Biodiversità nell’oliveto del Salento, agli inizi del XX secolo

di Gianpiero Colomba

In Terra d’Otranto, tra la fine del XVIII° e per tutto il XIX° secolo, come conseguenza dei continui dissodamenti dovuti alla nascita di nuovi impianti con piante che per la prima volta colonizzavano il territorio (olivo, gelso, fichi, tabacco, ecc.), c’era poca disponibilità di nuovi terreni coltivabili. Una chiave per l’equilibrio produttivo fu l’intensificazione del livello di coltivazione nei terreni in genere ma soprattutto negli oliveti, con cereali e legumi spesso in rotazione tra loro. La parcellizzazione del territorio salentino e la coesistenza di colture diverse nello stesso fondo è stata una caratteristica delle comunità tradizionali che ha garantito nel tempo l’autosussistenza delle famiglie.

L’olivo quasi sempre era all’interno di possedimenti nei quali condivideva lo spazio con coltivazioni come i cereali, la vite, gli ortaggi e altre colture arboree come il gelso, il mandorlo o il fico. La distanza tra le piante di olivo permetteva di intercalare colture che consentivano al contadino di avere un reddito diversificato e quindi pressoché costante nel tempo.

Alla fine del XVIII° secolo il medico e agronomo salentino Giovanni Presta, indicava una distanza conveniente tra le piante di olivo di circa 65 «palmi», il che corrispondeva a poco meno di 50 piante per ettaro, la stessa densità indicata un secolo dopo dal cavaliere Gennaro Pacces, il quale si riferiva al dato medio dell’intera provincia di Terra d’Otranto. Intorno agli anni trenta del XX secolo si stima con maggior precisione una densità media di 62 piante per ettaro. Per fare un confronto: in Andalusia, regione leader nel mondo in quanto a produzioni di olio, nello stesso periodo potevano esserci tra le 90 e le 100 piante per ettaro. Per inciso, attualmente nella provincia di Lecce si stimano 112 piante per ettaro e un minimo livello di consociazione.

Per avere un riscontro rispetto alla reale condizione delle colture intercalate nell’oliveto in epoca preindustriale, prendiamo come rappresentativo il classico lavoro del professore Attilio Biasco di inizio XX secolo:

Gli oliveti specializzati, se non mancano del tutto, sono sicuramente molto rari. La consociazione arborea è abitualmente con la vite, la mandorla e il fico. La consociazione è talmente rilevante che l’olivo si considera la coltivazione secondaria.

Esiste dovunque una rotazione in cui spesso figurano le cereali e scarseggiano le leguminose: le prime sono rappresentate dal frumento, dall’avena, dall’orzo; le seconde dal lupino, dalla fava e il trifoglio incarnato.

Ma quali colture erano intervallate nell’oliveto e in quale proporzione? I dati che permettono un’analisi più precisa sono quelli in calce al Catasto Agrario del 1929. Per la prima volta in Italia nel su indicato Catasto, si descrivevano le aree coltivate differenziandole tra superficie cosiddetta «integrante» ovvero specializzata e superficie «ripetuta» ovvero associata ad altre coltivazioni prevalenti. L’oliveto integrante, a sua volta, era definito «esclusivo» laddove non vi era alcuna promiscuità con altre coltivazioni, o «prevalente» laddove la coltivazione associata occupava non oltre il 50% della superficie dell’oliveto.

Secondo la definizione data nel Catasto Agrario quindi, all’interno della categoria integrante potevano ricadere oliveti con all’interno fino al 49% della superficie occupata da altre colture. Per semplificare, poteva esserci un ettaro di oliveto con intercalati 3 mila metri quadri di mandorlo. Quindi, non solo esisteva una quota parte di olivi associati in altre coltivazioni, ma, vi era anche un certo livello di promiscuità colturale all’interno dell’oliveto definito integrante.

L’analisi dei dati permette un’interessante ed inedita valutazione: poco più del 33% dell’oliveto specializzato (50.591 ettari su 149.947 ettari nel 1930) aveva al suo interno coltivazioni in rotazione (principalmente, grano duro, avena, orzo, fave e lupini). Questo significa che esisteva ben un terzo dell’oliveto specializzato al cui interno vi era un certo livello di promiscuità, ed era quello che si definiva come oliveto prevalente. Di queste colture, il 44% erano cereali, il 21% piante da foraggio (trifoglio, veccia, …), il 13% fave, il 7% lupini e il 13% altri legumi. Si avverte che questa è una fotografia sul territorio in un dato momento storico e che, secondo quanto enunciato nel catasto, queste rilevazioni erano dati medi riferiti al sessennio 1923/28. Data inoltre la ciclicità annuale delle coltivazioni, l’analisi che ne può derivare riveste un significato di sola tendenza.

A questo punto se consideriamo la totalità della superficie dell’oliveto, cioè sia la superficie di associato che di specializzato, osserviamo che in percentuale l’oliveto esclusivo «puro» senza alcuna associazione, rappresentava in Provincia una quota poco più alta della metà di tutto l’oliveto ossia il 54%. Per altro verso, era pari al 18% la superficie occupata dagli olivi in associazione ma, se includiamo la categoria prevalente, non indicata nelle statistiche ufficiali ma qui calcolata, vediamo che la percentuale sale al restante 46%. Quindi, in poco meno della metà della superficie totale dell’oliveto (associato + specializzato), esisteva una qualche forma di associazione colturale. Riassumiamo il tutto nella figura sotto.

Tipologia dell’oliveto in Terra d’Otranto nel 1930. (Ettari). Fonte: propria elaborazione.

