmi di corda, in fibra naturale (cocco) o sintetica (naylon), che poi vengono impilati e sottoposti a spremitura per mezzo di presse idrauliche. Nella spremitura con il sistema delle mulinova la frangitura può essere fatta con le tipiche mole che macinano le olive nella vasca oppure da un frangitore a martelli. La pasta ottenuta passa in una macchina detta gramolatore che agevola la rottura dell’emulsione di acqua e olio per la successiva fase di estrazione. L’estrazione, in questo caso, avviene in una macchina a centrifuga detta decanter che, sfruttando la forza centrifuga e una temperatura più alta rispetto alla molitura a freddo, separa la parte solida, sansa, dal mosto di olio e da un residuo acquoso, detto morchia. La sansa che viene ottenuta è sbriciolata e meno sfruttabile per l’estrazione di nuovo olio.

Quando lo stabilimento sponganese era ancora attivo, si spargeva nei dintorni un odore acre, particolare, liberando nell’aria un pulviscolo che creava non pochi disagi ai residenti, per qualche problema respiratorio, e alle massaie, disperate per il bucato messo ad asciugare.

Molto interessante, a proposito, è il racconto La manna dei cieli maledetti di Corinna Zacheo che per anni ha vissuto vicino all’opificio e che descrive bene cosa significava vivere accanto a questo “pachiderma brontolone”.

Il racconto inizia così:

 

“Era con questa citazione letteraria che noi, scherzosamente, parlavamo della pioggia continua di fuliggine nera che si posava sulle lenzuola immacolate di bucato, stese ad asciugare; che si infilava in casa da qualsiasi fessura; che forzava il blocco del paravento per disporsi in sottili filari ai lati estremi di porte e finestre.

Te la trovavi dappertutto.

Sulle terrazze poi, si accumulava in tutti gli angoli, dove il vento ci giocava a disegnarvi curiose dune ma che mani irrequiete usavano per tutt’altro divertimento […] che ci stava a fare lì tutta quella sabbia nera che sporcava l’acqua piovana che andava dritto in cisterna e serviva a dissetarci e a liberarci dall’arsura di estati torride?”[1]

 

Il racconto descrive anche piccoli momenti di vita quotidiana di chi ci lavorava, soffermandosi particolarmente sulla motivata preoccupazione degli operai in occasione del difficoltoso ingresso dei cavalli nell’opificio, costretti a varcare la soglia in liccisu, leggermente scoscesa e scivolosa. L’autrice ricorda anche la montagnola di sansa, depositata prima dello stoccaggio nei silos, sulla quale “transitavano una coppia di buoi che tirava avanti e indietro una specie di rullo perché schiacciasse e comprimesse il cumulo, di modo che non franasse”[2].

Sull’alta ciminiera, di forma tronco-piramidale, era situato l’unico parafulmine del paese, quanto mai necessario per impedire che una qualsiasi saetta potesse scaricarsi sul deposito dei solventi infiammabili.

Ma il maltempo spingeva comunque a prendere le dovute precauzioni, staccando l’energia elettrica, interrompendo il lavoro con l’allontanamento delle maestranze fino alla normalizzazione delle condizioni atmosferiche, rammentando agli astanti e a quanti risiedevano nelle immediate vicinanze che tutti si era in continuo pericolo.

Infatti chi abitava vicino all’opificio viveva con la paura di dover scappare ad ogni rumore particolarmente sospetto, anche di notte, in pigiama con una coperta addosso.

Per la popolazione, però, lo stabilimento non era solo un inquinante o una sorta di bomba. Era anche una risorsa non solo per chi ci lavorava.

La miseria dei tempi e le tristi condizioni di vita venivano alleviate di tanto in tanto quando veniva concesso agli operai ed ai paesani di portarsi in casa un secchio di quella sansa incandescente che, riposta in capaci contenitori in metallo, consentiva di cuocere una pignatta di legumi o riscaldare le abitazioni umide e fatiscenti.