 

Alcune riflessioni. In alcune zone d’Italia e in particolar modo nel Salento, c’era poca disponibilità di territorio supplementare per le nuove colture. Infatti, già nel 1929 la quota di terra forestale (pascoli permanenti e boschi) si era progressivamente ridotta a poco meno del 10% su tutto il territorio della provincia di Lecce. Inoltre, l’alta densità di abitanti obbligava a rendere altamente efficienti tutti i terreni disponibili. Una chiave per l’equilibrio produttivo per tutto il XIX secolo e anche nei primi decenni del XX, fu l’intensificazione del livello di coltivazione nella stessa area con cereali e legumi, a dimostrazione di una più compiuta razionalità ed efficienza contadina, e rappresentando quindi un esempio di land-saving strategy. Le consuete rotazioni tra fave o lupini da un lato e avena, grano duro o orzo dall’altro, consentivano il soddisfacimento dei bisogni familiari in condizioni di sostenibilità per l’oliveto. L’associazione tra colture è uno dei segnali che rafforza l’idea di una strategia agraria basata sull’autoconsumo.

Questa tendenza si sarebbe poi evoluta nel giro di alcuni decenni in direzione della monocoltura e della specializzazione. Nel 1980 l’Istat riportava circa 1 milione di ettari d’olivo in consociazione su tutto il territorio italiano, circa 1,4 milioni di ettari nel 1950 e a circa 1,7 milioni nel 1910. Secondo stime più recenti del progetto europeo di agro-selvicoltura Agforward (2014-17), in Italia circa 200.000 ha di olivo sono attualmente gestiti in consociazione. Il trend quindi è in calo. Assistiamo a una lenta evoluzione in direzione della specializzazione colturale.

Sebbene quindi intorno al 1930, abbiamo calcolato un consistente livello di diversità colturale negli oliveti, verosimilmente questa quota era in diminuzione e con esso diminuiva progressivamente la biodiversità al loro interno. Ed è altrettanto plausibile che per l’oliveto, il quale per chi scrive ha rappresentato il classico esempio di coltura promiscua in epoca contemporanea, l’uscita dalla crisi produttiva iniziata alla fine del XIX° secolo fu rappresentata proprio dal percorso di avvicinamento alla specializzazione. Tutto ciò coincise anche con la globalizzazione dei prodotti e il conseguente ingresso di cereali a basso costo provenienti da altre parti del mondo. Tutta questa complessa e simultanea concomitanza di eventi, condizionò l’abbandono delle tradizionali strategie contadine, le quali consideravano l’associazione tra le colture come sistemi agronomici efficienti e in ultima analisi, forzò il percorso di semplificazione degli agro-ecosistemi. Negli ultimi decenni, l’utilizzo massivo di agro-chimici negli oliveti si sta realizzando senza controllo, contaminando il suolo e le acque, e originando, da un lato una forte perdita di sostanza organica e dall’altro una minaccia alla biodiversità.

Bibliografia

Biasco A., L’olivicoltura nel basso leccese, Napoli 1907.

Casella O., L’Ulivo e l’olio: manuale pratico ad uso degli agricoltori e dei proprietari, Napoli 1883.

Cimato A., Il germoplasma olivicolo in provincia di Lecce: recupero, conservazione, selezione e caratterizzazione delle varietà autoctone, Matino (LE) 2001.

COLOMBA G., Transición socio-ecológica del olivar en el largo plazo. Un estudio comparado entre el sur de Italia y el sur de España (1750-2010), Tesi di dottorato, Siviglia 2017.

Pacces G., Inchiesta agraria sulle condizioni della classe agricola in Italia, Monografia circa lo stato di fatto dell’agricoltura e della classe agricola dei singoli circondari della provincia di Terra d’Otranto, Lecce 1880.

Presta G., Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio, Napoli 1794.

Tombesi A. et al., Recommendations of the working group on olive farming production techniques and productivity, «Olivae», 63, Madrid 1996.

 

Colomba Gianpiero, indirizzo mail: gianpiero.colomba@gmail.com

I tre Briganti di Gallipoli, ovvero buon sangue non mente (2/3)

di Armando Polito

Dopo Tommaso Briganti del quale ho parlato nella precedente puntata, è la volta di suo figlio Filippo. Come già fatto per il padre riproduco da Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli (questa volta, però, dal tomo II), il ritratto (incisione di Morghen)  e la biografia (a firma di Giuseppe Boccanera da Macerata).

Se Tommaso si era distinto come giurista, Filippo aveva fatto dell’economia l’oggetto privilegiato dei suoi studi, senza elucubrazioni teoriche ma con osservazioni oggettive e proposte pratiche. Lo spazio e il tempo tiranni mi costringono a riportare solo pochi e brevi brani della sua opera maggiore, Esame economico del sistema civile uscito a Napoli nel 1780 per i tipi della Stamperia Simoniana, un testo attualissimo e che, secondo me, sarebbe opportuno leggesse più d’uno degli strambi economisti dei nostri giorni1, e non solo lui …

I bisogni eccitati dalla fame, dalla sete, dal freddo, dal caldo, si riparano con facilità dalla beneficenza della natura e dalla vigilanza dell’uomo; ma i bisogni eccitati dalla vanità, dal fasto, dall’orgoglio, dall’ambizione, dalle passioni imperiose e dai vizj ragionati son voragini immense, capaci di assorbire tutti i beni della terra.

Se non è questa un’analisi lucida, spietata, definitiva dei guasti che il profitto ad ogni costo e il consumismo avrebbero di lì a poco provocato, dite voi cos’è.

L’antichità ebbe in pregio l’olio della Magna Grecia e commendò il prodotto di Turio (Ateneo, I deipnosofisti, libro II) come eccellente; ma soprattutto la penisola Salentina, per l’abbondanza e la squisitezza di questo genere, diede il nome (Plinio, Naturalis Historia, Libro V, capitolo V) ad una specie di ulivi non ignorata da’ Romani. Infatti par che la natura abbia destinato alla riproduzione degli ulivi le fertili colline della Japiggia, ove tutto ciò che rimane abbandonato alla spontanea vegetazione della terra, si vede ricoperto di olivastri, che innalzano le fruttifere chiome al par degli alberi più spaziosi: segno evidente che la forza produttrice del suolo non adotta, ma genera queste piante.  