Continua ancora la Zacheo:

 

“…nelle ore di punta, poi, l’orario in cui il portone s’apriva per il cambio di turno degli operai, era consuetudine vedere gente accalcarsi, far la fila, litigare per qualche precedenza carpita prima del dovuto. […] Ciascuno era attrezzato con qualche vecchio secchio ammaccato, con qualche mezzo bidone, o con qualche bacinella di ferro smaltato ai cui bordi era legato un filo di ferro filato per agevolar la presa, a mo’ di manico […] e la genialità del popolo era imprevedibile nel trasformare qualsiasi rudere in un comodo contenitore. Guadagnato l’ingresso a forza di gomitate e qualche volta a suon di “secchiate” o di capase o di qualunque altra ferraglia […] che servisse a farsi largo, il “fortunato” ne usciva e si allontanava orgoglioso, col suo caldo bottino …. di  fuoco … e che importa se procedeva affumicato ed asfissiato? Erano gli scarti della sansa combusta e fumigante, che bisognava lasciar fuori di casa, sul limitare, per strada, perché la brace decantasse e smettesse di fumare. I più raccomandati erano i vicini, e perché non reclamassero avevano un trattamento particolare…”[3]

 

Collegata allo stabilimento, ma indipendente dal ciclo produttivo, funzionava una ghiacciaia per la produzione di blocchi di ghiaccio. Quel ghiaccio, che mia nonna chiamava ancora nive, serviva a bar e ristoranti, specie in estate, ma anche in casa per alcune cerimonie o per preparare deliziose granite e veniva custodito in cassapanche di legno, avvolto con sacchi di juta e paglia. Anche dalla ghiacciaia, come in inverno con la sansa incandescente, qualche vicino e qualche paesano cercava di ottenere in regalo qualche pezzo di ghiaccio in estate quando frigoriferi non ce n’erano.

Là dove sorgeva l’opificio, demolito negli ultimi mesi del 1982, oggi c’è piazza della Repubblica; un parcheggio, un giardinetto e un mercato dismesso hanno soverchiato quella che fu fiorente realtà industriale sponganese.

Del sansificio resta solo uno sbiadito ricordo nei più grandi e nulla nei più giovani che non hanno conosciuto l’odore acre della sansa surriscaldata e la fuliggine che si spandeva per l’aria, “manna dei cieli maledetti”, così come ci è stata raccontata da Corinna Zacheo .

 

Si ringraziano di cuore, per la gentile collaborazione, Raffaele Gravante, Claudio Miccoli, Marcello Bramato e Giorgio Tarantino.

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2.

 


[1] C.ZACHEO, Manna dei cieli maledetti

[2] Ibidem

[3] Ibidem

Le Panare, Santa Vittoria e Spongano (Lecce)

La nascita e le origini delle “Panare” si perdono nel tempo e sarebbe suggestivo farle risalire alle feste del fuoco che nell’antichità si svolgevano in prossimità del solstizio d’inverno tra cui quella paganissima del Sole Invitto su cui si è poi innestato Natale.

 

LE PANARE

di Giuseppe Corvaglia

Una storia precisa delle “Panare” sarebbe difficile da tracciare e questo lo sa bene chiunque abbia cercato con curiosità appassionata tra le carte (che non ci sono) e nella memoria collettiva della nostra comunità.

E’ innegabile che questa sia una festa propria della cultura contadina e racchiude, probabilmente, i due significati tipici di queste feste: il ringraziamento per il raccolto dell’annata e la propiziazione per il raccolto dell’anno successivo.

La nascita e l’origine delle “Panare” si perdono nel tempo e sarebbe suggestivo farle risalire alle feste del fuoco che nell’antichità si svolgevano in prossimità del solstizio d’inverno tra cui quella paganissima del Sole Invitto su cui si è poi innestato il nostro Natale.

E’ probabile che la nostra festa possa essere annoverata tra quelle che si celebravano per ottenere la benevolenza del Dio Sole e che presentavano come elemento caratterizzante il culto del fuoco come apportatore di salute, benessere, ricchezza e vita.