Anche queste parole, purtroppo, appaiono profetiche e l’amare revisione del periodo finale, alla luce della calamità in corso e tenendo nel dovuto conto l’incertezza della sua eziologia, potrebbe suonare così:  … ove tutto ciò che rimane desolato dall’avvelenamento chimico della terra fa morire olivi, olivastri e non solo: segno evidente che la vilentata fertilità del suolo non solo non accetta altre forme di vita ma genera la morte di quelle che ci sono.

Quanta rabbia, poi, nel pensare ad un primato, si può dire, mondiale che proprio Gallipoli deteneva: La zappa ed il concime son le cause determinanti di quella perfezione, per cui l’olio della Japiggia ha il merito dell’incorruttibilità che mai non ebbe l’olio de’ Romani, qual non fu possibile conservar oltre lo spazio di un anno (Plinio, Naturalis historia, libro XV, capitolo III). E questo merito lo fa divenire prezioso e desiderato dalle nazioni Settentrionali, che giustamente attribuendo più valore alle derrate men domabili dalla corruzione, concorrono a gara a farne l’acquisto nell’emporio più ricco che abbia in tal genere la penisola Salentina.

Poteva immaginare Filippo che le nostre (vale come italiane, non esclusivamente salentine) derrate sarebbero diventate più domabili dalla corruzione proprio in virtù di una legislazione europea penalizzante con le sue disposizioni burocratiche a tratti ridicole, se non demenziali, contro cui ben poco hanno fatto e continuano a fare i nostri rappresentanti?

E che le sue non fossero solo teorie lo dimostra il fatto che quando nel 1763 era stato eletto sindaco in un periodo caratterizzato dalle lotte cittadine dei contrapposti interessi e, per giunta, dalla carestia, egli provvide, con la collaborazione del fratello Domenico che era stato eletto giudice, ad operare, in concorrenza con gli incettatori napoletani, tempestivi acquisti di grano e riduzione delle gabelle sulla farina a vantaggio soprattutto dei ceti meno abbienti. E tre anni dopo l’amministrazione dell’ospedale cittadino, a lui assegnata, fu improntata alla repressione degli abusi delle gestioni precedenti e, soprattutto, alla cura degli infermi.

E ancora: nel 1771 indirizzò una Memoria  a Ferdinando IV per esporre al sovrano la necessità della collaborazione del governo centrale nella costruzione a Gallipoli di un porto adeguato dopo gli innumerevoli naufragi subiti dai mercantili e a tal fine proponeva di porre fine ai privilegi fiscali degli ecclesiastici e dei nobili proprietari di oliveti, di sottoporre ad  un’equa tassa i mercanti e di mettere a disposizione le somme inutilizzate dei luoghi pii.

A difesa, poi, della tonnara di Gallipoli, della quale si era già occupato quando era sindaco, tornò nel 1785 quando il conte di Conversano, duca di Nardò, ne aveva installata una propria su un tratto di costa attiguo a Gallipoli. Insomma, un assolutista illuminato, altro che il principe azzurro (residui del patto del Nazareno …?; ho scritto  Patto e non patto per paradossale rispetto al Nazareno, quello autentico) che annunzia a Washington di voler svegliare la bella addormentata nel bosco …! (http://www.corriere.it/esteri/15_aprile_16/renzi-genocidio-armeni-la-turchia-deve-rispettare-valori-comunita-ue-f10c7e02-e47f-11e4-868a-ccb3b14253dc.shtml). Ma non doveva prima portarci fuori dalla palude che, nel frattempo, ha assunto le sembianze e, purtroppo, gli effetti delle sabbie mobili?

http://www.rockol.it/testi/50753259/romina-falconi-un-attimo?refresh_ce (l’immagine di base è una tavola di Gustave Doré del 1867)

Poteva un uomo simile, mi riferisco a Filippo Briganti …, trascurare le lettere? E infatti, come ricordato dal suo biografo, non le trascurò; aggiungo e preciso che soprattutto negli ultimi decenni della sua vita coltivò intensamente a poesia e fu socio dell’accademia dell’Arcadia col nome arcadico di  Rosmenio Tiriense. Dalle pagine 56-95 (parte intitolata Frammenti poetici) di Miscellanea di Filippo Briganti Patrizio Gallipolitano preceduti dall’elogio storico del medesimo scritto da Giovanni Battista De Tommasi de’ conti Paladini di Gallipoli, Porcelli, Napoli, 1818 riproduco tre suoi sonetti in stretta attinenza con Gallipoli. Il primo è di carattere religioso (come molti altri della raccolta), gli altri due sono elogi funebri. Ad ogni testo in formato immagine dalla pubblicazione originale ho aggiunto in calce qualche link o a fronte qualche mia nota per il lettore, anche salentino, desideroso di approfondimenti.

Su Sant’Agata e Gallipoli:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/08/8-agosto-santagata-la-buona-e-gallipoli/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/02/05/5-febbraio-santagata-gallipoli-e-una-reliquia-della-martire-catanese/

g

CARLO MUZIO: giureconsulto gallipolino appartenente a nobile famiglia (di seguito il portale di Palazzo Muzio in cui nacque e visse per qualche tempo Carlo, a Gallipoli), fu presidente togato della Regia Camera della Sommaria, cioè di quel supremo tribunale  competente ad esaminare e a decidere nella cause feudali in cui  fossero coinvolti gli interessi del regio fisco.

Sebeto: nome del fiume che bagnava l’antica Napoli.

al ferètro:  (diastole per esigenza metrica)=nella bara.

Temide: o Temi, dea delle acque e della giustizia.

Timiami: incensi; la voce è dal latino tardo thymiama, che è trascrizione del greco ϑυμίαμα (leggi thiumìama), a sua volta da ϑυμιάω (leggi thiumiào)=profumare.

Partenope: nome della sirena sul cui luogo di sepoltura, secondo la leggenda, sorse Napoli.

la Patria: Gallipoli.

involarmi=sottrarmi.

alma=anima.

onta=dispetto (alla lettera: vergogna, offesa).

Gallipoli, portale di Palazzo Muzio. Da notare lo stemma: braccio con nella mano un pugnale e steso su un braciere ardente, allusione alla leggenda di Gaio Muzio Scevola). Di seguito lo stemma visibile nella parte denominata Palazzo piccolo.

GIOVANNI PRESTA (1720-1797): https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/26/un-grande-medico-al-servizio-degli-ulivi-secolari/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/27/giovanni-presta-ovvero-quando-eravamo-noi-a-chiedere-alleuropa/

Pallade: Pallade Atena (Minerva per i Romani) nell’assegnazione dell’Attica si aggiudicò la vittoria donando ai suoi abitanti l’olivo e battendo Poseidone che con un colpo di tridente aveva fatto venir fuori il cavallo.

dei Re le ricompense: allude al medaglione d’oro donatogli da  Caterina II di Russia, cui il Presta aveva dedicato la sua opera.

Il lettore avrà notato come nel primo sonetto sono totalmente assenti i riferimenti mitologici (o delle religioni pagane) presenti, invece, progressivamente, negli altri. Spiego il progressivamente: nel secondo sonetto dopo Sebeto (che in alcune monete del V secolo a. C. è rappresentato come una divinità fluviale), Temide e Partenope, Dio chiude il componimento; nel terzo unica protagonista mitologica è Pallade. Insomma un uso modulare di uno degli elementi caratterizzanti la poesia arcadica con la sua assenza nell’agiografia e la sua graduale, come s’è visto, ricomparsa nei due elogi funebri che valgono come sintetiche biografie.

Non posso in chiusura non ricordare cosa scrisse Henry Winsburne nella prefazione del suo Travels  in two Siciles, Esmsly, Londra, 1783:  I am particularly indebted to Monsignor Capecelatro, Archbishop of Taranto; Counsellor Monsignor Galiani; D. Filippo Briganti Patrizio di Gallipoli; D. Pasquale Bassi; D. Domenico Cirillo; George Hart, Esquire; Padre Antonio Minasi of the order of St. Dominick; D. Domenico Minasi, Arciprète of Molocchio; and D. Giovanni Presta of Gallipoli (Io sono particolarmente grato a Monsignor Capecelatro, Arcivescovo di Taranto; Guida Monsignor Galiani; Don Filippo Briganti Patrizio di Gallipoli; D. Pasquale Bassi; D. Domenico Cirillo; George Hart,  accompagnatore; Padre Antonio Minasi dell’ordine di S. Domenico; D. Domenico Minasi, Arciprete di Molocchio; e D. Giovanni Presta di Gallipoli).

(CONTINUA)

Per la prima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2015/04/16/i-tre-briganti-di-gallipoli-ovvero-buon-sangue-non-mente-13/

Per la terza partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2015/04/26/i-tre-briganti-di-gallipoli-ovvero-buon-sangue-non-mente-33/

____________

1 Per chiunque ne abbia interesse: http://books.google.it/books?id=2rMvAAAAYAAJ&printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&q&f=false

Giovanni Presta, ovvero quando eravamo noi a chiedere all’Europa …

di Armando Polito

Anonimo. Ritratto di Giovanni Presta custodito nel Museo Civico Emanuele Barba a Gallipoli; immagine tratta da  http://www.culturaitalia.it/ms/viewer.php?id=oai%253Aculturaitalia.it%253Amuseiditalia-work_4495
Anonimo. Ritratto di Giovanni Presta custodito nel Museo Civico Emanuele Barba a Gallipoli; immagine tratta da http://www.culturaitalia.it/ms/viewer.php?id=oai%253Aculturaitalia.it%253Amuseiditalia-work_4495
Incisione tratta daLprimo volume della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1814
Incisione tratta daLprimo volume della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1814

Ad integrazione del bel post recente di Mimmo Ciccarese sul grande scienziato di Gallipoli (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/26/un-grande-medico-al-servizio-degli-ulivi-secolari/ ) mi preme anzitutto segnalare a chi ne ha interesse le edizioni delle sue opere reperibili in rete e integralmente scaricabili:

Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1871 (http://books.google.it/books?id=Ixc8sRR-F9sC&pg=PA561&dq=giovanni+presta&hl=it&sa=X&ei=YOYjVOqeCcOf7gaDtYDoCg&ved=0CCUQ6AEwAQ#v=onepage&q=giovanni%20presta&f=false).

Memoria su i saggi diversi di olio, e su della ragia di ulivo della penisola salentina, Romano, Lecce, 1855 (http://books.google.it/books?id=KHVEU4x7Z0EC&pg=PA5&dq=giovanni+presta&hl=it&sa=X&ei=YOYjVOqeCcOf7gaDtYDoCg&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=giovanni%20presta&f=false).

Per quanto riguarda la biografia, poi, segnalo che  Bartolomeo Ravenna in Memorie storiche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1855, p. 555 a proposito di Giuseppe Presta scrive: Di questo letterato, che illustrò il secolo scorso, e che fu mio stretto amico, ne abbiamo una memoria lasciataci dal Prevosto di questa Cattedrale D. Leonardo Franza1, che mi è servita di guida in queste memorie, scrivendo del Presta.

In nota 1 si legge: Serie di fatti relativi alla vita di D. Giovanni Presta scritta da D. Lionardo Franza Prevosto della cattedrale di Gallipoli, in segno di grata e sincera amicizia. In Lecce nella publica stamperia di Vincenzo Marino e fratelli in 8. Da questa memoria istessa si è tratto l’elogio del Presta stampato nella Biografia Napoletana. Il Franza fu un nostro benemerito concittadino. Era in nota tra i soggetti destinati Vescovi del Regno, ma le vicende dei tempi, e la morte che lo prevenne, resero vane queste speranze.