Le analogie sono innegabili: ad esempio il gesto rituale di raccogliere del fuoco dal falò acconciato dalle “Panare” per portarlo nel braciere di casa propria era non era solo un’esigenza dettata dalle povertà ma un vero e proprio atto propiziatorio (si diceva per devozione) con cui ogni famiglia rinsaldava i suoi legami con l’intera comunità prendendo parte alla prosperità generale.

In altri paesi sono ancora in uso oggi riti del tutto simili dove al centro delle feste invernali c’è il ceppo di Natale o “Confuoco” nome nel quale è messo bene in evidenza il legame fra i vari nuclei familiari della comunità intera.

Un significato analogo va ricercato nel legame tra le Panare e la protettrice Santa Vittoria, legame tenacemente ricercato dalla fantasia popolare fino a cambiare il martirio della giovinetta, che venne trafitta con la spada in un rogo di cui le “Panare” sarebbero il simbolo.

Ho potuto constatare ultimamente la tenacia degli sponganesi nel difendere questa versione ascoltando un adattamento che è un compromesso delle due versioni.

Il racconto ammetteva il martirio tramite la spada ma solo perché le fiamme del rogo rifuggivano dalla Santa. Non c’è che dire: proprio incorreggibili.

Certo da tempo immemorabile su tante “Panare” viene messo un ritratto di Santa Vittoria ed anche il comitato che si occupa della festa del giorno dopo in onore della Santa organizza pure le “Panare”.

Tuttavia un nesso vero e proprio non c’è e lo dimostra il fatto che ancora oggi la messa importantissima con il bacio della reliquia è in contemporanea con il corteo delle “Panare”, per cui partecipare ad una festa significa escludere l’altra. D’altra parte in una festa il cui significato preponderante è quello propiziatorio di favorire un buon raccolto è naturale che trovi spazio una Santa Protettrice così amata e venerata.

A Spongano era tradizione che il 22 dicembre, nel pieno della stagione olearia, ogni frantoio attivo preparasse queste ceste intrecciate appositamente per sostenere un peso discreto, riempiendole con sansa a “paddhrotte” e decorandole al meglio con elementi naturali o, comunque, combustibili come mandarini, arance, festoni d’edera e fiori e bandierine di carta colorata. Così acconciate venivano caricate su un carretto, almeno prima dell’avvento di camion e trattori, e portate la sera in un giro di raccolta per le vie del paese.

Ogni panara, anche se il frantoio era decentrato rispetto al percorso, aveva il diritto di uscire accompagnata dalla musica di una bandinella; la banda andava a prenderla ed essa si metteva in coda al corteo che proseguiva nella raccolta delle rimanenti.

La prima panara era ed è ancora quella della “Casa  cranne” vale a dire del palazzo del barone Bacile, o più precisamente del suo frantoio; e per lungo tempo proprio piazza Bacile è stato il punto d’arrivo del corteo. Non è stato tuttavia l’unico sito utilizzato per l’occasione anzi ve ne sono stati diversi : dalla piazza principale, quando si chiamava piazza Mercato (probabilmente cambiata perché all’epoca troppo piccola) a via Fratelli Rosselli o al largo vicino al Mercato coperto in tempi più recenti.

Il numero delle panare indicava se l’annata era stata buona o grama poiché corrispondeva al numero dei frantoi in attività.

A cavallo degli anni Ottanta le “Panare” hanno conosciuto un momento di scarsa partecipazione: erano infatti poche (molti dei tradizionali frantoi rimanevano inattivi con l’avvento delle moderne mulinove in grado di molire più ulive con costi più bassi) e l’entusiasmo della gente per questa festa si era ridotto in parte per l’uso smodato dei mortaretti che pure, se usati con criterio, fanno parte della tradizione.

E’ in questo periodo che un gruppo di persone, pur non facendo parte di un frantoio ma comunque pratiche del mestiere, decise di fare una sua Panara. Quello che poteva sembrare una rottura della tradizione ha rappresentato invece l’inizio di una partecipazione più attiva da parte della gente del paese.