La Serie di fatti …, pubblicata (aggiungo io) nel 1797 è introvabile ma la biografia napoletana nominata è la Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, dal cui tomo V uscito per i tipi di Gervasi a Napoli nel 1818 riproduco (visto che la memoria originale è introvabile) la scheda a firma di Lionardo Franza:

Mi piace ora riportare la dedica a Caterina II di Russia che il Presta premise alla Memoria su i saggi diversi di olio, e su della ragia di ulivo della penisola salentina:

 

Prima di commentare lapidariamente quanto appena letto, debbo confessare che lì per lì non sono riuscito a capire che cosa fosse esattamente la Ragia odorosa, timiamo eletto, che qui l’olivo suole produrre, ed altrove no. Ora ragia designa un tipo di resina di alcune conifere e metaforicamente assume il significato di raggiro, imbroglio, stratagemma. Per comprendere entrambe le sfere semantiche basta pensare al rapporto di somiglianza tra chi rimane invischiato nella pece e chi è vittima di un raggiro. Non credo che il Presta abbia usato ragia in quest’ultimo senso …

Timiamo è voce dotta, adattamento all’italiano del latino medioevale thymìama che è trascrizione del greco θυμίαμα (leggi thiumìama)=incenso, aroma in genere, da θυμίαω (leggi thiumiào)=bruciare. La forma italiana più antica fedele alla greca (timìama) che io conosca compare in una Bibbia istoriata padovana della fine del XIV secolo : … de domane un turibolo in man cum el fogo e cum la  timiama (… questa timiama  è la cossa odorifera più cha incenso) e debiè stare denanço dal tabernacolo de mesier Domenedio…

Quanto riportato fino ad ora induce a pensare che sia una sostanza resinosa emessa dall’albero e non ricavata dal frutto.

Senonché, nonostante io non l’abbia mai vista nell’ulivo, ci viene in soccorso lo stesso autore che all’argomento dedica un passo della sua opera:

8

Di lì a qualche anno tornerà sull’argomento (il che ribadisce, ove ce ne fosse stato bisogno, la mia ignoranza) Domenico  Moricchini in Sopra la gomma di ulivo, Mainardi, Verona, 1815 (http://books.google.it/books?id=BMQaAAAAYAAJ&pg=PA6&lpg=PA6&dq=ragia+di+ulivo&source=bl&ots=s_H71-jyzV&sig=8O9IltztSNYqNzlxehWPMp_0uF8&hl=it&sa=X&ei=iVslVKnHK6vnygOruYJg&ved=0CEwQ6AEwCA#v=onepage&q=ragia%20di%20ulivo&f=false).

Inutile dire che a maggio dell’anno prossimo, se Dio vorrà, andrò ad ispezionare, non certo per mancanza di fiducia, uno per uno i miei ulivi e se l’esito sarà positivo farò anch’io un dono a Caterina, mia figlia …

Ora è tempo di passare al commento promesso: un salentino, pur col dovuto rispetto, si rivolge da pari a pari ad uno dei personaggi più potenti, forse il più potente, dell’epoca e contemporaneamente la manda a dire anche al re Ferdinando IV, non solo per quel dilettante pur anco in materia di Olj eccellenti … ! E, per capire meglio, riporto quanto scrive il Ravenna nell’opera citata:

Che il nostro conterraneo, poi, fosse di fama internazionale (nesso oggi abusato pure per le mezze calzette a stento conosciute dagli stessi familiari …) lo dimostra, a parte la citazione dei suoi scritti in autori stranieri contemporanei e nelle pubblicazioni specializzate dell’epoca (per brevità non riporto né gli uni né le altre), quanto si legge (la traduzione è mia) in Voyage de Henry Swinburne dans leus deux Siciles, en 1777, 1789 e 1780 traduit de l’Anglois par un voyageur français, Didot, Parigi, 1785, tomo I, pp. 368-370:

Mi ha colpito dell’osservatore straniero più che la contrapposizione tra corona e baroni (e non voglio a questo punto aggravare la situazione mettendo in campo la querelle dell’unificazione del nostro paese …) quel ma mi dispiace di essere obbligato a dire che tutti i suoi sforzi si sono limitati finora a semplici esperimenti, per non essere stato assecondato da coloro che sono nella condizione di dare qualche sviluppo al bene pubblico.

Vecchio vizietto della politica intesa non come servizio ma come attività clientelare, che oggi rivive nell’inefficace azione di difesa dei nostri prodotti nei confronti della globalizzazione europea e mondiale, nella mortificazione della ricerca e del merito col risultato suicida di regalare quest’ultimo al resto del mondo, mentre, nella fattispecie, la pur deprecabile inerzia di allora è stata criminalmente sostituita (al peggio non c’è limite …) dalla cementificazione del territorio in nome di un’idea perversa, e a lungo andare perfino autolesionista, di sviluppo in cui l’occupazione (non si sa nemmeno per quanto tempo) di pochi e lo sfacelo del paesaggio vengono spudoratamente sbandierati come bene pubblico.

 

Un grande medico al servizio degli ulivi secolari

presta3

di Mimmo Ciccarese

 

Il 24 giugno del 1720 nacque a Gallipoli, Giovanni Presta, uno degli studiosi più noti che il Salento possa annoverare tra i suoi annali. Già a sedici anni si recò a Napoli per frequentare medicina e in altri momenti per approfondire gli studi di matematica e astronomia. Le sue doti di letterato e raffinato poeta lo aggiunsero con merito tra le accademie e le società più colte del suo tempo.

Appena laureato in medicina ritornò nella sua città natale, per esercitare la professione ma nel mondo divenne più noto per i suoi studi agronomici e in particolare sulla tabacchicoltura e sull’olivicoltura.

Furono saggi così notevoli che la provincia di Lecce non esitò ad onorarlo con la scuola agraria a ridosso dell’antica città messapica di Rudiae. Per questo l’istituto per periti agrari, forte del suo retaggio e per le sue egregie attività formative e sperimentali, acquisì fascino e valore in tutta la Puglia.

Presta si concentrò molto sulla specie dell’ulivo, aveva ben compreso la sua importanza sul territorio, era per lui una certezza da offrire con la Memoria su i saggi diversi di olio e su della ragia di ulivo della penisola salentina messe come in offerta a Sua Maestà Imperiale Caterina II, la Pallade delle Russie (1786), con Memoria intorno ai sessantadue saggi diversi di olio presentati alla Maestà di Ferdinando IV, Re delle due Sicilie, ed esame critico dell’antico frantoio trovato a Stabia (1788); Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio (1794).

 

presta2

Presta analizzò con scrupolo la produzione agricola nel Salento, le condizioni del suo territorio, indagando sulle cause storiche che le avevano determinate, a risolvere i problemi di un meridione orientato al degrado e alla povertà. Per qualcuno quell’impegno sarebbe stato visto come un vero e proprio mandato morale da eseguire ad ogni costo.

Nella prima parte dell’opera Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio (1794) Presta avvia il trattato con un’esposizione di questa pianta accreditandone utilità e bellezza: “Di quanti mai vi son’alberi finor noti sopra la terra, se si ha riguardo all’utilità, che ciascun arreca, si può dire senza fallo, che l’Ulivo è il migliore tra tutti, l’Ulivo è il primo tra tutti, l’Ulivo è il Re”. In questo primo ritaglio si riscontra il riferimento ai tempi dell’antica Grecia, del modo con cui questi popoli divinizzavano questa essenza.

Nel Regno delle due Sicilie, il mercato dell’olio era fiorente. In quel tempo proprio nella città portuale di Gallipoli, Presta osservava la partenza dei bastimenti fiamminghi carichi d’olio lampante e già pensava di descrivere con la dovuta professionalità la fonte di quella produzione per ricavarne altra utilità.

A distanza di secoli da tali studi Presta, purtroppo, l’ulivo monumentale è oggi rapportato da qualcuno come “una pianta come tante”, una coltura da far produrre in regime intensivo, come strumento economico o perfino solo come un mezzo per accedere ai finanziamenti comunitari.

Allora ecco gli aiuti alla produzione che ravvivano l’olivicoltura pugliese che creano associazioni di categoria, cooperative, centri di assistenza agricola per far diventare l’olio il Re degli alimenti, un buon condimento ideale per nutrire la politica e la società.

Dai tempi dell’olio lampante a quello del miglioramento qualitativo, l’olio di oliva guadagna sempre più potere, diviene un andirivieni economico sempre più intenso, una materia preziosa da stoccare gelosamente, un’energia in grado di alimentare centinaia di migliaia di famiglie.

ulivo6

Il dottor G. Presta ha compiuto una grande opera, con i suoi trattati è riconosciuto dal mondo accademico come il primo grande tecnico dell’olivicoltura e non solo. Chi mette in dubbio il suo impegno e l’efficacia della sua molteplice conoscenza e sensibilità?

Le abili capacità del luminare G.Presta di comunicare la vita e la forma delle piante d’ulivo risiedeva anche in quegli studi astronomici e matematici, della biologia e forse anche della filosofia tra l’ammirazione e lo stupore dei suoi colleghi.

Il tecnico agrario dovrebbe animare talento e passione con il coraggio e la lealtà così come fece il grande ricercatore salentino. In ogni caso un tecnico non rimane indifferente alle problematiche agricole, anzi, sostiene, propone e condivide le sue conoscenze al servizio della gente che reclama risposte.

L’esperto serve i cicli della natura, rende voce alla biodiversità e la difende, acquisisce così giudizio oltre che dignità per essere ben voluto dai suoi residenti. Chi allontana o disapprova questa valutazione tradisce i suoi apprendimenti e non può dire d’amare e dimorare la sua terra.

Chi pensa, invece, che il tecnico agrario non sia altro che uno scrivano sciupato tra i fogli e i corridoi di un ufficio si sbaglia in pieno perché il suo mondo è molto più variegato e per niente standardizzato.

Il competente, però, non deve esaudire i comandi di una sola voce, deve anche arricciarsi un po’, tra le riflessioni e gli studi che gli altri suggeriscono, proponendosi a sua volta con razionalità e rispetto, deve rendere operativa l’efficienza del suo sapere o almeno stimolare la sua curiosità e quella del suo prossimo.

Un tecnico dovrebbe dimostrare la volontà di respirare umilmente i valori che insegnano le molteplici civiltà rurali affinché esso non smarrisca la sua identità, senza mai nascondersi dietro misere bautte di qualsiasi tipo ed essere in grado di ascoltare con umiltà senza mai umiliarsi.

Per questi motivi i delegati al settore dovrebbero essere ispirati dal gran valore di Giovanni Presta, dalla sua umanità che ha reso tantissimo alla nostra agricoltura; lo studioso è stato un modello di benessere morale, un’intelligenza con cui poter conversare apertamente di tesi e dottrine.

Un uomo che ha dedicato un’esistenza a classificare ed esporre la produzione dei suoi tempi per rendere conoscenza ai suoi posteri non può che ispirare unità, comprensione e gratitudine.

Seguire la generosità di questi uomini, sarebbe il piccolo gesto che potrebbe fare un tecnico agrario come quello di supportare proprio quegli ulivi che il famoso studioso gallipolino ci aveva descritto qualche secolo prima.

Gli stessi ulivi secolari descritti, oggi, forse ci/si stanno abbandonando all’incuria, nei viluppi del disinteresse o in chissà quale altro tipo di speranza. Ecco un altro valido motivo per difenderli con risolutezza.

L’olio di oliva è l’oro del Salento

di Massimo Vaglio

Gli oli definiti vergini o extravergini, sono il prodotto che si ricava direttamente dal frutto, botanicamente definito drupa, dell’albero dell’Olea europea varietà Sativa. Un albero importantissimo, sicuramente il più famoso e pregno di simbolismi.

La sua origine si perde nella notte dei tempi, secondo Callimaco, poeta greco del III sec a.C. , quest’albero sarebbe stato creato da Pallade Atena, dea greca della guerra e della sapienza, in seguito ad una disputa sorta tra lei e il dio del mare Poseidone, per dimostrare ai Greci il suo lato pacifico. La dea, avrebbe quindi donato agli uomini questa pianta, come simbolo di pace e di prosperità. L’olivo viene menzionato anche nelle Sacre Scritture, come sinonimo di sapienza, bellezza, rettitudine ed era sempre d’ulivo il ramoscello che la colomba portò nel becco sull’Arca di Noè per annunciare la fine del biblico diluvio.