Nel 1987 il Gruppo di Ricerca e Sperimentazione- musica  popolare –, inserendosi in questo spirito nuovo, ha voluto riproporre la Panara quanto più vicina alla tradizione e l’ha acconciata su un carretto tirato dai suoi componenti, sotto la supervisione di Salvatore Bramato.

Per l’occasione il gruppo in collaborazione con il comitato per i festeggiamenti, ha intrattenuto, con il suo spettacolo di musica popolare, la cittadinanza prolungando ben oltre la festa.

Da qualche anno poi le scuole elementari hanno voluto fare le “Panare dei bambini” che sono una lodevole esperienza didattica e un’occasione per i più piccoli di partecipazione in prima persona.

Dopo quelle esperienze la festa si è andata allargando e la cittadinanza oggi partecipa sempre più attivamente sia acconciando le “Panare”, sia prendendo parte ai vari intrattenimenti che i vari comitati approntano.

In questo modo la Panara è diventata occasione di aggregazione non solo per le varie associazioni ma anche per gruppi di amici o vicini di casa. In questo sembra rivivere l’atmosfera dei tempi andati quando la competizione fra le tante persone coinvolte nel lavoro dei frantoperciò protagoniste di questa festa, poteva portare a risultati lodevoli o a vere e proprie marachelle.

La Panara, infatti non doveva spegnersi e anche dopo che era stata scaricata veniva sorvegliata durante tutta la notte poiché il farla consumare lentamente era indice di maestria.

Si doveva inoltre badare acchè qualcuno non vi gettasse dentro qualche mortaretto con le conseguenze immaginabili.

Oggi la partecipazione è cresciuta ma la maestria non è andata di pari passo: non di rado, infatti, si vedono Panare che inquinano  con il loro  fumo eccessivo dovuto ad una cattiva gestione della fiammella  posta al centro. Il “fuochista” ha a disposizione sul carro due secchi, uno contenente pezzuole imbevute di nafta (combustibile lento) e uno con acqua: le prime servono ad alimentare il fuoco quando minaccia di spegnersi, mentre l’acqua, come si può immaginare, viene usata per temperare gli eventuali eccessi della fiamma.

Oggi l’inesperienza porta ad eccedere con la nafta e a dover correre ai ripari con l’acqua troppo spesso.

La sansa troppo umida, però, provoca a contatto col fuoco, un denso fumo che disturba la festa e può anche arrecare danni alle persone.

Una festa come questa non potrebbe trovare una collocazione migliore se non a Spongano che  in passato è stato un centro dove si effettuava la lavorazione di ogni parte o residuo dell’oliva, dall’olio alla sansa, alla morchia.

Oltre ai frantoi, fino a non molto tempo fa, era operante uno stabilimento per la trasformazione della sansa, progettato dall’ing. Rizzelli, dove veniva distillata la sansa in modo da ottenere l’olio di sansa. Non bisogna poi dimenticare che la sansa veniva pure utilizzata come combustibile non solo per il riscaldamento delle abitazioni ma anche per i forni o per le “carcare” dove si ottengono le pietre di calce.

E’ poi opportuno ricordare l’attività di saponai che era diffusa a Spongano tanto da porlo in concorrenza con S. Pietro in Lamis, altro centro produttore di sapone dalla morchia o dai fondi dei recipienti dell’olio. Il sapone prodotto a Spongano si differenziava da quello di San Pietro non solo perché era duro , mentre quello era quasi liquido, ma anche per l’idrossido usato nel processo di saponificazione: nel nostro paese si usava l’idrossido di sodio (soda) mentre i nostri concorrenti usavano invece l’idrossido di potassio (putassa).

 

 

Pubblicato su Nuovo spazio del 22 dicembre 1994. Anno 12 n°11.

 

Si veda anche:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/12/22/la-festa-delle-panare-a-spongano-ovvero-quando-il-contenitore-prende-il-sopravvento-sul-contenuto/

 

 

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Marcello Gaballo
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