Tenuto, quindi, sin dall’antichità, in grande considerazione; è stato sempre coltivato con rispetto, amore e considerato oltre che emblema di pace, anche simbolo di vittoria, trionfo e onore, mentre il suo olio, simbolo pressoché universale di purificazione. A dispetto di cotanta importanza, non si sa invece in quale precisa zona la sua coltura abbia avuto origine, anche se gli studi più accredidati propendono per l’altopiano iranico, quando il suo clima, notevolmente differente da quello odierno, ne faceva un habitat ideale per questo tipo di pianta. Da qui sarebbe arrivato nella zona compresa tra Cirenaica ed Egitto per diffondersi in tutto il bacino del Mediterraneo.

Alla coltura dell’olivo si dedicarono soprattutto gli abitanti dell’Asia minore e i Greci, questi ultimi, come asserito da Plinio e Teofrasto, avevano già catalogato una decina di cultivar, gli stessi eressero l’olio, insieme al grano e al vino a caposaldo di quel modello alimentare che dopo aver contaminato ed essersi imposto nelle usanze degli abitanti delle sponde del grande lago salato, avrebbe preso il nome di dieta mediterranea. Alla sua diffusione contribuirono oltre che gli stessi Greci, i Fenici che lo esportarono nelle terre toccate nei loro tentativi di colonizzazione, quindi i Cartaginesi che lo diffusero in Nordafrica, Sicilia, Spagna e infine i Romani, che razionalizzarono la coltivazione e organizzarono avanzati sistemi di ammasso, trasporto e distribuzione dell’olio. Secondo Plutarco, i soli possedimenti africani di Roma fruttarono allo stato tre milioni di litri d’olio, ne sono testimonianza le migliaia di relitti carichi di anfore onerarie riportanti sovente impressi sulle anse i sigilli dei commercianti dell’epoca.

Per quanto riguarda la Puglia e il Salento,  i Romani raccolsero il testimone dai coloni greci e lo estensivizzarono facendo anche ampio ricorso al lavoro schiavile, ma con la caduta dell’Impero seguirono secoli d’abbandono sino a quando grazie ai bizantini e in particolare all’opera dei  monaci basiliani intorno al IX-X sec. d.C. , se furono ricostituite vaste estensioni olivetate. Il metodo escogitato dai basiliani per la costituzione di questi oliveti era ingegnoso quanto funzionale, consisteva nell’addomesticare con abili operazioni d’innesto gli olivastri spontanei naturalmente presenti nelle foreste primigenie di leccio (al tempo ancora largamente presenti) e nelle macchie mediterranee eliminando al contempo le altre essenze selvatiche. Queste piante, già fornite di un robusto apparato radicale una volta liberate dalle competitrici s’irrobustivano a vista d’occhio andando a formare nell’arco di qualche decennio rigogliosi e produttivi oliveti. Grande sviluppo si ebbe in seguito, grazie alla costruzione delle torri costiere che alleviando il problema delle razzie saracene, permisero la costituzione delle chiusure o chisure (ovvero dei caratteristici oliveti salentini recintati da muri a secco), anche lungo la costa, come tanti oliveti secolari, sovente coevi alla costruzione delle torri costiere e delle tante masserie fortificate, tuttora testimoniano.

Nel Settecento, quella dell’olivo era già la coltura più diffusa e il commercio dell’olio fiorente, anche se si trattava in massima parte di olio lampante che partendo dal porto di Gallipoli, ma anche da quello di Brindisi e Otranto, su bastimenti carichi di botti, andava ad illuminare le città di mezza Europa. È in questo periodo che grazie al reinvestimento di parte dei cospicui guadagni, cominciano ad essere impiantate grandi estensioni di oliveti a sesto regolare, generalmente a quinconce (rispolverando l’antico schema della quinconce romana) facendo ricorso a giovani piante prodotte in appositi vivai o a giovani olivastri prelevati in natura da innestare una volta ben attecchiti o ancora ai colmoni, alberi adulti capitozzati, ottenuti dal diradamento di altri oliveti appositamente impiantati più fitti, con quel sistema che più tardi sarebbe stato definito a sesto dinamico.

E’ in questo periodo che si inseriscono gli studi agronomici di Giovan Battista Gagliardo (1758- 1826), di Cosimo Moschettini (1747- 1820) e del poliedrico erudito gallipolino Giovanni Presta (1720–1797), in particolare quest’ultimo, con un inedito ed encomiabile approccio scientifico compì una serie di sperimentazioni sulla coltivazione degli olivie la produzione dell’olio, offerti a pubblico vantaggio con l’esauriente libro: Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio, pubblicato a Napoli nel 1794, un titolo esplicito per un testo tuttora estremamente valido. Interessantissimi i risultati della sperimentazione da questi eseguita sulla qualità dell’olio in relazione al grado di maturazione, compiuta eseguendo a cadenza quindicinale delle moliture sperimentali dal 15 settembre al 31 marzo. Campioni d’olio, seguiti da una dotta relazione, furono inviati dallo stesso a Caterina II di Russia e al re di Napoli Ferdinando IV. Un’altra sperimentazione riguardò le cultivar, onde valutare quali fossero le cultivar d’olivo più valide dal punto di vista qualitativo per il territorio salentino, anche queste compiute con estremo rigore scientifico, portarono lo stesso a constatare la superiorità delle cultivar autoctone, Cellina di Nardò e Ogliarola Leccese.

In effetti, come otto milioni d’ulivi secolari testimoniano, queste risultano tuttora le uniche varietà, che sfuggendo più delle altre agli insulti della mosca delle olive (Dacus oleae) danno un olio eccellente,  pur se coltivate in modo estensivo e senza alcuno o con limitatissimi interventi fitosanitari.

ph Francesco Politano

Un insegnamento dimenticato o presuntuosamente ignorato negli ultimi decenni e che ha portato all’impianto di migliaia di ettari di nuovi oliveti costituiti da varietà alloctone: Leccino, Frantoio, Coratina… varietà che oltre a non migliorare la qualità dell’olio Salentino, necessitano dell’irrigazione e devono essere sottoposte a puntuali trattamenti fitosanitari con maggiori costi economici ed ambientali, ma che, soprattutto, hanno reso difficile se non inattuabile, una quanto mai necessaria caratterizzazione sensoriale dell’olio salentino.

L’albero dell’Ogliarola si presenta assurgente con foglie lanceolate allungate e drupe piccole, allungate, con nocciolo fragile e di buona resa che producono un olio, con lievi riflessi verdolini, dolce, delicatamente fruttato con note tipicamente mandorlate. L’albero della Cellina, nota localmente pure con i sinonimi di Saracina, Scurranisa, Cafareddha, Casciola… è rustico, molto resistente e con il tempo, se il terreno lo permette può raggiungere dimensioni davvero monumentali; le foglie sono corte e la drupa è piccola, pruinosa con nocciolo duro. Se ne ricava un olio dapprima molto sapido e corposo, ma che si affina nel giro di qualche mese divenendo molto più delicato, limpido e con un’inconfondibile bellissima colorazione giallo oro.

Sia che si tratti di olio  dell’una e dell’altra cultivar, sia, come molto comunemente avviene, che si tratti di un blend fra gli stessi, si tratta di oli sani come pochi, per la pressoché totale assenza di trattamenti fitosanitari sugli oliveti e quindi di pericolosi residui negli oli. Inoltre, risultano organoletticamente piacevoli, delicati e con la non comune caratteristica di rispettare il sapore dei cibi che vi si accostano caratteristica che li rende apprezzatissimi dai cuochi.

ph Mino Presicce

Risultano inoltre ricchi di principi salutari e di antiossidanti e se ciò non bastasse, hanno il più conveniente rapporto qualità prezzo, un motivo in più per preferire, ove possibile, ad ogni altro grasso un olio extravergine d’oliva che, ricordiamo, è uno degli elementi base della Dieta Mediterranea, il modello nutrizionale fondato sul consumo di prodotti freschi e pochi grassi di origine animale. Se mai ce ne fosse bisogno, e vista la proliferazione di grassi e oli spacciati per più leggeri e salutari, ma di più che sospetta dannosità,  ricordiamo, che non esiste un olio più leggero di un altro, attestandosi il contenuto calorico per tutti gli oli in nove calorie per grammo.

L’olio extravergine d’oliva, in compenso, ha moltissime qualità nutrizionali che ne raccomandano l’uso alimentare, unendo gusto e attenzione alla salute.

Il particolare equilibrio nella composizione degli acidi grassi, il contenuto di vitamina E, di provitamina A e di antiossidanti ad effetto protettivo sulla salute lo rendono infatti il grasso più idoneo ad una dieta lipidica equilibrata. La composizione è caratterizzata dalla prevalenza di un acido grasso monoinsaturo (acido oleico) piuttosto stabile alla conservazione e alla cottura e da un perfetto equilibrio di acidi grassi polinsaturi.

Perciò l’olio extravergine aiuta a tenere sotto controllo il livello di colesterolo nel sangue (aumentando quello buono e facendo abbassare quello cattivo) e la formazione di radicali liberi.

Inoltre, l’olio d’oliva protegge le mucose riducendo il rischio di ulcere gastriche e duodenali e svolge un ruolo protettivo contro l’insorgenza di numerose patologie come il diabete, l’arteriosclerosi, l’ipertensione e alcuni tumori. Benefici che non si limitano al suo uso crudo, ma restano anche con la cottura. Anzi, in alcuni casi, abbinato a determinati prodotti, l’extravergine scaldato migliora le sue prestazioni. Studi scientifici dimostrano infatti che la sinergia tra olio e pomodoro dal punto di vista nutrizionale è rafforzata dalla cottura, con la quale aumentano l’attività antiossidante e la biodisponibilità delle sostanze benefiche dei due elementi.

Capucanale ti lu trappitaru

Si tratta di un’antica usanza ancora in auge in alcuni paesi del Salento, che consiste in dei pasti propiziatori, consumati ancora oggi nei frantoi, fra diversi attori: i proprietari del trappeto, il nachiro, i trappitari e i conferitori delle olive, per propiziare appunto una buona campagna olivicola. Il pasto si tiene tradizionalmente nei frantoi,  come quando i lavoratori non uscivano dal tappeto per tutti i mesi necessari alla lavorazione delle olive. Le portate consistono in primis in una caldaia di verdure miste lessate: cicorie, cime di rape, mugnuli, scarole, bietole. Si pone nella cosiddetta limba ti lu trappitu (un’enorme conca di terra cotta smaltata), del pane spezzato rigorosamente con le mani, si adagiano sopra le verdure lessate, si allaga il tutto d’olio appena spremuto, si rivolta il tutto e si mangia con le mani, non prima di essersele per così dire disinfettate strofinandole con le nozze, che sarebbero le lastre di sansa appena estratta dai fiscoli. Seguono i legumi, in genere: fave, fagioli e piselli secchi, questi vengono cotti separatamente nelle pignatte, quindi si cominciavano a versare nella conca le fave e si schiacciano con l’apposito stumpaturu ( grosso pestello di legno), poi i piselli e si stompano anche questi, infine i fagioli, una volta stompato ed amalgamato il tutto, si mescola diligentemente il tutto incorporando il pane sempre spezzato con le mani e allagando naturalmente il tutto con l’olio nuovo, si mangia con le mani intingendo tutti direttamente nella conca. Seguono le pittule, tanto semplici, quanto farcite e si completa con i sobbrataula (fine pasto): noci, sedani, cicorie, finocchi, olive mature o conciate.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!